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Le politiche industriali

economia politica



Le politiche industriali (cap. XIV°)


Quando si parla di politiche industriali ci si riferisce all'insieme delle politiche che mirano a governare la struttura produttiva ed il potenziale produttivo di un'economia, in particolare, mirano a influenzare i comportamenti relativi alle decisioni di produzione, all'interno di un sistema economico.

La composizione strutturale di un'economia.

Un sistema economico può essere rappresentato in diversi modi, tra cui:

o    In base al settore

Il settore dell'agricoltura (settore primario);

Il settore dell'industria (settore secondario);



Il settore dei servizi (settore terziario).

Tale ripartizione fu suggerita da Clark (1940) che segnalò come il processo di sviluppo economico coincidesse con un espansione del settore industriale e con una contrazione del settore dell'agricoltura provocando un mutamento strutturale che, sempre secondo Clark, sta alla base del processo di sviluppo economico. Ma il mutamento strutturale più eclatante riguardò la contrazione dell'industria a favore dei servizi; in questo caso la produttività del lavoro nel settore dei servizi cresce più lentamente rispetto a quanto avviene nell'industria e porta ad abbassare il tasso di crescita della produttività del lavoro misurata a livello aggregato.

o    Alla composizione dei beni

Beni commerciabili, sono quei beni che possono essere consumati in un posto diverso da dove vengono prodotti e sono caratterizzati da una forte concorrenza che ne influenza il prezzo (ad esempio: i beni agricoli e i manufatti);

Beni non commerciabili, sono quei beni che non risentono della concorrenza in quanto sono prevalenti nel settore dei servizi.

o    Alla dimensione delle imprese

Piccole, fino a 200 dipendenti;

Medi, fino a 500 dipendenti;

Grandi, con oltre 500 dipendenti.

Conoscere la composizione dell'industria in relazione alla dimensione d'impresa fornisce un'informazione importante relativamente ai punti di forza e di debolezza della struttura industriale, in quanto le piccole e medie imprese sono caratterizzate da maggiore flessibilità tecnologica rispetto alle grandi imprese, ma scontano posizioni di debolezza soprattutto nei mercati di approvvigionamento degli input.

o    Alla composizione della tecnologia, che può essere a basso o ad alto contenuto di innovazione. Sotto questo profilo la composizione di un sistema economico fornisce informazioni sul potere di mercato che possono esercitare le imprese e sulle potenzialità di mutamento tecnologico futuro.

Le politiche industriali in Italia e nei Paesi europei.

La storia delle politiche industriali che si sono succedute nella Repubblica italiana possono essere distinte in tre fasi:

Le politiche industriali selettive (anni Cinquanta-Settanta): l'Italia, come tutti i Paesi europei, esce dalla seconda guerra mondiale, con l'apparato produttivo pesantemente danneggiato. Il primo obiettivo è quindi la ricostruzione appoggiata dagli aiuti internazionali (Piano Marshall e accordi tra Paesi europei); infatti le prime istituzioni comunitarie (CECA: Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio; EURATOM: Comunità per l'energia Atomica) sono nate per rafforzare la struttura produttiva dei Paesi della Comunità europea in specifici settori, ritenuti di particolare importanza strategica per i Paesi della Comunità.

Nei trattati di tali comunità sono esplicitamente presenti indicazioni su obiettivi e strumenti di politica industriale rivolti al rafforzamento delle imprese operanti in questi settori. Infatti nel Trattato di Roma (1957, istitutivo della Comunità Economica Europea) non si fa alcun riferimento a politiche industriali in quanto dovevano rimanere materia dei singoli Stati Nazionali. L'obiettivo primario era quello della costituzione di una struttura industriale nazionale particolarmente forte nei settori strategici. Si adottò così una politica industriale "selettiva" orientata a favorire la crescita ed il rafforzamento di specifici settori (ad esempio: la protezione doganale, l'incentivazione fiscale, la promozione di fusioni e accorpamenti, la creazione di imprese pubbliche nazionali). In Italia lo sviluppo industriale degli anni Cinquanta e Sessanta ha visto una concentrazione territoriale nel "Triangolo industriale" (Torino-Milano-Genova).

Le politiche industriali generali rivolte ai fattori produttivi (anni Ottanta): i Paesi della Comunità Europea furono colpiti fortemente dallo shock petrolifero (1973-74) che determinò un innalzamento dei costi di produzione e una contrazione della domanda mondiale. Si passò così da una politica dei "settori" ad una politica dei "fattori" consentendo un aggiustamento strutturale delle economie e, a tutti i settori industriali, un recupero di flessibilità con la possibilità di riorganizzare i processi produttivi. Gli strumenti utilizzati sono: a) di tipo fiscale (incentivi e detassazioni), rivolti all'utilizzo ed alla sostituzione dei fattori produttivi (per esempio in Italia: la legge di incentivazione dell'imprenditorialità giovanile, 1986) ; b) di tipo istituzionale (revisioni di normative e leggi), che intendono conferire al sistema produttivo un maggiore grado di flessibilità (- flessibilità interna all'impresa, cioè la capacità di modificare i processi produttivi; - flessibilità esterna, cioè la possibilità di spostamento di risorse da un'impresa all'altra) e azioni di privatizzazione di imprese pubbliche e di liberalizzazione dei mercati.

I risultati ottenuti sono stati una maggiore competitività delle imprese tramite la riduzione dei costi di produzione ed un rinvigorito tasso di crescita economica.

Le politiche industriali generali di tipo istituzionale (anni Novanta): nel 1990, nel "Rapporto Bangemann", la Commissione Europea individua l'obiettivo di creare un clima favorevole all'affermazione di coalizioni progressive, per trasformare la Comunità Europea da una semplice unione doganale, in un'unione economica aperta. Proprio il Trattato di Maastricht (1992) riprende questo concetto e favorisce l'innovazione, infatti, l'art.130 stabilisce e promuove:

a) Un ambiente favorevole all'iniziativa, alla crescita ed allo sviluppo delle imprese di tutta la Comunità e in particolare delle piccole e medie imprese;

b) L'adattamento dell'industria alle trasformazioni che intervengono via via;

c) La cooperazione fra imprese, agevolando la formazione di reti (network);

d) Un migliore sfruttamento del potenziale industriale e delle attività di ricerca, di innovazione e di sviluppo.

La politica industriale messa in atto può essere definita di tipo generale e rivolta alle istituzioni e gli strumenti utilizzati servono a promuovere la collaborazione tra le imprese al fine di sfruttare tutte le possibili esternalità positive (coalizione progressiva).

Sistemi di imprese e politiche industriali.

Alfred Marshall notò che le imprese tendevano ad agglomerarsi in specifici territori e denominò queste aggregazioni come "distretti": quando si parla di distretto industriale si fa riferimento a un'entità socio-economica costituita da un insieme di imprese, facenti parte di uno stesso settore produttivo, localizzate in un'area circoscritta, tra le quali vi è collaborazione ma anche concorrenza. Marshall ricondusse l'esistenza dei distretti alla Teoria classica smithiana della divisione del lavoro: conviene alle imprese suddividere il lavoro per acquisire vantaggi di produttività e collocarsi vicine per ridurre i costi di produzione grazie a:

a)  Un'ampia circolazione di informazioni e di conoscenze tecniche che diventano un patrimonio comune e diffuso;

b) Lo sviluppo di un pool di forze di lavoro che sono qualificate e specializzate;

c)  L'insediamento di fornitori specializzati.

Il contributo iniziale di Marshall venne ripreso, in Italia, da Giacomo Becattini che propose la seguente definizione di distretto: un'entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un'area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di imprese industriali.

L'elemento che caratterizza questi distretti è l'industrial atmosphere (bene pubblico per eccellenza), che si configura come un fattore produttivo intangibile, come un'esternalità positiva che comporta riduzioni di costo per tutte le imprese; invece, l'innovazione tecnologica, avviene grazie all'esperienza "learning by doing".

Il Decreto del Ministero dell'Industria (21/04/1993) richiede che siano soddisfatte cinque condizioni per individuare un distretto:

L'indice di specializzazione manifatturiera dell'area considerata deve essere superiore al 30% rispetto all'indice di specializzazione manifatturiera a livello nazionale;

L'indice di specializzazione produttiva deve essere superiore al 30% rispetto all'indice nazionale;

La densità imprenditoriale deve mostrare un indice superiore rispetto a quello nazionale;

L'occupazione nell'attività manifatturiera di specializzazione deve superare il 30%;

L'occupazione nelle piccole imprese appartenenti al settore di specializzazione deve essere superiore al 50% dell'occupazione di tutte le imprese del settore manifatturiero della medesima area.

L'esperienza dimostra che vi possono essere altre forme di aggregazione distrettuale, tra cui:

a)    Distretto marshalliano: caratterizzato da una molteplicità di piccole imprese integrate tra loro sia orizzontalmente sia verticalmente;

b)   Distretto "hub and spoke": caratterizzato dalla presenza di un impresa leader affiancata da una molteplicità di piccole imprese (follower) che producono input per essa;

c)    Distretto "piattaforma satellite": costituito da un insieme di stabilimenti sorti a seguito di de-localizzazione produttiva operata da parte di un distretto in seguito ad una riduzione dei costi;

d)   Distretto "state-anchored": in cui il nocciolo duro dell'aggregazione è rappresentato da imprese o enti pubblici, come università ma anche come enti o basi militari.










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