Caricare documenti e articoli online 
INFtub.com è un sito progettato per cercare i documenti in vari tipi di file e il caricamento di articoli online.


 
Non ricordi la password?  ››  Iscriviti gratis
 

LA NUOVA PARTECIPAZIONE AL LAVORO DELLE DONNE - Una tendenza storica non soltanto italiana

economia aziendale



LA NUOVA PARTECIPAZIONE AL LAVORO DELLE DONNE


Una tendenza storica non soltanto italiana

Il ritorno delle donne al lavoro extrafamiliare e retribuito costituisce il fenomeno più importante della seconda metà del XX secolo; soprattutto sul mercato del lavoro compare una rilevante fascia di persone che cercano un'occupazione con aspirazioni ed esigenze in larga misura diverse da quelle tradizionali della maggioranza maschile senza dimenticare che durante le guerre mondiali le donne hanno sostituito nelle fabbriche gli uomini impegnati nel conflitto.

Oltre all'Italia, soltanto per Germania e Grecia è possibile vedere l'intera sequenza di uscita-rientro delle donne dal/nel mercato del lavoro, mentre l'unica reale eccezione è la Spagna, dove la presenza femminile era scarsa anche nel lavoro agricolo. Ma, sia pure con qualche anticipo (Usa, Canada, Svezia e Danimarca), la crescita dei tassi di attività femminile decolla solo negli anni '70.

La crescita prosegue negli anni '80 più lentamente, per poi assestarsi quasi ovunque negli anni '90. Fanno eccezione a questa tendenza Spagna e Olanda, ove negli ultimi quindici anni il tasso di attività continua ad aumentare a ritmi elevati. Quanto all'Italia, il tasso di partecipazione segue l'andamento generale, poiché il recente declino si deve solo alla più restrittiva definizione di popolazione attiva. Perciò, nonostante la forte crescita della presenza femminile nel mercato del lavoro negli ultimi 30 anni, l'Italia ha ridotto ben poco il distacco dai paesi in cui questa presenza era più consolidata. Anzi, all'inizio del nuovo millennio l'Italia è stata raggiunta dalla Grecia e superata dalla Spagna, costituendo un polo di paesi dell'Europa meridionale a bassa partecipazione femminile. Per contro, la fascia ad alta partecipazione è costituita da paesi dell'Europa settentrionale (Svezia e Danimarca) e dall'America settentrionale. La fascia centrale si può dividere in una zona medio-superiore, che comprende Gran Bretagna e ora anche Olanda, e una medio-inferiore che comprende Germania e Francia.



Le differenze nei tassi di attività femminili dipendono essenzialmente da quelli delle donne adulte, dai 25 ai 49 anni, che sono per lo più sposate e con figli piccoli a carico che implicano sia valori molto radicati sia più ampi assetti economici, politici e sociali.

Per studiare i modelli di partecipazione al lavoro delle donne lo strumento classico è quello delle curve dei tassi di attività per età. Sino ai primi anni '70 si conoscevano due modelli tipici. Nei paesi dell'Europa centro-settentrionale, con una presenza femminile relativamente alta per quel periodo, la curva dei tassi di attività presentava un andamento bimodale a M. La partecipazione femminile era discontinua e legata al ciclo di vita familiare: ad una presenza molto elevata sino ai 25 anni succedeva una fase di inattività a seguito del matrimonio o la nascita del primo figlio, quindi verso i 35-40 anni con i figli ormai cresciuti un ritorno nel mercato del lavoro. Per contro nei paesi dell'Europa meridionale con un basso tasso di attività totale, la curva per età assumeva una forma a L rovesciata con un solo picco. La presenza femminile risultava così di breve durata perché limita 111h74b ta all'età più giovane. L'uscita dal mercato del lavoro in coincidenza col matrimonio o i figli era molto più forte e inoltre non vi erano ritorni in età matura.

La crescita della partecipazione femminile iniziata negli anni '70 modifica profondamente questi profili in tutti i paesi europei, sicchè si afferma un nuovo modello simile a quello maschile, anche se su livelli inferiori. La curva dei tassi di attività per età assume una forma a campana con un tetto molto lungo dai 25 ai 45-50 anni e comincia a declinare per il ritiro in pensione.

Questo terzo modello caratterizza dai primi anni '80 i paesi scandinavi e la Danimarca, ma la tradizionale flessione della curva a M si è molto attenuata in Germania e Gran Bretagna sino quasi a scomparire in Francia. Anche nei paesi dell'Europa meridionale l'aumento della partecipazione femminile si concentra nell'età adulta, perciò dapprima rallenta la caduta dei tassi di attività dopo i 25 anni, poi la curva tende ad avvicinarsi a quella a campana benché ancora con un evidente squilibrio per le classi di età oltre i 45 anni. SU diversi livelli questo è il caso dell'Italia, della Grecia e del Portogallo, mentre in Spagna nonostante il forte aumento della partecipazione delle trentenni rimane ancora il consueto modello a L rovesciata.

In realtà le curve dei tassi di attività delle persone presenti in un dato momento danno una rappresentazione rallentata e distorta dei mutamenti perché confondono gli effetti delle fasi del corso di vita con quelli del succedersi delle generazioni. Per valutarli meglio bisognerebbe seguire i profili longitudinali dei tassi di attività, considerare cioè le diverse età e vedere la dinamica della loro partecipazione al lavoro lungo le fasi della loro vita.

In un passato per l'Italia non lontano le donne entravano al lavoro giovanissime e con bassa scolarità per uscirne poco dopo in occasione del matrimonio o dei figli e poche vi rientravano. Ora entrano molto più tardi, dopo una più lunga scolarizzazione e con una prospettiva non più transitoria poiché aspirano a restare al lavoro sino ad età avanzata. Ma l'ulteriore forte aumento dell'occupazione femminile dalla fine degli anni '90  è stato segnato anche da un significativo flusso di ingresso o di reingresso di donne dai 35 ai 45 anni. In un nuovo contesto culturale ciò indica la particolare difficoltà in Italia di conciliare lavoro e cura dei figli piccoli.

La situazione italiana ha ormai assunto un modello a campana, sia pure a livelli ancora parecchio inferiori a quelli dei paesi dell'Europa settentrionale, sono ridotte le differenze per le ventenni e le trentenni ma sono ancora cospicue per le quarantenni e le cinquantenni dovute per lo più ad un effetto generazionale cioè al ritardo con cui è iniziata in Italia la crescita della partecipazione femminile al lavoro e sono destinate a ridursi.

Lo scarto del tasso di attività totale delle donne nel Centro-Nord da quelli tedeschi e francesi è ridotto ma le differenze per le ventenni e le trentenni sono molto minori. Ormai nelle regioni centro-settentrionali la figura della giovane che si dichiara casalinga è quasi scomparsa.

In queste regioni la crescita dei tassi di attività delle donne adulte è stata straordinaria.

Per queste classi di età sono stati raggiunti livelli di partecipazione al lavoro prossimi a quelli di paesi con una ben più lunga tradizione di presenza femminile (e senza ricorso al part time). Un ulteriore aumento richiederebbe seri mutamenti negli assetti della famiglia e della più generale organizzazione della società. Molto diversa è la situazione del Mezzogiorno dove il tasso di attività è tuttora inferiore di oltre 20 punti percentuali alla media europea pertanto la figura della giovane casalinga occupa ancora un posto non piccolo.

Una voragine si è quindi aperta tra le crescenti aspirazioni al lavoro delle giovani meridionali e le possibilità di realizzarle. E la situazione non è cambiata negli anni '90.

Le analisi delle variazioni hanno rilevato una notevole capacità di resistere sul mercato del lavoro da parte delle giovani donne del Mezzogiorno nonostante livelli di disoccupazione sempre più elevati. Ciò denota un forte attaccamento al lavoro che sembra essere diventato parte essenziale del progetto di vita di queste giovani sia pure soltanto delle più istruite. Tuttavia dal '93 al 2003 la crescita del tasso di attività delle trentenni e delle quarantenni quasi si arresta. Probabilmente comincia a manifestarsi un effetto di scoraggiamento con il rischio di regredire nella condizione non più liberamente scelta di casalinghe.

Il crescente sfasamento tra attività e occupazione colpisce, sia pure in misura molto minore, anche le giovani donne delle regioni centro-settentrionali. Il fenomeno di un comportamento più attivo delle donne adulte anche di fronte alla difficoltà di trovar lavoro risulta evidente se, oltre ai tassi di attività per classi di età consideriamo anche quelli di occupazione. Sino alla fine degli anni '70 sia la curva del tasso di attività sia quella del tasso di occupazione avevano una forma a L rovesciata con un picco per le ventenni mentre la netta riduzione dello scarto per le donne meno giovani significava che chi non trovava lavoro abbandonava la ricerca.

Nel 2003 la curva del tasso di occupazione e quella del tasso di attività presentano un lungo tetto che fa loro assumere una chiara forma a campana simile a quella dei maschi e dei paesi del nord europa. Inoltre lo scarto tra le due curve rimane significativo sino a 45 anni segnalando una nuova capacità delle donne italiane di resistere nella difficile ricerca di lavoro anche in età matura.

La netta ripresa della presenza femminile nel mercato del lavoro italiano iniziata nei primi anni '70 ed accentuatasi nella seconda metà degli anni '90 è dominata dalla crescita dell'occupazione di quella stessa fascia di donne che ne avevano segnato la caduta negli anni '50 e '60 e cioè quelle donne adulte e in età matura. Ma negli anni '50 e '60 le donne adulte occupate erano per lo più coadiuvanti agricole inserite in imprese familiari. Ora invece si tratta sempre più di un lavoro privo di quei legami familiari che lo rendevano più flessibile e conciliabile con la tradizionale divisione dei ruoli in seno alla famiglia.

Al centro delle spiegazioni "da domanda" e "da offerta" che in larga misura si rafforzano reciprocamente, sta la diffusione del part time, cui in molti paesi si deve gran parte della crescita dell'occupazione femminile ma non in Italia dove, caso quasi unico, l'occupazione femminile è a lungo aumentata in modo considerevole senza un parallelo incremento del part time che comincia a crescere soltanto negli anni '90.




La questione del part time

Un'analisi comparativa della diffusione del lavoro a tempo parziale non è facile, poiché il part-time non è una categoria omogenea nei paesi occidentali.

Un primo indice è il numero di ore lavorate dalle part-timer. Le ancor poche part timer italiane sono tra quelle con gli orari più lunghi: 22-23 ore la settimana contro una media europea inferiore alle 20 ore. Peraltro in Italia l'orario medio delle lavoratrici a tempo pieno è tra i più bassi: meno di 38 ore, contro una media europea di 40.

Nettissima è la differenza nei livelli di precarietà. Nei paesi europei in cui il part time è più diffuso i rapporti di lavoro sono quasi sempre permanenti. L'immagine che collega l'impegno a tempo ridotto alla precarietà è invece valida per i paesi in cui il part time è poco diffuso.

Un'analisi mostra che in tutti i paesi le donne occupate a tempo parziale hanno maggiori probabilità di smettere di lavorare di dipendere piuttosto dal loro minore livello di istruzione e dal loro minore attaccamento al lavoro, due fattori che possono averle orientate fin dall'inizio a svolgere un'attività a tempo parziale.

Ben più rilevanti sono le differenze tra i paesi europei quanto a status giuridico e contrattuale. Ad un estremo stanno la Gran Bretagna e la Germania, dove sino a qualche anno fa molte lavoratrici a tempo parziale erano escluse da alcune prestazioni previdenziali e assicurative poiché la loro retribuzione mensile o il loro orario settimanale non raggiungevano una certa soglia. All'estremo opposto vi sono Svezia e Danimarca, dove la maggioranza delle part timer lavora nel settore pubblico. In Italia la legislazione del lavoro prevede completa parità di trattamento tra occupazioni a tempo pieno e parziale.

La qualità del lavoro part time dipende poi dall'eventuale connessione con orari socialmente disagiati e il fatto che in Europa in media un terzo del part time comporti lavoro serale, notturno, nei weekend o a turni non depone certo a suo favore.

La qualità dei lavori a tempo parziale dipende in ultima istanza dallo scopo per cui sono stati organizzati. Qualora siano state promosse per tenere al lavoro fasce di persone che altrimenti sarebbero rimaste a casa, allora è probabile che si tratti di attività ben pagate, stabile e non disagiate. Il contrario accade qualora le imprese usino il part time per assicurarsi basso costo del lavoro ed elevata flessibilità.

Buono o cattivo che sia, le donne devono al part time una maggiore possibilità di trovare lavoro. Finlandia e Portogallo sono i due soli paesi europei dove una forte integrazione femminile nel mercato del lavoro è avvenuta senza part time e prima dello sviluppo del welfare state. La posizione anomala del Portogallo si può attribuire all'ancor elevata presenza dell'impresa familiare in agricoltura, ai bassi livelli di reddito, che impongono di integrare quello del capofamiglia e alla sopravvivenza della famiglia allargata, che consente di liberare le giovani donne da parte dei compiti domestici. Quella della Finlandia ad un'antica situazione di parità tra i generi e alla concentrazione femminile nel settore pubblico, che però, contrariamente agli altri paesi nordici è poco organizzato con lavori a tempo parziale.

A conferma dell'importante contributo del part time alla presenza femminile nel mercato del lavoro si può osservare che, limitatamente ai paesi europei negli anni '90 è andata crescendo la correlazione negativa tra quota di part time e disoccupazione femminile. Tale relazione si manifesta solo quando l'occupazione a tempo parziale raggiunge livelli abbastanza elevati, perché prima una crescente diffusione del part time poteva incoraggiare fasce di donne non disposte al full time ad entrare nel mercato del lavoro, lasciando così invariato il livello ella disoccupazione.

Negli anni '70 e '80 in tutti gli altri paesi avanzati l'aumento dell'occupazione a tempo parziale è stato largamente superiore a quello dell'occupazione a tempo pieno. Soltanto a fine anni '80 nell'Unione Europea la tendenza si inverte e l'occupazione femminile a tempo pieno cresce in misura maggiore di quella a tempo parziale.

Le nuove occupate a tempo parziale sono per lo più donne sposate, in particolare con figli a carico. Poiché nel frattempo l'occupazione maschile, quasi tutta full time, si è ridotta, la crescita dell'occupazione complessiva, apparentemente cospicua, in realtà si è tradotta quasi per intero in una sostituzione di posti di lavoro pieni maschili con mezzi posti femminili molto meno garantiti e pagati. In termini di volume di occupazione cioè di posti di lavoro equivalenti al full time l'aumento dell'occupazione si è trasformato in una riduzione.

In Svezia sono adottate misure per consentire alle donne con figli di assentarsi a lungo dal lavoro, pur conservando la garanzia del posto. Così molte donne risultano occupate solo nelle statistiche, poiché in realtà sono a casa, in congedo temporaneo, a curare i figli.

Il contributo del part time all'occupazione femminile nei paesi europei è stato decisivo anche negli anni '90. Durante la crisi dal 1991 al 1994 l'occupazione a tempo parziale è la sola a crescere. Oltre il 70% dell'occupazione aggiuntiva creata per le donne dal 1994 al 1999 è stata part time.

In Italia, l'unico paese in cui la forte crescita dell'occupazione femminile negli anni '70 e '80 era avvenuta senza una parallela crescita del part time, la situazione cambia nettamente dal 1993. Dal 1993 al 2003 la percentuale di part timer tra le occupate alle dipendenze cresce dall'11 al 22 % e in misura molto maggiore cresce il part time permanente: ben l'80% dei nuovi posti a tempo parziale è a tempo indeterminato. L'aumento è forte soprattutto nelle regioni settentrionali, ma interessa anche quelle meridionali, grazie in larga misura alla crescente diffusione di supermercati e grandi magazzini, dove l'occupazione è quasi tutta femminile a tempo parziale. Ciononostante l'Italia resta ancora un paese a bassa diffusione del part time.

In termini di volume di occupazione il distacco dell'Italia dai paesi dell'Europa centro-settentrionale risulta di gran lunga minore. Si considerino poi Emilia-Romagna e Lombardia, le regioni con maggiore partecipazione femminile al lavoro. Il loro tasso di occupazione pone l'Emilia- Romagna ai livelli di Svezia e Danimarca e la Lombardia a quelli di Germania e Francia.

Le distanze appaiono ancora minori se si guarda ai tassi di occupazione per età e si considera che in Italia la crescita della partecipazione femminile ha coinvolto le generazioni più giovani.

Le nuove generazioni, anche le trentenni nella fascia critica con matrimonio e figli, sono sui livelli dei paesi nordici, qualora si tenga conto dell'impegno lavorativo in termini di orari di lavoro. In Italia la questione del part time è rimasta a lungo confinata nelle discussioni sulle politiche del lavoro.

In Italia le quote di donne occupate part time rimane quasi la stessa per tutte le classi di età anche quando aumenta in misura cospicua negli anni '90. Invece, nei paesi europei in cui è più diffuso, il tempo parziale interessa in misura maggiore trentenni e quarantenni, ma soprattutto cinquantenni e sessantenni, consentendo alle donne prima di restare al lavoro nonostante gli impegni familiari e poi una graduale uscita verso il pensionamento. Ciò sottolinea ancor più la crescita della partecipazione al lavoro delle donne adulte e in età matura in Italia.

Quanto ai settori in cui il part time è più diffuso, in tutti i paesi europei le quote più elevate sono raggiunte nella grande distribuzione commerciale, alberghi e ristoranti e servizi sociali e alla persona (4 part time su 10).

In alcuni paesi una buona proporzione di part timer lavora nel settore bancario e assicurativo, invece solo in Germania e Italia si rileva una discreta presenza nell'industria manifatturiera. In Italia il part time è quasi assente nel settore pubblico. Assenza nei servizi pubblici e predominio delle piccole imprese nei settori privati sono i fattori che spiegano la tradizionale scarsa diffusione del lavoro a tempo parziale in Italia.

In tutti i paesi europei la proporzione delle donne occupate part time diminuisce al crescere del livello di istruzione e le differenze rimangono nette anche considerando le diverse fasce di età.

In tutti i paesi risulta che il lavoro a tempo parziale è molto più diffuso nelle attività manuali non qualificate e tra le addette ai servizi personali e alle vendite, mentre è poco presente nelle mansioni manuali qualificate o specializzate, nelle professioni intellettuali e tecniche e soprattutto in quelle dirigenziali e imprenditoriali.

Solo in Italia le differenze tra i livelli professionali non sono rilevanti.

Poiché i costi di addestramento e aggiornamento di una donna che lavora a tempo parziale sono esattamente uguali a quelle di una donna occupata a tempo pieno, per le imprese sarebbe troppo costoso utilizzare un maggior numero di part timer in posizioni qualificate, che richiedono una maggiore formazione sul lavoro.

In Europa la figura tipica della lavoratrice a tempo parziale è quella di una donna in età non più giovane, con un livello di istruzione medio-basso, occupata nella distribuzione commerciale, negli alberghi e ristoranti e nei servizi sociali e alla persona in posizioni poco qualificate. Questi settori e queste occupazioni sono per lo più a bassa retribuzione.

Si è detto dell'alternativa in base alla quale le imprese decidono di organizzare mansioni a tempo parziale per utilizzare il lavoro part time per ridurre il costo del lavoro o facilitare l'impiego di persone con particolari caratteristiche.

La prima strategia è più diffusa in Germania e soprattutto in Spagna e Gran Bretagna mentre la seconda prevale largamente in Italia, Olanda, Danimarca e Belgio.

Ciò si può spiegare con al diversa regolazione normativa del part time: più flessibile e meno costosa dove prevale la strategia di sfruttamento, meno flessibile e più costosa dove le imprese usano il part time per rispondere ad esigenze delle lavoratrici.

Le diverse caratteristiche delle lavoratrici a tempo parziale fanno pensare che nell'Italia settentrionale i rapporti part time rispondano per lo più alle esigenze delle donne di conciliare impegni di lavoro e familiari, mentre nel Mezzogiorno essi sono prevalentemente imposti dalle imprese.

Secondo ricerche inglesi le donne part timer presentano un livello di soddisfazione elevato e maggiore di quello delle occupate a tempo pieno. E le condizioni del part time inglese sono le peggiori in Europa. Solo una part timer su 5 può essere considerata involontaria e il part time volontario predomina in particolare nei paesi dove è più diffuso. Anche in Italia la recente crescita dell'occupazione a tempo parziale è stata segnata da un maggiore aumento della componente volontaria benché i nuovi lavori part time siano per lo più poco qualificati. L'esistenza di un'ampia riserva di offerta di lavoro femminile orientata al part time è confermata dalla percentuale di donne che cercano esclusivamente o preferibilmente questo regime di orario. Naturalmente l'orientamento al part time è decisamente minore tra le giovani in cerca di primo lavoro, ma molto maggiore tra chi si dichiara casalinga e quindi ha un comportamento di ricerca meno attivo. Due indagini condotte nelle regioni italiane più vicine al pieno impiego anche per le donne (Veneto e Trentino) rivelano come l'ancora cospicua area di inattività femminile sia in larga parte costituita da donne che condizionano la disponibilità al lavoro al fatto che l'occupazione sia a tempo parziale e vicino alla propria abitazione, sembra dunque che alcune donne rinuncino a lavorare se non possono farlo a tempo parziale.

Molte differenze nazionali e l'andamento del part time si comprendono ricorrendo alla distinzione di Hakim tra due popolazioni di donne: le emancipate, orientate ad un lavoro full time che le renda indipendenti e le grateful slaves che considerano il lavoro retribuito secondario rispetto al loro principale investimento affettivo nella famiglia. Quando il lavoro part time è poco diffuso tra quelle che lavorano prevalgono le emancipate, che disdegnano il tempo parziale. Quando part time e occupazione femminile sono molto diffusi allora è presente sul mercato del lavoro anche la gran massa delle grateful slaves, alla ricerca di un orario ridotto per avere tempo da dedicare alle cure familiari. Inoltre, considerando che un elevato livello di istruzione è un importante fattore di emancipazione per le donne si comprende anche perché in tutti i paesi il lavoro part time sia molto più diffuso tra le donne meno istruite.

Questa spiegazione è stata criticata perché trascura gli aspetti strutturali che farebbero della scelta a favore del part time in ogni caso un comportamento condizionato dalle possibilità esistenti.

Per sostenere la tesi del lavoro a tempo parziale costretto non resta che ricorrere al ruolo dell'ideologia patriarcale o alla carenza delle politiche pubbliche nei servizi sociali. Dunque, all'origine della gran diffusione del part time, in modo particolare tra le donne con più gravose responsabilità familiari vi sarebbe il persistere della tradizionale divisione dei ruoli in seno alla famiglia. La domanda di lavoro costruisce delle occupazioni a tempo parziale espressamente rivolte all'offerta di lavoro femminile. Ciò provoca quella segregazione in posti di lavoro da donne, poco qualificati e senza prospettive di carriera che sembra costituire lo scotto pagato in molti paesi per la crescita dell'occupazione femminile.

Dai primi studi longitudinali risulta che il passaggio dal lavoro a tempo parziale a quello a tempo pieno è ovviamente più frequente per i giovani istruiti che escono da una fase in cui combinano attività formative e lavorative. Per quanto riguarda le donne non più giovani le uscite verso il tempo pieno non sono frequenti anche se nel lavoro a tempo parziale vi sono scarse possibilità di crescita professionale, il part time diventa spesso una via senza ritorno.


La doppia presenza

La riluttanza dei maschi ad accettare un'equa divisione del lavoro in famiglia è una costante in tutti i paesi, le madri occupate a tempo pieno dedicano alla cura dei figli e ad altri lavori familiari il doppio del tempo dei padri. In Italia il lavoro familiare è ancora molto mal diviso. Il tempo dedicato al lavoro familiare dalle donne occupate resta cospicuo anche perché il contributo dei maschi aumenta in misura molto modesta quando la donna è impegnata in un'attività retributiva. Più del 50% delle donne occupate con figli piccoli lavora complessivamente oltre 60 ore la settimana tra lavoro familiare e retribuito, mentre i mariti che lavorano oltre 60 ore sono poco più del 21%.

Una più egualitaria ripartizione di questi compiti agevolerebbe la presenza femminile sul mercato del lavoro. Quando marito e moglie lavorano entrambi a tempo pieno un equilibrio efficiente e stabile nella famiglia si può realizzare solo se si ricorre ad un sostegno esterno oppure se si contraggono i carichi di lavoro.

Occorre innanzitutto guardare al ruolo delle provvidenze sociali fornite dallo Stato, la disponibilità di asili nido incide in modo cruciale sui tassi di occupazione delle donne, mentre il contributo degli uomini alle faccende domestiche ha un effetto irrilevante.

Si vede come il welfare state di tipo socialdemocratico possa favorire l'occupazione femminile grazie ad un processo di defamilizzazione, cioè di trasferimento dei servizi per sopperire ai più gravi carichi familiari dalla famiglia alla collettività; questo processo agisce anche dal lato della domanda di lavoro.

Ma in Italia vi è un regime conservatore di welfare state che considera gli interventi pubblici soltanto sussidiari alla famiglia. Per contro nei paesi nordici il sistema di assistenza ai bambini è stato costruito per favorire la partecipazione al lavoro delle donne e le donne sono trattate dalla sicurezza sociale come individui e non come spose.

Le strutture dedicate e l'assistenza domiciliare agli anziani e ai disabili sono poco diffuse e riservate soltanto ai casi in cui non vi sono familiari che possono prendersi cura di loro. Lo Stato in Italia più che fornire servizi alle famiglie, trasferisce loro redditi monetari sotto forma di sussidi che aumentano il reddito familiare ma scaricano una gran quantità di lavoro di cura sulla famiglia e sulla donna.

La notevole ripresa che negli ultimi anni ha avuto il lavoro servile presso le famiglie non ha raccolto grande attenzione negli studi sul mercato del lavoro è esploso il fenomeno delle colf e delle badanti immigrate aveva esplicitamente collegato tale fenomeno al diffondersi della doppia presenza delle donne nel lavoro per la famiglia e per il mercato.

Solo una piccola minoranza di queste famiglie ricorre a prestazioni a tempo pieno.

Per le donne italiane si tratta essenzialmente di lavori a ore e quello di baby sitter costituisce uno dei classici lavoretti delle studentesse o delle giovani in attesa di una vera prima occupazione, mentre tra le immigrate prevalgono la tradizionale figura della domestica che vive in famiglia o la nuova dell'assistente domiciliare alla persone anziane.

Lo sfruttamento delle donne immigrate ha avuto un importante ruolo nel consentire la crescente partecipazione al lavoro delle donne italiane e la loro distorta emancipazione.

All'aiuto retribuito spesso si sostituisce o si aggiunge quello gratuito delle reti di aiuto informale che sono soprattutto i genitori che alleviano la giovane coppia che lavora da alcuni compiti, soprattutto quando vi sono figli piccoli. Le nonne sono ancora un sostegno prezioso al lavoro extrafamiliare a tempo pieno delle figlie o delle nuore.

L'altra soluzione è quella di ridurre gli impegni familiari e quindi di fare meno figli. Questa via è stata seguita da molte giovani italiane, l'Italia è il paese dove il tasso di natalità è diminuito più rapidamente e ha raggiunto il livello più basso (poco più di 1,1 figlio per donna alla fine degli anni '90).

La riduzione dei tassi di natalità è una tendenza storica in tutti i paesi sviluppati, ma in Italia presenta una maggiore velocità.

A causa delle gravi difficoltà di trovare un lavoro stabile per i giovani, l'età del matrimonio si è molto spostata in avanti. Le conseguenze sui tassi di natalità sono in larga misura irreversibili, almeno a medio periodo.

La relazione tra numero dei figli e livelli di attività risulta nettissima in tutti i paesi. Si possono cogliere tre diversi modelli. In Germania e Gran Bretagna la riduzione dei tassi di occupazione è graduale man mano che aumentano i carichi familiari. In Francia, Portogallo, Belgio e Grecia avere figli piccoli ha un impatto ridotto, poiché solo per il terzo figlio la partecipazione della madre crolla. In Olanda, Irlanda, Spagna e Italia la caduta del tasso di attività avviene già con il primo figlio.

La stabilità di questi modelli conferma almeno tre punti: l'ottimo livello di servizi per l'infanzia in Belgio e Francia, il carattere arretrato della società portoghese e di quella greca, il pessimo livello dei servizi per l'infanzia in Olanda, Irlanda, Spagna e ovviamente Italia. L'effetto di scoraggiamento della presenza di figli piccoli sulla partecipazione al lavoro è minore nelle regioni meridionali e nord-orientali, dove un maggiore sostegno familiare supplisce alla carenza dei servizi pubblici ma nel Mezzogiorno ancora molte donne smettono di lavorare già al momento del matrimonio.

Il tasso di attività delle donne diplomate o laureate non soltanto è molto più alto di quelle non istruite, ma è anche poco influenzato dai carichi familiari: non aver figli o averne tre incide solo in misura limitata sull'elevata partecipazione al lavoro della donna sposata istruita.

Il numero di coppie con più figli è diminuito, mentre è molto cresciuto quello delle coppie senza figli e nei paesi dell'Europa meridionale anche quello delle coppie con un solo figlio. Queste tendenze, che caratterizzano anche l'Italia, sembrano delineare una polarizzazione tra donne istruite, che riescono in misura sempre maggiore a combinare lavoro e figli e donne non istruite, che debbono scegliere tra fare figli e continuare a lavorare dopo il matrimonio.

L'esistenza di una relazione negativa tra occupazione femminile e natalità risulta evidente anche nei confronti internazionali.

Tra i demografi sembra prevalere l'ipotesi che la bassa natalità sia più l'effetto di scelte di valori che non di calcoli economici.

Paradossalmente il familismo è una potente spinta a ridurre il numero di figli poiché frena le nascite fuori dal matrimonio, provoca una ritardata uscita dei giovani dalla famiglia e una più elevata età del matrimonio e infine esaspera la ricerca della qualità a scapito della quantità.

Aumentare l'occupazione delle donne senza ridurne la fertilità è importante sia per soddisfare le loro esigenze personali, sia per rispondere ai bisogni del sistema economico poiché agire sui valori non è semplice resta aperta la strada di mutare il sistema di welfare e l'organizzazione del lavoro.

L'OCSE mostra come vi sia una forte relazione positiva tra tasso di occupazione delle donne in questa classe di età e il livello delle politiche dirette a conciliare lavoro e famiglia. Attualmente i paesi a più elevata occupazione delle donne sono anche quelli a maggiore fertilità sia pure a prezzo di politiche costose per lo Stato e per le imprese. Ciò dimostra che garantendo una cospicua struttura di servizi sociali si può sfuggire alla trappola dell'equilibrio a bassa fertilità e a bassa occupazione femminile.


L'istruzione tra investimento ed emancipazione

Una forte crescita dell'istruzione superiore ha interessato le nuove generazioni dalla fine degli anni '60. Nel 1977 oltre 1/3 dei giovani tra i 20 e i 24 anni aveva un titolo di studio superiore, mentre la quota di istruiti non superava il 17 % tra i nati 10/15 anni prima che non erano andati oltre la licenza elementare.

Negli anni '90 si ha una netta ripresa dei livelli di istruzione delle nuove generazioni: nel 2003 più del 65% ha un'istruzione superiore tra i giovani dai 20 ai 24 anni.

Esiste quindi uno squilibrio nei livelli di istruzione per classi d'età conseguenza del ricambio generazionale tra gli occupati, vanno in pensione i poco istruiti ed entrano diplomati e laureati.

La crescita dell'istruzione superiore è stata di gran lunga maggiore tra le giovani donne rispetto ai maschi. L'impatto sull'offerta di lavoro è immediato, poiché il tasso di attività femminile cresce nettamente al crescere dei livelli di istruzione.

Da 25 a 60 anni il tasso di attività delle laureate rispetto a quello delle donne con la sola licenza elementare era quasi 2 volte e mezzo nel 1977 mentre è quasi 3 volte nel 2003.

Si nota che per le donne istruite negli anni '90 si afferma il modello a campana che prevede un'elevata presenza sul mercato del lavoro anche nella fase del matrimonio e della nascita dei figli. Per le laureate il ritiro dal lavoro è più precoce che non per i laureati maschi.

Dal 1977 agli anni '90 le donne con la licenza media presentano ancora il tradizionale modello a L rovesciata che prevede una partecipazione al lavoro elevata per le giovani e quindi un progressivo abbandono quando arrivano gli impegni familiari.

Nel 2003 l'andamento a L rovesciata per le donne con la licenza media si attenua decisamente perché ora il tasso di attività delle trentenni e delle quarantenni è molto più elevato che in passato.

Si comprende ora che l'aumento dell'offerta di lavoro femminile negli anni '70 e '80 si deve tutto alla sua componente più istruita.

Nel corso di questi 15 anni non è cresciuta tanto la partecipazione al lavoro delle diplomate e laureate quanto il loro peso relativo nella popolazione femminile. È stato il forte aumento della scolarità delle donne a determinare la grande crescita della loro presenza sul mercato del lavoro.

Più equilibrato è invece l'ulteriore aumento dell'offerta di lavoro femminile negli anni '90 perché da un lato la crescita dei livelli di istruzione è più lenta e dall'altro i tassi di attività sia delle diplomate sia delle donne con la licenza media aumentano in misura significativa soprattutto per le quarantenni e cinquantenni.

Due perciò sono le questioni da spiegare: perché le donne più istruite sono anche più attive e perché la scolarità femminile è cresciuta molto più di quella maschile.

Due teorie opposte.

Per gli economisti il diverso comportamento delle donne si spiega con la teoria del capitale umano. L'elevata scolarità spingerebbe le donne non solo a cercare un'occupazione da giovani, ma anche a conservarla in età adulta e a cercarne un'altra qualora la perdano, perché l'istruzione viene vista come un investimento costoso.

Per contro alla scuola può essere attribuita una funzione emancipatrice dalla condizione di casalinga. Secondo questo approccio più sociologico, le donne trovano nella scuola nuovi valori e nuovi modelli di riferimento per cui non sopportano più l'idea di passare dalla sudditanza verso i genitori a quella verso un marito. Più alto è il livello di istruzione, maggiore è il nuovo desiderio di autonomia personale. Il lavoro diventa l'unico mezzo per realizzare questa aspirazione.

Queste spiegazioni possono coesistere se si pensa che alla fine della scuola vi possono essere due punti di vista diversi: quello della famiglia che vuole essere ripagata dell'investimento realizzato facendo studiare la figlia e quello della figlia che vuole avere quella autonomia dai maschi che lo stesso processo educativo le ha mostrato essere possibile.

Le grandi differenze concernono la partecipazione al lavoro delle donne sposate e in particolare quelle con figli.

L'attaccamento al lavoro è certamente maggiore quando l'occupazione è più piacevole e gratificante come di regola accade quando è più qualificata.

Secondo due economiste Bettio e Villa l'Italia ha il più elevato scarto tra i tassi di attività delle donne secondo il livello di istruzione e allo stesso tempo bassi differenziali retributivi per titolo di studio quindi avanza il sospetto che l'educazione svolga anche un'altra funzione: quella dell'effetto emancipazione.

L'effetto emancipazione si può ritenere il fattore che meglio spiega come la più elevata istruzione spinga a cercare un lavoro retribuito al di fuori della famiglia e un maggiore attaccamento al lavoro per cui le donne più orientate al lavoro mediamente sono più istruite, hanno minor numero di figli e sono più propense al tempo pieno.

Si imputa la maggiore scolarità odierna all'intenzione di restare a lungo sul mercato del lavoro proprio al comportamento che veniva spiegato con la volontà di far rendere l'investimento negli studi. Non si dimentichi che uno dei principali stimoli dei comportamenti umani è l'aspirazione alla mobilità sociale. Tradizionalmente per le donne tale mobilità si realizzava grazie al matrimonio mentre la mobilità occupazionale era propria dei maschi. Ora l'investimento in istruzione risulterebbe necessario poiché forti squilibri di istruzione in seno alla coppia non sono più possibili e la giovane non istruita rischierebbe di restare esclusa pure dal mercato dei buoni partiti.

Ma con lo sviluppo del terziario è tanto cambiata la domanda di lavoro che per le giovani donne  più facile trovare occupazioni molto qualificate che non dequalificate. Si apre anche per le figlie la prospettiva di una mobilità occupazionale cui è possibile accedere grazie ad una elevata scolarità.


La femminilizzazione della domanda di lavoro

Il ricorso alla forza lavoro femminile viene visto come un modo di aggirare la rigidità di quella maschile adulta e quindi ridurre il costo del lavoro e indebolire il potere dei sindacati.

Nasce quindi lo stereotipo della forza lavoro femminile debole e marginale che presenta caratteristiche di discontinuità, scarso attaccamento al lavoro, disponibilità solo ad orari ridotti o a un impegno stagionale.

In effetti negli anni '70 nell'industria manifatturiera l'occupazione dipendente femminile aumenta mentre quella maschile diminuisce. Tuttavia questa lettura ignora anche i profondi mutamenti nei comportamenti della forza lavoro femminile.

L'occupazione femminile non appare più confinata nei settori in declino ma si inserisce in quelli in crescita e tra i nuovi occupati le donne sono molto più istruite dei maschi.

Le giovani donne restano ancora più a lungo dei coetanei maschi in attesa del primo lavoro, ma la loro stabilità occupazionale in età adulta non è molto inferiore a quella dei maschi.

L'aumento dell'occupazione si concentra nel terziario.

Anche la crescita relativa della presenza femminile nel settore industriale si spiega con la sua terziarizzazione cioè il forte aumento degli impiegati.

All'inizio degli anni '70 la curva dei tassi di occupazione per età nel terziario già presentava l'andamento a campana mentre il settore industriale presentava la vecchia forma a L rovesciata.

Negli anni '80 la presenza delle donne adulte aumenta anche nell'industria e la curva dei tassi di occupazione per età nel terziario accentua la sua forma a campana.

Fattori di domanda e di offerta si sono reciprocamente sostenuti nel favorire la presenza delle donne nel mercato del lavoro.

Dal 1977 al 1992 quasi il 30% della nuova occupazione femminile nel terziario si deve al comparto del commercio, turismo e ristorazione. Cospicuo è il contributo delle assicurazioni e del credito con il 16% e più della metà dell'occupazione aggiuntiva femminile si concentra nella pubblica amministrazione e negli altri servizi.

Negli anni '90 praticamente tutta la nuova domanda di lavoro che si rivolge alle donne viene dal terziario. La nuova domanda di lavoro femminile è quasi tutta impiegatizia e per oltre 1/3 interessa attività direttive o libero-professionali.

Fin dall'inizio era facile capire perché la nuova domanda terziaria si fosse rivolta alle donne. Gran parte dei servizi sociali e personali non sono altro che la professionalizzazione di attività che venivano svolte un tempo all'interno della famiglia.

Nel 2000 Nell'UE oltre il 40% dell'occupazione femminile si concentra nei servizi alle famiglie dove le donne sfiorano il 67% dell'occupazione.

La domanda di lavoro femminile aumenterà per l'invecchiamento della popolazione, che accrescerà la domanda di servizi sanitari e assistenziali anch'essi ad alta occupazione femminile.

Le donne sono tradizionalmente ricercate per attività di vendita o che implicano relazioni personali oppure per lavori che richiedono pazienza.

Nel 2000 nell'UE il 20% delle donne è occupato nei servizi distributivi (tale quota in Italia è più bassa per l'ancor alta presenza del commercio a base familiare).

D'altronde gli stereotipi di genere guidano anche le scelte educative delle ragazze che si concentrano nei percorsi umanistici o amministrativi e trascurano quelli tecnico-scientifici ma queste strategie scolastiche non sono state di ostacolo alla loro occupabilità.

E quando questi sbocchi si chiudono o diventano più difficili, le scelte scolastiche delle ragazze cominciano a differenziarsi e aumenta persino al quota di iscritte alla facoltà di ingegneria.

La tradizionale discriminazione di genere nelle assunzioni si fondava sul rischio di una maggiore frequenza e imprevedibilità delle assenze. Le imprese che basavano le proprie scelte di reclutamento su tale previsione facevano poi di tutto perché si avverasse destinando le donne assunte a posti poco gratificanti.

Innanzitutto non bisogna dimenticare che l'espansione dell'occupazione femminile si concentra nelle regioni centro-settentrionali.

Un buon esempio è costituito dalla Lombardia dove nel corso degli anni '80 vi è stato un grande ricambio occupazionale. Questo non è stato il caso del Mezzogiorno dove le donne hanno dovuto confrontarsi con un'accesa concorrenza maschile. Nel Mezzogiorno mentre tutti i maschi si presentano sul mercato del lavoro, le donne sono ancora una élite.

Infine alla crescita dell'occupazione femminile ha dato un contributo determinante l'espansione della domanda in settori caratterizzati da meccanismi di selezione all'ingresso molto formalizzati  indifferenti agli attributi di genere. Nel pubblico impiego cui si accede per concorso su titoli ed esami la presenza delle donne ha ormai superato il 50% dell'occupazione totale. Nel Mezzogiorno è abbastanza comune vedere nelle scuole insegnanti donne e bidelli maschi e la stessa cosa in ospedale. In tutti i paesi europei il settore pubblico è quello in cui sono stati realizzati i maggiori progressi per quanto riguarda la tutela della maternità e i permessi per motivi di famiglia. Nell'impiego pubblico italiano viene consentita maggiore flessibilità per quanto riguarda le brevi assenze.

Tuttavia solo una minoranza, pur cospicua, di donne ha trovato lavoro nel pubblico impiego e alcune lavorano con orari su turni variabili che non agevolano la doppia presenza. Le altre sono occupate nella vasta e composita area del commercio, del turismo, dei ristoranti, del credito e dei servizi privati alle imprese e soprattutto alle persone. Senza dubbio quando il lavoro terziario è svolto in forma indipendente i gradi di elasticità possono essere molto ampi, come accadeva in passato in agricoltura. Ma nell'area del lavoro indipendente le donne sempre meno sono semplici coadiuvanti, mentre cresce il peso di imprenditrici e professioniste. Il nuovo e difficile equilibrio della doppia presenza si regge in larga misura sulla minore natalità, oltre che sul ricorso ad aiuti esterni al nucleo familiare.


Più occupate, ma più segregate ?

Si potrebbe persino dire che la femminilizzazione delle professioni in sviluppo ha favorito l'ingresso delle donne nel mercato del lavoro. Il rovescio della medaglia è la segregazione cioè la concentrazione delle donne in settori od occupazioni dove sono dominanti e per contro la loro esclusione da quelli maschili. I livelli di segregazione per genere rimangono stabili in tutti i paesi sviluppati.

Innanzitutto occorre distinguere la segregazione orizzontale da quella verticale. Mentre quella verticale concerne la posizione di uomini e donne nei livelli gerarchici di una professione, la segregazione orizzontale misura la concentrazione in professioni e settori differenti senza alcuna valutazione sulla loro desiderabilità.

Una riduzione della segregazione è in genere considerata positiva per la condizione femminile anche se potrebbe non esserlo per l'ingresso delle donne in aree tradizionalmente maschili, ma dequalificate.

La segregazione orizzontale può riguardare sia i settori economici sia le occupazioni. La misura statistica più comunemente usata è l'indice di dissomiglianza il cui valore rappresenta la proporzione di donne che dovrebbe cambiare settore od occupazione perché vi sia un'uguale distribuzione per genere in ogni settore di occupazione. Tre sono i fattori di distorsione: la quota di occupazione femminile, il livello di aggregazione delle aree e la loro diversa dimensione relativa.

Tutti i tentativi di analisi comparate tra paesi hanno messo in luce uno strano paradosso. Anche controllando i possibili fattori distorsivi risulta che i paesi all'avanguardia per l'inserimento delle donne presentano i più elevati indici di segregazione, mentre i valori più bassi si ritrovano in Grecia e Italia, che si contendono il primato dei paesi sviluppati con minore occupazione femminile. La relazione tra l'indice di dissomiglianza e la quota di donne sul totale dell'occupazione che risulta decisamente positiva; più occupazione femminile, più segregazione. E l'Italia è il paese europeo con il minor valore dell'indice di dissomiglianza.

L'importanza del terziario e dell'occupazione dipendente sono i fattori che più contano nel determinare i livelli di segregazione: più occupazione dipendente e terziaria significa maggiore concentrazione delle donne tra gli impiegati esecutivi, gli addetti alle vendite e quelli ai servizi.

Gli studiosi nordici sottolineano l'importante ruolo che nei loro paesi svolge il settore pubblico dove si concentra la metà dell'occupazione femminile. Nel settore pubblico le donne dei paesi nordici trovano retribuzioni relativamente elevate per lavori a predominio femminile e sicurezza occupazionale quando le responsabilità familiari crescono. Invece una minore segregazione è favorita da una minore fertilità e una più forte ideologia egualitaria quanto alle differenze di genere.

In un quadro un po' datato l'Italia viene considerata un paese arretrato ancora privo di un importante settore terziario e con una quota elevata di lavoratori indipendenti. Ma in Italia le donne risultano relativamente più presenti in occupazioni di prestigio quali quelle professionali, contrariamente a quanto accade in altri paesi più segregati.

Si può pensare che la segregazione eccezionalmente bassa dell'occupazione femminile in Italia si regga sulla bassa natalità, sulla scarsa diffusione del lavoro a tempo parziale e sul livello di istruzione relativamente elevato.

Dal 1971 al 1991 l'aumento del livello di segregazione è frutto di un più basso e decrescente livello di segregazione per le donne che lavorano a tempo pieno e di un più alto e crescente livello di segregazione per quelle occupate a tempo parziale.

I lavori part time sono tipicamente costruiti per utilizzare le donne con forte orientamento alla famiglia.

Poiché in quasi tutti i paesi la crescita dell'occupazione femminile è avvenuta proprio grazie al lavoro a tempo parziale, si confermerebbe per altra via che la segregazione costituisce il contrappasso della più elevata partecipazione al lavoro delle donne. La Svezia, il paese con più elevato tasso di occupazione femminile è anche quello più segregato. La segregazione occupazionale è più elevata per le donne con figli rispetto a quelle senza.

Ovunque la segregazione è molto più elevata per le donne meno istruite che sono più soggette a stereotipi di genere e incontrano maggiori difficoltà ad entrare in attività tradizionalmente predominate da maschi.

Poiché sia il lavoro a tempo parziale sia l'occupazione delle donne poco istruite stanno crescendo si può avanzare l'ipotesi che in Italia la segregazione occupazionale è destinata a crescere. Lo confermerebbe il fatto che l'Italia è uno dei pochissimi paesi in cui la segregazione è maggiore tra le donne più giovani.

Un'analisi di come varia la percentuale delle donne in ogni gruppo può consentire di fare qualche passo dalla segregazione orizzontale a quella verticale.

Nell'UE le donne sono sovrarappresentate tra gli impiegati esecutivi, gli addetti ai servizi alla vendita e tra le occupazioni elementari in misura minore; per contro sono sottorappresentate in tutte le attività manuali legate alla produzione industriale e nel livello più alto del lavoro intellettuale, quello direttivo.

Vi sono però differenze nazionali che concernono in particolare l'Italia per cui le donne sono sovrarappresentate anche nelle professioni intellettuali e per contro sono sia meno sovrarappresentate nel lavoro non manuale poco qualificato sia meno sottorappresentate nel lavoro manuale industriale. Dal 1993 al 1999 nonostante la diffusione del part time è andato crescendo l'ingresso delle donne in lavori tradizionalmente maschili, sia nelle professioni a elevata specializzazione sia nelle attività manuali meno qualificate.

Non solo in Italia le giovani donne che entrano nel mercato del lavoro sono più istruite dei coetanei maschi cosicché le distanze nei livelli di istruzione tra lavoratori maschi e femmine si sono progressivamente accorciate sino quasi a scomparire. Tuttavia in quasi tutti i paesi sviluppati la percentuale di donne che occupano posizioni direttive e che esercitano un ruolo di supervisione è inferiore a quella degli uomini. I progressi di carriera delle donne sono minori ma ciò potrebbe dipendere dalla loro minore anzianità di lavoro. La percentuale di donne diminuisce progressivamente al salire dei livelli gerarchici dipende in larga misura dal fatto che si tratta di strutture burocratiche in cui l'anzianità di servizio è una componente essenziale della carriera. La retribuzione delle donne è in media inferiore a quella dei maschi di oltre il 9%.

È plausibile che l'esistenza di un soffitto di cristallo per le donne sia confermata poiché vi sono almeno due motivi per ritenere che fare carriera per le donne sia più difficile che essere assunte. In primo luogo anche nei contesti lavorativi più flessibili le carriere continuano a richiedere alti investimenti di tempo e di disponibilità che mal si conciliano con la doppia presenza. Qualora poi la donna scelga il part time corre un oggettivo rischio di emarginazione professionale. La donna in carriera è costretta ad assumere modelli maschili di coinvolgimento totale nel lavoro. Sembra che le imprese tendano a non investire nella carriera anche delle donne senza responsabilità familiari nel timore che possano averle in futuro.

È dunque possibile che si verifichi una situazione per cui le imprese reclutano sempre più donne ma ne bloccano la carriera ai gradini iniziali. Ad una decrescente segregazione occupazionale si può accompagnare una permanente segregazione verticale.








Privacy




Articolo informazione


Hits: 5346
Apprezzato: scheda appunto

Commentare questo articolo:

Non sei registrato
Devi essere registrato per commentare

ISCRIVITI



Copiare il codice

nella pagina web del tuo sito.


Copyright InfTub.com 2024