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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI TORINO
Facoltà di Economia
Corso di Laurea in Business Administration
MEDIOBANCA
Tra regole e mercato
CAPITOLO 1
GENESI DI UN MODELLO DI CAPITALISMO
Come primo passo, con l'obiettivo di definire il contesto in cui Mediobanca si è inserita ed ha operato, occorre presentare il modello di regolazione della proprietà e del controllo delle imprese in Italia nei 50 anni in cui Cuccia e Mediobanca sono stati soggetti rilevanti di quel modello. Inoltre l'istituto milanese ha dentro sé una forte impronta lasciata dal suo fondatore, pertanto sarà utile analizzare formazione e cultura di Enrico Cuccia.
La configurazione del capitalismo italiano ha tratti distintivi: infatti questo è stato a lungo caratterizzato da una base di piccole e piccolissime imprese e da un ristretto numero di grandi imprese.
La grande impresa italiana, nell'evoluzione novecentesca è stata caratterizzata da una struttura proprietaria in cui i gruppi familiari erano presenti in modo persistente ed in misura superiore rispetto ai capitalismi anglosassoni. La presenza di strutture proprietarie a base famigliare e l'assunzione di responsabilità manageriali da parte dei membri delle famiglie proprietarie hanno creato forti vincoli finanziari alla crescita dimensionale delle imprese, accentuati dall'assenza di un mercato in cui raccogliere risorse.
L'attenuazione del vincolo finanziario è stata ottenuta attraverso l'adozione di tecniche di crescita che permettessero di ridurre l'impegno diretto della famiglia che deteneva il controllo dell'impresa come i gruppi piramidali, le società a catena e i patti parasociali.
La cooperazione è stata dunque il rimedio che i gruppi aziendali hanno adottato al fine di promuovere lo sviluppo in un regime di risorse scarse. Il contenimento della competizione e la solidità della struttura proprietaria delle aziende, garantì stabilità in un periodo (anni '50 e '60) in cui c'era un forte bisogno di investimenti e una grande dipendenza intersettoriale.
Per contro però, la scarsa contendibilità del controllo delle imprese sottraeva spinta alla crescita e all'innovazione.
Mediobanca si inserisce in questo contesto, con il compito di garantire la stabilità degli assetti proprietari e di coordinare i principali progetti di investimento legati alla matrice settoriale di riferimento dei grandi gruppi industriali.
I critici sostengono che la difesa del modello di stabilità ha agito a scapito della dinamicità del sistema economico nazionale. La significativa perdita di competitività della grande impresa italiana registratasi dagli anni '70 potrebbe essere ascritta all'azione di protezione della scarsità delle risorse materiali e delle capacità imprenditoriali esercitata da Mediobanca nel segmento alto delle imprese.
Mediobanca ha sostenuto efficacemente i cicli degli investimenti in capitale fisso delle grandi imprese italiane durante gli anni '50 e '60, entro un contesto tecnologico consolidato, ma non avrebbe saputo selezionare gli attori dinamici e innovativi in grado di entrare 848f57i nei settori della terza rivoluzione industriale.
Mediobanca fu costituita a Milano nel 1946, dopo lunghe e serrate trattative con la Banca d'Italia. Fu concepita insieme a Raffaele Mattioli nell'agosto 1944, negli uffici romani della Banca Commerciale Italiana, pensando innanzitutto alle necessità della ricostruzione.
La distinzione introdotta dalla legge del 1936 tra operazioni di credito a breve termine ed operazioni di credito a medio e lungo termine, congiuntamente alla separazione tra banca e industria, rendeva necessario ridisegnare la struttura di offerta di credito alle imprese, secondo i nuovi canoni della specializzazione operativa.
In tale contesto Mediobanca costituì un'anomalia. Nasce quale istituto di credito speciale che erogava crediti a medio termine, ossia con scadenza compresa tra i 18 mesi e i 5 anni, ovvero offriva i mezzi necessari alle imprese per il rinnovo delle attrezzature e dei macchinari. A metà degli anni '50 però Cuccia integra l'attività di credito con quella di banca d'affari, offrendo servizi parabancari che svilupparono nuove competenze e instaurò importanti rapporti internazionali mediante le alleanze strategiche con la Lazard Frères & Co. e la Lehman Brothers di New York.
Per quasi mezzo secolo Mediobanca si è identificata nelle straordinarie capacità di lavoro e nell'intelligenza critica di Cuccia, nonostante l'attenzione costante verso la selezione ed il reclutamento di personale di alto livello permettesse l'avvicendamento ai vertici dell'istituto di banchieri qualificati.
Per questa ragione è fondamentale comprendere la formazione e la cultura di Enrico Cuccia, ai fini di comprendere Mediobanca.
Enrico Cuccia nacque a Roma il 24 novembre 1907 da Pietro Beniamino e Aurea Ragusa.
Compiuti gli studi classici al liceo Tasso, si laureò con il massimo dei voti in Giurisprudenza nei primi anni Trenta con una tesi sulla speculazione di Borsa. Alla fine degli anni '20 un tirocinio di 3 anni presso "il Messaggero" gli valse l'iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti.
Dopo aver trascorso un anno a Parigi presso la banca Sudameris (partecipata dalla Banca Commerciale Italiana) nel 1931 iniziò a lavorare presso la sede Londinese della Banca d'Italia.
A questi anni risalgono la stima e la considerazione di Alberto Beneduce, cui trasmetteva regolarmente relazioni e documenti. L'apprendistato londinese permise a Cuccia di affinare la conoscenza della lingua inglese, dopo quella della lingua francese appresa a Parigi, cui aggiungeva la lingua spagnola. Gli consentì inoltre di sviluppare importanti competenze tecniche, ma soprattutto di coltivare amicizie presso gli ambienti finanziari di Londra.
Dopo il rientro da Londra trascorse alcuni mesi a Parigi e nel giugno 1934 lascio la Banca d'Italia per passare all'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), chiamatovi da Beneduce, presidente dell'ente.
Nel 1936, lasciato l'IRI fu inviato in Etiopia dal Sottosegretario agli scambi e valute con il fine di contenere le spese dell'amministrazione coloniale e arginare la gestione irregolare della valuta.
Nell'ottobre 1938 Cuccia fu assunto alla Banca Commerciale Italiana dove fu incaricato di seguire il servizio estero.
Nel giugno 1939 dopo un breve fidanzamento Cuccia sposò la figlia di Beneduce Idea Nova.
Negli anni trenta, diviso tra Roma, Milano, Londra e Parigi, accumulò capitale relazionale utilissimo per la sua carriera.
Durante il regime Fascista venne chiamato da Mussolini a far parte della schiera di tecnici preposti al governo dell'economia; questo non implicò obblighi di adesione ideologica al regime, anzi in questo periodo grazie alla sua posizione di condirettore centrale addetto al servizio estero, sfruttò i suoi numerosi viaggi all'estero per realizzare delicate operazioni di collegamento tra i gruppi della resistenza e gli Alleati.
Nella formazione di Cuccia si stratificarono convinzioni e competenze che avrebbero plasmato lo stile di lavoro di Mediobanca per mezzo secolo.
Alle esperienze parigine e londinesi che gli dischiusero i mercati finanziari internazionali si deve ricondurre la cura con la quale diede a Mediobanca una dimensione non meramente nazionale fin dagli anni Cinquanta.
Cuccia fece della severità di vaglio un perno della propria filosofia, anche laddove la durezza nella selezione dei clienti poteva apparire come cautela conservatrice.
Mediobanca è rimasta una struttura ibrida fino alla privatizzazione di metà degli anni '80, con partecipazione sia pubblica che privata. Tale conformazione rispecchiava a pieno la cultura del suo fondatore: educato alla scuola statale dell'IRI e di Banca d'Italia, quanto fermo sostenitore dell'impresa privata.
CAPITOLO 2
MEDIOBANCA, L'APPRENDISTATO CON MATTIOLI
Il progetto di Mattioli e Cuccia fu presentato nell'Ottobre del 1944 e mirava ad innovare il sistema degli istituti di credito speciale creati negli anni Venti e Trenta da Beneduce con l'intento di costruire un istituto di credito mobiliare a carattere privatistico, in contrasto con la pressoché esclusiva presenza della mano pubblica nell'area del credito speciale.
Nei memoriali sottoposti alle autorità centrali si osservava che sarebbe stato opportuno integrare l'offerta di risorse degli enti Beneduce con una pluralità di istituti che consentissero di raccordare meglio le imprese industriali con il mercato dei capitali.
Il nome che Mattioli suggerì fu Unionbanca (Unione bancaria per il credito finanziario), in quanto fin dall'inizio l'iniziativa non fu vista da lui come un affare controllato dalla sola Comit, ma come un'impresa a cui avrebbero dovuto partecipare le tre Banche di Interesse Nazionale, cinque Banche di diritto pubblico, la Banca d'Italia e d'America, il Banco di Santo Spirito, le Assicurazioni Generali, la Ras, l'Ina e la Bastogi: 14 soci che avrebbero dovuto sottoscrivere un capitale di 1.250 milioni, secondo una ripartizione che avrebbe dovuto consentire alle tre banche di interesse nazionale di avere la maggioranza.
Nel primo schema di Mattioli e Cuccia la Unionbanca avrebbe dovuto avere una struttura proprietaria simile a quella degli istituti Beneduce, centrata sulla forma consortile degli enti pubblici creati negli anni '20 e '30.
La Unionbanca avrebbe offerto assistenza alle imprese nella fase di raccolta dei capitali, mediante la valutazione e selezione delle imprese sulla base delle consistenze patrimoniale e prospettive di reddito dei richiedenti.
Furono necessari otre 18 mesi di laboriose pratiche per ottenere le indispensabili autorizzazioni perché tale progetto incontrò da subito l'opposizione della Banca d'Italia di Einaudi e Menichella, le quali temevano che si volesse forzare e alterare l'ordinamento emerso negli anni Trenta, reintroducendo la banca universale mediante l'allentamento dei principi di separazione e specializzazione fissati nella legge del 1936.
Le immediate controversie con Mediobanca sugli strumenti di raccolta derivavano dall'idea che, con la ricostruzione di forme di banca mista a via Nazionale, potesse sfuggire il controllo sugli aggregati monetari e sulla raccolta del risparmio mediante una concorrenza sui tassi passivi, non regolata dall'autorità centrale.
Sin dall'inizio il progetto venne percepito come pericoloso perché rischiava di sottrarre al governatore Menichella il controllo di parte del sistema bancario.
Tuttavia, nelle intenzioni di Mattioli, c'era esattamente la finalità opposta: occorreva evitare che la congiuntura del dopoguerra riportasse le banche di credito ordinario a trasformarsi in banche d'affari.
Al fine di attenuare le resistenze e le perplessità della Banca d'Italia si insistette sulla necessità di Mediobanca quale strumento necessario a mantenere la distinzione funzionale tra il breve e il medio termine.
Quindi, Mediobanca venne presentata da Mattioli e Cuccia come una forzatura necessaria all'ordinamento emerso negli anni '30, del quale tuttavia ne avrebbe garantito il rispetto e il funzionamento.
In una lettera al Governatore Einaudi del 27 agosto del 1945, egli affermò che le banche ordinarie avrebbero continuato nel segmento del credito di esercizio e si sarebbe affidato il credito a medio termine ad un ente giuridicamente distinto.
Dopo la liberazione, Cuccia fu incaricato da Mattioli di prendere contatto con Brughera, amministratore delegato del Credito Italiano, che diede piena adesione, esprimendo però delle riserve sulla rosa dei soci.
Alla proposta originaria di Mattioli diedero del resto una risposta negativa il Banco di Roma e di Napoli.
Mattioli decise di portare aventi il suo progetto in partnership con il solo Credito Italiano. Ma, nonostante tutto, il progetto stentava a decollare.
Ai primi di maggio Mattioli sottopose una prima bozza di statuto a Einaudi, dicendosi rassegnato ad abbandonare il progetto di Mediobanca purchè lo avessero autorizzato a fare operazioni a medio termine. Da questo emerse fin da subito un'ampia indeterminatezza della gamma delle operazioni sia attive che passive.
Di fronte agli ostacoli che il progetto continuava a incontrare, Mattioli pensò che la partecipazione di un gruppo finanziario estero alla Unionbanca, avrebbe potuto rappresentare un importante incentivo a concedere le necessarie autorizzazioni.
Felix Somary, partner della Blankart et Cie di Zurigo, gli indirizzò una lettera in data
24
ottobre
Il 27 ottobre, Mattioli scrisse a Einaudi per comunicargli il testo della lettera di Somary, grazie alla quale ottenne l'esito voluto, riuscendo a vincere la riluttanza di Einaudi.
Però, si volle che l'iniziativa fosse assunta da tutte e tre le Banche di Interesse Nazionale. Alla nuova banca avrebbe dovuto partecipare anche il gruppo estero sino al 50% del capitale; al momento buono, però, Somary fornì delle dichiarazioni piuttosto vaghe che rimasero in sospeso.
L'estensione della partecipazione al capitale al Credito Italiano e al Banco di Roma, richiesta da Einaudi e Menichella, fu quindi intesa a impedire che Mediobanca potesse diventare uno strumento esclusivo della Banca Commerciale di Mattioli.
Il 7 novembre del 1945 la Direzione generale del Tesoro comunicò l'autorizzazione e il capitale della Unionbanca venne fissato in non meno di un miliardo, al quale si autorizzarono a prendere parte gruppi stranieri per una quota che non superasse la metà.
Nella fase progettuale Mattioli e Cuccia assegnarono a Mediobanca funzioni piuttosto ampie, che avevano i seguenti obiettivi: espandere l'offerta dei finanziamenti a medio e lungo termine alle imprese sulla base delle prospettive di reddito dei richiedenti, allentare il rapporto tra la concessione dei crediti e la garanzia statale, ripristinare le relazioni finanziarie e commerciale con l'estero.
Il contrasto con le autorità centrali proseguì negli anni seguenti, quando si trattò di disciplinare la forma della raccolta, ovvero il collegamento del mercato monetario con quello dei capitali.
Il via libera alla costituzione venne dato il 3 aprila 1946, con una riunione al Tesoro, presieduta da Corbino, alla presenza dei rappresentanti della Banca d'Italia, dell'Iri, dell'Imi e delle 3 banche di interesse nazionale.
Il 10 aprile 1946, dopo quasi un anno di trattative, ebbe luogo la costituzione dell'istituto: la Comit e il Credito Italiano sottoscrissero due quote al capitale del 35% e il Banco di Roma la restante quota del 30%.
La Banca d'Italia volle che Mattioli e Giovanni Stringher non entrassero nel consiglio di amministrazione e la direzione generale fu affidata a Enrico Cuccia.
L'obiettivo di Mattioli e Cuccia era in sostanza quello di ricostruire le funzioni tipiche della banca d'affari senza contrastare i principi di separazione e specializzazione del credito.
Alla prima assemblea di Mediobanca dell'ottobre 1947, Cuccia espresse le ragioni dell'istituto che dirigeva. Per la ripresa economica era sembrato essenziale la creazione di un organismo che promuovesse la formazione di un nuovo risparmio a media scadenza, volto a consentire alle imprese di riequilibrare la loro situazione finanziaria e a contribuire a contenere le richieste delle aziende entro i limiti delle esigenze a breve termine.
Dopo dieci anni di attività, la decisione di contenere entro i cinque anni le operazioni
si rivelò fondata. Mediobanca erogò complessivamente quasi 91 miliardi di finanziamenti, ripartiti per il 28,5% ai servizi di pubblica utilità, per il 23,1% all'industria chimica e farmaceutica, per il 21,1% all'industria metallurgica, meccanica, elettromeccanica e cantieristica e per il 10,4% all'industria tessile.
Mediobanca potè iniziare a operare il 16 settembre 1946.
Nei primi anni di attività ci furono lunghe trattative con la Banca d'Italia per poter estendere gli strumenti di raccolta, che rappresentavano un vincolo alla crescita operativa e dimensionale dell'istituto.
Nella fase di avvio dell'attività i finanziamenti a medio e lungo termine erano segnati da larghi e predominanti interventi statali. A fronte di 18 miliardi di obbligazioni collocate presso il pubblico, 14 miliardi erano impiegate direttamente dal Tesoro, 4 miliardi provenivano da risconti presso la Banca d'Italia, 8 miliardi erano offerti dagli istituti di credito di diritto pubblico, 13 miliardi derivavano da obbligazioni emesse da istituti a medio e lungo termine e tenute in portafoglio dalle banche commerciali (una classica doppia intermediazione), cui si sarebbero aggiunti altri 55 miliardi per il neoistituto Fim.
Il mercato dei crediti a medio e lungo termine era prevalentemente affidato all'intervento statale e Mediobanca doveva essere in grado di sviluppare rapidamente gli strumenti di raccolta previsti dallo statuto.
Durante il primo anno di attività, poco meno dell'84% dei depositi vincolati aveva un vincolo temporale compreso tra i dodici e i diciotto mesi, segno di una persistente difficoltà ad accostare il risparmio a scadenze superiori.
L'attività di Mediobanca iniziava a decollare (il primo credito di duecento milioni di lire fu concesso all'Olivetti) e Cuccia avvertiva sempre più che il rischio che una rigida limitazione della raccolta potesse pregiudicare lo sviluppo.
A tal fine il 28 gennaio 1948 Cuccia inviò una lettera a Menichella con le seguenti argomentazioni a sostegno dell'esistenza di Mediobanca: la ricostruzione post-bellica necessitava di un'estensione dell'offerta di finanziamenti per riattivare gli investimenti; contrariamente alle ipotesi pessimistiche delle autorità centrali, si sarebbe mantenuta la distinzione tra i crediti commerciali (in capo alle tre banche di interesse nazionale) e i crediti finanziari; la raccolta di risorse attraverso i certificati di deposito avrebbe consentito di mediare tra il risparmio bancario e gli investimenti delle imprese.
Cuccia chiedeva la possibilità, inizialmente non concessa, da un lato, di accedere alle operazioni di risconto presso la Banca d'Italia e le altre banche e, dall'altro, di emettere obbligazioni ipotecarie con scadenza massima di 5 anni simili alle serie speciali emesse dagli enti pubblici (Iri e Imi), quotate in borsa e dotate di agevolazioni fiscali pari a quelle riservate agli istituti di credito a medio e lungo termine parastatali.
Egli insistette sulla necessità di mantenere una netta distinzione tra quello che definisce il sistema finanziario politico e il sistema creditizio e finanziario vero e proprio.
Mediobanca, a differenza degli istituti pubblici di credito industriale, era un ente a carattere privatistico, dal momento che investiva esclusivamente denaro dei depositanti.
L'unica richiesta di Cuccia accolta da Menichella fu la quotazioni in Borsa delle azioni che avvenne nel marzo del 1956.
Nella relazione dell'ottobre del 1948 venne reso esplicito un obiettivo: la crescita operativa doveva essere affidata agli sportelli delle 3 banche azioniste, agli aumenti di capitale e alla politica degli accantonamenti.
Nei primi anni, si cercò in particolare di potenziare la capacità di collocamento di obbligazioni e azioni di imprese.
Nel 1947 curò il primo sindacato di collocamento di obbligazioni della Pirelli e dal 1948 diresse una serie di consorzi per l'assunzione a fermo e il collocamento di obbligazioni di imprese industriali.
Tra il luglio 1948 e il giugno 1949 diresse i consorzi che collocarono l'85% dei quasi 32 miliardi di lire di obbligazioni emesse da imprese private: Edison per 10 miliardi, Fiat per 5, Pirelli per 4, Sade per 4, Eridania per 3.
L'anno successivo curò il collocamento di altri 40 miliardi di lire di obbligazioni attraverso consorzi che si avvalevano, in parte maggioritaria, degli sportelli delle 3 banche di interesse nazionale (Iri-Mare per 12 miliardi, Montecatini per 6, Snia Viscosa per 6, Sade per 4).
A
partire dal 1951, iniziò a dirigere anche consorzi per il collocamento di
azioni, garantendo in quell'anno gli aumenti di capitale della Montecatini (da
Negli anni seguenti la garanzia verso i sottoscrittori per il collocamento delle emissioni di obbligazioni e azioni era estesa anche ai gruppi pubblici (Romana di Elettricità, Terni, Ilva, Vizzola, Italcementi, Iri, Fiat, Caffaro, Finsider, Finelettrica).
Nei primi anni '50 le operazioni di collocamento dirette da Mediobanca avevano consentito di raccordare una quota significativa del risparmio, propenso all'assunzione di titoli a reddito fisso, alle esigenze della ricostruzione e dello sviluppo delle grandi imprese industriali.
I crediti a medio termine erogati da Mediobanca si configuravano come prefinanziamenti alle imprese in attesa di operazioni di consolidamento dei debiti sul mercato finanziario.
Tra il 1946 e il 1955 l'attivo di Mediobanca passa da poco meno di 4 miliardi a 77,5: i crediti complessivi salgono da 770 milioni a 45,6 miliardi di lire, senza che si avvertissero tensioni di liquidità; anzi riesce a mantenere costantemente una notevole disponibilità di mezzi (a fronte di oltre 45 miliardi di finanziamenti in essere, la liquidità ammonta a quasi 29 miliardi di lire).
Nei primi anni si modifica in modo significativo la composizione dei settori finanziati: nei primi esercizi il settore tessile ricevette una quota cospicua dei crediti erogati (pari al 16%), ma nella prima metà degli anni '50 si ridusse a circa il 10%.
Nella stesso periodo, il credito ai vari comparti dell'industria metalmeccanica rimase stabile, mentre aumentò la quota dei finanziamenti all'industria chimica e farmaceutica e, gradualmente, aumentò il peso dei crediti ai servizi di pubblica utilità (elettricità, telefonia, trasporti).
CAPITOLO 3
CUCCIA BANCHIERE D'AFFARI
Alla metà degli anni '50, Mediobanca si trasformò sia sotto il profilo funzionale, divenendo banca d'affari, sia negli assetti proprietari attraverso l'allargamento (anche verso l'estero) della platea di soci, con la contemporanea quotazione in borsa (1956).
Mediobanca, in seguito a queste operazioni, si presentava come un interlocutore di estremo rilievo.
Sin dai prima anni '50, nel periodo della forte crescita dell'economia italiana, Mediobanca svolse la funzione di ponte per le imprese verso il mercato obbligazionario. Predispose, inoltre, un servizio di consulenza ed analisi per le medie e grandi imprese, nell'ottica di definire una strategia di conversione dell'istituto in un organo che soddisfacesse non solo i finanziamenti a medio termine, ma anche le funzioni di sostegno della crescita delle imprese.
Quindi, tra il 1955 e il 1966 Cuccia orientò l'istituto in una direzione che non era stata esplicitamente considerata nei disegni originari (rappresentati dai finanziamenti a medio termine). In particolare, attraverso, l'introduzione di attività di "merchant banking", quali ad esempio operazioni di collocamento di obbligazioni e aumenti di capitale dei maggiori gruppi industriali[1], nonché la diretta partecipazione al capitale delle imprese (non limitandosi quindi a finanziare gli investimenti, ma affiancandosi alla proprietà per quanto riguardava le strategie finanziarie).
Per raggiungere tali ambiziosi obiettivi, le garanzie di autonomia dell'istituto diventarono a quel punto un requisito fondamentale. La quotazione in borsa e l'ingresso di azionisti privati nel capitale furono mutamenti significativi, ma necessari.
Negli stessi anni Mediobanca si aprì ad una fase di internazionalizzazione con l'ingresso nel capitale delle banche newyorkesi di Lazard Frères & C. e di Lehman Brothers, avvenuto nel 1955.
Con tale partecipazione si prefigurava un'autentica partnership, aprendo inoltre stabilmente a Mediobanca il mercato finanziario statunitense, nonché le relazioni con le maggiori istituzioni finanziarie internazionali.
L'apporto della Lazard e della Lehman in termini di capitale fu piuttosto modesta, ma sicuramente rilevante in termini di relazioni, esperienze e conoscenze.
Durante il 1958 il controllo di Mediobanca venne allargato, oltre alla Lazard e alla Lehman, ad altre tre istituzioni finanziarie di spessore internazionale, la Lazard Brothers di Londra, la belga Sofina e la tedesca Berliner Handels-Gesellschaft.
Nello stesso anno anche la Pirelli & C. entrò in Mediobanca, assumendone il 2,35% delle azioni.[3]
Fin dal 1955 tra Mediobanca, Lazard, Lehman e Sofina (e qualche tempo dopo anche con Berliner) fu siglato un accordo di cooperazione sulle operazioni di investment banking, con cui le tre banche si impegnavano reciprocamente ad affidare, quanto meno in prima battuta, ai partecipanti qualsiasi operazione sui rispettivi mercati finanziari. Con questo accordo Mediobanca diventava quindi il referente delle banche socie per qualsiasi operazione finanziaria sul mercato italiano e del pari, Mediobanca era tenuta ad appoggiarsi alle altre banche laddove intendesse, per esempio, collocare obbligazioni di imprese italiane sui rispettivi mercati di riferimento.
Dopo
pochi mesi di accordo con la Lazard e la Lehman, Cuccia propose alle due banche
newyorkesi di partecipare ad un consorzio di garanzia per un aumento di
capitale da
La reputazione di Cuccia e di Mediobanca sulla piazza di New York e, più in generale, sulla scena finanziaria internazionale si consolidò rapidamente in quei mesi. Nelle relazioni della finanza statunitense con gli ambienti economici italiani Cuccia divenne pressoché subito un riferimento di assoluto rilievo.
Si ricorda inoltre che nella seconda metà degli anni '50 Mediobanca acquisì interesse o costituì in proprio società e istituti di credito per operare in aree per quali si andavano definendo impegnati programmi di investimenti per lo sviluppo, anche nei mercati medio-orientali e soprattutto in quelli africani.
Sin dall'inizio degli anni '60, la domanda di credito dei grandi gruppi privati a Mediobanca aumentò in seguito della decrescente disponibilità della borsa a sostenere gli investimenti.
Da quel momento Mediobanca intervenne in misura crescente nella riorganizzazione dei gruppi privati, promuovendo fusioni e incorporazioni, razionalizzazione degli impianti e ristrutturazione delle imprese.
Cuccia e Mediobanca non offrivano solo servizi di consulenza tipici di una banca d'affari, ma di fatto disegnarono linee di politica industriale, intervenendo sulla riorganizzazione delle capacità produttive dei gruppi e sui settori da promuovere, ma anche con l'effetto di ridurre, talvolta, gli esigui margini di concorrenza esistenti in un sistema tendenzialmente collusivo.
Il potere di intervento sugli assetti produttivi dei settori presidiati dalla grande impresa derivava a Mediobanca da complessi sistemi di coalizione. Infatti, le partecipazioni dirette, gli incroci azionari e le sottoscrizioni di patti parasociali consentivano di rafforzare la funzione di banca d'affari esercitata da Mediobanca, facendone un partner di lungo termine delle imprese.
Alla fine degli anni '50 alcune operazioni studiate da Mediobanca permisero ai maggiori gruppi di consolidare i propri debiti e stabilizzare gli assetti proprietari mediante catene societarie, intrecci azionari e patti parasociali. La politica di Cuccia fu in tal senso orientata a finanziare soprattutto le grandi imprese private.
Mentre il mercato finanziario italiano rallentava nei primi anni '60, per Mediobanca si profilava l'occasione di una grande operazione: la nazionalizzazione dell'industria elettrica e la conseguente conversione delle società elettriche in società finanziarie di re-investimento.
L'immissione degli indennizzi nelle casse delle società ex elettriche, dovuta alla nazionalizzazione dell'industria elettrica[4] avvenuta nel 1962, fu una straordinaria operazione di allocazione di risorse da un settore maturo ad un settore in espansione e permise di accrescere la capacità di finanziamento dei progetti di investimento negli impianti petrolchimici in costruzione e progettati.
Di lì a poco, a Cuccia venne affidato il compito di mettere a punto il progetto di fusione della Montecatini con la Edison. Si voleva far confluire la liquidità degli indennizzi della Edison nelle vuote casse della Montecatini, schiacciata dai debiti. La più grande fusione fino allora realizzata in Italia tra imprese industriali, fu studiata e perfezionata da Cuccia durante il 1965 e portata a termine l'anno successivo.
Lo schema di fusione prevedeva il mantenimento delle due strutture organizzative originarie, così da tutelare le rispettive dirigenze, con l'effetto però di duplicare funzioni e responsabilità. La fusione tra la Montecatini e la Edison rilevò le concrete difficoltà incontrate da Cuccia a trovare uno schema di governace che permettesse di razionalizzare una serie di partecipazioni incoerenti sia sotto il profilo dei prodotti sia delle tecnologie. La persistente rivalità tra le due strutture manageriali e l'impossibilità di ottenere l'effettiva cooperazione tra gli azionisti privati e pubblici (l'Iri possedeva una quota rilevante del capitale della Montedison ereditata dalla partecipazione alla Montecatini) impedirono di razionalizzare le produzioni, disperse su larga gamma di comparti produttivi (dalla chimica all'alimentare, dalle miniere alle assicurazioni).
Mentre si metteva a punto la fusione tra Montecatini e Edison, Mediobanca venne chiamata anche ad assistere la Olivetti, che nel 1964 versava in condizioni finanziare difficili, rendendo necessarie una radicale ristrutturazione aziendale ed una revisione dei progetti di investimento. Il gruppo di salvataggio composto dalla Fiat, dalla Pirelli e dall'Imi (Istituto Mobiliare Italiano), venne coordinato da Mediobanca, che impose lo scorporo e la vendita alla General Electric della divisione elettronica, per i cui prodotti (i computer) non si vedeva realisticamente prospettive per un'impresa italiana. Il coordinamento delle operazioni di salvataggio della Olivetti da parte di Mediobanca, aveva essenzialmente mirato a salvaguardare la posizione di principale azionista della famiglia più che tutelare un rilevante patrimonio di ricerca e investimenti in un settore tecnologicamente di frontiera.
CAPITOLO 4
UN "CENTAURO META' PUBBLICO E META' PRIVATO"
Dalla metà degli anni '60 la situazione finanziaria delle grandi imprese italiane subì un deterioramento ed un processo di involuzione.
Questa fase ebbe conseguenze dal punto di vista finanziario, quali l'allungamento delle scadenze dei prestiti richiesti dalle imprese e la rapida contrazione dei margini di profitto ed autofinanziamento delle imprese stesse, in contrasto con la crescita del costo del lavoro e delle immobilizzazioni tecniche.
Nello stesso tempo Mediobanca aveva serie difficoltà nella raccolta di depositi a termine per il rialzo e la segmentazione dei tassi.
Nel 1972 Cuccia capì che, in una situazione in cui il mercato azionario aveva perso attrazione e il sistema creditizio era diventato "un ponte" tra la raccolta di risparmio e l'emissione di obbligazioni, una banca mista avrebbe trovato condizioni favorevoli.
Negli anni '70 Mediobanca intraprese una nuova politica orientata alla redistribuzione dei finanziamenti da settori che conoscevano grandi difficoltà verso settori colpiti in minor misura dalla riduzione della redditività, o perche protetti dalla concorrenza internazionale,
o perchè legati ad una spesa pubblica robusta.
Mediobanca ridusse quindi l'esposizione verso settori in cui la redditività delle imprese appariva in calo e soggetta a sensibili variazioni di costo della materia prima
(particolaremente il settote petrolchimico).
La composizione settoriale dei crediti venne rivista secondo un principio di diversificazione: la meccanica e la metallurgia che nel '66 avevano finanziamenti per oltre 1/4, nel '70 raggiunsero quote inferiori a 1/5 ed anche i finanziamenti alle imprese chimiche si contrassero gradualmente (dal 19% del '66 al 11% dell'80); tornarono invece a crescere i finanziamenti alle imprese di pubblica utilità (tra il '60 e il '65 scesero dal 20 % al 2,4%, successivamente risalirono al 10%) e ci fu una crescita di finanziamenti alle imprese attive nell'edilizia (dal 2% del 1965 al 10% del 1980).
La vera novità della seconda metà degli anni '60 in termini di settori finanziati fu rappresentata dai crediti alle esportazioni, il cui peso sui finanziamenti complessivi vide un aumento fino a coprire quasi il 35% del totale.
Tra il '66 e il '79 Mediobanca si trovò in una buona posizione nel settore del credito industriale perché poteva offrire alle imprese indebitate competenze specifiche, poteva sostenere programmi di ristrutturazione aziendale e poteva favorire i primi tentativi per stabilire alleanze o accordi produttivi internazionali.
Le imprese si trovarono di fronte a grandi difficoltà che il sistema finanziario non riusciva a risolvere. Mediobanca disponeva di risorse materiali, specifiche professionalità e competenze tecniche nella ristrutturazione delle aziende, fondamentali per il riassetto delle grandi imprese.
Cuccia cominciò a offrire assistenza alle aziende secondo criteri di esclusività e discrezionalità, estendendo in quegli anni la propria influenza sui maggiori gruppi industriali che richiedevano i servizi e le competenze di Mediobanca.
Quindi alla fine degli anni '70 i vantaggi offerti da Mediobanca erano la disponibilità di risorse in una fase di scarsità di capitali di rischio, le competenze professionali dell'Istituto e le relazioni internazionali di Cuccia.
Inoltre, la capacità di raccogliere dati e informazioni sulle maggiori imprese, studi di settore e dinamiche macroeconomiche, sono tutti elementi che permettevano a Mediobanca di acquisire un'ampia conoscenza dell'andamento delle imprese italiane.
Questa fase florida portò Mediobanca a una posizione dominante sul mercato italiano per le attività di merchant banking, alla creazione di un gruppo con competenze professionali e alla crescita del personale da 140 dipendenti nel '66 a 260 nel '70.
Cuccia tentò di dare ai maggiori gruppi industriali italiani un respiro più marcatamente internazionale, mediante accordi e alleanze che permettessero di conservarne la posizione sulla scena produttiva interna ed estera, convinto che fosse necessario preservare la competitività dei grandi gruppi in una fase di elevata incertezza e turbolenza dei mercati dei fattori produttivi.
Coesione e stabilità di Mediobanca
Dagli anni '70 Mediobanca divenne un soggetto chiave per il mantenimento degli equilibri all'interno del nucleo centrale del capitalismo italiano, favorendo tendenzialmente la stabilità degli assetti proprietari esistenti e riducendo il grado di contendibilità delle grandi imprese, accentuando inoltre la tendenza collusiva presente tra i maggiori gruppi.
La necessità di coordinare gli investimenti in un contesto di scarsità di capitali di rischio che aveva motivato un sistema altamente collusivo si tradusse, a lungo andare, in un freno all'innovazione delle imprese, in termini di prodotto e processo, determinando la progressiva perdita di competitività delle imprese italiane.
Alla vocazione conservatrice di Mediobanca si dovrebbe attribuire una parte non irrilevante di responsabilità nella performance negativa delle grandi imprese italiane in termini di innovazione e competitività sui mercati interno e internazionale.
Alla metà degli anni '60 Mediobanca assunse partecipazioni rilevanti e impegni consistenti nella chimica con la fusione tra Edison e Montecatini (Montedison).
Tuttavia l'aumento dei costi delle materie prime e delle capacità produttive su scala internazionale e l'assenza di riorganizzazione della Montedison portarono ad un peggioramento della situazione economica del gruppo. In questa crisi intervenne Cuccia promuovendo la scalata alla Montedison dell'ENI ('68) di Eugenio Cefis. Anche in tal caso Mediobanca rimase il perno degli accordi tra azionisti pubblici e privati.
Le relazioni di Cuccia con la finanza americana permisero a Mediobanca di allargare gli orizzonti delle maggiori imprese italiane.
Nel 1962 Cuccia fece cooptare Giovanni Agnelli (allora presidente dell'Ifi) nel consiglio di Mediobanca, convinto che fosse necessario stringere rapporti con la famiglia che deteneva il controllo della Fiat in vista della prossima fine della presidenza di Valletta, meno sensibile verso il "boss di Mediobanca". In quel periodo Cuccia aveva inoltre seguito e consigliato Agnelli consentendo di allargare il portafoglio di partecipazioni dell'Ifi.
Nel 1967 vennero avviate trattative tra la Fiat e la Citroën. L'accordo, sostenuto da Mediobanca, prevedeva che le due società arrivassero fino alla fusione: la Citroën, afflitta da debiti e perdite, avrebbe conferito competenze tecniche e progettuali nei segmenti alti di mercato, mentre la Fiat avrebbe investito risorse finanziarie e competenze commerciali.
Nel '68 per effetto dei vincoli posti da De Gaulle sulle possibilità che la Fiat acquisisse l'effettivo controllo della Citroën, si pervenne ad un accordo che limitava la partecipazione al 15 %.
Tuttavia nel '70 la partecipazione della Fiat nella Citroën arrivò al 49%, ma i legami azionari non diedero i concreti risultati attesi e l'alleanza si esaurì con lo scioglimento degli accordi nell'ottobre 1973.
Tra il '70 e l'81 Mediobanca promosse un'alleanza tra la Pirelli e la Dunlop, la Pirelli-Dunlop Union; questa non era però l'esito di una vera e propria fusione tra le due imprese quanto piuttosto una semplice alleanza priva di un'adeguata integrazione organizzativa, afflitta peraltro da costanti attriti tra il management delle due società.
Nel '75 Mediobanca intervenne sulla crisi di Montedison e Fiat, entrambe colpite da debiti.
Per la Montedison Mediobanca e l'Imi studiarono un piano di ricapitalizzazione che consentisse di non alterare l'equilibrio tra soci privati e soci pubblici.
Per ciò che concerne la Fiat, invece, nel '76 ci fu un accordo con la Lybian Arab Foreign Investment Company (Lafico), che operò un investimento pari al 9,7% del capitale Fiat. Tale partecipazione faceva parte delle operazioni con cui Mediobanca cercava di connettere i gruppi privati italiani ai mercati internazionali o con accordi che consentissero di salvaguardare dimensione e competitività delle imprese (come era accaduto per la Citroën e la Dunlop) o attraverso la raccolta di capitali di investitori esteri.
L'apporto di capitali Libici non fu però sufficiente a rilanciare il gruppo Fiat, infatti nell'86 cessò la partecipazione della Lafico a causa della crisi tra Usa e Libia.
La ristrutturazione vera e propria avvenne nell'80 con "la marcia dei quarantamila", quando Cesare Romiti acquisì la leadership della società.
Con Romiti, Cuccia prese le decisioni fondamentali sui settori da rafforzare e su quelli da tagliare, riorganizzando la struttura finanziaria della società con prestiti obbligazionari e aumenti di capitale.
La collaborazione di Mediobanca per il riassetto ed il rilancio della Fiat assunse negli anni Ottanta i tratti di un rapporto quasi di simbiosi, per certi versi di dipendenza.
CAPITOLO 5
UN BANCHIERE SCHUMPTERIANO?
La critica principale che sorse negli anni '80 a Mediobanca è che l'istituto non si comporta come il "banchiere di Schupeter": non sostiene cioè le imprese innovative e dinamiche, ma mira a garantire le posizioni delle grandi famiglie a discapito dell'efficienza delle imprese e dei diritti degli azionisti di minoranza (ricadute negative sull'intero sistema industriale italiano).
Consente alle grandi famiglie di mediare tra i propri interessi ed impedisce l'ingresso di soggetti nuovi che potrebbero alterare l'equilibrio.
Cuccia si mostra attento alla qualità dei ceti dirigenti del paese, in una fase di netto aumento della pressione e delle inframmettenze dei partiti politici sul sistema delle partecipazioni statali, sostenendo che bisogna creare anche in Italia quello che esiste in Germania ed in altri Paesi dell'occidente, ossia una solidarietà più forte fra le imprese, all'interno del sistema industriale-finanziario e che gli imprenditori prima o poi dovranno rendersi conto che hanno dei doveri l'uno verso l'altro, il dovere di difendersi dall'esterno, di aiutarsi, di considerare l'economia italiana come un'unica azienda, che deve esser fatta funzionare bene a vantaggio di tutti.
Cuccia cominciò a considerare gli effetti distorsivi indotti dalla diffusione del credito agevolato e dall'affermazione di valutazioni extraeconomiche nelle decisioni di finanziamento e salvataggio delle imprese. Colse, quindi, la necessità di procedere a ristrutturazioni aziendali e riassetti finanziari (ottobre 1979).
Secondo una linea costantemente seguita, ciò avrebbe richiesto un ulteriore irrobustimento delle strutture patrimoniali, a presidio dei relativi rischi, anche a costo di dover ridurre la remunerazione del capitale dell'istituto. L'attenzione di Cuccia andava alla qualità dei criteri di valutazione dei meriti di credito (o salvataggio) delle imprese; da questa prospettiva era necessario ricondurre i finanziamenti a criteri di valutazione rigorosi, riportare in un'economia di mercato investimenti che erano tenuti in piedi unicamente da immissioni di capitali destinati ad essere distrutti dalle perdite gestionali, talvolta largamente superiori ai costi del personale.
L'analisi condotta su un ampio campione di grandi imprese, indicava, alla fine degli Anni Settanta, una situazione finanziaria ed economica per molti versi allarmante: di fronte alla persistenza di risultati economici negativi, Cuccia rilevava una certa "assuefazione alle perdite" che produceva un inquinamento dei criteri imprenditoriali e gestionali di larghi settori produttivi. La stagflazione degli ultimi anni e il deterioramento della posizione finanziaria delle imprese, secondo Cuccia, aveva modificato la funzione stessa degli istituti di credito a medio/lungo termine con effetti negativi sulla qualità dei finanziamenti e degli investimenti correlati.
Si rendeva pertanto necessaria una diversa disciplina del settore che tendesse anche a ristabilire, con i suoi meccanismi, un graduale ma deciso riequilibrio tra l'indebitamento a medio e lungo termine, i flussi di cassa prodotti dall'autofinanziamento e lo sviluppo dei mezzi propri.
Nella sostanza, il risanamento finanziario delle imprese doveva ristabilire un adeguato equilibrio tra mezzi propri e mezzi di debito, reintrodurre criteri rigorosi di valutazione dei progetti di investimento, riallacciare uno stabile rapporto tra le imprese e il risparmio mediante i prestiti obbligazionari. Dai primi Anni Ottanta, Mediobanca si dedicò alle emissioni di obbligazioni con rinnovato vigore, sia per consolidare il debito delle grandi aziende, sia per raccogliere direttamente risorse in alternativa ai certificati di deposito collocati dalle reti delle banche di interesse nazionale.
Il collocamento dei prestiti obbligazionari da parte dei consorzi promossi e diretti da Mediobanca trovava tuttavia un freno nella dilatazione della quota del debito pubblico finanziato mediante titoli a breve e medio termine. Lo spiazzamento operato dallo Stato sul mercato delle obbligazioni a danno delle imprese induceva a considerarne con attenzione gli effetti sulla capacità dell'industria italiana di mantenere gradi di competitività in una fase di integrazione dei mercati internazionali.
Dalla metà degli Anni Ottanta, la crescita delle transazioni e l'aumento di spessore del mercato finanziario italiano, dopo un'interruzione più che ventennale, diedero modo alle imprese di raccogliere risorse mediante l'emissione di obbligazioni ed aumenti di capitale da destinare a collocamenti sul mercato.
Mediobanca potè mettere nuovamente a frutto la propria esperienza e competenza professionale, la propria capacità di collocamento mediante la promozione e la direzione di consorzi di collocamento e garanzia. Nel 1986 promosse e diresse 52 consorzi per un importo di circa 8459 miliardi di lire; in particolare garantì operazioni sul capitale mediante offerte in opzione di azioni e obbligazioni convertibili per conto di 37 consorzi e organizzò 15 consorzi per il collocamento di valori immobiliari.
Intorno alla metà degli Anni Ottanta, Cuccia, pur consapevole della vitalità delle piccole e medie imprese, sosteneva la rilevanza della grande impresa quale soggetto centrale della crescita economica, nella convinzione che il risanamento economico delle imprese in crisi rappresenti un obiettivo la cui importanza va molto al di là degli interessi particolari di coloro che più da vicino sono toccati dalle vicende aziendali; e ciò soprattutto quando sia in gioco la sopravvivenza di gruppi che, per i settori in cui operano e per le loro dimensioni, qualificano la presenza italiana nel contesto economico internazionale. Sosteneva che era necessario supportare le poche grandi imprese esistenti con la strumentazione disponibile, almeno finchè i mercti finanziari fossero stati un efficiente e consistente canale di finanziamento degli investimenti industriali.
Mediobanca continuò così nella ristrutturazione e nel rilancio dei grandi gruppi industriali, come la Fiat e la Montedison, anche attraverso la partecipazione azionaria diretta. In particolare, Mediobanca promosse l'uscita della mano pubblica dalla Montedison, coinvolgendo i maggiori gruppi privati italiani: la famiglia Agnelli, i Pirelli, gli Orlando ed i Bonomi; la ricapitalizzazione e il riassetto proprietario della Montedison furono studiati da Cuccia a premessa della razionalizzazione delle produzioni e degli impianti del gruppo. Il riassetto fu condotto, da un lato, attraverso la dismissione delle produzioni ritenute non strategiche e, dall'altro, attraverso la riorganizzazione delle società chimiche e delle società finanziarie e di servizi (impegnativo programma di ristrutturazione del mix produttivo e di recupero di efficienza).
Negli Anni Ottanta, Mediobanca sostenne anche la Olivetti e la Pirelli.
La posizione di Mediobanca nel sistema finanziario italiano emergeva in termini non tanto quantitativi, ossia di risorse intermediate, quanto piuttosto in termini qualitativi: infatti, il suo ruolo era fondamentale per la costante presenza dell'istituto nelle grandi operazioni di riallocazione proprietaria e riassetto organizzativo e finanziario delle grandi imprese.
In questi anni, Mediobanca non si limitò a sostenere e difendere l'esiguo nucleo di grandi imprese private e i gruppi di controllo che si erano formati sotto la supervisione di Cuccia, ma prese anche a valutare con attenzione le prospettive di crescita di imprese italiane in settori tecnologicamente avanzati, come l'elettronica. Cuccia osservò che la ricerca e la sperimentazione delle nuove tecnologie richiedono investimenti di un ordine di grandezza compatibile soltanto con il fatturato delle grandi multinazionali. E' per questo motivo che le intese tra industrie italiane e partner esteri si vanno intensificando in diversi settori, offrendo inoltre nuove opportunità di espansione delle nostre imprese sui mercati terzi. Le relazioni con i suoi tradizionali corrispondenti esteri permettevano a Mediobanca di svolgere un ruolo importante nel favorire una sempre maggiore integrazione internazionale, dall'estero e verso l'estero.
La contrazione dei crediti forniti da Mediobanca sul totale dei finanziamenti degli istituti di credito era segno della decisione di concentrare il sostegno alle imprese nei settori che presentavano potenzialità di ripresa e reffitività.
La quota dei finanziamenti erogati alla chimica si contrasse nell'arco di 15 anni da poco più del 10% a sino meno del 5% nel 1990, mentre i finanziamenti alle imprese dei comparti meccanico-metallurgico furono alzati sino al 24% nel 1990.
Tra il 1975 e il 1990 si registrò una sensibile contrazione dei finanziamenti alle esportazioni ed un graduale riequilibrio della composizione settoriale dei finanziamenti a vantaggio delle imprese attive nei servizi pubblici. Tale netta contrazione dei finanziamenti alle esportazioni appare più che compensata dalla crescita dei finanziamenti alle società finanziarie: nell'arco di un solo decennio i finanziamenti alle società finanziarie passarono dal 7,5% del totale al 37,5 % nel 1990, circa un terzo dei crediti complessivamente erogati.
Questi due principali mutamenti nella composizione settoriale dei finanziamenti ( il forte aumento dei crediti alle imprese di public utilities e alle società finanziarie) indicano un ripiegamento di Mediobanca dai settori ad elevata intensità di capitali e tecnologia che erano stati prediletti negli Anni Cinquanta e Sessanta e che erano stati significativamente ridimensionati dalle difficoltà insorte durante la difficile congiuntura della stagflazione.
Dalla metà degli Anni Ottanta si registrò una modificazione rilevante non solo nell'attivo, ma anche nei canali e negli strumenti di raccolta di Mediobanca. Sino a quel momento la quota di gran lunga prevalente della raccolta dell'istituto era stata offerta dai depositi vincolati; con l'espansione del mercato finanziario interno, Mediobanca colse l'occasione di sviluppare la provvista di risorse mediante emissione di proprie obbligazioni, una fonte di raccolta che sarebbe stata prevalente nel successivo decennio.
La privatizzazione di Mediobanca
Le difficoltà delle imprese industriali private dei primi Anni Settanta comportarono un allargamento dell'area delle imprese pubbliche, ma anche una perdita della funzione di integrazione dinamica delle imprese private che aveva marcato i primi decenni post-bellici. La valutazione dell'efficienza degli enti e delle imprese delle partecipazioni statali espressa da Cuccia nelle relazioni di bilancio di Mediobanca divenne sempre più apertamente negativa.
Nell'ottobre 1983 egli rilevava: nei sette anni compresi tra il 1975 ed il 1981 le imprese pubbliche avevano investito mediamente un importo pari al 6,7% del fatturato dell'esercizio precedente contro il 5,9% delle maggiori imprese private e il 5,5% delle imprese di minori dimensioni; per contro, le imprese pubbliche avevano registrato mediamente un incremento del margine operativo lordo del 10,9% degli investimenti effettuati, contro il 26,8% delle maggiori imprese private ed il 44,9% di quelle di minori dimensioni. Da questi dati, Cuccia dedusse che le imprese che investivano con maggior parsimonia investivano anche con maggiore attenzione e che la condizione critica in cui versavano le imprese pubbliche era in parte da ascriversi ad errori di scelta e dimensione degli investimenti.
Di fronte a pressioni politiche sull'autonomia decisionale delle imprese pubbliche, la decisione di privatizzare Mediobanca fu intesa come un passaggio obbligato per conservare l'autonomia operativa e strategica dell'istituto.
La necessità di preservare l'autonomia di Mediobanca discendeva anche dalla considerazione che si dovesse mantenere ampia autonomia nella selezione dei dirigenti in una fase di intenso ricambio dei vertici: infatti, tra il 1977 ed il 1987 si avvicendarono alla presidenza 4 soggetti.
Nel settembre del 1982 Cuccia si dimise da amministratore delegato. Sostituito nella carica da Silvio Salteri, ne rimase però consigliere anziano e autorevole membro del comitato esecutivo.
Nel marzo 1987 alla presidenza di Mediobanca fu nominato Antonio Maccanico, cui si affidava il compito di mediare con i partiti politici al fine di sottrarre l'istituto da ingerenze esterne mediante la privatizzazione. L'obiettivo di fondo era difendere l'autonomia di Mediobanca da qualsiasi interferenza, qualunque fosse il suo assetto azionario.
La privatizzazione di Mediobanca fu portata a termine nel 1988 secondo lo schema di compromesso definito con Prodi: le quote detenute dalle banche di interesse nazionale furono ridotte e, contemporaneamente, nuovi soci privati, quali gli Agnelli, le Assicurazioni Generali e La Fondiaria, i Ferrero, i Marzotto e Stefanel, entrarono nel patto di sindacato.
CAPITOLO 6
LA CENTRALITA' CONTESTATA
Completata la privatizzazione di Mediobanca (1988) il vertice dell'istituto fu riorganizzato, nominando alla presidenza d'onore Cuccia (in qualità di consulente), alla presidenza Francesco Cìngano e come amministratore delegato Vincenzo Maranghi. Le relazioni di fiducia e stima esistenti tra Cuccia, Cìngano e Maranghi erano tali da poter gestire l'istituto in una fase di profondi mutamenti con un alto grado di coesione, garantendo così la piena autonomia di ciascuno senza che tuttavia la leadership di Cuccia venisse in qualche modo intaccata o diminuita, soprattutto in funzione di garanzia verso gli azionisti di controllo.
Dopo la privatizzazione Mediobanca dovette affrontare un difficile passaggio nei rapporti con l'Iri. Il rinnovo della convenzione venne affidato dalle banche ad Antonio Zurzolo che, sollecitato da Giulio Andreotti, intendeva lasciare che la convenzione giungesse a scadenza per mettere in difficoltà la banca milanese costringendola così a dover chiedere il rinnovo da una posizione contrattuale debole[5]. Secondo le ricostruzioni giornalistiche nel giugno del 1990 Cuccia, reduce da un importante intervento chirurgico, si sarebbe mosso tra Milano e Roma per incontrare il segretario socialista Bettino Craxi al fine di scongiurare il rinnovo senza troppi rischi. Il sostegno di Craxi permise di vanificare i disegni democristiani consentendo a Sergio Siglienti, Presidente della Banca Commerciale Italiana, di sostenere il rinnovo della convenzione con lievi modifiche.
[Le privatizzazioni riguardarono Mediobanca in un duplice senso: da un lato l'istituto possedeva quelle competenze che permettevano di presentare le imprese da collocare sul mercato ai potenziali investitori professionali e non; dall'altro Mediobanca aveva interesse a partecipare direttamente alla proprietà delle maggiori banche azioniste dell'istituto così da rafforzare se stessa mediante un classico sistema di partecipazioni incrociate (ottenne un'influenza sufficiente sulla Banca Commerciale e sul Credito Italiano).]
Un nodo cruciale nelle vicende Mediobanca degli anni Novanta fu senz'altro costituito dalla privatizzazione delle banche di interesse nazionale quali la Banca Commerciale ed il Credito Italiano (che detenevano una quota rilevante del capitale della banca in via Filodrammatici). Mediobanca suggerì una propria offerta discussa nel luglio 1993 tra Cuccia ed il presidente dell'Iri Prodi: Cuccia prevedeva la formazione di un nucleo duro di azionisti stabili che doveva controllare tra il 15 ed il 25 per cento delle due banche, prevedendo la successiva OPV[6] e contestuale ricapitalizzazione con un aumento di capitale in due tranche. Secondo Cuccia le due banche erano sia sottocapitalizzate, in seguito alla crisi della Federconsorzi, dell'Efim e del gruppo Ferruzzi Montedison che gravate da partecipazioni a bassissima redditività per non puntualizzare il fatto di essere mal gestite da anni. Conclusione negativa era che appunto nessun folle poteva acquistarle così com'erano. Ma con lettera datata 6 agosto 1993 Prodi riaffermava la sua convinzione che fosse preferibile tentare la carta della pubblic company così da poter fare della privatizzazione delle banche dell'Iri non solo un'occasione di alleggerimento della finanza pubblica ma anche un momento di riforma dei mercati interni. La privatizzazione delle due banche avvenne come stabilito da Prodi, ma Mediobanca fu tuttavia in grado di acquistare in un primo tempo il controllo di fatto della Banca Commerciale (la logica dell'istituto era quella di rafforzare la capacità di raccolta di risorse da parte delle due banche milanesi da porre poi a disposizione dei progetti di espansione di Cuccia) e successivamente l'effettivo controllo all'interno di una più ampia coalizione di potere economico la c.d. Galassia del Nord (Mediobanca, Assicurazioni Generali, Banca Commerciale, Credito Italiano).
Nell'aprile
Nella seconda metà degli anni Novanta, alle ripetute difficoltà incontrate nella gestione delle principali partecipazioni, si accompagnarono conflitti e malumori all'interno delle dirigenza di Via Filodrammatici. Il processo di concentrazione e le fusioni bancarie, come per esempio la crescita dimensionale del Credito Italiano e la successiva aggregazione con istituti regionali (Crt e Cariverona) allentò l'efficacia della presa di Mediobanca sulla nuova banca Unicredito Italiano.
Nei mesi precedenti la morte di Cuccia, avvenuta per arresto cardiaco il 23 giugno 2000, la compattezza e la coesione all'interno della compagine di controllo di Mediobanca si incrinarono apertamente per effetto del passaggio della quota della Banca Commerciale nel portafoglio di Banca Intesa e delle divergenze emerse tra gli aderenti al patto sindacale. La vulnerabilità di Mediobanca non poteva tuttavia considerarsi una sorpresa, se si considerano alcuni dei suoi ultimi progetti non andati a buon fine (come per esempio il non aver seguito l'accordo della Fiat con la General Motors) ed inoltre alla presenza sempre più accentuata del nuovo quadro normativo e la riduzione dei meccanismi di protezione dei mercati nazionali. In effetti tutto ciò rischiava di provocare un netto declino dell'istituto milanese tanto da fargli conquistare solo una posizione marginale rispetto ai principali competitori stranieri e italiani.
Anche la Legge Amato-Carli[8] del 1993 provocò qualche disguido tanto che il direttivo di Mediobanca cercò di mantenere una posizione dominante nel sistema bancario nazionale valorizzando ulteriormente i propri legami internazionali, nonostante l'operatività diretta nei mercati italiani di gruppi finanziari esteri quali banche statunitensi, britanniche e tedesche. Il dato più rilevante è rappresentato dall'aumento, verso la fine del decennio, della capacità delle imprese di raccogliere direttamente risorse sui mercati finanziari, soprattutto mediante emissioni obbligazionarie. Ne derivò un indebolimento relativo di Mediobanca come soggetto finanziatore dei grandi gruppi industriali che poterono ridurre la dipendenza dal sistema bancario che era stata invece particolarmente forte durante gli anni Settanta e Ottanta.
Le crisi industriali e Mediobanca: la Montedison e la Fiat
La
crisi delle grandi imprese nei primi anni Novanta e nei primi anni del nuovo
millennio (la grave crisi della Fiat di Paolo Cantarella e l'insolvenza della
Parmalat di Calisto Tanzi) misero in luce in modo nuovo le forme di intervento
di Mediobanca nelle operazioni di salvataggio e ristrutturazione delle imprese,
aiutando a chiarire l'approccio dell'istituto agli aspetti tecnologici e
produttivi delle imprese. Occorre però osservare che fin dall'inizio Mediobanca
aveva evitato di assumere responsabilità di carattere gestionale per rivolgere
le sue attenzioni solo verso le strategie finanziarie e verso le iniziative che
potevano toccare la compagine azionaria e l'assetto proprietario. Comportamento
comunque coerente con la diffidenza di Cuccia nei confronti della dimensione
tecnologica e produttiva delle imprese. (Interessante
l'intervento di Cuccia nel
Era stato quindi adottato un metodo di azione che escludeva l'impiego di figure professionali esperte di tecnologia, la cui competenza principale doveva essere l'analisi di bilancio. Da ciò discendeva l'idea che si dovesse rispettare la distinzione dei compiti e delle responsabilità tra gli industriali ed i banchieri.
E nonostante il parere di alcuni critici che considerava tale approccio operativo causa di alcuni dei fallimenti di valutazione riscontrati e nonostante la ristrettezza dei criteri di stima dei finanziamenti, Mediobanca aveva costantemente condotto una politica propria tanto da conquistare la reputazione di banca unica per capacità di vaglio e qualità dei servizi riconosciuta a livello internazionale.
Per quanto fosse centrale in forza del peso delle azioni detenute, la sicurezza di Mediobanca non era comunque tale da evitare una eventuale tendenza, da parte degli assetti azionari dei maggiori gruppi, di sottrarsi all'influenza dell'istituto milanese nelle fasi di crescita e redditività, salvo poi ritornare e chiedere risorse e sostegno nei momenti di crisi. Si pensi ad alcuni episodi quali:
la scalata di Schimberni alla Bi-Invest con il tentativo di trasformare Montedison in una pubblic company senza l'influenza Mediobanca;
il tentativo di scalata alla tedesca Continental da parte di Pirelli su suggerimento di Michelin all'inizio degli anni novanta, ma con successiva richiesta di aiuto a Mediobanca per la necessaria ristrutturazione per via delle difficoltà finanziarie incontrate lungo il cammino.
Altri episodi di "pronto intervento" furono quelli in occasione di due delle maggiori crisi finanziarie nel 1993 del gruppo Ferruzzi Montedison e della Fiat. Queste richiesero l'intervento di Mediobanca perché si assumesse il compito di coordinare il salvataggio e le operazioni per la loro ricapitalizzazione. L'intervento dell'istituto, insieme a numerose altre banche creditrici, comportò la trasformazione di un'alta quota dei crediti in partecipazioni azionarie e la contestuale definizione di nuovi equilibri azionari. Con il salvataggio della Ferruzzi Montedison ed il riassetto della Fiat si delinearono strategie di intervento destinate a mutare il tipo di relazione tra le banche e le grandi imprese industriali, comportando così l'ingresso dopo oltre mezzo secolo degli istituti di credito nel capitale delle imprese.
MONTEDISON: nel giugno 1993 il gruppo Ferruzzi Montedison si dichiarò insolvente (indebitata per quasi 32000mld di lire) e chiese l'aiuto di Mediobanca. Un debito stravagante che comportava però la presenza di ben 311 banche.
Con la ricostruzione del gruppo, coordinata appunto da Mediobanca, le banche creditrici non solo rinunciarono ad una parte dei crediti ma convertirono i crediti inesigibili in partecipazioni azionarie. Le quattro maggiori banche - Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano, Banca di Roma, Istituto San Paolo - si trasformarono così in azionisti di controllo attraverso accordi insieme a Mediobanca. Con la nuova denominazione Compart il gruppo fu risanato in seguito alla cessione delle attività chimiche alla Shell nel 1997.
FIAT: in questo caso la riorganizzazione condotta da Mediobanca fu incentrata su un aumento di capitale per 4200mld di lire, in seguito al quale emerse un patto di sindacato che limitava il ruolo della famiglia Agnelli sostituita dal Lei stessa con Generali, Deutsche Bank e Alcatel a fianco dell'Ifi e dell'Ifil. Negli anni seguenti con la ricostruzione questo patto si trasformò da sindacato in uno semplice di consultazione al quale Mediobanca non aderì ma si dichiarò disponibile ad un qualsiasi intervento in caso di bisogno. Giovanni Agnelli divenne così di nuovo in possesso dei suoi più ampi poteri.
Nel marzo 2002 la Fiat cadde di nuovo in una grave crisi. La sua situazione finanziaria originava dalla crescita dell'indebitamento con cui il gruppo aveva perseguito una strategia di diversificazione attraverso acquisizioni in settori correlati e non al core business. Nel 2001 i debiti della Fiat erano ulteriormente incrementati per acquisire il controllo della Montedison in antitesi alla stessa Mediobanca, riuscendoci nell'agosto. Ma l'indebitamento congiunto ed i pessimi risultati di gestione imposero un accordo tra Fiat e le banche creditrici che mettevano a disposizione un prestito di 3mld di euro convertibili poi in azioni a scadenza. L'indebitamento continuava però ad essere appesantito dalla costante perdita di redditività e quote di mercato della Fiat Auto. Necessaria la consultazione a Mediobanca per la definizione di un piano di risanamento al fine della ricapitalizzazione del gruppo.
La centralità di Mediobanca, nella gestione di questa ultima crisi Fiat, fu tuttavia ridimensionata dalle altre banche che con il sostegno della Banca d'Italia si mossero indipendentemente da Maranghi secondo una logica che tendeva ad enfatizzare la funzione di tutela e difesa delle imprese del Paese.
Le competenze di Mediobanca tornarono alla ribalta in occasione dell'ultimo dissesto finanziario degli ultimi anni: la crisi Parmalat. Nel luglio 2003 una delle società di analisi economica controllata da Mediobanca fu la prima ad esprimere valutazioni negative sulle prospettive del gruppo Calisto Tanzi. La stessa famiglia Tanzi non potendo onorare un bond in scadenza dicembre 2003 si rivolse a Mediobanca per ottenere aiuto e fu Alberto Nagel, che nel frattempo aveva succeduto Maranghi nel ruolo di Direttore Generale, a mettere al corrente i banchieri italiani più esposti delle drammatiche condizioni del gruppo (in passato si ricorda che Tanzi aveva già contattato Mediobanca perché accettasse il ruolo di seguire le operazioni finanziarie, ma data la situazione dei bilanci l'istituto milanese declinò l'offerta!).
Metamorfosi o declino?
Concludendo è doveroso sottolineare che nonostante la capacità nel risollevare aziende importanti da gravi crisi, il rischio di declino di Mediobanca venne indicato in modo piuttosto chiaro sin dai primi anni Novanta quando si comprese che gli impulsi congiunti della globalizzazione e dell'integrazione europea stavano pian piano modificando in profondità il contesto generale in cui Mediobanca aveva operato nei decenni precedenti e che quindi la centralità dell'istituto in quel delicato segmento dell'attività bancaria del merchant banking veniva messo seriamente in discussione..
Nell'arco di circa un decennio Mediobanca cessò così di essere quell'istituzione unica che era stata per circa 40 anni il c.d. salotto buono del capitalismo italiano (istituzione a cui i maggiori gruppi affidavano il compito di stabilizzare i propri assetti proprietari mediante incroci azionari e patti parasociali di coalizione. Una realtà incentrata sulla tutela e sulla stabilità delle imprese più che sulla concorrenza).
Alla scomparsa di Cuccia, nel giugno 2000, il tentativo di Maranghi di mantenere pressoché inalterata la filosofia di Mediobanca in un quadro generale profondamente differente, anzitutto per i mutati rapporti tra il management e gli azionisti di controllo, non poteva non andare incontro al fallimento. Il mutamento di quadro emerso dai primi anni novanta imponeva, per contrastare il rischio di declino, il completamento della metamorfosi di Mediobanca in istituzione finanziaria non più centrale nel sistema delle imprese, ma in grado di definire per sé nuovi obiettivi di crescita, come per esempio l'offerta di credito e servizi alle medie imprese, da un lato e lo sviluppo del credito al consumo dall'altro.
CAPITOLO 7
UN PROFILO QUANTITATIVO
L'analisi dell'attivo di Mediobanca pone in evidenza, in primo luogo, la marcata crescita del totale sino alla metà degli Anni Settanta, una graduale progressione fino alla seconda metà degli Anni Novanta per conoscere poi una netta impennata a fine secolo.
Per quanto concerne la liquidità nel lungo periodo, le disponibilità di Mediobanca conoscono un'interessante espansione nei primi tre decenni, tanto che questo suscitò attenzione presso la Vigilanza della Banca d'Italia nei primi Anni Cinquanta, poiché si ritenne la liquidità di Mediobanca troppo accentuata per sembrare un fenomeno del tutto naturale. Dalla fine degli Anni Settanta la liquidità appare costantemente ridotta in rapporto alle altre forme di impiego effettivo delle risorse, nonostante lievi accenni ricorrenti di recupero.
La voce comprendente i titoli appare attorno alla metà degli Anni Cinquanta e permane su livelli relativi oltre modo contenuti sino agli Anni Novanta, quando le partecipazioni iniziano a crescere più delle altre voci principali.
Le tendenze riscontrabili nell'andamento delle voci del passivo mostrano mutamenti nelle strategie di provvista delle risorse da parte di Mediobanca; emerge infatti una chiara tendenza a rafforzare i mezzi propri quale perno dell'istituto, una politica, questa, inaugurata negli Anni Cinquanta. La politica di rafforzamento patrimoniale perseguita è stata favorita dalla privatizzazione e dalla contestuale crescita dello spessore del mercato di borsa italiano, in cui le banche hanno sin dall'inizio acquisito una posizione di rilievo.
Le variazioni maggiori nei canali di provvista di risorse sono riferite a due voci: i depositi vincolati e le obbligazioni, il cui andamento nel tempo venne condizionato in misura decisiva dal regime fiscale di remunerazione dei depositi, da un lato, e dalla capacità di assorbimento del mercato dall'altro. La tendenza alla crescita della raccolta attraverso l'emissione di obbligazioni delineatasi fin dalla metà degli Anni Settanta si trasformò in necessità a partire dalla fine degli Anni Novanta allorchè fu modificato il trattamento fiscale dei certificati di deposito: un decreto legge del 1996 elevò infatti la ritenuta sugli interessi dei certificati di deposito con durata superiore ai 18 mesi dal 12,5% al 27%, mentre non apportava alcuna variazione alla tassazione dei proventi derivanti da obbligazioni e titoli pubblici. Il trattamento differenziato tra forme di risparmio del tutto analoghe, secondo Mediobanca, avrebbe avuto serie conseguenze sulla composizione della raccolta, poiché riguardava uno strumento che rappresentava quasi un quarto delle risorse complessive delle banche italiane e che per Mediobanca costituiva la tradizionale forma di provvista. Dal 1996 Mediobanca fu così indotta a ricorrere ampiamente ad emissioni obbligazionarie che avessero caratteristiche tali da poter intercettare quote di risparmio in concorrenza, almeno inizialmente, con i titoli pubblici. Il movimento ascendente delle obbligazioni quale strumento di raccolta, dalla metà degli Anni Settanta, destinato a sopravanzare i certificati di deposito, è tuttavia segnato da fasi di rallentamento, più accentuato nel caso della raccolta sull'interbancario, che tende in ogni caso a crescere a tassi particolarmente alti lungo tutti gli Anni Novanta.
I finanziamenti erogati da Mediobanca fino agli Anni Sessanta indicano la tendenza a sostenere largamente i settori in cui la ricerca era cruciale per determinare la competitività e l'efficienza dinamica delle imprese. Il dato è in linea dunque con l'idea che Mediobanca avrebbe conseguito un certo successo nel sostenere e consolidare le imprese più innovative e dinamiche nei primi due decenni di attività, ripiegando poi su settori meno innovativi nelle fasi seguenti.
Dai dati emerge una contrazione dei crediti all'industria chimica, che passano da valori superiori al 20% negli Anni Sessanta a valori prossimi al 10% nel decennio successivo, portati a circa il 5% nel 1990; tale contrazione fu compensata dalla scelta di conservare il livello dei finanziamenti all'industria meccanica-metallurgica su valori prossimi o superiori al 20%.
Analizzando la ripartizione settoriale dei finanziamenti con riguardo al grado di concorrenza esistente nei vari comparti, si osserva che la contrazione dei crediti ai servizi di pubblica utilità (settori protetti) avvenuta con la nazionalizzazione dell'industria elettrica fu in parte recuperata dagli Anni Settanta con i finanziamenti nei trasporti e nelle telecomunicazioni, in altra parte ottenuta attraverso l'espansione dei finanziamenti alle imprese di costruzioni ed edili.
Nell'insieme, i finanziamenti a settori che possono essere ritenuti complessivamente semicompetitivi mostrano la tendenza a una graduale diversificazione a partire dagli Anni Sessanta, mentre in precedenza apparivano concentrati in due gruppi principali: 1) meccanica, metallurgia, elettromeccanica e cantieristica; 2) chimica e farmaceutica.
La
maggiore novità degli ultimi 15 anni è infine rappresentata dai finanziamenti
alle società finanziarie, la cui quota è salita da meno del 10% nel
La ripartizione settoriale dei finanziamenti concessi da Mediobanca indica che non è infondata la tesi che essa avrebbe favorito, in modo positivo, la coesione delle grandi imprese negli Anni Cinquanta e Sessanta, ma non sarebbe stata in grado di assecondarne la capacità innovativa e competitiva nella successiva fase di aumento dell'integrazione dei mercati internazionali.
Meno netto è il giudizio che si può dare invece sulle capacità selettive di Mediobanca, in considerazione della sostenuta redditività e della quota pressoché nulla delle perdite: sotto questo profilo, Mediobanca avrebbe saputo selezionare la propria clientela industriale e valutarne il merito di credito in modo assolutamente eccellente.
Nel 1956 i primi tre settori finanziati da Mediobanca erano: i servizi di pubblica utilità (29,4%), l'industria chimica e farmaceutica (26,4%), l'industria metallurgica, meccanica, elettromeccanica e cantieristica (21,1%). Con la nazionalizzazione dell'industria elettrica, avvenuta nel 1962, si ridussero i finanziamenti alle imprese attive nei servizi di pubblica utilità.
Nelle esperienze di analisi dei programmi industriali e finanziari delle imprese si erano messe a punto le competenze professionali necessarie a trasformare Mediobanca da istituto di credito a medio termine in banca di affari. Tale cambiamento si completava con l'assunzione di partecipazioni azionarie di minoranza, ma per quote significative, in numerose società: Montecatini, Bastoni, Sade, Fondiarie Vita e Incedio (1955); Assicurazioni Generali, Caffaro, Finsider, Italgas (1956); Snia Viscosa (1959); Pirelli spa, Stet (1960); Mondadori (1963); Fiat (1956); Olivetti (1966).
Si venne inoltre a creare un equilibrio all'interno del comitato di direzione di Mediobanca tra soci pubblici e privati, anche se la quota di capitale detenuta dalle tre banche di interesse nazionale era di gran lunga maggioritaria (poco al di sotto della maggioranza assoluta). Il primo Comitato di direzione in seguito all'ingresso dei nuovi soci era così composto: Mattioli (Banca Commerciale), Foscolo (Banco di Roma), Stringher (Credito italiano e Pirelli), Furstemberg (Berliner Handels-Gesellschaft), René Mayer (Lazard Frères & C., di Lehman Brothers, Sofina).
Con la nazionalizzazione dell'industria elettrica non vennero nazionalizzate le società, ma furono espropriati gli impianti e le reti di distribuzione dell'energia, al fine di conferirli ad un nuovo ente: l'Enel. A fronte di tale espropriazione le società ricevettero indennizzi per 1500 miliardi di lire corrisposti in venti rate semestrali.
Sia Zurzolo che Andreotti avevano avuto attriti in passato con Mediobanca: il primo in occasione del suo ruolo di direttore generale nella sede di via Verdi, il secondo ostile a Cuccia e agli interessi di Mediobanca.
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La legge Amato-Carli venne emanata con l'intendimento di rafforzare la struttura patrimoniale delle banche pubbliche e quindi di favorire l'allargamento qualitativo e quantitativo della loro operatività. Venne individuato nella società per azioni la struttura più adatta a organizzare ogni tipo di attività imprenditoriale e a promuovere la riallocazione delle risorse in un sistema economico-finanziario di cui era necessario migliorare l'efficienza e la flessibilità.
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