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L'economia italiana dopo l'unità
Lo Stato italiano dopo l'unità aveva realizzato la sua coesione territoriale, ma era privo di potenza
economica, finanziaria, militare e doveva superare una grave crisi interna (conflitto con la Chiesa, divergenza
tra nord e sud, brigantaggio).
Il primo provvedimento per iniziare la costruzione del nuovo Stato fu quello di uniformare gli aspetti
amministrativi, fiscali, legislativi ed economici, utilizzando dapprima le tariffe doganali del Regno di Sardegna
e in seguito unificando il sistema amministrativo e il codice civile. Dal punto di vista finanziario, si adottò il
sistema bimetallico con la lira italiana come moneta e si mantennero cinque banche di emissione: Banca
Nazionale Sarda (poi del regno d'Italia), Banca Nazionale Toscana e Banca Toscana di Credito (che nel 1893
si fonderanno con la Banca Nazionale per formare la Banca d'Italia), Banco di Napoli e Banco di Sicilia.
Anche la Banca Romana poteva emettere moneta, ma fu liquidata nel 1893 a causa di un gravissimo
scandalo finanziario. La più importante tra queste era comunque la Banca Nazionale, che assunse le funzioni
di banca centrale.
Per risolvere il problema della finanza pubblica si decise di accollare al nuovo Stato i debiti pubblici degli
antichi, ma in questo modo il bilancio restò sempre gravemente in passivo. Per colmare la differenza non era
possibile ricorrere alle imposte e ci si dovette quindi servire dei prestiti, che oltre a perdere ben presto buona
parte del loro valore furono acquistati prevalentemente da compratori esteri. Questo espose il credito dello
Stato alle speculazioni che i possessori stranieri potevano operare, come infatti accadde con la crisi del
1865-66, in cui tornarono in Italia molti titoli di credito in cambio di oro che iniziò a scarseggiare e costrinse
il governo a decretare nel 1866 il corso forzoso (l'inconvertibilità delle banconote in oro).
Per risolvere la crisi e riportare in pareggio il bilancio era indispensabile aumentare le entrate. Prima di tutto
si aumentarono le tasse, come quella sul macinato (estremamente impopolare ma che dette entrate molto
rilevanti). Poi si vendettero i beni demaniali, quelli confiscati alla Chiesa e le ferrovie statali ai privati. Queste
vendite ebbero alterna fortuna, in quanto i terreni andarono ad accrescere i grandi latifondi senza apportare
grossi guadagni allo Stato e la crisi delle ferrovie costrinse quest'ultimo a rilevarle di nuovo nel 1868.
Comunque la situazione finanziaria cominciò a migliorare e si ritornò alla convertibilità sul finire degli anni
'70, che fece sparire l'aggio dell'oro sulla carta e rivalutò immediatamente la lira del 10% con aumento delle
importazioni e diminuzione delle esportazioni. Questa temporanea crisi fu superata presto grazie ai benefici
della soppressione del corso forzoso: i capitali stranieri ritornarono in quantità determinando un forte rialzo
delle quotazioni dei titoli e un forte ribasso dei tassi di interesse.
Lo Stato italiano dovette preoccuparsi anche di sistemare le vie di comunicazione. A questo scopo prioritaria
era la costruzione di una rete ferroviaria, impresa che inizialmente fu propria dello Stato, poi nel 1865 fu
affidata a società private a larghissima partecipazione straniera e infine nel 1905 lo Stato riassunse l'esercizio
e la proprietà della quasi totalità delle ferrovie.
Era necessario anche ammodernare le comunicazioni navali, da sempre di grande importanza nello Stato
italiano. La flotta italiana era la terza in Europa, ma era formata da navi a vela e dal 1870 il vapore iniziò a
prevalere su quest'ultima. L'arretratezza dei cantieri italiani non permetteva la costruzione di navi a vapore e
quindi gli armatori si rivolgevano all'estero. Lo Stato dovette intervenire con forti sovvenzioni e con premi di
costruzione e navigazione, che sortirono gli effetti sperati.
Ferrovie e marina mercantile furono molto importanti per lo sviluppo dell'industria metallurgica e meccanica,
tanto che nel 1914 erano il settore industriale più importante. Tuttavia bisogna ricordare la grandissima
importanza che aveva l'agricoltura nell'economia italiana, che fece in modo che le prime industrie furono
quelle di trasformazione dei prodotti alimentari e quelle tessili (cotone e lana), che si allocarono
specialmente al nord a causa della ricchezza dell'acqua usata come forza motrice per le macchine ed ebbero
un notevole impulso grazie alla politica protezionistica. L'industria della seta invece non si sviluppò che
marginalmente.
Nonostante l'impulso che le industrie meccaniche e metallurgiche ebbero grazie alle costruzioni ferroviarie e
marittime, esse rimasero di dimensioni molto inferiori rispetto a quelle degli altri Paesi industrializzati, tanto
che ad esempio la quasi totalità delle locomotive e la maggior parte delle carrozze furono acquistate
all'estero. Questa situazione di inferiorità derivava, oltre che dalla scarsezza di capitali e l'arretratezza delle
tecniche, soprattutto dalla mancanza del ferro e del carbone. Solo la politica protezionistica e l'intervento
diretto dello Stato riuscirono a far sviluppare l'industria metallurgica (Terni, Falck, Bagnoli), anche se i costi
di produzione erano così alti che i prodotti esteri riuscivano ad essere concorrenziali nonostante l'elevatezza
del dazio. Dal canto suo, l'industria meccanica al momento dell'unità era quasi interamente artigianale, ma
grazie alle commesse militari anch'essa si sviluppò, senza contare altri settori come quello ciclistico, delle
macchine da scrivere e da stampa e infine quello automobilistico.
L'aumento della popolazione e l'urbanesimo furono essenziali per lo sviluppo massiccio che conobbe l'edilizia,
così come le industrie ad essa correlate.
Anche la produzione di elettricità (soprattutto idroelettrica) si sviluppò notevolmente, mentre in misura
minore si estese l'industria chimica.
Questo sviluppo industriale, pur limitato, ebbe come effetto l'aumento del commercio con l'estero, sia per
l'importazione di materie prime che per l'esportazione dei prodotti finiti, agricoli e industriali.
La politica economica italiana, all'inizio libero-scambista, divenne ben presto protezionista per favorire lo
sviluppo dell'industria e dell'agricoltura nazionali, con interventi nel 1878 e nel 1887 per contrastare il
fenomeno mondiale della caduta dei prezzi. Alcuni Stati godevano di trattati commerciali favoriti, come
l'Austria Ungheria, mentre quello con la Francia non andò in porto e anzi causò una aspra guerra
commerciale che terminò solo nel 1898 e che danneggiò entrambi i Paesi, tanto che il periodo 1888-1893 fu
definito come uno dei più critici per l'economia italiana. A testimonianza di questa crisi c'è l'aumento
dell'emigrazione che fu ingente soprattutto per le regioni più povere. L'agricoltura e l'industria quindi si
trovarono in grosse difficoltà nonostante la protezione doganale.
Un'altra causa di questa depressione fu la gravissima crisi che colpì il sistema bancario, a causa dello stretto
legame che le banche avevano con le industrie alle quali avevano fornito prestiti a lungo termine. Le
difficoltà che incontrarono i vari settori industriali si ripercuoteva quindi anche sulle banche, molte delle quali
crollarono nonostante l'aiuto della Banca Centrale. Il caso emblematico è quello della Banca Romana, che
stampò biglietti con lo stesso numero di serie per raddoppiare di nascosto l'emissione. Lo scandalo derivante
dall'inchiesta Biagini (dal nome del funzionario che lo rivelò) scoppiò nel 1892 e portò al riordino del sistema
bancario: la Banca Nazionale assorbì la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito e si
trasformò in Banca D'Italia, mentre la Banca Romana fu liquidata. Le banche di emissione rimasero quindi
solo la Banca D'Italia, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia, ma la prima aveva una posizione preminente.
Verso la fine del secolo quindi questa riorganizzazione del sistema bancario e la fine della crisi internazionale
permisero anche all'Italia di entrare in un periodo di prosperità, quando la sua economia cercava di darsi una
forma moderna pur tra mille difficoltà. Nonostante questo, la condizione dei braccianti agricoli e degli operai
restava misera e durissima, favorendo la nascita di associazioni per la difesa degli interessi comuni. La nuova
economia fu la causa dell'associazionismo, in quanto creò un nuovo ceto di operai proletari che si riunivano
per il riconoscimento dei propri diritti contro la classe degli imprenditori capitalisti. A partire dagli anni '70
nuovi economisti chiedevano una politica protezionista che favorisse la produzione nazionale e diminuisse la
disoccupazione, mentre molto più radicale era Bakunin, che riteneva indispensabile distruggere le istituzioni
esistenti che impedivano di edificare una società migliore e più giusta. Il socialismo prendeva piede e anche i
cattolici erano favorevoli ad una migliore condizione per gli operai, mentre nel 1889 furono resi legali gli
scioperi e i sindacati (la Confederazione Generale del Lavoro nacque nel 1906, il Segretariato Generale dei
sindacati cattolici nel 1909 e Unione Sindacale Italiana, di matrice rivoluzionaria, nel 1914).
I notevoli progressi economici ottenuti prima della Prima Guerra Mondiale non furono però sufficienti a
rendere l'Italia un Paese industrializzato, anzi esso restava ancora arretrato, legato all'agricoltura nonostante
alcuni settori moderni come quelli metallurgici e meccanici.
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