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Gli anni della grande depressione del mondo capitalista - Il crollo della Borsa di New York

economia



Gli anni della grande depressione del mondo capitalista


Il crollo della Borsa di New York

Il crollo di Wall Street fu il primo segnale della "grande depressione del mondo capitalista. I risparmiatori

infatti furono attirati dalla Borsa tanto che l'indice generale dei prezzi quasi triplicò tra il 1927 e il 1929. La

causa di questi acquisti di azioni non era quella della ricerca di dividendi, quanto la prospettiva di un

guadagno immediato di capitale tramite le speculazioni, senza preoccuparsi della solidità dei titoli. Le

speculazioni erano favorite anche dalle dichiarazioni ottimistiche sul futuro dell'economia da parte degli

uomini d'affari che possedevano pacchetti azionari e obbligazionari e dai discorsi di prosperità del



neo-presidente H. C. Hoover. Anche l'inflazione ebbe un ruolo importante: la Federal Riserve aveva

acquistato sul mercato un gran quantitativo di titoli di stato per far calare il tasso di interesse, immettendo

una grande quantità di liquidità che fu subito investita in azioni. All'inflazione si aggiunsero le facilitazioni

creditizie concesse dal Sistema della Riserva Federale: 121c28b le banche chiedevano prestiti alla Federal Riserve

Bank che a loro volta prestavano agli agenti di cambio (brokers). Questi ultimi facevano credito ai clienti che

intendevano acquistare azioni chiedendo come garanzia solo quella degli stessi titoli acquistati. In caso di

ribasso del mercato borsistico, gli agenti avrebbero immesso sul mercato i titoli in garanzia, contribuendo ad

accentuare la fase calante della Borsa.

Da una parte aumentava la liquidità, dall'altra diminuivano le azioni. Nei primi mesi del 1929 il governo

avvertì la pericolosità della situazione e tentò di ridurre la massa monetaria in circolazione aumentando il

tasso di sconto al 6%, ma senza risultati. Il 24 ottobre 1929 (il famoso giovedì nero) scoppiò il panico per

l'improvvisa vendita di circa 13 milioni di azioni a fronte di una domanda nulla. I prezzi crollarono, e

l'intervento di sei grandi banche di New York che acquistarono azioni ebbe solo risultati temporanei. Lunedì

28 ottobre il disastro fu completo. I prezzi crollarono della metà, e dal quel momento fino al 1932 la marcia

al ribasso fu inarrestabile. La Federal Riserve Bank, nel tentativo di aumentare la liquidità, diminuì il tasso di

sconto fino al 1,5%, ma senza risultati. L'intera economia entrò in un gravissimo processo deflazionistico che

fu il peggiore mai avvenuto negli Stati Uniti: dal 1929 al 1932 il reddito nazionale diminuì del 38%.

La depressione negli Stati Uniti

Le perdite causate dal crollo della Borsa colpirono imprese ed investitori privati, che si trovarono a corto di

liquidità e non potevano né pagare i debiti né acquistare alcun bene. La conseguenza fu il crollo di

produzione e consumi. La maggior parte degli operai fu licenziata e coloro che mantennero il lavoro

percepivano salari irrisori. La disoccupazione era aggravata dal fatto che già prima della crisi di Borsa molti

settori della produzione erano ormai saturi. Le importazioni e le esportazioni crollavano, come i prezzi e le

produzioni. Gli investimenti erano rarissimi e molte banche fallivano. In particolar modo furono colpite le

piccole banche legate all'agricoltura locale, che fu la più danneggiata dalla crisi. I contadini non potevano

vendere le loro merci e quindi non potevano neanche saldare i debiti con le banche.

Negli Stati Uniti i grandi interessi capitalistici, la psicologia delle masse e le particolari strutture finanziarie e

bancarie furono cause cumulative della crisi. Le autorità monetarie non furono in grado di trovare tempestive

soluzioni, anche perché il capitalismo liberale allora imperante escludeva qualsiasi intervento statale a

sostegno dell'economia.


La crisi internazionale

La grande depressione si estese dagli Stati Uniti a tutto il mondo capitalista. La contrazione del commercio e

dell'attività di prestito internazionali incisero profondamente sul mercato mondiale. Il prestito estero era già

diminuito quando i capitali si erano spostati verso il mercato interno attirati dalle speculazioni borsistiche. A

soffrirne fu soprattutto la Germania, che per evitare l'inflazione che sarebbe stata causata dall'espansione

creditizia sul mercato interno a compensazione dei mancati prestiti, mantenne la politica deflazionistica per

restare fedele alla base aurea. In questo modo a causa della diminuzione degli investimenti esteri in

Germania e negli altri Paesi calarono le importazioni e la produzione industriale. Come corollario crebbe

inevitabilmente la disoccupazione. Anche i Paesi più poveri risentirono degli effetti della crisi, perché

basavano la loro economia sui prestiti americani e perché le loro materie prime non avevano più mercato.

L'immediata reazione alla crisi fu il protezionismo per difendere l'agricoltura e l'industria nazionali. Nel 1931

Austria e Germania dichiararono di voler costituire un'unione doganale per superare le crescenti difficoltà

economiche in cui si dibattevano, ma questo annuncio creò preoccupazione negli ambienti finanziari

mondiali. Furono ritirati i fondi investiti in quei Paesi, causando il fallimento della Kreditanstalt austriaca e

forti perdite d'oro alla Reichsbank tedesca. Molte banche tedesche perdettero liquidità, rialzarono i tassi di

sconto al 10% e bloccarono i crediti esteri. Di conseguenza, 70 milioni di sterline di capitali inglesi a breve

termine rimasero congelati nelle banche tedesche. Le banche straniere inevitabilmente disinvestirono dalle

sterline all'oro, causando l'abbandono dei pagamenti in oro (e quindi del gold standard) da parte di questa

moneta che libera di fluttuare si svalutò del 40%.

L'abbandono del gold standard da parte dell'Inghilterra segnò la fine del sistema del gold exchange

standard, che pure aveva in qualche modo funzionato. Alla fine del 1931 si crearono tre gruppi di Paesi:

quelli ancora legati al gold standard, quelli che avevano liberamente svalutato e quelli che, legati

economicamente alla sterlina, avevano ancorato la propria valuta a quella inglese (sterling exchange

standard). I Paesi fedeli al gold standard (Stati Uniti, Germania, Francia, Belgio, Olanda, Italia e Polonia)

furono costretti ad adottare misure eccezionali per mantenere in equilibrio importazioni ed esportazioni, in

quanto nei Paesi che avevano svalutato il livello dei prezzi all'esportazione era al di sotto di quelli dei Paesi a

gold standard. Tra queste misure ricordiamo il controllo dei cambi, l'aumento delle tariffe doganali e

l'estensione del sistema dei contingenti d'importazione.

Le potenze mondiali tentarono nel 1933 di trovare una soluzione alla crisi con una conferenza a Londra, ma

alla vigilia gli Stati Uniti abbandonarono il gold standard con il risultato che il dollaro iniziò a fluttuare. La

conferenza, che aveva come scopo quello di fissare un rapporto stabile tra i valori del dollaro, del franco e

della sterlina, si chiuse quindi con un fallimento. Ogni Paese ripiegò quindi su politiche proprie tese a

sostenere la domanda interna a spese se necessario del commercio internazionale, mentre la scena politica

era in fibrillazione con l'invasione della Manciuria da parte del Giappone, l'avvento di Hitler al potere e

l'attacco italiano all'Abissinia.


Le cause della grande depressione

Il ritardo che accusava la scienza economica, ancora legata al liberismo senza limiti, fu uno dei fattori che

aumentarono la gravità della crisi, alla cui base si trovava certamente un eccesso di offerta da parte dei

settori produttivi tradizionali e quindi una riduzione delle occasioni di investimenti industriali.

Il primo settore la cui produzione superò la domanda fu senza dubbio l'agricoltura, la cui importanza era

ancora rilevante nell'economia mondiale. Ad esempio, la produzione mondiale di frumento cresceva

notevolmente a causa delle nuove colture del Canada, dell'Australia, degli Stati occidentali degli Stati Uniti

ma soprattutto dell'URSS, che invase il mercato con ingenti esportazioni. I prezzi diminuivano e le scorte

aumentavano, mentre i governi cercavano di disfarsene con sussidi all'esportazione e imponendo limiti

all'importazione. La situazione era simile anche per altre materie prime: la produzione eccedeva la domanda,

i prezzi crollavano e i Paesi produttori si trovavano in grosse difficoltà. Questa situazione fu definita

"deflazione strutturale". La vulnerabilità dei Paesi produttori si manifestò in tutta la sua gravità quando

cessarono i prestiti stranieri (in particolare americani) e la domanda di importazioni americane a causa della

crisi che aveva colpito gli Stati Uniti. Per evitare l'esaurimento di oro e divise con le quali dovevano finanziare

i debiti (non potendo più contare sui prestiti stranieri) questi Paesi adottarono misure straordinarie come

tariffe, contingenti d'importazioni, svalutazione del cambio.

Ovviamente la crisi di questi Paesi si rifletté anche sulle loro importazioni: ora non erano più in grado di

importare manufatti, per cui si ridussero le possibilità di espansione dei Paesi industrializzati. Si instaurò

quindi un circolo vizioso cumulativo che provocò la crisi depressiva mondiale.

Ma l'origine della crisi va ricercata negli Stati Uniti. Essi erano lo Stato guida dell'economia mondiale, a cui

inflissero un duro colpo con il ritiro dei prestiti esteri nel 1928-29 che colpì prima i Paesi produttori di materie

prime e poi quelli industrializzati, secondo il meccanismo già descritto. A questo si aggiunse il crollo della

Borsa di New York che comportò la definitiva flessione dell'economia mondiale. A questa crisi "congiunturale"

fece da sfondo una "deflazione strutturale", conseguenza dell'eccessiva potenzialità produttiva che l'industria

e l'agricoltura avevano raggiunto a livello mondiale, mentre le politiche economiche capitalistiche tradizionali

non seppero fronteggiarla adeguatamente.





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