Nonostante il progresso scientifico e
tecnologico, una grave piaga affligge ancora il mondo: quella della fame.
Dallo Zambia al Madagascar, dallo Zimbawe alla Somalia, al Malawi, paesi che
a malapena sapremo indicare sulla carta geografica, milioni di persone sono
affamate e 24 mila, dicono le statistiche, m 919d36j uoiono, ogni giorno, a causa
della sottoalimentazione.
La globalizzazione dell'economia, così foriera di trasformazioni migliorative
anche per i paesi poveri, non ha ridotto il fenomeno, anzi, secondo molti,
l'ha acuito.
Sulle cause della fame nel mondo si possono formulare varie
ipotesi.
La prima, che definirei "terzomondista", considera la fame delle
popolazioni del Terzo Mondo come effetto dello sfruttamento economico
esercitato dall'opulento Occidente, come squilibrio prodotto da un'economia
disordinata e violenta quale quella capitalista.
Altri vedono nella fame l'esito della sconfitta di quella parte del mondo,
che non ha voluto o non ha saputo adeguarsi al rigoglioso sviluppo delle
società contemporanee, che ha segnato il passo al cospetto dell'espansione
industriale e tecnologica propria delle economie più dinamiche.
Autorevoli commentatori rilevano, invece, nell'insostenibile incremento
demografico delle popolazioni dei paesi più arretrati economicamente la causa
principale del loro deficit alimentare.
Costoro riportano in auge la vecchia teoria e i vecchi incubi di Malthus: le
risorse alimentari del pianeta sono insufficienti perché, mentre la
produzione conosce una progressione aritmetica, la popolazione aumenta in
modo geometrico.
Personalmente, ritengo sia un probabile errore ritenere
responsabile del problema unicamente l'uomo bianco, il capitalismo, il
colonialismo, le multinazionali, la mondializzazione; l'esperienza mi porta a
sospettare che a volte persino la vittima non sia del tutto innocente, che
potrebbe essere invece, almeno in parte e in qualche occasione, responsabile
della propria condizione.
Sappiamo infatti che in molti paesi sottosviluppati prosperano la corruzione,
i pregiudizi, l'analfabetismo, le guerre tribali, oppure, semplicemente,
modelli culturali non adattivi, inidonei a tener testa ai cambiamenti del
mondo contemporaneo.
Detto questo, corre l'obbligo imprescindibile a tutto il
mondo "ricco" di aiutare chi è in difficoltà. Il soccorso ai più
deboli, la solidarietà, la riduzione delle diseguaglianze sono valori
intrinseci alla migliore tradizione occidentale.
L'aiuto fornito ai dannati della terra deve essere tangibile, concreto e non
soltanto espresso da parole, buoni propositi o discorsi retorici.
Per esempio, inviando generi alimentari per superare le emergenze, sostenendo
lo sviluppo economico dei paesi poveri, modernizzandone l'economia e, in
primo luogo, l'agricoltura; esportando conoscenze e tecnologie, battendo
l'ignoranza, migliorando le condizioni igieniche e sanitarie, la cui
precarietà oggi favorisce lo sviluppo di terribili epidemie.
E poi cancellando il debito dei paesi maggiormente in difficoltà, rimuovendo
il protezionismo che ne penalizza le esportazioni, incentivando il controllo
delle nascite, rimuovendo gli ostacoli di natura culturale e religiosa.
Contrastare i regimi politici corrotti e autoritari, combattere le mafie
locali sarebbero altre strade praticabili, altri provvedimenti opportuni ed
efficaci. Non avere pregiudiziali e ricorrere, almeno in caso di necessità,
ai cosiddetti alimenti geneticamente modificati.
La questione della fame riguarda da vicino noi del Nord del
pianeta. E' un problema urgente, la cui soluzione non può essere dilazionata
se si vuole fronteggiare stabilmente l'immigrazione incontrollata,
clandestina, quasi minacciosa di torme di affamati; se si vuole sperare di
battere definitivamente il terrorismo internazionale che dei problemi dei
poveri dice di essere paladino.
Ma soprattutto, vedere, nell'altro che soffre, se stessi, è un'esigenza
morale cui l'uomo moderno non riesce ancora facilmente e fortunatamente a
sottrarsi.
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