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"Partecipazione al capitale azionario ed aiuti di Stato"

politica



"Partecipazione al capitale azionario ed aiuti di Stato"




1. La partecipazione azionaria dello Stato in una impresa


Uno degli accorgimenti di cui gli Stati sono soliti avvalersi per aiu­tare le imprese nazionali e, soprattutto per preservarne i posti di lavoro- accorgimento che si è rilevato tra i più distorsivi della concorrenza - è consistito nell'acquisizione e nella partecipazione al capitale di imprese in difficoltà: acquisizione che, implicando iniezioni di capitale fresco, può, consentire alle imprese in «temporanea difficoltà» di ritrovare la necessaria concorrenzialità e, alle imprese in «crisi strutturale», di so­pravvivere.

La Commissione ha preso in considerazione la partecipazione al ca­pitale azionario di una impresa quale forma di «aiuto» sin dal 1972. Già nella «Seconda relazione sulla politica di concorrenza», aveva evidenzia­to come « la neutralità affermata dal Trattato (art. 222, CEE) riguardo al regime della proprietà degli Stati membri non dà a questi ultimi, per il potere che essi hanno di intervenire nella proprietà dei mezzi di produ­zione, la facoltà di sviluppare delle azioni che, svolte con altre tecniche di intervento, sarebbero incompatibili con gli artt. 92 e seguenti in quanto falsano la concorrenza degli scambi intracomunitari». Il Trattato aveva lasciato agli Stati membri la facoltà di creare imprese e di partecipare ad alimenti di capitale di imprese esistenti; gli Stati non possono tuttavia avvalersi di detta facoltà per aggirare il divieto di concedere aiuti di cui all' art. 92 del Trattato. Soprattutto negli anni'80, la Commissione ha condannato l'acquisizione da parte dello Stato di quote di imprese in difficoltà in una serie di Decisioni adottate in applicazione all'art. 92. In effetti, premesso che non tutte le operazioni in cui lo Stato parte­cipa al capitale azionario di un'impresa sono riconducibili ad agevola­zioni, risulta difficile contestare il carattere di «aiuto» in numerose ope­razioni attraverso le quali non si è fatto altro che iniettare, in società in difficili condizioni economiche, capitali nuovi «di cui l'impresa non de­ve sopportare nemmeno i costi di acquisizione». Proprio l'assenza dei costi derivati dall'acquisizione di capitali nuovi e l'inesistenza dell'im­pegno alla restituzione, consentono ad un'impresa di trarre da una partecipazione dello Stato al proprio capitale un vantaggio maggiore di quanto non derivi dalla concessione, di garanzie o di prestiti al tasso di mercato. Come la stessa Corte di giustizia ha riconosciuto, «il Trattato prende in considerazione gli aiuti concessi dagli Stati o mediante risorse statali sotto qualsiasi forma. Ne consegue che non si può fare una distin­zione di principio al seconda che un aiuto venga concesso sotto forma di partecipazione al capitale delle imprese. Entrambe queste forme di aiuto sono colpite dal divieto dell'art. 92, qualora siano soddisfatte le condizio­ni stabilite da questa norma».



Resta il fatto che in base all'art. 295 del Trattato di Amsterdam1 il regime di pro­prietà esistente negli Stati membri viene lasciato del tutto impregiudicato. Nulla esclude, dunque, che lo Stato possa, di diritto e, di fatto, par­tecipare al capitale azionario di una impresa e sostenerla con iniezioni di capitale nel caso in cui si trovi in temporanea difficoltà. La Commissione delle Comunità europee ha innanzitutto affrontato l'argomento invocato dagli Stati membri per giustificare pienamente le assunzioni di capitale da essi effettuate. Non ha negato che l'art. 295 del Trattato di Amsterdam, in base al quale « il presente Trattato lascia del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri», consenta, tra l'altro, a questi ultimi di acquisire partecipazioni tramite apporti al capitale di imprese.

Tuttavia, tali iniziative debbono rispettare i limiti posti dal diritto comunitario. Di conseguenza, la Commissione ammette il principio stesso delle partecipazioni pubbliche, riservandosi però di controllare se, in concreto, la stessa non costituisca un aiuto vietato ai sensi del Trattato. Nell'intento di fornire qualche chiarimento a questo proposito, la Commissione ha sviluppato, man mano che esercitava il suo potere di controllo, i parametri in base ai quali le partecipazioni pubbliche debbano essere valuta­te per stabilire se siano assoggettabili alle disposizioni del Trattato in materia di aiuti di Stato.

La Commissione ha sintetizzato inoltre la sua posizione in un documen­to, inviato per informazione agli Stati membri, recante il titolo: « Partecipa­zione delle autorità pubbliche nei capitali delle imprese ».

Dopo aver ricordato che le partecipazioni pubbliche possono costituire aiuti, essa precisa che «quando appare che il comportamento dei pubblici poteri in occasione di conferimenti di capitali sotto forma di assunzioni di partecipazione in un 'impresa non è quello di un finanziatore di capitale di ri­schio nelle normali condizioni di un'economia di mercato, è indispensabile effettuare una valutazione in relazione all'art. 92 Cee».

La Commissione ammette tuttavia che siffatti aiuti potrebbero benefi­ciare di deroghe ai sensi del par. 3 dell'art. 92 nella misura in cui rientrino nella prospettiva di piani di ristrutturazione.

In altri termini, il criterio 535d33f secondo cui una presa di partecipazione viene considerata aiuto è quello della non equiparabilità al presunto atteggiamento di un investitore privato nella stessa situazione, non equiparabilità dovuta al fatto che non sarebbe possibile raccogliere sul mercato dei capitali privati le somme necessarie alla sopravvivenza dell'impresa.

Il Trattato di Roma (art. 92) non vieta tuttavia tutti gli aiuti in quanto tali, ma unicamente quelli che «incidano sugli scambi tra Stati membri, che falsino o minaccino di falsare la concorrenza ». .

La Commissione sottolinea a tale riguardo che le assunzioni di parteci­pazioni pubbliche incriminate comportano una distorsione della concorrenza in quanto rompono artificialmente l'equilibrio dei mezzi di cui dispongono normalmente le imprese.

Essa considera inoltre che questo tipo di aiuti altera di per se il commer­cio tra gli Stati membri, senza che sia necessario, per conseguenza, prendere in considerazione la situazione concreta dell'impresa in causa.

In questi ultimi anni la Corte di Giustizia ha elaborato una sua teoria materia di partecipazioni pubbliche, che può dedursi, nell'ordine, dalle sentenze del 14 novembre 1984 Intermills, del 13 marzo 1985 Leeuwaarder e 10 luglio 1986 Boch II e Meura.

La sentenza Intermills conferma che le assunzioni di partecipazione al capitale di una impresa possono rientrare nelle disposizioni di cui all'art. 92 del Trattato Cee, e costituire quindi aiuti illegittimi, a determinate condizioni.

A tale riguardo, la Corte di Giustizia censura la tesi della Commissione per quanto, pur ammettendo che un siffatto aiuto alteri in linea di principio gli scambi tra Stati membri, essa esige tuttavia che la Commissione ne appoggia concretamente la prova sulla base della situazione del mercato e dell'impresa in causa.

Nella citata sentenza Leeuwaarder, del 1985, la Corte sancisce per la prima volta il criterio dell'investitore privato nelle condizioni normali di una economia di mercato.

Secondo la Corte, infatti: «il carattere di aiuto della partecipazione controversa è stato accertato in base alla impossibilità di trovare un finanziamento sul mercato privato dei capitali, in funzione di tre fattori, e cioè la struttura finanziaria dell'impresa, il fatto che questa aveva urgente bisogno di effettuare investimenti di sostituzione e l'eccedenza di capacità produttiva nel settore, fattori che, secondo la Commissione, rendevano poco verosimile per l'impresa la possibilità di reperire sul mercato privato dei capi tali il finanziamento indispensabile alla propria sopravvivenza». Infine, nelle citate sentenze Boch II e Meura del 1986 la Corte mantiene questa tendenza, affermando che: «nell'ipotesi dell'impresa la quasi totalità del cui capitale sociale sia nelle mani delle pubbliche autorità, si deve in particolare valutare se, in circostanze analoghe, un socio privato, basandosi sulla possibilità di reddito prevedibile, astrazione fatta da qualsiasi considerazione di carattere sociale o di politica regionale o settoriale, avrebbe effettuato un conferimento di capitale del genere ».

La Corte di Giustizia ritiene inoltre che l'adozione di questo criterio non discrimina gli investitori pubblici rispetto agli investitori privati.

Una seconda lettura di queste due ultime sentenze evidenzia che la Corte non si è limitata ad accettare il criterio adottato dalla Commissione ma ne ha anche precisato i contorni. Riferendosi al comportamento presunto dell'investitore privato, la Commissione crea una importante zona d'ombra, poiché la pratica non conosce regole fisse in questa materia. Sembra dunque ve­rosimile che la Commissione non intendesse prendere in considerazione il comportamento assunto in concreto dall'investitore privato nella stessa si­tuazione, bensì il suo comportamento astratto.

La Corte, con le due sentenze in questione, condivide questa ipotesi, da­to che essa fa espresso riferimento alle « possibilità di redditività prevedibili » e quindi alla legge del profitto.



2. Il comportamento dello Stato imprenditore


Per quanto riguarda la partecipazione dello Stato al capitale azionario sistematica e precisa è risultata la posizione della Commissione nella comunicazione «partecipazione delle autorità pubbliche nei capitali delle imprese». La comunicazione costituisce una «enunciazione pre­ventiva dei parametri valutativi che l'esecutivo comunitario ritiene di dover impiegare a favore dei casi concreti sui quali deve pronunciarsi». Tramite essa, la Commissione ha inteso contribuire a rendere certo il di­ritto fornendo agli interessati gli elementi necessari a far conoscere il proprio orientamento. Nella stesura dell'atto la Commissione è partita dal presupposto per cui il principio della neutralità nei confronti del re­gime di proprietà delle imprese non può arrecare vantaggi o svantaggi ai pubblici poteri quando procedono a conferimenti di capitale di rischio alle imprese.

Per valutare la legittimità degli apporti di capitale ad imprese, la Commissione ha assunto quale riferimento il criterio per cui costituisce aiuto ogni apporto di capitale nuovo quando viene effettuato «in circo­stanze che non sarebbero accettabili per un imprenditore privato operan­te nelle normali condizioni di un'economia di mercato». La Corte ha poi precisato che, nell'effettuare l'analisi comparativa tra il comporta­mento dello Stato imprenditore e quello del privato, deve essere fatta astrazione «da qualsiasi considerazione di carattere sociale o di politica regionale o settoriale». La Commissione ha precisato nella Decisione «relativa agli aiuti concessi dalla Spagna alla Hilaturas y Tejidos Andalu­ces SA» che: se «tenesse conto di tali considerazioni riconoscerebbe agli Stati membri la facoltà di salvare imprese in difficoltà sulla base di moti­vi d'interesse puramente nazionale. Tale situazione, che potrebbe creare gravi distorsioni della concorrenza contrarie all'interesse comune, sareb­be in contraddizione con i princìpi del Trattato CEE». Resta il fatto che, come chiarito dalla Corte di giustizia nella Sentenza «Alfa Romeo» «il comportamento dell'investitore privato, cui deve essere raffrontato l'intervento dell'investitore pubblico che persegue obiettivi di politica economica, [...], deve quantomeno corrispondere a quello di una holding privata o di un gruppo imprenditoriale privato che persegue una politica strutturale, globale o settoriale, guidato da prospettive di redditività a più lungo termine».

Il parallelismo tra il compor­tamento tenuto da un imprenditore pubblico ed un imprenditore priva­to è semplice solamente da un punto di vista teorico. Le motivazioni e le attitudini di un imprenditore privato possono, infatti, variare considere­volmente da un individuo all'altro. La remunerazione del capitale di ri­schio in una impresa è, per definizione, incerta: allora risulta particolarmente difficile de­terminare ex ante ed in maniera certa se, nelle medesime circostanze, un apporto di capitale sarebbe stato effettuato o meno da un imprenditore privato. Anche se la Commissione riconosce un buon margine di di­screzionalità alle valutazioni economiche effettuate dagli Stati membri, e se ammette di essere tenuta a dimostrare che non sussistono motivi che permettano allo Stato di prevedere un rendimento adeguato per i propri investimenti, alcune approssimazioni si possono comunque fare. Tipi­ca è quella per cui un imprenditore privato non è di massima disposto a sostenere per lungo tempo una propria impresa deficitaria senza tentarne una ristrutturazione.

Applicare il menzionato criterio per la valutazione di un determinato finanziamento dello Stato ad un'impresa pubblica significa stabilire in sostanza se un investitore privato sarebbe disposto a compiere la medesima operazione, tenendo conto delle sue prospettive di remunerazione.

Se la risposta è affermativa, le misure di finanziamento non costituiscono aiuti; in caso contrario si.

Ciò significa in pratica che nelle loro scelte sulla gestione o il finanziamento delle imprese pubbliche gli Stati non possono farsi condizionare dalle conseguenze sul piano sociale o macroeconomiche delle misure adottate.

A tal proposito nella decisione Generali Textil Espana la Commissione ha efficacemente messo in risalto che l'art. 87, comma primo, del Trattato di Amsterdam impone ai pubblici poteri un vero e proprio " sdoppiamento di personalità": da una parte il proprietario di un'impresa che persegue fini di lucro, dall'altra il soggetto pubblico al quale spettano compiti istituzionali di interesse generale. Le imprese pubbliche vanno dunque considerate come una sorta di patrimonio separato dagli Stati, insensibile alle spese da essi sostenute per soddisfare le esigenze della collettività.

Non è poi consentito agli Stati trascurare il momento in cui i capitali investiti in una propria impresa vengano remunerati. In più di una decisione è stato, infatti, precisato che la maturazione del rendimento degli investimenti pubblici deve essere prevista entro un lasso di " tempo ragionevole" da quando questi ultimi vengono posti in essere.

Può sorgere il dubbio che il criterio in esame costituisca un modello dogmatico di comportamento per gli Stati, tale da privarli, di fatto, della libertà di gestire le proprie imprese.

Al fine di fugare simili sospetti di dirigismo economico la Commissione ha innanzitutto dichiarato che, allo stesso modo dei privati, i pubblici poteri godono di libertà nelle loro scelte di carattere imprenditoriale. La Commissione ha altresì riconosciuto agli Stati un proprio margine di discrezionalità nel valutare i rischi di un investimento ed i benefici da questo sperati, cosicché entro tale spazio l'operato dell'imprenditore pubblico sfugge da ogni censura.

Il fulcro della giustificazione di questa prassi da parte della Commissione risiede nella natura delle forze che determinano la condotta di un privato.

Questi, in effetti, viene condizionato dalle necessità di rispettare le regole di mercato, le quale non dipendono da modelli dogmatici. Detta esigenza discende dalla maggiore debolezza del privato rispetto ai pubblici poteri: in primo luogo esso non dispone di risorse illimitate ed in secondo luogo deve comunque reperire sul mercato, sostenendone i relativi costi, le somme necessarie per finanziarsi. Di conseguenza, nel decidere in merito ad un investimento, un privato si basa su considerazioni puramente economiche, che tengono conto dei costi, dei rischi (perdita del capitale investito od anche il fallimento) e dei benefici sperati dell'operazione.

Spetta alla Commissione, come da questa espressamente ammesso, provare l'esistenza degli aiuti. Per fare ciò va dimostrato che non sussistono motivi obiettivi o di buona fede che permettano ad uno Stato di prevedere un rendimento adeguato al momento in cui viene deliberata una erogazione di fondi. Va anche tenuto in debito conto la differenza tra finanziamenti a breve ed a lungo termine: ciò implica che i relativi rischi siano aiutati e scontati in modo adeguato ed obiettivo.

Al fine di garantire la correttezza delle sue decisioni la Commissione si è inoltre impegnata a valutare ciascun finanziamento mettendosi nell'ottica dello Stato al momento in cui questi si trova a prendere la decisione di concedere fondi. Lo scopo è di evitare che un giudizio frettoloso debba poi essere rivisto in quanto infondato. Sembrerebbe quindi escluso che la natura di sovvenzione di un'operazione possa essere dedotta " a posteriori" dal suo risultato, per il semplice fatto, cioè, che il tasso di rendimento ottenuto non è stato soddisfacente.  



3. La Comunicazione della Commissione sulla partecipazione delle autorità pubbliche nei capitali delle imprese e l'esistenza dell'aiuto.


Nella Comunicazione del 1984 sulla " partecipazione delle autorità pubbliche nei capitali delle imprese" la Commissione ha esposto, a titolo principalmente esemplificativo, una elencazione di comportamenti che, se tenuti da uno Stato membro, implicano l'esistenza di un aiuto non essendo equiparabili a quelli che, in analoghe condizioni, sarebbero stati tenuti da un imprenditore privato.

Le fattispecie configurate dalla Commissione sono le seguenti:

1) " La situazione finanziaria dell'impresa ed in particolare la struttura ed il volume dell'indebitamento sono tali da far apparire ingiustificata la previsione di un rendimento normale dei capitali investiti entro un termine ragionevole di tempo; ".

Il volume dell'indebitamento, da valutare in proporzione al fatturato dell'azienda e non in cifre assolute, costituisce lo specchio della situazione dell'azienda ed un importante criterio per valutare le possibilità del risanamento.

L'investitore privato opera gli investimenti in funzione dei redditi che non può ricavare. A meno che non ricorrano circostanze eccezionali, l'assenza di previsioni di profitto sarà tale da scoraggiarlo. Lo Stato invece, perseguendo obiettivi che gli sono propri, può non curarsi dei profitti e mantenere in vita aziende in perdita. La valutazione delle possibilità di profitto deve essere imperniata sulla prefigurazione del se un imprenditore privato avrebbe effettuato o meno il conferimento di capitale. Il principio è stato fatto proprio dalla Corte con giurisprudenza costante.

2) "L'impresa non sia in grado, già a causa dell'insufficienza del margine lordo di autofinanziamento, di ottenere sul mercato di capitali i mezzi finanziari necessari per realizzare un programma di investimenti; "   

Il criterio della possibilità per l'azienda di reperire i fondi sul mercato dei capitali costituisce un riferimento di importanza centrale. Anche per la Corte di Giustizia il criterio ha costituito un punto fermo: in diverse sentenze sono contenuti numerosi riferimenti al principio citato.

3) " L'assunzione di partecipazione è una partecipazione temporanea la cui durata ed il prezzo di cessione sono stabiliti in anticipo, in modo che il rendimento risultante per l'investitore è sensibilmente inferiore alla remunerazione cui avrebbe potuto aspirare effettuando un investimento di durata analoga sul mercato dei capitali; "

Dato che l'effetto di una "acquisizione temporanea" di quote azionarie, implicante l'impegno alla loro cessione ad un prezzo prefissato, è esattamente equivalente a quello di un prestito in quanto il beneficiario viene a disporre di una liquidità da rimborsare a termine, non si vede la ragione per cui l'acquisizione dovrebbe essere valutata diversamente da un prestito. Ne deriva che la Commissione considera aiuto "l'acquisizione temporanea di quote azionarie" nel caso in cui una iniezione di capitale sotto forma di prestito effettuato alle normali condizioni di mercato avesse comportato per l'impresa un costo maggiore; al contrario, quando il denaro impiegato per l'operazione dia un rendimento sostanzialmente analogo a quello che potrebbe ottenersi sul mercato dei capitali, si è in presenza di un investimento effettuato da un investitore privato.

4) " l'assunzione di partecipazione pubblica ha per oggetto la ripresa o la prosecuzione totale o parziale dell'attività non redditizia di una impresa in difficoltà tramite la creazione di una nuova entità giuridica;

I finanziamenti che la Commissione ritiene concedibili sono quelli destinati ad operare le ristrutturazioni tecniche e produttive necessarie a ridare competitività all'azienda, cosa che normalmente non avviene attraverso modifiche di forma quali appunto la creazione di una nuova entità giuridica".

5) " In occasione di un conferimento di capitale in imprese il cui capitale è suddiviso tra azionisti privati ed azionisti pubblici, la partecipazione pubblica raggiunge una proporzione sensibilmente superiore a quella iniziale, e il disimpegno relativo degli azionisti privati è essenzialmente imputabile alle cattive prospettive di redditività dell'impresa".

Dato che il criterio principale per valutare il comportamento dell'imprenditore pubblico consiste nel paragonarlo a quello di un ipotetico privato che si trovasse nella stessa situazione, l'intendimento di un imprenditore privato di disimpegnarsi dalla partecipazione, deve esser considerato rivelatore di una situazione non risanabile: una situazione in cui lo Stato opera un "aiuto al funzionamento", senza impegnarsi in ristrutturazioni tali da far presupporre il recupero di competitività dell'azienda.

6) " L'ammontare della partecipazione supera l'ammontare del valore effettivo dell'impresa beneficiaria quando non si tratta di...( piccole e medie imprese con buone prospettive)".

Per un investitore privato, in una situazione del tipo delineato, è conveniente investire in una nuova impresa più di quanto non lo sia il " salvare il precedente investimento". Il persistere nell'investire nella vecchia azienda costituirebbe, infatti, un'azione antieconomica concretizzantesi palesemente in un "aiuto al funzionamento" non motivabile sotto il profilo economico.



4. La comunicazione della Commissione e la presunzione di aiuto.


Nella comunicazione, vengono inoltre delineate due ipotesi in cui la Commissione "presupporrà" l'esistenza di un aiuto, come rilevato da Hellingman, si delinea una "zona grigia", una serie di ipotesi che possono ricadere sia nella nozione di aiuto data dalla Commissione sia al di fuori di essa. Dette ipotesi ricorrono quando:

- "l'intervento finanziario pubblico abbina un'assunzione di partecipazione ad altre modalità di intervento che devono essere notificati ai sensi dell'art. 88, paragrafo terzo, Trattato di Amsterdam";

Nell'ipotesi sopraccennata, la valutazione della compatibilità con il sistema previsto da Trattato della partecipazione al capitale azionario di un'impresa è complicata dal fatto che intervengono, contemporaneamente, altre misure agevolative. Il cumulo degli apporti di capitale con gli altri aiuti, può elevare l'intensità delle agevolazioni a livelli tali da compromettere la concorrenza e pregiudicare gli scambi. La situazione che si delinea è complessa, ne risulta del tutto conseguente che la Commissione si riservi di valutare le situazioni pratiche caso per caso.

- "le assunzioni di partecipazione sono effettuate in determinati settori che versano in particolari difficoltà in circostanze non contemplate.....(precedentemente)".

Il fatto che lo Stato intenda assumere parte del capitale di una impresa che opera in un settore di difficoltà, rende sospetta l'operazione anche quando l'impresa abbia una situazione economica positiva. Le valutazioni di lungo periodo possono, infatti, indurre un imprenditore privato a ritrarsi dal mercato anche quando è in attivo.

Esaminate le ipotesi in cui un apporto di capitale costituisce un'agevolazione, va verificata anche l'ipotesi opposta.

Occorre ricordare, infatti, che, come sostenuto dalla stessa Commissione, "non tutte le partecipazioni pubbliche sono ipso facto aiuti statali; tutto dipende dalle circostanze in cui esse si realizzano". Ove lo Stato conferisca capitali di rischio operando scelte basate su quelle leggi del profitto che guidano qualsiasi imprenditore, e senza prendere in considerazione motivazioni di carattere sociale, di politiche di sviluppo regionale o settoriale, si può concludere che l'investimento non presenta le caratteristiche di un aiuti all'imprese.

Come evidenziato dalla Commissione nella sopraccitata comunicazione, il riferimento va individuato nel comportamento che, in una occasione simile, sarebbe stato tenuto da un imprenditore privato.

Per la Commissione, oltre che nei casi di assunzioni di partecipazioni senza apporto di capitale fresco in un'impresa esistente, tale circostanza viene affermata a priori, nei seguenti casi:

1) " Quando in occasione della creazione di nuove imprese con partecipazione pubblica totale, di maggioranza o di minoranza, i pubblici poteri seguano i criteri di un finanziatore nelle normali condizioni di un'economia di mercato".

Se l'impresa fosse già esistente, potrebbe assumere rilievo il fatto che gli sono propri, la voglia "aiutare".

Nel caso in cui l'impresa sia di nuova istituzione, la norma di riferimento è costituita dal più volte richiamato art. 295, per cui il Trattato non pregiudica il regime della proprietà.

Resta però il fatto che i pubblici poteri devono seguire i criteri di cui, nelle medesime circostanze, si avvarrebbe l'imprenditore privato. Ciò comporta che l'erogazione di finanziamenti volti alla creazione di un'impresa destinata ad operare in un settore gravato da sovracapacità o in crisi strutturale, nel quale la realizzazione di profitti si dimostri alquanto improbabile, può ugualmente costituire una violazione alla normativa sulla concorrenza.

V'è da aggiungere che qualora uno Stato, per aggirare le disposizioni del Trattato, costituisca una nuova società dotata di capitale fresco al fine di acquistare e risanare una propria impresa, la manovra non risulta di aiuto.

2) " Quando in occasione di un apporto di nuovo capitale nelle imprese pubbliche questo apporto risponde a nuove esigenze di investimento ed ai costi ad esse direttamente connessi, a condizione che il settore in cui l'impresa esercita l'attività non accusi eccessi strutturali di capacità nel mercato comune e la situazione dell'impresa sia sana".

Una impresa operante sul mercato ha sovente necessità di ristrutturazioni ed investimenti per mantenere la propria competitività.

Se l'impresa è sana ed il mercato redditizio, un privato, pur di salvaguardare il capitale investito sino a quel momento, difficilmente si sottrarrebbe all'impegno di nuovo apporti di capitale Diverso è invece il caso in cui l'impresa, benché ancora in buone condizioni, si trovi ad operare su un mercato gravato da sovracapacità produttiva. In questa ipotesi, infatti, la continuità dei profitti può essere solo temporanea e nuovi investimenti potrebbero non essere redditizi.

3) " Quando in caso di incremento della partecipazione dei pubblici poteri nelle imprese l'apporto di capitale è proporzionato al numero di quote di capitale detenute dai pubblici poteri ed ha luogo parallelamente ad un conferimento di fondi di un azionista privato. La quota parte detenuta dall'investitore privato deve avere una rilevanza economica effettiva". 



5. La privatizzazione nella disciplina della concorrenza.


Come già rilevato, il sistema economico comunitario è basato sull'economia di mercato e sulla libertà di concorrenza: concorrenza esercitabile - sugli stessi mercati - sia da imprenditori privati sia da im­prenditori pubblici. In varia misura a seconda dei tempi e delle circo­stanze, in forza del condizionamento di situazioni contingenti e dell'in­flusso delle teorie economiche e sociali prevalenti, si registra l'assunzio­ne o la dismissione, da parte dello Stato, di attività imprenditoriali.

Sul piano dei principi, la «statalizzazione» di settori produttivi è conseguente al prevalere di concezioni che presuppongono l'utilità dell'intervento pubblico nell'economia: si tratta di concezioni riflettenti la convinzione per cui lo Stato costituisce il migliore e più imparziale ge­store dei servizi di pubblica utilità, ed anche di talune iniziative economiche

Sul piano pratico, tuttavia, il ricorso all'intervento. Pubblico va, in genere, collegato al due circostanze: il fallimento di iniziative private di grandi dimensioni che, in Italia, fu alla base dell'istituzione dell'IRI; l'esigenza di assecondare il conseguimento di fini economico-sociali, quali lo sviluppo di aree regionali deboli od il sostegno a settori produttivi in forte difficoltà. Pressioni per la dismissione delle attività produttive dello Stato provengono generalmente da settori liberal-conservatori convinti dell'opportunità di restituire alla. concorrenza i comparti produttivi non più considerati «strategici» e di dinamicizzare le aree economiche «ingessata dal monopolio statale. V'è da aggiungere che, in alcuni Paesi quali l'Italia, l'intendimento di far leva sulle privatizzazioni è stato alimentato, più che da opzioni ideologiche, da un esigenza contingente: acquisire entrate da utilizzare per il contenimento del deficit del bilancio dello Stato ed evitare l'incognita degli aggravi derivanti dall'accumulo di deficit di gestione.

Attualmente, in tutta la Comunità, sembra nettamente prevalere la tendenza verso una sempre maggiore privatizzazione di tutti quei settori che non vengono considerati «essenziali» all'interesse pubblico. Con riferimento all'Ordinamento comunitario, il dibattito politico ed economico sviluppatosi all'interno degli Stati membri sull'opportunità di nazionalizzare o privatizzare imprese e settori economici, è del tutto irrilevante.

Sul piano dei principi, l'Unione europea è rimasta del tutto indifferente, neutrale, rispetto al dilemma della proprietà, privata o pubblica, delle aziende: lo è stata a tal punto che, nel volgere dl un decennio, la Francia ha messo in atto programmi di nazionalizzazioni e, subito dopo, di dismissioni di vasta portata.

In talune situazioni sono state esercitate, da parte comunitaria, forme indirette di pressione sugli Stati membri perché dismettessero le proprie imprese. Si è trattato di suggerimenti, anche forti, dettati da valuta­zioni contingenti:

dalla presa d'atto degli squilibri di bilancio di singole imprese;

- dalla accertata non conformità con il Trattato di singole normative na­zionali in materia di monopoli.

Come rilevato al riguardo da Giampiero Amorelli, «lo scopo della Comunità è quello di estendere quanto più possibile l'area di diffusione del principio di concorrenza, che essa annovera come quello fondamenta­le al fine del raggiungimento dei superiori scopi del Trattato», ma ciò non comporta necessariamente una pressione nel senso di privatizzare le imprese pubbliche: quanto sopra per il fatto che: "la norma inserita nell'articolo 222 del Trattato e quella iscritta nell'articolo 90, paragrafo uno, non consentono di ritenere che l'affidamento privato di azienda ed at­tività sia maggiormente conforme alle finalità del Trattato di quanto lo sia l'esercizio effettuato da parte dello Stato, di enti pubblici, ovvero di imprese da essi detenute".

La libertà per gli Stati di scegliere il regime di proprietà preferibile, non impedisce che il comportamento delle imprese pubbliche sul mercato deve essere conforme alle regole del Trattato.

Proprio per questo , "quando uno Stato membro aliena cespiti di sua proprietà via privatizzazioni o liqui­dazioni, la Commissione ha il compito di vegliare a che siano rispettate le norme del Trattato relative agli aiuti di Stato»1. Ne deriva che l'eventualità di un conflitto tra normativa comunitaria ed interventi pubblici economici, non «riguarda né l'esistenza né l'eventuale nuovo dimensionamento di essi, essendo tale materia sottratta alle disponibilità regolamentari della CEE, ma investe le forme ed i modelli della partecipazione.

Premesso che gli aiuti di Stato alle imprese da privatizzare non dif­feriscono in nulla dagli aiuti erogati dallo Stato in favore delle proprie imprese- e che come tali vanno analizzati - resta da stabilire quale sia il nesso tra le privatizzazioni e la disciplina comunitaria sugli aiuti di Stato.

La connessione è duplice: da un lato, come chiarito in preceden­za, vi è una forte pressione da parte degli organi comunitari affinché gli Stati membri mantengano relazioni trasparenti con le proprie imprese pubbliche e non eroghino loro aiuti anche se celati sotto forma di ap­porti di capitale, di garanzie, di prestiti ...; dall'altro, si tende ad evitare che le dismissioni di imprese pubbliche possano tradursi, di per se, in aiuti di Stato.

Ai fini del presente studio è sufficiente rilevare come, in diversi Pae­si, l'impossibilità di continuare ad erogare sovvenzioni si sia tradotta in una implicita pressione a dismettere le imprese ritenute non suscettibili di reddito, almeno nel breve periodo. È, comunque, interessante verifi­care quando una dismissione sfocia in un aiuto di Stato.

Con ciò si è inteso sottolineare che la nozione di aiuto può comprendere, ol­tre le sovvenzioni ed altre misure agevolative comportanti un «esborso», anche quei comportamenti passivi dai quali possa derivare un «mancato introitoito.

Chiarito il principio, risulta percepibile che, alienando un'impresa di proprietà pubblica, lo Stato può concedere una agevolazione incom­patibile con il sistema comunitario. Tale ipotesi ricorre qualora, per non essere stata effettuata alle condizioni di mercato, l'alienazione comporti per lo Stato un minore introito e, per l'acquirente, una agevolazione quantificabile nella differenza tra il prezzo effettivamente pagato e quello che si sarebbe liberamente formato sul mercato.

Il caso ipotizzato non è astratto: corrisponde ad una precisa fattispecie riscontrabile in casi pratici comportanti la cessione di beni immobili di scuole ed istituti specializzati, o di gruppi aziendali di importanza si­gnificativa quali 1'«Alfa Romeo».

Anche se le dismissioni vanno generalmente riconnesse alla cessa­zione di comportamenti distorsivi della concorrenza, la Commissione ha precisato che: «gli aiuti alla privatizzazione non beneficiano di alcun privilegio particolare ne è loro applicabile una deroga specifica». Nella pratica, la Commissione si è limitata a valutare gli aiuti alla privatizza­zione nell'ambito delle politiche regionali o settoriali.

Restano da determinare i casi pratici nei quali, nell'ambito di una privatizzazione, si è in presenza di un'agevolazione. L 'elemento di aiuto sarà rilevabile:

se, per l'impresa acquisita, l'acquirente viene a pagare un prezzo infe­riore a quello di mercato,agevolazione cui corrisponde puntualmente un "mancato introito" per lo Stato;

se i costi della cessione sono superiori a quelli che deriverebbero dalla chiusura dell'impresa.

Gli Stati che intendano procedere a dismissioni dovranno, dunque, essere attenti a non concedere aiuti o sussidi incompatibili con il sistema previsto dal Trattato.

Sulla base di una consolidata giurisprudenza il parametro per valutare la correttezza del comportamento di uno Stato che proceda alle dismissioni, è fornito dal comportamento che, in una situazione analoga, sarebbe stato tenuto da un ipotetico im­prenditore privato. L'imprenditore privato, che si presuppone mosso dalla ricerca del profitto, è tenuto a privilegiare, necessariamente, le scel­te più vantaggiose sul piano economico senza tenere conto degli effetti sociali o politici conseguenti alle proprie opzioni.

Un altro comportamento rientrante nella prassi degli Stati membri, ma incompatibile con il sistema comunitario, è individuabile nell'ado­zione di regimi di favore volti a tutelare gli interessi nazionali operan­do perché la proprietà dell'impresa da cedere rimanga in mani di im­prenditori nazionali. Una opzione di tal genere confligge in maniera inequivocabile con il divieto di discriminazione stabilito all'art. 14 del Trattato di Amsterdam2 e con la libertà di stabilimento prevista dal titolo III, Capo secondo: libertà che ai sensi dell'art. 43 , par.2, implica il diritto di non discriminazione nell'"accesso alle attività non salariate e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese".

Come precisato dalla stessa Commissione, per evitare possibili infrazioni alla normativa CEE sugli aiuti di Stato, " le partecipazioni statali devono essere cedute al miglior offerente a seguito di una procedura di offerta aperta e incondizionata".

Restano tuttavia da chiarire tre punti:

- cosa si debba intendere per "procedura aperta";

- quale sia la peculiarità dell'offerta "incondizionata";

- se il prezzo di cessione debba essere proporzionato al valore dell'impresa o agli utili che si presume l'impresa possa ricavare in    futuro.

Il requisito della "procedura aperta" va inteso nel senso che ogni potenziale acquirente deve essere stato invitato a presentare un'offerta. V'è da aggiungere che, attraverso la "Ventunesima relazione sulla politica di concorrenza", la Commissione ha precisato che: " se la vendita di un'impresa non si effettua mediante offerta pubblica, la notifica prevista dall'art. 93, par. 3, del Trattato CEE è obbligatoria.   La previa notifica alla Commissione è obbligatoria anche per le imprese che opera­no in settori"sensibili".

L 'offerta presentata dal potenziale acquirente non può essere condi­zionata in alcun modo dallo Stato. Al riguardo, nella già citata Decisione «relativa agli aiuti concessi dalla Spagna alla Hilaturas y Tejidos Andalu­ces SA», la Commissione ha considerato che le offerte presentate non potevano essere considerate «incondizionate», perché lo Stato aveva «imposto alcune condizioni agli acquirenti, ponendo temporanee restri­zioni al trasferimento della partecipazione acquisita»; analogamente nella comunicazione «KLM», l'offerta non poteva essere considerata «incondizionata» poiché l'acquirente era tenuto a mantenere i livelli di occupazione e le condizioni di impiego esistenti.

Per quanto concerne la valutazione dell'«equità» del prezzo, nella più volte richiamata Decisione «relativa agli aiuti concessi dalla Spagna alla Hilaturas y Tejidos Andaluces SA», la Commissione ha ritenuto di dover concordare con il Governo spagnolo nel valutare l'impresa ceduta «alla luce del valore attuale dei suoi presunti utili futuri», «considerando che i risultati finanziari dell'impresa, nonché le previsioni di quelli futuri, indicavano che lo Stato non poteva aspettarsi alcun rendimento dalla sua partecipazione» nell'impresa. Per la determinazione del valore dell'im­presa da dismettere, gli Stati si affidano spesso ad istituti specializzati in­dipendenti. Le risultanze delle valutazioni di questi istituti sono spesso considerate positivamente dalla Commissione, ma devono comunque essere raffrontate con le effettive proposte di acquisto.

Altro elemento di valutazione è dato dalla comparazione tra i costi derivanti dalla cessione e quelli connessi alla chiusura. Se è vero, infatti, che il licenziamento delle maestranze e la chiusura degli impianti posso­no comportare costi elevati, un imprenditore privato preferirà affrontar­li sempre che li ritenga complessivamente più vantaggiosi rispetto alle condizioni di cessione dell'impresa.

L'ipotesi richiamata non è stata riscontrata dalla Commissione nella cessione della «lndustrias Textiles de Guadalhorce»: in quella circostan­za, 1'Esecutivo CEE valutò che l'apporto di capitale, pari a 5.869 milioni di pesetas, richiesto dall'acquirente, era più gravoso delle spese di chiu­sura degli impianti: spese che il Governo spagnolo non era tenuto a so­stenere per la parte eccedente il ricavato della liquidazione dell'impresa, in quanto «la: responsabilità di una società per azioni [ ... ] è limitata al pa­gamento dei debiti sociali entro il valore di liquidazione delle sue attività4». Analogamente, nella comunicazione «KLM», la Commissio­ne ha valutato di essere in presenza di un aiuto poiché «il Governo needer­landese ha optato per la vendita anche se, [...] questa sembrerebbe la so­luzione più costosa, che, pertanto, un investitore privato non avrebbe presumibilmente adottato».

Nell'effettuare la scelta degli acquirenti delle proprie imprese, al fine dl garantire la «correttezza economica» delle opzioni, lo Stato dovrà:

- far ricorso a procedure trasparenti e, quindi, avvalersi di sistemi di of­ferte aperte e senza condizioni, quali l'asta pubblica, piuttosto che di licitazioni private5;

- controllare che le scelte siano adottate in base a criteri di economi­cità;

- assicurarsi che gli offerenti dispongano di tempo ed informazioni suf­ficienti per effettuare la propria offerta6;

- evitare che vengano privilegiate le imprese nazionali7;

Ne deriva che, quando un'impresa viene venduta in borsa e costitui­sce l'oggetto di una offerta pubblica incondizionata non si può, in alcun modo, parlare di aiuti e l'operazione di dismissione non deve nemme­no essere notificata.

Al contrario, ove intenda seguire procedure diverse da quelle so­praindicate, il Governo interessato alle dismissioni è tenuto a notificare, ai sensi dell'art. 88, par. terzo, la propria intenzione, e non dovrà rendere operante la cessione prima di una determinazione autorizzattiva della Commissione: determinazione esplicita o conseguente al silenzio assenso.

In particolare la Commissione ha reso noto attraverso la "Ventitreesima relazione sulla politica di concorrenza", che, sono espressamente soggette a notificazione:

le cessioni concluse al termine di un negoziato con un unico potenziale acquirente o con un numero di offerenti selezionati;

- le cessioni precedute dalla cancellazione del debito da parte dello Stato, di altre imprese pubbliche o di organismi pubblici;

- le cessioni precedute dalla conversione del debito in capitale azionario o aumento del capitale;

le cessioni effettuate in base a condizioni che non sono usuali in transazioni analoghe tra privati;

le privatizzazioni di imprese che operano in settori sensibili (fibre sintetiche, industrie automobilistiche.etc.).

In caso di violazione delle procedure richiamate, gli acquirenti possono vedersi costretti, da una Decisione della Commissione, a dover rimborsare gli aiuti.




ex art.222 del Trattato di Maastricht.

Così la «comunicazione della Commissione ai sensi dell'articolo 93, paragrafo 2 del Trattato CEE indirizzata agli Stati membri e ai terzi interessati in merito ad aiuti che il Governo italiano ha deciso di concedere a EFIM", «Apertura EFIM» (in G.U.C.E. n. C 75, del 17/3/93, p. 2).


ex art.7 A del Trattato CEE.

ex art. 52 del TrattatoCEE.

Così la citata Decisione della Commissione n°92/321/CEE, "Intelhorce

Così anche la già citata "Ventitreesima relazione sulla politica della concorrenza

Così anche la già citata "Ventitreesima relazione sulla politica della concorrenza".

Così anche la già citata "Ventitreesima relazione sulla politica della concorrenza".





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