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LE POLITICHE PUBBLICHE

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LE POLITICHE PUBBLICHE


Analizzeremo ora le politiche che i governi di qualsiasi tipo producono al fine di rispondere alle domande dei cittadini e, più in particolare, delle modalità con le quali sono prodotte, attuate, valutate ed, eventualmente, riformulate. Tutte le tematiche che abbiamo visto fin qui appartengono, nel linguaggio sistemico della scienza politica, all'ambito generale degli inputs, vale a dire delle domande, delle preferenze, dei bisogni e dei sostegni che, attraverso la partecipazione politico-elettorale, attraverso l'attività dei partiti, tenendo conto della strutturazione dei sistemi politici, delle loro forme di governo e dei vari tipi di regimi, vengono immessi dai cittadini, dai gruppi, dalle associazioni e dalle organizzazioni nella cosiddetta scatola nera dove si svolge il processo decisionale. Qualche tempo fa la scienza politica è stata criticata da alcuni economisti e da alcuni sociologi, ma anche da alcuni dei suoi stessi esponenti, per non essersi interessata abbastanza né dei processi di conversione delle domande e dei sostegni in decisioni, in outputs (processi che avvengono nella scatola nera, cosiddetta proprio per l'opacità del suo funzionamento, tutto da scoprire), né, ancor meno, della valutazione degli effetti degli outputs, vale a dire, degli esiti o outcomes, e dei processi di retroazione o feedback di questi esiti sia sui nuovi input sia sulla (eventuale ri-)strutturazione delle modalità decisionali. Secondo una tesi molto azzardata non sarebbe la politica a determinare le politiche pubbliche, ma sarebbero le politiche pubbliche a determinare la politica. Più precisamente, non sarebbe la strutturazione dei sistemi di partito e delle forme di governo a produrre specifiche politiche pubbliche, ma sarebbero le politiche pubbliche a dare strutturazione ai sistemi di 121e41b partito e alle forme di governo e a modificare sia gli uni che le altre. Naturalmente , questa tesi contiene alcuni elementi di verità, poiché, indubbiamente, le politiche pubbliche retroagiscono sulla sfera politica in generale. Tuttavia risulta estremamente rischioso trascurare del tutto l'importanza delle istituzioni, dei partiti, delle elezioni nel conferire potere ai decisori e nello stabilire le modalità di produzione, gli ambiti di applicabilità, i limiti di variazione delle politiche pubbliche. Ciò detto, non si deve commettere neppure l'errore specularmene opposto, vale a dire quello di pensare che uno specifico assetto istituzionale determini quasi automaticamente tutte le politiche pubbliche. Tuttavia, è vero che le politiche pubbliche, analizzate con intenti teorici e con consapevolezza metodologica, rivelano molti aspetti interessanti che riguardano le modalità di strutturazione e di funzionamento di qualsiasi sistema politico.



La politica pubblica si definisce public policy. Per pervenire ad una definizione soddisfacente, è opportuno sottolineare, in negativo, che nessuna decisione singola e specifica, neppure se e quando viene presa da personale di governo, a livello nazionale o locale, può essere di per se automaticamente considerata una politica pubblica. In generale, qualsiasi politica pubblica è il prodotto di una decisione, ma va molto oltre il momento della decisione fino a ricomprendere, quantomeno, l'attuazione ovvero, nella terminologia inglese, l'implementation. Naturalmente, neppure una legge è di per se una politica pubblica, anche se in una legge si possono ritrovare elementi di politica o politiche pubbliche. Delimitato il campo in negativo, il discorso si fa più complesso quando si passa alla definizione positiva di che cosa è concretamente una politica pubblica. Possiamo innanzitutto affermare che le politiche sono pubbliche quando vengono prodotte dalle autorità di governo intese in senso lato. Anderson sostiene che le politiche pubbliche sono quelle dispiegate da funzionari ed organismi governativi. Secondo Meny e Thoenig una politica pubblica è il prodotto dell'attività di un'autorità provvista di potere pubblico e di legittimità istituzionale.  E' ovvio che secondo i due studiosi francesi non tutte le attività delle autorità provviste di potere pubblico e di legittimità istituzionale sono qualificabili come politiche pubbliche. Basti pensare alle molte attività con le quali le autorità perseguono il mantenimento e l'accrescimento del loro potere personale, del loro prestigio, della loro visibilità, del loro consenso elettorale che sicuramente non si configurano come pubbliche. E' possibile sostenere che anche la non produzione di politiche pubbliche risulta essere, in un certo senso, ma esclusivamente in casi chiaramente precisati, una politica pubblica. I due studiosi francesi affermano ancora che una politica pubblica si presenta sotto forma di un insieme di prassi e direttive che promanano da uno o più attori pubblici (probabilmente cariche elettive, cariche amministrativo-burocratiche). Il punto è che questa limitazione agli attori pubblici appare alquanto imprecisa, piuttosto riduttiva ed in buona sostanza fuorviante. E' imprecisa poiché non specifica quali sono effettivamente gli attori pubblici; è riduttiva poiché elimina altri attori, che pubblici non sono, ma che possono effettivamente prendere parte alla produzione di una o più politiche pubbliche; infine, è fuorviante poiché indirizza l'attenzione verso un gruppo di attori tralasciando, come si vedrà, molti altri che svolgono ruoli altrettanto rilevanti. Quantomeno nel contesto statunitense, notevole attenzione venne riservata ai gruppi di pressione e ai loro rappresentanti e, nel contesto europeo, quantomeno da Max Weber in poi, non c'è stata nessuna sottovalutazione del ruolo svolto e dall'influenza esercitata, ad esempio, dai burocrati sui processi decisionali e sulla produzione di politiche pubbliche. In sostanza lo studio delle politiche pubbliche ha condotto ed incoraggiato alcuni studiosi ad individuare composite aggregazioni di attori che intervengono in maniera più o meno consolidata nei processi di produzione delle politiche pubbliche, a farlo in maniera più sintetica e a cogliere e spiegare le loro interazioni e le relative conseguenze sul sistema politico.

Il punto di partenza dal quale bisogna partire è che non sono mai né i politici, né i governanti a produrre da soli le politiche pubbliche.

Nel modello del party government il ruolo di decisori delle politiche pubbliche viene attribuito, in tutto o in larghissima misura, ad attori di appartenenza, di estrazione o di nomina partitica, e che sono responsabili nei confronti dei dirigenti dei partiti, da loro controllabili e, di conseguenza, da loro sostituibili. Comprensibilmente, nella sua forma più rigida, più incisiva e più esclusiva, il party government trova attuazione concreta più sicura e più duratura essenzialmente nei sistemi bipartitici, in particolare in quelli caratterizzati da disciplina di partito e da grande programmaticità dei partiti stessi, nonché dalla motivazione e dall'interesse a produrre politiche pubbliche che siano a loro perfettamente riferibili  e attribuibili. Tuttavia, elementi di notevole prevalenza degli attori partitici nei processi di produzione delle politiche pubbliche si riscontrano ampiamente e diffusamente anche in sistemi non bipartitici, ad esempio in Italia nella " prima repubblica" (sarebbe altrimenti inspiegabile l'accusa di partitocrazia al sistema italiano). La partiticità di un modello decisionale non dipende dal numero di partiti rilevanti nel sistema politico quanto, piuttosto, dal rapporto fra il sistema dei partiti, la sfera sociale e la sfera economica. E' quindi giusto sottolineare che, quand'anche non siano attori esclusivi e dominanti nei processi di produzione delle politiche pubbliche, i partiti, i loro dirigenti, gli esponenti da loro designati sono sempre presenti, spesso in posizione di rilievo, anche nei modelli diversi e alternativi al party government.

Negli anni settanta e ottanta ha avuto molta fortuna un secondo modello descrittivo ed interpretativo delle modalità di produzione delle politiche pubbliche: il neocorporativismo. Le pretese descrittive ed esplicative del neocorporativismo sono giunte fino al tentativo di individuare una nuova forma di democrazia. Per i teorici del neocorporativismo (Schmitter) i gruppi che contano davvero sono soltanto tre: i governi ed i loro apparati esecutivi, le organizzazioni sindacali e le associazioni imprenditoriali. Una critica al neocorporativismo è quella di trascurare il parlamento e in una certa misura di eroderne il potere di approvazione e di controllo di quanto il governo inizia e fa. Naturalmente l'arco delle politiche pubbliche che vengono decise attraverso accordi neo-corporativi è molto ampio, ma esse riguardano soprattutto la sfera economico sociale nella quale gli interessi imprenditoriali e gli interessi sindacali potrebbero altrimenti entrare in conflitto e nella quale una loro efficace composizione porta a esiti positivi per tutto il sistema. Comprensibilmente, quando le politiche pubbliche diventano più complesse per contenuto, e le associazioni imprenditoriali e le organizzazioni sindacali si diversificano, diventa difficile e addirittura impossibile mantenere gli assetti neocorporativi nella loro interezza. Sfide culturali, la differenziazione sociale e la frammentazione degli interessi, talvolta entrambe conseguenze dello stesso successo del neocorporativismo, pressioni provenienti dall'economia internazionale rendono difficile il mantenimento di veri e propri assetti neocorporativi. Qualche accordo neocorporativo potrà sopravvivere al declino del modello neocorporativo, ma la maggior parte delle politiche pubbliche finirà per essere prodotta con altre modalità e dovrà essere interpretata con altri modelli.

Attraverso i triangoli di ferro verrebbero prodotte le politiche pubbliche più rilevanti. Il riferimento al triangolo si giustifica con l'individuazione dell'esistenza di tre aggregazioni principali di attori:


i gruppi di interesse

le agenzie burocratico-amministrative

le commissioni parlamentari


Il fatto che si parli di triangoli di ferro vuole evidenziare la solidità del rapporto che si stabilisce e si mantiene fra le tre aggregazioni di attori. E' importante sottolineare che, rispetto al neocorporativismo , basato sul rapporto stabile fra tre grandi organismi che dominano la produzione delle politiche pubbliche, i triangoli di ferro possono essere alquanto numerosi, diffusi e sparsi nello stesso sistema politico. Teoricamente, ne può esistere quantomeno uno per ciascuna area significativa delle politiche pubbliche. La persistenza dei triangoli di ferro si fonda, un po' come il neocorporativismo, sulla capacità reciproca di ciascuno dei componenti del triangolo di tenere fede agli impegni assunti. Ciascuno degli attori contribuisce alla funzionalità del triangolo in termini di decisioni, di risorse, di voti e di affidabilità nell'attuazione, favorendo, di conseguenza, la sua efficacia e la sua durata e riproduzione nel tempo. Cosicché, le politiche pubbliche in ciascuna delle aree specifiche caratterizzate dall'esistenza di triangoli di ferro presentano una notevole continuità.

Il quarto modello viene descritto sotto forma di reti tematiche: issue network. Questo modello differisce dai triangoli di ferro poiché è molto meno strutturato; è più aperto ad una molteplicità di partecipanti; consta di interazioni episodiche ed occasionali, destinate ad essere esposte al pubblico e a durare poco nel tempo; e rischia di lasciare irrisolti molti problemi meritevoli di soluzioni in termini di politiche pubbliche. In generale, le reti tematiche danno vita alla produzione di politiche pubbliche instabili e mutevoli, sostanzialmente non predeterminabili e non controllabili. In qualche misura, in particolare secondo i suoi originari proponenti, questo modello interpreterebbe al meglio il processo decisionale statunitense, quantomeno a livello federale. Più in generale, però, la produzione delle politiche pubbliche negli Stati Uniti può essere descritta ed interpretata adeguatamente non soltanto con riferimento al modello delle reti tematiche, ma anche individuando, in alcuni contesti, l'esistenza di eventuali triangoli di ferro. Leggermente modificati, questi ultimi potrebbero fornire un'immagine della produzione di politiche pubbliche anche in Gran Bretagna, per quanto in non vittoriosa concorrenza con il modello del governo di partito. Molto raramente, però, ovvero soltanto in casi eccezionali, le reti tematiche ed i triangoli di ferro, rappresentano adeguatamente i processi di produzione delle politiche pubbliche nell'Europa continentale, dove questi processi appaiono alquanto più strutturati.

Al fine di rendere conto della realtà dei diversi sistemi politici dell'Europa continentale è stato formulato un altro modello, detto delle comunità di politiche: policy communities. In questo modello, gli attori continuano ad essere, come in quello delle reti tematiche, alquanto numerosi, ma sono per lo più gli stessi. Le policy communities si costituiscono attraverso i contatti fra politici, burocrati, rappresentanti di gruppi di interesse, esperti che hanno una elevata continuità di ruolo nel tempo. Questa continuità, tradotta in comunanza e in interazioni, garantisce alcuni dei vantaggi derivanti dalla conoscenza personale e dalla possibilità di strutturare un processo decisionale di soddisfazione reciproca. Tutti o quasi tutti i partecipanti acquisiscono consapevolezza che le eventuali perdite sul piano di una politica pubblica potranno essere compensate sul piano di un'altra politica pubblica egualmente di loro interesse. Alcuni studiosi italiani hanno sostenuto che l'immagine delle policy communities rappresenta meglio di qualsiasi altra, compreso, in special modo, il modello del governo di partito, il processo di formazione delle politiche pubbliche in Italia. Dente ha affermato che la configurazione delle politiche pubbliche nel sistema politico italiano è quello di un numero limitato di politiche caratterizzate da forti conflitti, con alcune specifiche caratteristiche, un numero ampio di politiche le cui decisioni appaiono essere il prodotto di un sistema di negoziazione stabile e consolidato, un numero ridottissimo di politiche che si basano su una comunanza di valori, obiettivi e interessi. Le politiche prodotte da un sistema di negoziazione stabile e consolidato sono per l'appunto attribuibili alle azioni e alle interazioni di una policy communities.



Ancora più complesso e, comunque, abbastanza precario, quindi difficile da inquadrare in un modello precisamente delineato, è il processo attraverso il quale vengono prodotte le politiche pubbliche dell'Unione Europea. La partecipazione di una molto elevata pluralità di attori in contesti mutevoli con problemi che variano da una importanza minima ad una importanza massima ha prodotto una situazione confusa caratterizzata da comitati internazionali, sopranazionali, cross-nazionali. Il sistema nel suo insieme viene definito, non del tutto propriamente, comitologia/comitatologia. Tecnicamente, per comitatologia bisognerebbe intendere lo studio dell'attività dei comitati. La sovrapposizione, spesso difficile da decifrare, di compiti e di attori, molti dei quali cambiano al cambiare dei rispettivi governi ovvero al mutare della leadership delle associazioni che rappresentano, si traduce in politiche pubbliche che vengono criticate, non solo e non tanto per i loro contenuti, per lo più sempre revisionabili, ma per l'opacità del procedimento che ne ha condotto all'approvazione. Il presunto deficit democratico dell'Unione Europea è, dunque, anche attribuibile in parte non piccola al sistema dei comitati e alla relativa produzione di politiche pubbliche. In ogni caso il sistema dei comitati europei è in un costante processo di cambiamento/adattamento. Bisogna peraltro affermare che, a seconda dei sistemi politici e delle politiche pubbliche, vi sarà non esclusività, ma prevalenza di un modello su un altro. In buona misura, questa prevalenza verrà determinata, oltre che dal tipo di politica pubblica, soprattutto dalla natura degli assetti istituzionali: forma di governo, tipo di burocrazia, forma di stato, sistemi di partito e modalità di formazione delle coalizioni. Non bisogna dimenticare che esiste un collegamento stretto ed inequivocabile fra le strutture politiche, partitiche ed istituzionali, anche formali, e le politiche pubbliche.

Intuitivamente, si potrebbe sostenere che governi e governanti rispondono alle domande degli elettori, se formulate in maniera da minacciare/favorire il loro potere e prestigio, perché sono interessati alla rielezione; e che, in situazioni di scarse risorse, le risposte verranno date soltanto a quelle domande che si impongono vuoi perché formulate da gruppi dotati di potere sui governi e sui governanti vuoi perché congruenti con il programma politico presentato agli elettori. La necessarietà o meno di una politica pubblica, dunque, dipenderebbe quasi esclusivamente dalla valutazione delle autorità politico-istituzionali. La politica pubblica non può essere esclusivamente inquadrata nello schema input-output. Talvolta, una politica pubblica costituisce un tentativo anticipato di disinnescare eventuali domande sociali destinate a presentarsi più pericolosamente nel prossimo futuro: la politica pubblica mira a prevenire virtuosamente l'esplodere di domande mal trattate. Altre volte ancora una politica pubblica è la conseguenza delle interazioni fra una pluralità di attori che prendono parte agli scambi variamente istituzionalizzati secondo i differenti modelli sopra delineati. In questi casi, in buona sostanza, la politica pubblica risponde ad una logica autoreferenziale condizionata sia da dinamiche interne al sistema istituzionale e alla coalizione di governo sia da conflitti fra gli attori senza che siano coinvolti gruppi sociali più ampi. In estrema sintesi, si può sostenere che qualche volta le politiche pubbliche rispondono a problemi, a domande, a esigenze effettive e reali, e qualche volta esse stesse configurano problemi, sollevano domande, producono esigenze. Il circuito input-scatola nera-output semplifica un processo che, come ha suggerito lo stesso Easton, il massimo teorico dell'analisi sistemica della politica, può essere complicato dalle immissioni di input elaborati all'interno della scatola nera ad opera delle stesse autorità politiche: withinputs.

Possiamo affermare che un problema può rimanere tale, senza che vi si appronti una politica pubblica per una molteplicità di ragioni:


è un problema marginale che riguarda pochi gruppi

è un problema intrattabile per il quale mancano soluzioni note

è un problema che le autorità politiche possono sfruttare per più fini: estrarre risorse, colpevolizzare l'opposizione, creare situazioni di panico


La maggior parte degli autori concorda sulla necessità di collegare le politiche pubbliche a problemi sociali, economici e politici che sono diventati salienti. Le risposte in termini di produzione di una politica pubblica potranno dispiegarsi attraverso una pluralità di fasi. La prima teorizzazione in materia risale al 1956 ed è opera di Laswell, che individuò sette fasi:


informazione: caratterizzata dalla raccolta delle notizia, dalla previsione, dalla pianificazione

iniziativa: caratterizzata dalla promozione di politiche alternative

prescrizione: caratterizzata dall'emanazione di regole generali

invocazione: caratterizzata da qualificazioni provvisorie della condotta sulla base delle prescrizioni, includendo anche le richieste di applicazione

applicazione: caratterizzata dalla qualificazione finale della condotta sulla base delle prescrizioni

valutazione: caratterizzata dalla stima della riuscita o del fallimento delle decisioni

cessazione: caratterizzata dall'estinzione delle prescrizioni e degli istituti entrati a far parte dell'ordinamento delle regole


E' logico che una volta formulata una pluralità di soluzioni possibili, si presenta il delicato compito di selezionarne una soltanto. Le autorità politiche possono affrontare il problema anche dal punto di vista dei costi e dei benefici e, fra i costi ed i benefici vanno fatti rientrare anche i consensi che potrebbero essere acquisiti oppure perduti, entro un certo tempo, in seguito ad una determinata politica pubblica. E' logico che fa una differenza significativa se i risultati positivi promettono di arrivare in tempi brevi e quelli negativi in tempi lunghi, o viceversa. Nella decisione conta anche se i governanti occupano cariche in pericolo. La maggioranza dei governanti ha a sua disposizione tempi brevi. Fa differenza, ancora, se i risultati favorevoli riguardano gruppi di riferimento importanti che l'autorità pubblica vuole attrarre nella sua orbita ed i risultati negativi riguardano gruppi marginali ed ostili all'autorità pubblica, o viceversa. Fa differenza, infine, se i costi sono e possono essere diffusi, vale a dire che non è facile sapere chi li paga, e i benefici sono e rimangono concentrati, vale a dire che si sa chi li ottiene, o viceversa. E' l'importante specificazione introdotta da Olson sui benefici collettivi indivisibili e sui benefici selettivi. Ad un certo punto si arriva ad una decisione, ma è ormai chiarito che le autorità pubbliche e gli studiosi considerano la fase successiva alla decisione: quella dell'attuazione che è ancora più importante. Infatti una decisione, qualsiasi decisione, rischia di rimanere lettera morta se non viene seguita attentamente nella sua fase di attuazione. Spesso, le autorità pubbliche si disinteressano dell'attuazione delle politiche pubbliche, dell'implementation, proprio perché non sono, per così dire, interessate a dare seguito alla decisione, oppure sono più o meno dolorosamente consapevoli di non possederne gli strumenti. L'effetto simbolico-propagandistico di una politica pubblica appare ai loro occhi più importante dell'effetto concreto della decisione, e potrebbero avere ragione. Qualche volta, invece, le autorità politiche vorrebbero davvero mettere in atto quella decisione, ma incontrano ostacoli politici, burocratici, tecnici, sociali più o meno invalicabili.

Per quel che riguarda l'attuazione, ovvero la messa in opera, di una politica pubblica, nella letteratura specialistica si identificano, si distinguono e si confrontano due prospettive analitiche che possono essere trattate come antitetiche oppure come complementari. La prima prospettiva viene definita top down e suggerisce che il processo di attuazione di una politica pubblica procede quasi linearmente dal vertice politico, e burocratico, che l'ha formulata e approvata, alla base, cioè a coloro che sono incaricati di attuarla concretamente, di tradurla in comportamenti effettivi e sanzioni efficaci. Se il procedimento fosse davvero perfettamente lineare e rispondesse a criteri e principi gerarchici chiaramente identificabili, allora anche le diverse responsabilità e i corrispettivi meriti potrebbero essere altrettanto chiaramente individuati ai vari livelli di responsabilità. La maggioranza degli studiosi, tuttavia, ritiene che per l'attuazione delle politiche pubbliche operi molto spesso un altro e sostanzialmente opposto tipo di procedimento che viene definito bottom up. Secondo questa prospettiva, gli importanti e spesso decisivi dettagli operativi dell'attuazione (e qualche volta persino dell'iniziativa) di una politica pubblica vengono definiti, selezionati e tradotti in pratiche specifiche soprattutto dagli operatori che agiscono a diretto contatto con i fruitori delle politiche pubbliche (e che sono quindi sottoposti alle pressioni degli utenti). Gli operatori di base godono spesso di una consistente e non facilmente controllabile, discrezionalità e, altrettanto spesso, hanno l'esperienza e le risorse per procedere concretamente alla messa in opera di ciascuna specifica politica pubblica. Costoro, talvolta definiti street level bureaucrats, hanno le conoscenze e il potere sufficienti per adattare la politica pubblica alle caratteristiche del loro pubblico di riferimento e alle proprie esigenze personali, in termini di tempi di lavoro, di carriera, di sicurezza nell'interpretazione delle norme. Se la comunicazione dal basso verso l'alto, bottom up, funziona, la messa in opera di una politica pubblica consapevolmente adattata dagli operatori di base può condurre al suo adeguamento, alla sua revisione, al suo miglioramento ad opera di quei vertici che sappiano prestare il dovuto ascolto, vale a dire che gli obiettivi vengono ridefiniti, le informazioni rielaborate, le alternative riformulate e, forse, alla fine, la soluzione conseguita. Veniamo ora alla valutazione di una politica pubblica. La capacità di quella politica di conseguire gli obiettivi voluti viene definita efficacia, mentre l'efficienza consiste nel conseguimento di quegli obiettivi al minor costo possibile. Finita l'era delle contrapposizioni ideologiche, è probabile che l'efficacia risulti essere la qualità che serve maggiormente a conferire legittimità ad un governo. Si aggiunga che una politica pubblica può avere conseguenze negative impreviste, ma anche, per quanto più raramente, conseguenze positive impreviste. E' stato notato che la corretta valutazione di una politica pubblica deve anche saperne misurare l'impatto inteso come sequenza di avvenimenti che promanano dalla promulgazione del policy output. Gli impatti possono essere controversi e di diverso tipo. Possono riguardare le intenzioni dei policy-makers e le loro aspettative; possono avvantaggiare o svantaggiare, in prima istanza, alcuni gruppi e poi allargarsi ad altri; possono giungere fino a incidere sull'intero sistema politico-economico, come abitualmente fa una qualsiasi riforma non marginale delle modalità di assistenza e di previdenza (welfare), e sulle aspettative e sui comportamenti dei cittadini fruitori attuali e potenziali. Ciascuna di queste riforme: pensioni, sanità, istruzione, lavoro, famiglia è, nei fatti, difficilmente circoscrivibile. Questa considerazione spiega perché ciascuna di queste riforme è altamente controversa e conflittuale.



La linea divisoria fra gli outputs, i prodotti, e gli outcomes, gli esiti, di una politica pubblica è talvolta molto sfumata. In pratica, la valutazione di una politica pubblica può essere effettuata sia in termini di outputs, vale a dire ciò che davvero è emerso alla fine del procedimento iniziato con la formulazione della politica pubblica e culminato nella sua messa in opera, sia in termini di outcomes, vale a dire ciò che ha davvero fatto seguito alla messa in opera di quella specifica politica pubblica e che le può essere correttamente attribuito. E' noto, ed è stato ripetutamente rilevato, che raramente le politiche pubbliche, persino le peggiori, cessano, neppure in seguito ad una valutazione negativa. Si oppongono ad una loro immediata cessazione, alla cosiddetta termination, non soltanto i gruppi che ne hanno tratto in qualche modo beneficio: i policy-takers, ma anche i gruppi che sono stati coinvolti nella sua attuazione: i policy-givers. Fanno da ostacolo anche norme e procedure consolidate, ugualmente lente e farraginose tanto nella formulazione e nella produzione di una politica pubblica quanto nella sua cessazione. Infine, gli stessi produttori politici e burocratici di una politica pubblica possono avere interesse a tenerla in vita, magari con qualche cambiamento, senza farla cessare bruscamente e del tutto, per non rimanere privi di lavoro: out of business. In ogni caso per abolire una politica pubblica bisogna produrne un'altra specifica che ne imponga la cessazione e ciò verrà di per se contrastato dai triangoli di ferro e dalle policy communities. Sono molti infatti gli enti inutili, creati in un tempo lontano per attuare alcune politiche pubbliche, che continuano a sussistere e a sopravvivere come veri e propri monumenti alle difficoltà di innovare facendo piazza pulita di quelle politiche pubbliche che siano state valutate negativamente oppure, semplicemente, di cui non vi sia più bisogno.

Qualsiasi politica pubblica, è stato detto, deriva dall'attività di una autorità pubblica dotata della legittimità e del potere di scegliere e di decidere. Al proposito, gli studiosi si sono interrogati sulle modalità con le quali le autorità pervengono alle scelte e alle decisioni. E' possibile individuare quattro grandi modelli o schemi decisionali:


razionalità sinottica

razionalità limitata

incrementalismo sconnesso

bidone della spazzatura


Lo schema della razionalità sinottica prevede che il decisore, persona singola, comitato, gruppo più ampio, raccolga tutte le informazioni e i dati necessari, si impadronisca di tutte le variabili che influenzano la messa in opera di una politica pubblica, le immagazzini, prenda in esame tutte le conseguenze possibili e, infine, scelga con precisione e determinazione una politica pubblica rispetto ad un'altra. Ciò è stato applicato soprattutto in URSS ed era appoggiato dallo svilupparsi dei nuovi supporti tecnologici. Il modello, tuttavia, non funzionava e venne sostituito con il meno ambizioso modello della razionalità limitata studiato principalmente da Simon.

In questo modello il decisore non si preoccupa più di prendere in esame tutte le alternative, di controllare tutte le variabili, di soppesare tutte le conseguenze possibili; non mira alla massimizzazione dei dati e delle informazioni disponibili. Piuttosto, si limita consapevolmente alla soddisfazione di alcune esigenze, definite in maniera più realistica come la raccolta e la valutazione di un numero da lui ritenuto adeguato, che sia sufficientemente ampio senza essere necessariamente esaustivo e incontrollabile, di dati, di variabili, di alternative, di problematiche e, non da ultimo, di conseguenze. Ad un certo punto la decisione verrà presa, la politica pubblica formulata e attuata e, quando si renderanno disponibili altri dati e altre informazioni, altre alternative e altre soluzioni, il decisore procederà alla riformulazione razionale di ciascuna politica pubblica risultata inadeguata.

Lo schema dell'incrementalismo sconnesso è stato spesso interpretato non solo come un'alternativa, ma anche come una critica, allo schema della razionalità. Formulato dall'economista e politologo Lindblom, questo modello sostiene in estrema sintesi che i processi decisionali e di produzione delle politiche pubbliche procedono non in maniera razionalmente controllata e controllabile, ma per tentativi, attraverso accordi e scambi, crescendo su decisioni già prese, revisionandole e modificandole. L'esito dei processi decisionali effettuati attraverso l'incrementalismo, ovvero attraverso aggiustamenti particolaristici reciproci, non dipende da nessuna razionalità formale, né sinottica, né limitata, ma da rapporti di forza, da relazioni di scambio, da processi di apprendimento, dalla costante concorrenza fra i vari attori che caratterizza i special modo i sistemi politici democratici. Anche se lo stesso Lindblom si è allontanato dal suo schema ritenendolo inadeguato va in ogni modo fatto presente che, senza alcun dubbio, l'incrementalismo sconnesso caratterizza processi decisionali di routine in situazioni di relativa stabilità degli attori, delle loro aspettative, delle loro risorse, dei loro pubblici.

Ancora più scettici di Lindblom sulla capacità dei decisori di fare affidamento sulla razionalità, più o meno sinottica e limitata, e persino sugli aggiustamenti reciproci, che richiedono conoscenze e competenze spesso scarsamente disponibili, si sono rilevati March e Olsen, ai quali si deve la formulazione dello schema noto come garbage can (bidone della spazzatura). Nella prospettiva di March e Olsen, la maggior parte dei processi decisionali, e quindi delle politiche pubbliche, è caratterizzata da insopprimibile complessità. Il numero delle variabili, la quantità dell'informazione, l'imprevedibilità delle conseguenze sono tali che i decisori si trovano abitualmente in enormi difficoltà. Eppure, di tanto in tanto, una decisione appare indispensabile, viene richiesta con forza, deve essere presa quantomeno per alleggerire la pressione delle aspettative. Per sbloccare situazioni di intollerabile pressione e di incontrollabile complessità, il decisore, senza ovviamente né confessarlo né teorizzarlo, si abbandona alla casualità e dal bidone delle alternative variamente disponibili ne estrae una qualsiasi che risulterà, per lo più, né la peggiore né la migliore e che è sostanzialmente influenzata dal particolare tempo in cui la decisione deve essere presa. Infatti, in tempi diversi saranno disponibili anche soluzioni diverse. In verità, spesso il decisore estrae da quel bidone, un problema unitamente a una o più soluzioni, anche perché il bidone continua a riempirsi alla rinfusa di problemi e di soluzioni e perché i decisori stessi cambiano. Dopodiché, se sussistono tutte le condizioni sopra delineate, non sarà facile, né per il decisore né per eventuali gruppi esterni, effettuare una valutazione comparata delle soluzioni prescelte, proprio per l'inesistenza di criteri univoci e affidabili. Comunque, il processo casuale di estrazione di problemi e di soluzioni sarà destinato a continuare.



Le politiche pubbliche sono tantissime ed esiste uno schema di classificazione proposto da Lowi. Secondo lo studioso statunitense esisterebbero essenzialmente quattro grandi categorie di politiche pubbliche, individuate con riferimento anzitutto al loro oggetto: distributive, regolative, redistributive, costitutive.


le politiche distributive, abitualmente prodotte dalle assemblee elettive e dalle loro commissioni e attuate da agenzie e da burocrazie governative, riguardano in generale servizi di vario tipo, per lo più collegati alla previdenza e all'assistenza. Distribuiscono ovviamente risorse e vengono finanziate attraverso le tasse

le politiche regolative riguardano la produzione di norme che regolano i comportamenti, spesso avvantaggiando alcuni individui e gruppi e svantaggiando altri individui e gruppi. Sono anch'esse prodotte dalle assemblee elettive e attuate da agenzie relativamente decentrate

le politiche redistributive tolgono in maniera visibile ed esplicita risorse ad alcuni gruppi per darle ad altri. Sono, pertanto, politiche alquanto conflittuali, che richiedono un notevole intervento del potere esecutivo e un'attuazione piuttosto accentrata

le politiche costitutive, ovvero costituenti, riguardano la formulazione di norme che sovrintendono alla creazione e al funzionamento delle strutture di autorità e delle autorità stesse. Sono, dunque, politiche relativamente rare, in special modo in contesti politico-istituzionali stabilizzati, come sono abitualmente i regimi democratici che funzionano


Alcuni autori hanno criticato la tipologia di Lowi poiché non sarebbero in grado di cogliere l'importanza e di rendere conto delle politiche pubbliche simboliche, che non distribuiscono risorse e non regolano comportamenti, ma servono a rafforzare e/o a trasformare identità collettive, sentimenti di appartenenza, legami fra i detentori del potere politico e i cittadini e a legittimare i detentori stessi del potere. Sono, ad esempio, quelle politiche che fissano le feste nazionali, che sottolineano l'importanza dell'inno e della bandiera, che esaltano il valore delle carte costituzionali e celebrano alcuni avvenimenti storici. Sostanzialmente questo può essere considerato un completamento della proposta di Lowi.

Sostanzialmente Lowi sottolinea la probabilità e la rilevanza dell'intervento più o meno coercitivo delle autorità nell'attuazione delle politiche pubbliche a seconda che esse siano, rispettivamente, regolative e redistributive piuttosto che distributive e costitutive. Le politiche simboliche, per il loro contenuto e per il loro obiettivo, richiedono consenso ampio e liberamente acquisito.

Dalla tipologia di Lowi, correttamente intesa, deriva una lezione da non dimenticare: una politica pubblica, qualsiasi politica pubblica, è il prodotto dell'intervento di autorità, per l'appunto, pubbliche. E' a Lowi, peraltro, che si deve la famosa e dirompente affermazione che le modalità con le quali vengono prodotte le politiche pubbliche finiscono per plasmare anche le strutture politiche: policies determine politics. Questa conclusione, sia nella sua generalità che nella sua drasticità, risulta ancora oggi molto controversa, comunque da sottoporre a serrata, diffusa e approfondita verifica empirica comparata. La verifica empirica comparata è necessaria, e a maggior ragione, anche su un altro versante. Alcuni autori hanno sostenuto che le politiche pubbliche non sono in realtà il prodotto di variabili politiche, vale a dire delle strutture istituzionali, del sistema dei partiti, del colore dei governi. Al contrario, sarebbero essenzialmente il prodotto di variabili socio-economiche. E' stato affermato che, a parità di disponibilità di risorse, ovvero di sviluppo economico, sistemi politici altrimenti differenti per struttura istituzionale e per assetto partitico produrranno politiche pubbliche significativamente simili.

Nella determinazione delle politiche pubbliche hanno giocato un ruolo importante pure l'ideologia dei partiti e dei governi e hanno fatto pure una differenza significativa i gruppi di riferimento ai quali venivano offerte determinate politiche pubbliche. In generale i partiti di sinistra (socialisti, socialdemocratici e laburisti) hanno scelto di combattere la disoccupazione anche correndo il rischio di un aumento dell'inflazione, mentre i partiti e i governi conservatori dedicavano le loro energie a ridurre il tasso di inflazione anche se ciò significava una crescita della disoccupazione. In estrema sintesi si può sostenere, da un lato, che politiche affidate alla deregolamentazione e al mercato non hanno nessuna possibilità di determinare la politica; dall'altro, che i tentativi partecipazionisti, che salgono dal basso, come, ad esempio, il cosiddetto bilancio partecipato, anch'esso una politica pubblica, potrebbero avere maggiore successo, ma richiedono una visione politica stabile e di lungo periodo che non sembra potere emergere da una galassia variegata di movimenti di diversa provenienza e impronta come quelli no e new global. Possiamo inoltre affermare che anche se fossero le disponibilità socio-economiche a determinare le politiche pubbliche, rimarrebbero non poche e tutt'altro che marginali differenze politiche e istituzionali fra i sistemi politici  per quel che concerne la messa in opera delle politiche pubbliche e la valutazione del loro impatto. Insomma, la politica ritornerebbe in campo sia per quel che riguarda l'efficienza degli apparati burocratici, sia per quel che riguarda la capacità dei politici, dei partiti, dei governanti di rivedere, riformulare, migliorare le politiche pubbliche seguendo gli insegnamenti che discendono dalla valutazione dei loro esiti. Né è da escludere che proprio l'impatto di alcune politiche pubbliche particolarmente importanti possa condurre ad una vivace e rivitalizzante sostituzione di politici, di partiti, di governanti e, persino, a una riforma delle istituzioni, dei processi decisionali, degli apparati burocratici. Questo sarebbe, allora e al meglio, il significato della già citata espressione di Lowi policies determine politics. Infatti, politiche pubbliche mal formulate e peggio attuate rimbalzerebbero contro i loro decisori, contro i loro esecutori, contro le stesse strutture che le hanno plasmate imponendone cambiamenti e sostituzioni. D'altro canto, la nuova sfera politica e burocratica, eventualmente ricostruita, retroagirebbe contribuendo a sua volta a rideterminare le nuove politiche pubbliche.

E' logico che chi sa ricostruire correttamente il processo di formulazione, di attuazione e di valutazione dell'impatto di una politica pubblica dovrebbe essere anche in grado (secondo Lowi) di consigliare come fare la prossima volta, di suggerire miglioramenti, di diventare un policy scientist: si vedrebbe in sostanza la vocazione applicativa della scienza politica. Bisogna qui ricordare l'importante messaggio di Easton: la ricerca non guidata dalla teoria può essere insignificante, e la teoria non sostenibile con i dati può rilevarsi improduttiva.

Abbiamo visto dunque che risulta estremamente difficile pervenire all'elaborazione di convincenti modelli comparati nello studio delle politiche pubbliche. Inoltre, l'elaborazione di una politica pubblica prevede processi poco strutturati, poco prevedibili, poco riconducibili a percorsi definiti, poco ripetibili, quindi caratterizzati da episodicità e frammentarietà. Vi è poi un secondo interrogativo che attiene alla democraticità dei processi di produzione delle politiche pubbliche. Se hanno ragione alcuni studiosi, probabilmente la maggioranza di coloro che si occupano dell'argomento, i processi di produzione delle politiche pubbliche sono abitualmente controllati, comunque significativamente influenzati, da attori singoli e collettivi che non hanno ricevuto nessun mandato elettorale e che sicuramente non verranno chiamati a rispondere delle loro scelte e delle loro azioni ai cittadini. Laddove prevale il modello del party government/cabinet government, la responsabilità politica può essere chiaramente, rapidamente e periodicamente attribuita. Ma questo è il caso più raro. Laddove prevale il modello neo-corporativo, quantomeno gli attori governativi possono essere ritenuti responsabili degli accordi raggiunti con gli attori sindacali e con gli attori imprenditoriali. A loro volta, questi attori dovranno rispondere ai loro iscritti, attuali e potenziali, alla loro base, ai loro associati, forse anche, a determinate condizioni, all'opinione pubblica. In tutti gli altri modelli, invece, l'attribuzione di responsabilità politica democratica appare non soltanto rarissima, ma sostanzialmente impraticabile. Tanto nei triangoli di ferro quanto nelle reti tematiche e nelle policy communities è possibile individuare una molteplicità di attori che non rispondono a nessun pubblico generale delle loro opzioni, delle loro scelte, delle loro decisioni. Lo stesso, gravissimo problema si presenta, come abbiamo visto, quando il luogo della produzione di politiche pubbliche rilevanti come quelle che riguardano i cittadini, i gruppi, gli stati membri dell'Unione Europea è il, poco trasparente e molto confuso, sistema dei comitati.

In sostanza possiamo affermare che più aumenta il numero degli attori rilevanti nella produzione delle politiche pubbliche tanto più diventa difficile, se non addirittura impossibile, attribuire responsabilità politico-decisionali specifiche. In sostanza si può sostenere, con un gioco di parole, che in ogni dove, il potere sembra essere altrove.







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