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ORDINAMENTO COMUNITARIO

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ORDINAMENTO COMUNITARIO


In questo terzo capitolo cercheremo di analizzare, per la parte che qui interessa, l'ordinamento comunitario. In particolare dopo brevi cenni ai principi generali del sistema, alle modalità di interazione con il sistema nazionale, passeremo all'analisi del diritto amministrativo comunitario. Sarà di seguito necessario analizzare gli strumenti di tutela predisposti da tale ordinamento per le posizioni soggettive da esso riconosciute.

La nostra attenzione si concentrerà maggiormente sui criteri di determinazione della responsabilità extracontrattuale degli organi dell'Unione Europea e sui criteri che successivamente la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha costruito per la responsabilità degli Stati membri.

Infine tenteremo di confrontare i tre modelli: la responsabilità degli organi comunitari, la responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto comunitario e le modifiche al modello di tutela nazionale apportate dal diritto comunitario soprattutto attraverso la creazione di nuove posizioni soggettive di matrice comunitaria.




III.1 - IL DIRITTO COMUNITARIO: PRINCIPI GENERALI


È ormai un dato certo che la Comunità Europea sia un ordinamento giuridico, ovvero un insieme organizzato e strutturato di norme giuridiche provvisto di 626f52g fonti proprie, di organi e procedure idonee ad emetterle, interpretarle, farne constatare, e, nel caso, sanzionarle le violazioni.

L'ordinamento comunitario si fonda sui principi e le regole contenute nei Trattati, ai quali se ne sono aggiunti altri formulati dal Giudice Comunitario. Proprio la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha elaborato la tesi della Comunità come distinto ordinamento giuridico. E analizzando le varie sentenze con cui tale tesi è stata costruita[1] possiamo ricavarne tre principi caratterizzanti l'ordinamento: la preminenza del diritto comunitario rispetto al diritto nazionale; la diretta applicabilità di una parte degli atti comunitari; l'efficacia diretta di una parte degli atti comunitari. I primi due attengono ai rapporti tra le fonti dell'ordinamento comunitario e degli ordinamenti nazionali, fondando il sistema unitario o monistico, il terzo, ovvero il principio dell'efficacia diretta, attiene alla capacità che hanno certi atti comunitari di fondare direttamente situazioni giuridiche soggettive di vantaggio che gli interessati possono far valere davanti al giudice nazionale o comunitario.

Analizziamo distintamente i tre principi.

La preminenza del diritto comunitario sul diritto nazionale:

Il diritto comunitario si impone al diritto degli Stati membri, secondo il criterio della preminenza sulle disposizioni nazionali eventualmente contrarie. In altre parole il diritto comunitario è interpenetrato nell'ordinamento giuridico degli Stati membri e rappresenta un imperativo incondizionato. Gli Stati membri attraverso i Trattati non hanno determinato soltanto obblighi reciprochi, ma hanno costituito un diritto nuovo che disciplina poteri, diritti e obblighi dei vari soggetti coinvolti, nonché le procedure necessarie per far sanzionare ogni eventuale violazione[2].

In particolare ciò implica, anche secondo l'interpretazione della Corte, che il diritto comunitario si applica completamente e contemporaneamente, con i medesimi effetti, a tutto il territorio della Comunità, senza che gli Stati possano frapporvi alcun ostacolo. Per ciò che attiene all'impatto sul regime delle fonti, la stessa Corte, nella sentenza Costa, spiega: "(.) Scaturito da una fonte autonoma, il diritto nato dal Trattato non potrebbe, in ragione appunto della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risultasse scosso il fondamento giuridico della stessa Comunità".

La diretta applicabilità delle norme comunitarie:

Si tratta di un principio che trova diretto riferimento nel Trattato. L'articolo 249[3] prevede infatti che "il Regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri".

Quindi gli atti direttamente applicabili non necessitano alcun intervento da parte dello Stato membro, hanno conseguenze dirette rispetto ai soggetti cui sono indirizzati. Gli Stati sono tenuti a non interporre alcun ostacolo e a non adottare, tramite atti nazionali, gli stessi provvedimenti.

La diretta applicabilità è diversa quindi dalla nozione di efficacia diretta: la prima disciplina un rapporto tra legislatore comunitario e legislatore nazionale, quale dunque criterio ordinatorio delle fonti; allo stesso tempo disciplina i rapporti tra individui, avendo valore erga omnes.

Quindi tutti gli atti dotati di diretta applicabilità hanno efficacia diretta, mentre non è detto il contrario, come nel caso delle direttive.

L'efficacia diretta delle norme comunitarie:

Il c.d. effetto diretto evidenzia la capacità del diritto comunitario di fondare ab origine delle situazioni giuridiche soggettive dei singoli che i giudici nazionali devono tutelare.

Riprendendo ancora una volta l'operato della Corte[4], i principi elencati comportano sul piano dell'ordinamento che:

"le norme comunitarie esplicano la pienezza dei loro effetti in maniera uniforme in tutti gli Stati membri, e sono pienamente ed uniformemente applicate in quanto fonte immediata di diritti ed obblighi per tutti i destinatari dei loro effetti, Stati e Singoli; i giudici nazionali hanno il compito di tutelare i diritti attribuiti dal diritto comunitario. Sul piano interno sono inapplicabili le norme preesistenti in contrasto con gli atti comunitari così come è inibita la valida formazione di atti incompatibili con le norme comunitarie stesse."

Lasciando da parte lo studio approfondito del sistema comunitario, e dati di base i principi su elencati, volgiamo lo sguardo al ristretto ambito che qui interessa: l'influsso dell'ordinamento comunitario sul diritto amministrativo italiano. In particolare analizzeremo sia le modificazioni che sono avvenute sul piano del diritto amministrativo sostanziale, che sul piano del diritto amministrativo processuale, quindi la concezione di responsabilità della Pubblica Amministrazione, intesa sia verso gli organi comunitari sia verso gli organi nazionali. La finalità perseguita è di verificare quanto il diritto amministrativo comunitario[5] abbia contribuito al rafforzamento della tutela del cittadino (europeo) nei confronti della Pubblica Amministrazione, sia essa eseguita da organi comunitari che da organi nazionali; dovremmo quindi soffermarci anche sulla Carta Europea dei Diritti dell'uomo, ultima "conquista" del diritto comunitario, adottata a Nizza lo scorso dicembre. L'ultimo passo sarà verso la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, soprattutto verso l'organo che ne controlla il rispetto, la Corte Europea dei diritti dell'uomo, che, nella prospettiva di questa ricerca è un ulteriore anello di collegamento e comunicazione tra i diversi ordinamenti: nazionale, comunitario e internazionale.



III.2 - ORDINAMENTO COMUNITARIO E ORDINAMENTO NAZIONALE


L'apporto del diritto comunitario all'ordinamento interno è stato definito da qualcuno[6] simile ai danni provocati dalle termiti in un vecchio mobile, all'apparenza stabile seppur traballante. In realtà, ad una prima occhiata, l'ordinamento italiano sembra sì svuotato dal continuo ingresso di norme comunitarie, ma ad un'occhiata più attenta molte sono le nuove costruzioni che la legislazione dell'Unione ha pazientemente creato.

Non è da sottovalutare il fatto che l'ordinamento comunitario non solo conquista continuamente "nuove province"[7] ma ormai, con lo strumento del monopolio dell'interpretazione del diritto comunitario (riservato ai propri organi), rivendica sempre più chiaramente a sé quella che è la massima prerogativa di un ordinamento sovrano: e cioè la competenza delle competenze, la competenza a fissare i limiti entro cui può liberamente muoversi l'ordinamento nazionale. Per quest'ultimo, dalla ratifica del Trattato ed in progressivo aumento, in condizione di sovranità limitata, si ha una situazione di libero Stato in libera Unione Europea, in un sistema di tipo prefederale.

D'altronde la Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato che esisterebbero delle colonne d'Ercole, dei limiti invalicabili per l'ordinamento comunitario: "i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale" e " i diritti inalienabili dell'uomo" .

Eppure, almeno in alcuni casi, alcuni limiti sono stati silenziosamente ma fortemente superati.

Per quanto riguarda ad esempio il sistema delle fonti, che sicuramente è una parte fondamentale dell'ordinamento ma soprattutto fa parte a pieno titolo della Costituzione materiale, i cambiamenti sono stati enormi.

L'ordinamento comunitario ha provocato la rivoluzione: sul preteso fondamento dell'articolo 11 della Costituzione[9] e con il ponte inadeguato di una legge nazionale ordinaria, quella di ratifica dei trattati, ha introdotto nell'ordinamento nazionale una serie di norme che secondo la giurisprudenza costituzionale si articolano come segue:

le norme comunitarie prevalgono sulle norme statali incompatibili sia anteriori che successive, in modo automatico, senza necessità che una sentenza della Corte o un atto abrogativo del legislatore rimuovano le disposizioni statali incompatibili[10]. Le stesse norme impongono al Legislatore nazionale, per esigenze di certezza del diritto, di rimuovere formalmente dall'ordinamento statuale le norme contrarie al Trattato e al diritto comunitario. Quindi, in pratica, tra ordinamento comunitario e ordinamento interno viene a stabilirsi non un rapporto di "leale cooperazione", come previsto dall'articolo 5 del Trattato istitutivo o un rapporto simile a quello ipotizzato dalla Corte Costituzionale tra Stato e Regioni o tra vertici dello Stato, quanto un rapporto di semplice subordinazione. Tale posizione non vuole in alcun modo essere anti europeista, semplicemente coglie un dato di fatto: nonostante la possibile e non ben sfruttata capacità di influenza ascendente dell'Italia verso l'ordinamento comunitario, il dato più visibile è la recezione, che deve essere anche leale ed immediata, delle norme che, da Bruxelles, piombano sul nostro ordinamento: non è in discussione la politica di gestione dell'appartenenza dell'Italia all'Unione Europea.

Altro dato di fatto è l'immediata operatività delle norme comunitarie, non solo se contenute in fonti riconosciute comunque idonee dall'ordinamento statuale, sia pure al di fuori di un'apposita previsione costituzionale, come per i regolamenti, ma anche se contenute in fonti riconosciute idonee[11] solo dalla Corte di Giustizia comunitaria, con un'ulteriore innovazione di un sistema come il nostro, che non conosce le regole dello stare decisis e dei precedenti, e nega la possibilità di sentenze additive.

La naturale conseguenza è la degradazione delle fonti nazionali che recepiscono le suddette direttive e decisioni comunitarie da fonti di produzione quasi a mere fonti sussidiarie di cognizione del diritto aventi un valore notiziale.

Particolarmente significativo in tal senso è l'articolo 13 della legge 142/1992[12], che, in materia di appalti pubblici di lavori o di forniture prevede il risarcimento del danno nel caso di violazione del diritto comunitario o delle norme interne di recepimento; nella stessa direzione sembra condurci l'articolo 56 della legge 142/1990 in materia di autonomie locali secondo cui "..gli enti locali si attengono alle procedure previste dalla normativa della Comunità europea recepita o comunque vigente nell'ordinamento giuridico italiano".

Siamo in sostanza di fronte ad una scelta tendenzialmente irreversibile: infatti nel caso in cui il Legislatore nazionale emanasse una legge che revocasse "ingiustificatamente" le limitazioni di sovranità derivanti dal sistema o dal nucleo essenziale dei principi del Trattato sarebbe dichiarata dalla Corte Costituzionale "incostituzionale", come già dichiarato dalla stessa Corte nella Sentenza 170/1984.

Per quanto riguarda poi il controllo di costituzionalità, le sentenze già citate finiscono per devolvere ai giudici comuni ed alla Pubblica Amministrazione, attraverso il meccanismo della disapplicazione (meccanismo di controllo diffuso), il controllo sulla conformità delle norme interne al diritto comunitario direttamente applicabile, riservando alla Corte Costituzionale soltanto il sindacato sulle leggi "dirette ad impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del Trattato". In tal modo il normale controllo accentrato di legittimità costituzionale delle leggi viene doppiato da un analogo controllo diffuso di valore paracostituzionale, comunque sopra le righe rispetto ad una qualsiasi previsione della Carta Costituzionale.

Anche i rapporti tra Stato e Regioni hanno subito un brusco cambiamento, soprattutto per ciò che concerne la suddivisione delle competenze legislative: con la Sentenza 399/1987, la Corte ha riconosciuto che "gli organi della Comunità europea non sono tenuti ad osservare puntualmente la disciplina nazionale e, in particolare, la ripartizione delle competenze[13] pur prevista da norme di livello costituzionale , ma possono emanare, nell'ambito dell'ordinamento comunitario, disposizioni di differente contenuto"; sicché sono le norme comunitarie a fungere da nuovo parametro di legittimità degli atti governativi e regionali.

In materia di diritti inalienabili dell'uomo si giunge ad una conclusione di segno analogo: è pacifico il riconoscimento della legittimità di un intervento comunitario che fornisca una tutela maggiore rispetto alla normativa nazionale[15]. Il problema sta forse nel verificare se sia tecnicamente e logicamente corretto parlare di maggiore tutela a proposito di interventi omogeneizzatori che prescindano totalmente sia da una valutazione complessiva dell'ordinamento nazionale che si va a modificare sia da quel bilanciamento e da quella ponderazione comparativa dei valori essenziali dell'ordinamento nazionale che in Italia viene compiuto dalla Corte Costituzionale. E' opinione diffusa che l'intervento comunitario non possa potenzialmente creare problemi concreti, in quanto i diritti inalienabili della persona sarebbero diritti civili e politici mentre l'ordinamento comunitario si occuperebbe di diritti economici: visione arcaica. A parte il fatto che anche se così fosse, nessuno può negare che i diritti economici hanno nelle Costituzioni attuali rilevanza, oltre a ciò il dato più importante è che esistono dei diritti inalienabili della persona strettamente e indissolubilmente collegati ai diritti economici.

Secondo quanto risulta dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia la preminenza delle norme comunitarie deve essere garantita nei confronti di qualsiasi norma statale: anche nei confronti di norme costituzionali degli Stati membri. Posizione rafforzata dalla considerazione che le norme comunitarie sono emanate da un organismo giuridico che si pone al di sopra degli Stati appartenenti all'organismo stesso. Seguendo invece l'impostazione della Corte Costituzionale italiana, la preminenza deriva dallo strumento d'ingresso utilizzato, ovvero l'articolo 11 della Costituzione: in questo caso si pone il problema di accertare se ed in quale misura questa disposizione sia suscettibile di giustificare deroghe a norme di rango costituzionale. Già con la sentenza n.14/1964, la Corte aveva prospettato una funzione permissiva dell'articolo 11 nel senso che esso consentiva di "(.) Stipulare trattati con cui si assumano limitazioni della sovranità e darvi esecuzione con legge ordinaria": con ciò si indicava che per mezzo di una legge che attui l'articolo della Costituzione si possa derogare a norme che esprimono o tutelano la sovranità.

Nel 1965, la Corte Costituzionale, con la Sentenza n.98, aveva innanzitutto escluso che alcune disposizioni della Costituzione potessero essere applicate in relazione ai diritti e interessi che derivano ad un soggetto "..dalla sua posizione in un ordinamento estraneo"; ha così sindacato la legge di esecuzione, in quel caso del Trattato CECA, in quanto gli effetti interni dell'attività comunitaria "vanno determinati senza pregiudizio del diritto del singolo alla tutela giurisdizionale". E' chiaro che tale impostazione deriva dalla considerazione della tutela giurisdizionale quale diritto inalienabile della persona.

Lo sviluppo successivo di queste problematiche lo troviamo nella sentenza 183/1973[16] in cui si ribadisce:

"In base all'articolo 11 della Costituzione sono state consentite limitazioni di sovranità unicamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate; e deve quindi escludersi che siffatte limitazioni, concretamente puntualizzate nel Trattato di Roma sottoscritto da Paesi i cui ordinamenti si ispirano ai principi dello Stato di diritto e garantiscono le libertà essenziali dei cittadini, possano comunque comportare per gli organi della CEE un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento Costituzionale, o i diritti inalienabili della persona umana."

Da ciò dovrebbe derivare un limite all'applicazione della normativa comunitaria: limite simile a quello preesistente nel nostro ordinamento con riferimento alle norme di revisione costituzionale. Quello dei diritti fondamentali pare essere l'unico limite riconosciuto dalla Corte nei confronti dell'efficacia del Trattato di Roma. Da ciò discende la necessità di verificare se ed in quale misura, quando si tratta di applicare una norma comunitaria in Italia, alla tutela dei diritti fondamentali accordata nell'ordinamento comunitario si aggiunga quella fondata sulla Costituzione. In altre parole quando si debba applicare una norma comunitaria che non sia coerente con la tutela prevista dalla Costituzione verso i diritti fondamentali della persona.

Il limite, posto in questi termini, sembra assumere scarso rilievo. La stessa Corte afferma "E' difficile configurare anche in astratto l'ipotesi di un regolamento comunitario che possa incidere in materia di rapporti civili, etico-sociali, politici, con disposizioni contrastanti con la Costituzione". Si tratta logicamente in astratto di un ipotesi remota, ed è altrettanto vero che la tutela dei diritti fondamentali si è notevolmente sviluppata sul piano comunitario, riducendo così le ipotesi in cui non risultano tutelati diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. Tuttavia, a distanza di sedici anni dalla sentenza n.183/1973, la Corte, con la sentenza 232/1989, rileva: " quel che è sommamente improbabile è pur sempre possibile; inoltre, va tenuto conto che almeno in linea teorica generale non potrebbe affermarsi con certezza che tutti i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale si ritrovino fra i principi comuni agli ordinamenti degli Stati membri e quindi siano compresi nell'ordinamento comunitario".

Ma in effetti il limite maggiore della sentenza del 1973 non è l'ipotesi prospettata, appunto teoricamente possibile, ma il congegno processuale che la Corte ha allora ritenuto applicabile per far valere l'eventuale non conformità della norma ai principi costituzionali[17]. La Corte afferma infatti che "sarebbe assicurata la garanzia del sindacato giurisdizionale sulla perdurante compatibilità del Trattato con i predetti principi fondamentali": quindi attraverso un controllo della legittimità costituzionale della legge di esecuzione del Trattato CE. Anche se, sempre in base al sistema costruito dalla stessa Corte Costituzionale, vada immediatamente escluso un sindacato sui singoli regolamenti, infatti, in base all'art.134 della Costituzione la Corte Costituzionale è chiamata a svolgere un controllo di legittimità nei confronti delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni, e, tali non sono i regolamenti comunitari. Una soluzione che esclude qualsiasi controllo di legittimità su atti normativi che esplicano direttamente il loro effetto verso l'Italia e i cittadini italiani, almeno che non venga ipotizzato un sistema di controllo diffuso ad opera dei giudici nazionali: ipotesi neanche sfiorata dalla Corte. Eppure se si ritiene, come lo stesso ordinamento comunitario ci impone, di considerare il regolamento comunitario quale atto normativo operante in Italia per forza propria, lo stesso dovrebbe valere per tutte le altre norme comunitarie, comprese quelle enunciate nel Trattato; se invece l'efficacia in Italia di quest'ultime, come sembra considerare la nostra Corte, deriva dalla legge di esecuzione del Trattato, allora dalla stessa legge dovrebbe derivare l'efficacia di tutte le norme comunitarie.

Quindi la soluzione all'incirca dovrebbe essere questa: la Corte dovrebbe poter esaminare una questione di legittimità costituzionale della legge di esecuzione del Trattato in quanto su di essa si fonda l'efficacia in Italia di un atto normativo comunitario ed affrontare quindi la questione della compatibilità del medesimo atto con i principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale.

In parole povere per accertare l'illegittimità, rispetto alla nostra Costituzione, di un atto comunitario la Corte dovrebbe dichiarare illegittima la legge di esecuzione nella parte in cui dà efficacia a tale atto all'interno del nostro ordinamento.

Con la sentenza 232/1989 la Corte ammette esplicitamente la propria competenza a verificare, attraverso il controllo di costituzionalità della legge di esecuzione, se una qualsiasi norma del Trattato " (.) così come essa è interpretata dalle istituzioni e dagli organi comunitari, non venga in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della persona umana."

Nella medesima sentenza la Corte si è posta il problema della compatibilità del diritto alla tutela giurisdizionale, garantito dall'art.24 della Cost., con l'art.177 del Trattato: la verifica non è stata letterale, ma si è analizzata l'interpretazione e l'applicazione della Corte di Giustizia. Il contrasto è stato escluso solo per la mancanza di "una consolidata giurisprudenza del Giudice Comunitario".

In conclusione, se la Corte effettuasse realmente un controllo del rispetto da parte degli atti comunitari dei diritti fondamentali dell'ordinamento interno, l'esito negativo implicherebbe una disapplicazione, anche parziale, dell'atto comunitario. Ciò pregiudicherebbe l'applicazione uniforme della normativa comunitaria, una circostanza difficilmente compatibile con una partecipazione corretta dell'Italia all'attuale Unione Europea[18].

La domanda è quindi se vi sia ancora la certezza che i principi fondamentali e strutturalmente essenziali del nostro ordinamento siano delle vere colonne d'Ercole; la competenza comunitaria si è sicuramente espansa fino a ricomprendere i diritti fondamentali della persona, come dimostrano gli ultimi sviluppi, in particolare la citazione della CEDU, attraverso l'articolo 6 Trat.Ce e la Carta Europa di Nizza.

Sull'efficacia di questo ampliamento strumentale delle competenze comunitarie, torneremo. Cerchiamo ora di comprendere le modifiche che la normativa comunitaria ha portato al diritto amministrativo interno.


III.3 - IL DIRITTO AMMINISTRATIVO COMUNITARIO: I PRINCIPI


Tornando al piano comunitario cerchiamo di analizzare l'impianto del diritto amministrativo comunitario: ricerca che ci aiuterà a prevedere i possibili sviluppi del sistema dell'Unione Europea e magari ad anticipare le modifiche che percuoteranno l'ordinamento italiano.

Il Trattato CE, a differenza di varie Costituzioni tra cui quella italiana, parla del momento patologico dell'azione amministrativa: l'articolo 230 (ex art.173) prevede i casi in cui l'azione amministrativa è invalida e quindi elenca i motivi di eventuale ricorso per l'annullamento degli atti; l'articolo 195 (ex 138E) contempla il caso di cattiva amministrazione, senza darne del resto alcuna definizione generale.

L'articolo 230 prevede che la Corte di Giustizia eserciti un "controllo di legittimità sugli atti" comunitari, mentre l'articolo 195 esclude l'azionabilità del Mediatore nel caso in cui i fatti in questione formino o abbiano formato oggetto di una procedura giudiziaria.

Da questi dati normativi a rilevanza costituzionale, emerge una chiara distinzione nell'ambito dell'azione della Comunità tra attività amministrativa invalida, ovvero contraria ai parametri legislativi che la regolano, ed attività amministrativa impropria o "cattiva"[19], in quanto non rispondente alle regole non giuridiche di buona amministrazione applicabile alle specifiche circostanze. Le due previsioni non sono in antitesi, al contrario si completano offrendo ai soggetti coinvolti una protezione più ampia dei loro diritti e interessi. L'esperienza comunitaria, ed anche degli Stati membri, dimostra che, a fronte di una sempre più complessa azione amministrativa, i tradizionali vizi di legittimità non sempre consentono di verificare appieno l'operato delle pubbliche amministrazioni, neanche quando i giudici utilizzano nel modo più ampio alcuni motivi di ricorso a carattere aperto, come l'eccesso di potere. Attualmente non esiste una giurisprudenza consolidata che definisca il concetto di cattiva amministrazione, esiste però una vasta giurisprudenza dei giudici comunitari in tema di diritti procedurali che certamente possiamo annoverare all'interno del più ampio principio di buona amministrazione, speculare a quello di cattiva e quindi utile per delineare quest'ultima in negativo.

Con molta approssimazione possiamo definire cattiva amministrazione l'ipotesi in cui un'istituzione o un organo comunitario violi il Trattato o ogni altro atto comunitario vincolante quell'organismo, oppure quando violi i principi generali di diritto comunitario stabiliti dalla Corte di giustizia e, per la sua parte, dal Tribunale di primo grado; oppure ancora, quando si è determinata una violazione dei diritti fondamentali[20].

Come premesso, la nozione è approssimativa e quindi discutibile.

Simmetricamente occorre analizzare i principi del procedimento amministrativo, frutto della giurisprudenza della Corte di Giustizia e che, fino ad ora, non trovano un riscontro diretto nel Trattato[21]. Alcuni sono richiamati direttamente in regolamenti o direttive, ed hanno dunque valore vincolante per le materie direttamente disciplinate .

Tra i molti principi[23] rilevanti per il procedimento amministrativo, vanno ricordati i principi di certezza del diritto, di proporzionalità, di legittimo affidamento, di buona amministrazione, nonché il diritto ad essere ascoltati. Alcuni derivano direttamente da un particolare ordinamento nazionale , altri sono di generale accettazione di tutti gli Stati membri. Esistono del resto principi comunitari totalmente innovativi e ciò implica che, sul piano nazionale, tali principi trovino piena applicazione nei casi rilevanti in base al loro carattere di fonte del diritto, ma esercitano un ruolo espansivo per le restanti materie.

Passando all'esame di questi principi, il primo da cui discende l'operatività dell'intero ordinamento comunitario è sicuramente la certezza del diritto: tale principio implica che i soggetti dell'ordinamento comunitario siano garantiti circa il quadro giuridico della loro azione e dei rapporti con le istituzioni e gli organismi comunitari. In particolare il principio è diretto a garantire la prevedibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici rientranti nella sfera del diritto comunitario[25]. Si tratta di un tipico svolgimento dell'idea generale di Stato di diritto che, l'Unione Europea, deve far proprio nella misura in cui si pone come entità sovranazionale; principio, quello della certezza, che si lega strettamente ad altri, come quello del legittimo affidamento. Quest'ultimo, pur essendo un principio generale che governa tutte le funzioni comunitarie, trova nel diritto amministrativo un terreno di ampia applicazione. Esempio più eclatante ne è la revoca degli atti amministrativi illegittimi: fin dalla prima giurisprudenza comunitaria si è discusso della fondatezza e dei limiti di questo potere. Mutuando l'impianto dai diritti amministrativi nazionali, la posizione della giurisprudenza comunitaria è diretta nel senso di ammettere la revoca solo entro un termine ragionevole, ed alle condizioni che non siano in gioco situazioni giuridiche soggettive costituite da un atto individuale valido, e che non sia violata la tutela del legittimo affidamento. Il principio sottostante, ovvero l'irrevocabilità dell'atto amministrativo, è un fattore costituente del più ampio principio di certezza del diritto e di stabilità delle situazioni giuridiche. Non è pacifico se il principio trovi la sua fonte direttamente nel Trattato, oppure se non derivi direttamente dagli articoli 8 - 11 della Convenzione Europea dei Diritti dell'uomo.

E' indubbio però che, qualunque sia la fonte, detti principi sono così a fondo permeati nel tessuto comunitario grazie all'opera della Corte di Giustizia. La Corte è intervenuta ad esempio disciplinando il generale divieto di irretroattività degli atti amministrativi e prevedendo le deroghe lecite, ed ancora è intervenuta sul tema del rapporto tra recupero di aiuti di Stato dichiarati incompatibili e principio di affidamento.

In generale è continuo il collegamento tra il principio di certezza del diritto e quello di legittimo affidamento, che in modo diretto mira a proteggere le situazioni consolidate a fronte di revoche illegittime, soprattutto in presenza di circostanze di fatto che giustificano un ragionevole affidamento ingenerato nei destinatari da organi comunitari. Il principio vale tanto per l'azione della Comunità quanto per l'attività di rilevanza comunitaria svolta dagli Stati membri, secondo il criterio generale per cui l'esecuzione indiretta del diritto comunitario da parte delle amministrazioni nazionali è soggetto ai medesimi principi generali del diritto comunitario.

Un altro principio cui la giurisprudenza comunitaria ha fatto largo ricorso, specialmente per l'attività amministrativa, è quello di proporzionalità. Si tratta di un principio ad ampio spettro di applicazione incentrato sul rispetto dell'equilibrio tra obiettivi perseguiti e mezzi utilizzati, che riguarda in egual modo l'azione della Comunità e degli Stati membri. In tal senso le Pubbliche Autorità non possono stabilire obblighi e restrizioni alla libertà degli interessati in misura diversa da quella necessaria nel pubblico interesse per raggiungere lo scopo cui è preposta l'autorità responsabile; e sempre che si tratti di provvedimento davvero necessario. I settori dove maggiormente si è sviluppata l'operatività del principio di proporzionalità sono stati quello degli aiuti di Stato, dell'organizzazione dei mercati, delle sanzioni per violazione di disposizioni comunitarie[27]. La giurisprudenza mostra l'attenzione dei giudici affinché sia garantita, tramite la proporzionalità, un'adeguata ponderazione fra gli interessi pubblici e quelli privati, nel senso di infliggere a quest'ultimi il minor sacrificio possibile.

Il principio di proporzionalità ha un'ampia potenzialità di applicazione, tanto da inserirsi in ordinamenti in cui era totalmente estraneo, come l'Inghilterra, o l'Italia, in cui il principio è stato ricavato da una progressiva interpretazione del vizio di eccesso di potere e del sottostante parametro dell'adeguatezza. Senza dimenticare però che nel diritto comunitario sono distinti il vizio di sviamento di potere e la violazione del principio di proporzionalità: la Corte ha più volte ribadito che il principio di proporzionalità richiede che gli atti delle istituzioni comunitarie non superino i limiti di ciò che è idoneo e necessario per il conseguimento degli scopi legittimamente perseguiti dalla normativa.   

Il diritto ad essere ascoltati nel corso del procedimento amministrativo, ovvero audi alteram partem, è un altro principio da sempre alla base del diritto comunitario: la Corte di Giustizia, già dalla sentenza Alvis del 1963, svolgendo le varie implicazioni dello Stato di diritto lo riconosce come principio di diritto amministrativo ammesso in tutti gli Stati nella misura in cui risponde alle esigenze della giustizia e della buona amministrazione. Il principio è stato individuato in riferimento specifico ai procedimenti afflittivi, al fine di consentire agli interessati di poter esporre le proprie ragioni ed avere al riguardo una risposta motivata da parte degli organismi cui compete la responsabilità del procedimento, così rafforzando la loro tutela. Nel 1974 la Corte, nell'ambito della sentenza Transocean Marine Paint Association, afferma: "In riferimento all'art.220 (ex art.164), il rispetto delle prerogative della difesa in qualsiasi procedimento instaurato a carico di una persona e che possa sfociare in un atto per essa lesivo, costituisce un principio fondamentale di diritto comunitario e va garantito anche se non vi è alcuna normativa che riguardi il procedimento (amministrativo) in questione".

Nella sentenza Munchen-Mitte del 1991, ribadisce: "quando le istituzioni comunitarie dispongono di potere discrezionale è di fondamentale importanza il rispetto nei procedimenti amministrativi delle garanzie offerte dall'ordinamento giuridico comunitario. Fra queste si annoverano l'obbligo dell'istituzione competente di esaminare in modo accurato ed imparziale tutti gli elementi rilevanti nella fattispecie, il diritto dell'interessato a far conoscere il proprio punto di vista e il diritto ad una decisione sufficientemente motivata. Soltanto così la Corte sarà in grado di accertare se esistono tutti gli elementi di fatto e di diritto necessari per l'esercizio del potere discrezionale."

Nonostante le buone intenzioni della Corte, la complessità e la varietà dei procedimenti amministrativi suggerirebbe di introdurre una previsione generale sul diritto ad essere ascoltati nel diritto scritto della Comunità[28], assicurando così maggiore chiarezza operativa ad un principio di cui nessuno contesta la particolare rilevanza. In tal modo potrebbe essere risolta un'ambiguità della stessa Corte di Giustizia, che, mentre da un alto afferma il carattere fondamentale del principio, dall'altro sostiene che per aversi l'annullamento del provvedimento per violazione del principio stesso va dimostrato che, in mancanza di tale irregolarità, la procedura avrebbe potuto portare ad un diverso risultato.

Per quanto riguarda infine il principio di buona amministrazione, sino al Trattato UE è stato discusso se i molti richiami ad esso nella giurisprudenza si riferissero ad un vero e proprio principio generale e non soltanto ad una variante del principio di legalità. Effettivamente non vi sono sentenze in cui la Corte faccia esclusivo riferimento a tale principio. L'unico tratto peculiare che lo distingue dal principio di legalità è l'enfasi posta sul rispetto dei criteri di efficienza e di efficacia, e quindi di ogni parametro di buona amministrazione ivi comprese regole tecniche ed interne. Alla buona amministrazione si è fatto riferimento per assicurare la tempestività dell'azione amministrativa e la capacità funzionale dell'amministrazione[29].

Resta il fatto che la disciplina del procedimento amministrativo nel sistema comunitario è lacunosa ed inidonea a fornire un adeguato quadro di riferimento per i sempre più rilevanti procedimenti eseguiti direttamente dagli organismi comunitari, oppure dalle amministrazioni degli Stati membri; oppure nella forma composta in quanto realizzata congiuntamente dalle due sfere. I punti di riferimento maggiori del procedimento amministrativo comunitario sono ancora legati all'elaborazione giurisprudenziale e all'interpretazione dei principi fondamentali dell'ordinamento. Si discute allora della loro codificazione al fine di evidenziarne le lacune e procedere sistematicamente al completamento.

La tesi favorevole alla codificazione ritiene che non vi sia bisogno di una loro costituzionalizzazione nei Trattati, sia perché taluni principi sono già presenti, sia perché, non potendosi inserire tutti i principi nei Trattati, significherebbe dare solo ad una parte di essi una particolare posizione, creando così una gerarchia, una scala di valori.

Una soluzione auspicata potrebbe essere un nuovo regolamento comunitario per la disciplina dei maggiori principi generali, che risulti equivalente alla nostra 241/1990. A sfavore della codificazione esiste però il pericolo di perdere il carattere evolutivo ed aperto dei principi generali, che su una base ormai consolidata sono continuamente rivisti ed affinati dai giudici comunitari: anche se la codificazione non impedisce mai un'interpretazione evolutiva. Altro problema è la sussistente diversità tra i vari ordinamenti, diversità che verrebbe schiacciata dall'eventuale codificazione.

A chi scrive pare in realtà che quello della codificazione sia una falso problema: da un parte esistono principi che sebbene non codificati sono fatti valere dalla Corte verso tutti i soggetti dell'ordinamento, quindi sono già fonti di diritto, dall'altra, vista la necessaria armonizzazione una codificazione potrebbe essere utile agli stessi Stati membri per individuare gli strumenti più coerenti per il proprio ordinamento al fine del necessario adeguamento. La codificazione va pensata semmai per il cittadino, ovvero per offrire una tutela adeguata verso tutti gli atti amministrativi e verso tutte le autorità che li pongono in essere, siano esse comunitarie che nazionali sia nel caso dell'esecuzione congiunta. Pur lodando l'operato della Corte, senza un riferimento legislativo univoco, esiste pur sempre il rischio di trattamenti diseguali: ed è qui che l'interesse deve cadere[30].


III.4 - LE AZIONI ESPERIBILI E LE POSIZIONI TUTELATE


Il regime di tutela degli "amministrati"[31] nell'ordinamento comunitario è molto complesso: innanzitutto rispetto ai soggetti legittimati che non sono soltanto i singoli (che anzi, in tale contesto sono considerati i ricorrenti non privilegiati), ma anche gli Stati membri, le istituzioni comunitarie e le diverse amministrazioni degli ordinamenti nazionali. A fronte di questa pluralità di soggetti sta il carattere pluridirezionale del diritto comunitario stesso, per cui un atto comunitario può avere quale diretto destinatario una tale varietà di soggetti, ma la complessità del sistema di tutela che qui si va ad esporre sta anche nella necessità, per lo stesso ordinamento comunitario, di mantenere l'equilibrio istituzionale dell'Unione.

Posta la premessa, passiamo ad analizzare le diverse azioni previste: l'azione di annullamento, l'eccezione di invalidità, il ricorso in carenza e l'azione risarcitoria.

L'azione di annullamento è regolata dall'art.230 del Trattato CE:

"La Corte di giustizia esercita un controllo di legittimità sugli atti adottati congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio, sugli atti del Consiglio, della Commissione e della BCE che siano raccomandazioni o pareri, nonché sugli atti del Parlamento europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi.

A tal fine la Corte competente a pronunciarsi sui ricorsi per incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione del presente trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione, ovvero per sviamento di potere, proposti da uno Stato membro, dal Consiglio o dalla Commissione.


Qualsiasi persona fisica o giuridica può proporre, alle stesse condizioni, un ricorso contro le decisioni prese nei suoi confronti e contro le decisioni che, pur apparendo come un regolamento o una decisione presa nei confronti di altre persone, la riguardano direttamente ed individualmente. (.)"

In base a tale articolo esiste quindi una competenza esclusiva dei giudici comunitari: il Tribunale accoglie in prima istanza i ricorsi presentati dai singoli e dalle persone giuridiche, la Corte di Giustizia accoglie in prima istanza i ricorsi degli altri soggetti legittimati e in appello le sentenze emesse dal tribunale.

Per ciò che riguarda i soggetti legittimati e gli atti impugnabili, l'art.230 li elenca in modo esplicito: non tratteremo qui i ricorsi dei soggetti c.d. privilegiati, gli Stati membri e le istituzioni comunitarie, ma solo la normativa che disciplina i ricorsi dei singoli.

Per l'individuazione degli atti impugnabili, la stessa Corte di Giustizia ha scartato il criterio dell'individuazione formale, optando ancora una volta per il criterio sostanzialistico; così nella sentenza 9/10/1990, c-366/88 "L'azione di annullamento deve potersi esperire nei confronti di qualsiasi provvedimento adottato dalle istituzioni, indipendentemente dalla sua forma e dalla sua natura, che miri a produrre effetti giuridici".

Un tale approccio risulta coerente con la multiformità dell'azione comunitaria e con la conformazione della stessa al principio della funzionalizzazione, ed estende l'ambito della tutela giurisdizionale garantita; allo stesso tempo però crea una serie di incertezze interpretative che potrebbero anche andare a discapito dei singoli che s'intende tutelare.

Altro carattere degli atti impugnabili è stato individuato nella loro definitività: sono impugnabili gli atti immediatamente efficaci, anche se tale carattere è stato interpretato in modo elastico dalla stessa Corte, ponendo l'accento sull'effettiva lesione che l'atto può produrre.

Gli atti impugnabili sono quindi tutti i provvedimenti emessi dalle istituzioni comunitarie che producano effetti giuridici e siano definitivi; ma per i ricorrenti non privilegiati[32], l'ambito di tutela sembra coprire, anche in base all'art.230 le sole decisioni, ovvero gli atti che in base all'art.249 hanno più spiccato carattere amministrativo. Il singolo può impugnare la decisione che sia diretta nei suoi confronti o che, pur riguardando altri soggetti, provochi modifiche nella sua sfera giuridica: lo stesso giudice comunitario ritiene non sufficiente la denominazione dell'atto ai fini della valutazione della ricevibilità del ricorso.

I vizi che il soggetto può invocare sono, come identificati dall'art.230, quattro:

incompetenza

violazione delle forme sostanziali

violazione del trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione

sviamento di potere

Il ricorso segue le regole processuali previste dall'art.224 del Trattato CE, così come integrate dei Regolamenti di Corte e Tribunale. Nell'assetto sostanziale, il ricorso per annullamento è molto simile a quello nazionale, la sua efficacia, rispetto al modello nazionale, è però rafforzata da un notevole potere di impulso da parte del giudice che può ordinare i provvedimenti provvisori necessari. I poteri cautelari invece non convincono: nel ricorso verso i giudici comunitari l'istanza cautelare non è esperibile ante causam, ma è accessoria rispetto all'azione principale: previsione quanto meno strana data l'opposta previsione che la stessa Corte ha imposto nei giudizi nazionali a tutela di posizioni giuridiche di origine comunitaria.

L'azione può condurre chiaramente all'annullamento dell'atto illegittimo e l'istituzione da cui emana l'atto è tenuta, in base all'art.233, a prendere i provvedimenti che l'esecuzione della sentenza comporta. Tale obbligo, come risulta dall'applicazione fatta dalla stessa Corte dell'art.288 Trat.Ce (e che illustreremo più avanti), non preclude l'eventuale obbligo per il risarcimento del danno.

Altro istituto processuale previsto a tutela dei singoli, mutuato dal sistema francese e disciplinato dall'art.241Trat.Ce, è la c.d. eccezione di invalidità. In sostanza si da la possibilità alle parti di un procedimento giurisdizionale che coinvolga un regolamento delle istituzioni comunitarie di invocare l'illegittimità e l'inapplicabilità dell'atto oggetto della controversia, in base ancora ai motivi elencati nell'art.230.

La finalità dell'eccezione di invalidità è quella di dare la possibilità ai singoli di contestare un atto normativo che è il fondamento di una successiva decisione di applicazione, invalidità che varrà per il solo procedimento in cui l'eccezione è sollevata. Si tratta quindi di un annullamento incidentale: infatti non si configura come azione autonoma, ma come azione esercitabile incidentalmente e solo di fronte al giudice comunitario[33].

In poche parole con tale eccezione si da la possibilità alle parti del procedimento di contestare la validità di precedenti atti comunitari che costituiscono il fondamento della decisione impugnata, qualora nei loro confronti non si abbia il potere di proporre un ricorso diretto[34]. La previsione di un tale meccanismo fa sorgere alcuni dubbi: se la Corte lo ritiene, come dichiara, un utile strumento di controllo della legalità dell'azione amministrativa, non si capisce perché l'eccezione è lasciata alla volontà delle parti, ed inoltre non si giustifica l'efficacia inter partes dell'eventuale sospensione di efficacia dell'atto normativo fondamento, che, fuori dalla controversia, continua ad esercitare i propri effetti .

Il ricorso in carenza è invece un rimedio autonomo, previsto dall'art.232Trat.Ce, con cui si dà agli interessati la facoltà di far constatare dal giudice comunitario, l'illegittimità di un'omissione del Consiglio, della Commissione, del Parlamento o della BCE. Il presupposto di tale ricorso si fa risalire alla violazione dell'obbligo di provvedere che dal Trattato discende sugli organi comunitari. Il ricorso è aperto sia ai soggetti privilegiati che ai singoli, ma , in quest'ultimo caso, il ricorrente deve dimostrare che dall'atto omesso derivavano direttamente dei diritti a suo favore, ovvero che l'atto mancante era il fondamento necessario di una posizione soggettiva attiva a suo vantaggio. L'azione può essere esperita sia verso l'inadempimento che verso l'ingiustificato rifiuto, fermo restando, per l'istituzione adita, il potere di provvedere fino alla conclusione della controversia; in tal caso il ricorso diviene privo di oggetto. L'azione è di scarsa utilità, per questo raramente utilizzata. In ogni caso l'adempimento che si richiede deve essere privo di ogni potere discrezionale da parte dell'istituzione contestata.



III.5 - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE DEGLI ORGANI DELL'UNIONE EUROPEA NEL SISTEMA COMUNITARIO: ORIGINI ED EVOLUZIONE


La responsabilità dell'Amministrazione pubblica, lo abbiamo visto con le recenti riforme legislative, costituisce un tema in forte evoluzione.

In effetti nell'affrontare le questioni relative alla responsabilità delle pubbliche amministrazioni, occorre muovere dal modo in cui è stata intesa la sovranità statale così come si è venuta configurando nelle diverse esperienze nazionali. M.S.Giannini sosteneva che la sovranità statale deve essere rivisitata nelle sue linee generali e nei suoi limiti: "L'ingombro più grosso e più difficile da rimuovere è però lo Stato: dallo scorso secolo, nei paesi a diritto amministrativo, questo costituisce un personaggio incombente, che sembra si presenti come fonte di ogni istituzione di diritto amministrativo, con potestà superiori a quelle di ogni altra figura soggettiva. E' esso che si ingerisce in ogni luogo e in ogni materia, sempre invocato come solutore di problemi collettivi."[36]

Non è del resto concepibile affermare la responsabilità derivante dall'azione dei pubblici poteri senza averne individuato i limiti conseguenti al pieno esplicarsi di detta sovranità statale. Nella recente evoluzione degli ordinamenti giuridici sono sempre più rare le occasioni nelle quali la "Raison d'état" costituisce un limite alla possibilità di agire in giudizio per far valere la responsabilità della Pubblica Amministrazione[37]. Un altro elemento rilevante che incide sull'esplicarsi della sovranità è costituito dal crescente affermarsi nell'ordinamento della tutela dei diritti fondamentali. Si tratta di un fenomeno complesso dove il soggetto, passato dalla condizione di suddito a quella di cittadino, chiede di poter far valere, in sede giudiziaria, le proprie istanze anche contro atti della pubblica amministrazione.

In materia di responsabilità della P.A. i giudici hanno mostrato una sensibilità crescente nel tempo, così che in larga parte negli ordinamenti occidentali la giurisprudenza ha ampliato le fattispecie nelle quali è possibile far valere la responsabilità della P.A. a seguito di un'azione giudiziaria della parte che si ritiene lesa, a fini risarcitori. E' chiaro però che le nuove possibilità di difesa delle garanzie fondamentali, anche nei confronti della P.A. sono condizionate dal regime giuridico applicabile: la scelta ad esempio tra regime pubblicistico e privatistico ha una certa rilevanza per l'esame della responsabilità[38]. Al di là della necessaria comparazione tra i diversi tipi di ordinamento e le diverse soluzioni, il problema di fondo pare essere come garantire la piena discrezionalità amministrativa per la tutela del pubblico interesse senza che vengano a crearsi violazioni eccessive del singolo. In poche parole occorre evitare che l'eccessivo timore di incorrere in forme di responsabilità troppo estese e costose paralizzi l'azione amministrativa. E' generale il rischio di riconoscere spazi eccessivamente ampi allo svolgersi della discrezionalità amministrativa, senza che i destinatari dei provvedimenti possano far valere eventuali responsabilità delle amministrazioni o dei loro funzionari. Allo stesso modo è esigenza diffusa la necessità di assicurare una difesa sempre più incisiva ai destinatari dei provvedimenti amministrativi, secondo principi riconducibili ad una crescente tutela giudiziaria dei diritti fondamentali: nel tentativo di conciliare l'interesse dei singoli o dei gruppi con quello pubblico che rimane, comunque, preminente ed essenziale nell'azione amministrativa . Le aspettative di carattere generale coinvolgono anche l'orizzonte dell'Europa comunitaria e si concretizzano nel processo di armonizzazione delle burocrazie degli Stati membri.

La normativa comunitaria nella sua continua evoluzione ha assunto un ruolo di primaria importanza nella ricerca di innovazione anche per ciò che concerne la responsabilità della P.A.. Ancora una volta è stata la Corte ad approfondire il tema attraverso sentenze che possono essere comprese se inserite in un quadro generale nel quale confluiscono le diverse esperienze giuridiche nazionali attraverso il metodo della comparazione, nonché il richiamo ai principi del diritto pubblico internazionale. Si profila un sistema normativo nel quale le tradizionali barriere fondate sulla sovranità statale appaiono superate, dandosi sempre più importanza alla tutela dei diritti fondamentali. Da questo punto di vista è interessante notare come l'articolo 6 (ex art.F) del preambolo del Trattato sull'UE ai sensi del quale "L'Unione rispetta l'identità nazionale dei suoi Stati membri, i cui sistemi di governo si fondano sui principi democratici", è stato riformulato dal Trattato di Amsterdam affermando che "L'Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e dello stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri." Rimane invece invariato il secondo paragrafo dello stesso articolo che prevede "L'Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e della libertà fondamentali (.) e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario" (ora art.6, par.2) .

Tornando allo specifico tema della responsabilità il Trattato non ha introdotto grosse modifiche se non quella di sottomettere allo stesso regime di responsabilità delle istituzioni comunitarie anche la Banca Centrale Europea, l'Istituto Monetario Europeo e la Banca Europea per gli Investimenti[42].

Come ogni ordinamento di diritto, quello comunitario riconosce per i suoi organi l'azione di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale; la prima, che qui non interessa, è regolata dagli artt.238, 240 e 288 del Trattato, possiede alle sue spalle un'ampia giurisprudenza, non solo della Corte di Giustizia, ma anche ad opera dei giudizi nazionali, dato che, lo stesso art.240 prevede che le controversie di cui è parte la Comunità, salve le competenze della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado, non sono sottratte alla competenza delle giurisdizioni nazionali.

Ciò che qui interessa è identificare le caratteristiche della responsabilità extracontrattuale degli organi comunitari, ovvero il grado di tutela offerto alle posizioni giuridiche sottostanti. I cardini del sistema della responsabilità extracontrattuale degli organi della Comunità si rintracciano negli articoli 235 e 288 del Trattato CE, ma anche da una lettura congiunta tali norme non costituiscono un sistema coerente e sono state interpretate dalla stessa Corte di Giustizia in modo non lineare.

Alcuni autori sostengono che questa carenza, anche in relazione al differente sistema della responsabilità contrattuale, deriva dalle più marcate differenze dei sistemi nazionali, e dal fatto che nel caso di illegittimità dell'atto, inadempimento o omissione da parte degli organi comunitari, sarebbe risultato sconveniente condurre le istituzioni stesse di fronte al giudice nazionale[43].

L'art.235 recita:

"La corte di giustizia è competente a conoscere delle controversie relative al risarcimento dei danni di cui all'art.288".

L'art.288, secondo comma recita:

"In materia di responsabilità extracontrattuale, la Comunità deve risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell'esercizio delle loro funzioni"

Innanzitutto le due disposizioni identificano una giurisdizione esclusiva a favore della Corte di Giustizia e del Tribunale di Primo grado in tema di responsabilità extracontrattuale; non solo ma la giurisdizione si configura di merito nel senso che le due corti non sono vincolate a particolari motivi di ricorso, né tenute alla prospettazione delle parti.

Con l'azione di responsabilità, le persone fisiche o giuridiche, e gli Stati membri che ritengono di aver subito un danno ingiusto, possono, previo accertamento della responsabilità della Comunità, ottenere il risarcimento. I soggetti a cui può essere imputata la responsabilità sono elencati nell'art.288, in ogni caso, chiunque sia il soggetto che ha compiuto il danno ingiusto deve aver agito nell'esercizio delle proprie funzioni.

Il fatto illecito che fa scaturire la responsabilità può essere sia un'azione che un'omissione, comunque antigiuridica. Quindi la responsabilità si configura sia in caso di illeciti civili, sia per violazione di norme superiori di diritto, di principi generali di diritto comunitario, di norme interne poste anche a garanzia dell'interesse dei singoli, ed ancora l'arbitraria applicazione di atti comunitari o l'inadeguata organizzazione amministrativa per la realizzazione dei propri compiti.

Individuato l'elemento "giuridico", occorre definire il nesso tra queste violazioni e la richiesta di risarcimento: il fatto illecito deve aver prodotto un danno effettivo a colui che ha attivato l'azione di responsabilità, ovvero secondo la Corte certo e specifico[44].

Un primo scenario, in cui possiamo immaginare la responsabilità degli organi comunitari, è l'applicazione di un atto comunitario considerato illegittimo. L'applicazione in sé dell'atto è corretta, ma il diritto comunitario, soprattutto in relazione ai particolari procedimenti previsti dall'art.249, considera risarcibile il danno prodotto al terzo per l'illegittimità dell'atto[45]. Questa fattispecie, la c.d. ingiustizia normativa, non trova riscontro negli ordinamenti nazionali e, nonostante l'ordinamento comunitario ne riconosca la tutelabilità, incontra chiaramente dei limiti: affinché il soggetto sia risarcibile deve riscontrarsi una grave violazione di una norma giuridica superiore intesa a tutelare il singolo (ciò può accadere quando l'istituzione abbia superato in modo grave e palese i limiti posti all'esercizio del suo potere). Vi sarà sicuramente responsabilità nel caso in cui l'atto posto in essere abbia violato previsioni del Trattato finalizzate alla protezione dei singoli. Nel caso in cui l'azione si fondi su un atto amministrativo comunitario, si sono posti problemi di sovrapposizione con l'azione di annullamento previsto dall'art.230 del Trattato CE. In un primo momento, con la Sentenza 15/7/1963, causa 25/62, la Corte assunse una posizione restrittiva: il giudice comunitario sostenne allora che l'azione di risarcimento era irricevibile se aveva ad oggetto un atto amministrativo comunitario non preventivamente annullato.

Poco dopo, con la sentenza 24/4/1971, causa 4/69, la stessa Corte muta atteggiamento, considerando l'azione di risarcimento un'azione autonoma, durante la quale il giudice può incidentalmente dichiarare l'illegittimità dell'atto. Ma il carattere incidentale dell'annullamento fa sì che la decisione abbia valore solo tra le parti, ovvero detto con le parole della Corte: "L'azione di risarcimento è rimedio autonomo dotato di una particolare funzione nell'ambito del regime delle impugnazioni, subordinato, quanto al suo esercizio, a condizioni attinenti al suo oggetto. Essa si differenzia dal ricorso in annullamento in quanto diretta non all'eliminazione di un determinato provvedimento, ma al risarcimento del danno causato dall'illecita attività o inattività di un'istituzione".[46]

In sostanza, ciò che la Corte cerca di evitare è un utilizzo dell'azione di risarcimento che eluda il termine di decadenza per l'azione di annullamento.

Anche in materia di responsabilità extracontrattuale delle istituzioni comunitarie si riscontra una giurisprudenza autonoma rispetto all'assetto degli ordinamenti nazionali. Nonostante lo stesso articolo 288 imponga alla Corte di orientarsi "Conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri", a causa delle grandi disparità esistenti e date le grandi problematiche interpretative interne, la Corte ha dovuto e cercato una nozione nuova. La giurisprudenza non cerca quindi un minimo comun denominatore, ma tramite una necessaria valutazione comparativa, tenta una soluzione finalizzata a perseguire gli obiettivi del Trattato e conforme alle peculiarità della Comunità. L'articolo 288 viene interpretato nel senso di una maggior protezione del singolo, costituendo lo strumento attraverso cui sviluppare dei principi generali presenti già nelle sentenze emesse dalla stessa Corte contro gli Stati.

La prospettiva comunitaria si è venuta rafforzando con l'immediata esclusione del preventivo ricorso al giudice nazionale, poiché da sempre la Corte ha ribadito la propria esclusiva competenza dell'applicazione dell'articolo in questione.

Esiste, in poche parole, una competenza esclusiva, in base all'articolo 235 del Trattato, in merito alle azioni di risarcimento ai sensi dell'articolo 288: "i giudici nazionali rimangono competenti per conoscere delle azioni di risarcimento dei danni causati ai singoli da autorità nazionali in occasione dell'applicazione del diritto comunitario".[47]

Nel caso in cui la Corte respinga la domanda di risarcimento rimane aperta l'azione per far valere l'illegittimità del comportamento, azione che però dovrà essere basata su una causa diversa consistente in un illecito o un comportamento proprio, imputabile alle autorità nazionali, anche se queste hanno agito nell'ambito del diritto comunitario.

La filosofia sottostante questo criterio farraginoso è la massimizzazione del criterio della c.d. "competenza efficiente"[48], per favorire cioè il ricorso al giudice nazionale quando questi possa utilmente giudicare.

Una volta determinati i profili relativi all'applicazione dell'art.215, secondo comma (attuale 288), la giurisprudenza ha individuato le condizioni dell'eventuale responsabilità della Comunità: "La responsabilità della Comunità ai sensi dell'art.215, secondo comma del Trattato e dei principi ai quali tale disposizione rinvia, dipende dalla sussistenza di un complesso di presupposti riguardanti l'illegittimità del comportamento contestato all'istituzione, l'effettività del danno e l'esistenza di un nesso causale tra tale comportamento e il danno allegato"[49]. La Corte ha quindi elaborato un criterio interpretativo proprio sull'illecito extracontrattuale: attualmente la nozione si incentra sull'esistenza di un atto comunitario illegittimo, l'effettività del danno, il nesso causale e l'attualità del danno stesso da valutarsi anche in relazione a quanto emerso dall'esame del nesso causale.

Eppure uno scoglio enorme alla tutela dei singoli sembra porsi per l'ambito della politica economica, ovvero contro quegli atti normativi che implicano una scelta politica in tale ambito: la responsabilità della Comunità sorge solo in caso di violazione grave di norme di rango superiore e poste a tutela dei singoli. Ciò significa che nell'esercizio del potere discrezionale della Comunità la giurisprudenza configura la responsabilità extracontrattuale delle istituzioni comunitarie qualora tale potere, indispensabile per l'attuazione degli obiettivi comunitari, sia stato esercitato disconoscendo in modo palese e grave, i limiti che si impongono all'esercizio dei suoi poteri.

Alla configurazione della responsabilità della Comunità, la Corte pone un altro limite: la violazione non si verifica qualora il potere discrezionale sia stato esercitato dalla Commissione in piena buona fede, utilizzando dati comunicati dalle autorità nazionali, come se la buona fede escludesse l'eventuale responsabilità e, in un certo senso, giustificasse il danno. La questione si ricollega alla quantificazione dell'indennità per atti illegittimi, dato che in linea di principio non si può escludere la configurabilità della responsabilità delle istituzioni comunitarie in presenza di atti legittimi qualora abbiano dato luogo a danni inusuali o particolarmente gravi. Il tema appare troppo complesso per essere qui sufficientemente esposto.

Nel ripercorrere i profili essenziali della normativa nazionale e di quella comunitaria, si avverte come l'attuale evoluzione della responsabilità della pubblica amministrazione si colleghi alla crescente ricerca di una tutela efficace dei diritti fondamentali. Non a caso la ricerca fin qui svolta andrà a collegarsi con l'ampia giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo sul tema della responsabilità ai sensi dell'art.6 e 13 della Convenzione Europea sui diritti dell'uomo, ovvero le norme concernenti l'equo processo ed il diritto di ogni persona ad un ricorso effettivo dinanzi ad un'istanza nazionale. In altri termini la tutela dei diritti fondamentali, così come individuata secondo le norme della Convenzione, non può essere elusa dagli Stati neanche per quanto attiene la responsabilità extracontrattuale e neanche attraverso un utilizzo distorto della c.d. discrezionalità.

Nel 1984 il Consiglio d'Europa ha emesso una Raccomandazione con cui si "impone" agli Stati firmatari di assicurare la riparazione adeguata ai cittadini lesi da atti o comportamenti dei pubblici poteri, a sottolineare il nesso tra responsabilità pubblica e diritti fondamentali. Il criterio adottato dal Consiglio è quello di prevedere un risarcimento nelle ipotesi in cui il comportamento dell'amministrazione non sia ragionevole: in tali ipotesi la violazione delle norme applicabili si ritiene presunta .

La diffusa attenzione per la responsabilità aquiliana si connette, soprattutto in sede comunitaria, alle esigenze del processo di integrazione, come confermato dall'estendersi della responsabilità extracontrattuale degli Stati membri per violazione degli obblighi comunitari. Nel processo di integrazione la responsabilità extracontrattuale prevista dai Trattati acquista un rilievo crescente nel rispondere ad esigenze non facili da prevedere nella normativa, date le diversità degli ordinamenti sottostanti e il difficile cammino di armonizzazione. In definitiva una pluralità di condizioni, che trovano origine soprattutto nella crisi della sovranità degli Stati nazionali e nell'ampliamento della tutela dei diritti fondamentali, portano a far crescere l'ambito della responsabilità aquiliana in generale, e delle amministrazioni pubbliche in particolare. A fianco di queste forze aggreganti ed eurocentripete, resistono però differenze sostanziali ben radicate negli ordinamenti nazionali.



III.6 - LA RESPONSABILITA' DELLO STATO PER VIOLAZIONE DEL DIRITTO COMUNITARIO


Non esistono, nel Trattato, norme scritte che disciplinino il regime di responsabilità degli Stati membri per i danni causati ai singoli con l'inosservanza o la violazione del diritto comunitario. E' tuttavia evidente che, per assicurare la tutela delle posizioni soggettive attribuite ai singoli dall'ordinamento comunitario, è indispensabile un regime comunitario della responsabilità degli Stati sia perché ciò consente di garantire il rispetto di queste posizioni anche quando gli ordinamenti nazionali non prevedano al riguardo una tutela compiuta sia perché la previsione di un regime unitario garantisce la stessa tutela in tutta l'area comunitaria[51].

Il problema della responsabilità dello Stato per danni cagionati non è a sé stante, si collega ad altri due tipi di responsabilità entrambi rilevanti in questa ricerca: da un lato, la responsabilità dello Stato nei confronti della Comunità per violazione del diritto comunitario e, dall'altro, alla responsabilità della Comunità stessa per danni cagionati ai singoli. Nei paragrafi precedenti abbiamo analizzato i criteri per determinare la responsabilità extracontrattuale degli organi della Comunità per danni cagionati a terzi, il passo successivo è analizzare la responsabilità dello Stato membro, in parte costruita sui principi elaborati dalla Corte di Giustizia per la responsabilità degli organi sottoposti alla sua esclusiva giurisdizione. Il capitolo successivo sarà invece fondato sul confronto tra i due diversi regimi, con particolare attenzione alle modifiche indotte dal sistema comunitario al sistema di tutela delle situazioni soggettive di matrice comunitaria all'interno dell'ordinamento italiano.

La responsabilità degli Stati membri per inadempimento degli obblighi comunitari si ricava direttamente dall'art.10 Trat.Ce:

"Gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dal presente trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità. Essi facilitano quest'ultima nell'adempimento dei propri compiti. Essi si astengono da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del presente trattato."

A tale previsione si accompagna la predisposizione di una procedura per accertare l'eventuale responsabilità dello Stato inadempiente: gli art.226Trat.Ce e art.141Ceca stabiliscono una procedura d'infrazione di fronte alla Commissione. La Commissione emette dapprima un parere motivato nei confronti dello Stato e, poi, adisce la Corte per ottenere una sentenza dichiarativa dell'inadempimento[52]. Se lo Stato adito resta inerte, la Commissione o gli altri Stati membri possono adire la Corte nuovamente affinché emetta un'ulteriore sentenza che accerti l'inosservanza della prima sentenza di condanna.

Tale procedura rileva qui per due aspetti: la posizione dello Stato inadempiente e le conseguenze della sentenza di condanna nell'ordinamento interno.

Per ciò che riguarda il primo aspetto occorre ribadire come l'imputazione della responsabilità rilevata ricada sullo Stato come soggetto autonomo di diritto internazionale. La Corte ha da sempre sostenuto questa unitarietà rispetto al diritto comunitario in caso di responsabilità, reputando irrilevanti le distinzioni di competenza prodotte dal diritto interno[53].Corollario di tale principio è la regola per cui uno Stato non può invocare la responsabilità di un ente substatale per giustificare il mancato rispetto degli obblighi comunitari. Per ciò che attiene il secondo aspetto, ovvero le ripercussioni della sentenza dichiarativa dell'inadempimento, la stessa Corte nella sentenza 7/02/1973, c-39/72, Commissione contro Italia dichiara:

"(la sentenza) può avere pratica rilevanza come fondamento della responsabilità eventualmente facente carico allo Stato membro, a causa dell'inadempimento, nei confronti di altri stati membri, della Comunità e dei singoli".

Il riferimento alla responsabilità verso i singoli è il punto di incontro tra la responsabilità dello Stato per inadempimento verso la Comunità e la responsabilità dello Stato per danni cagionati ai singoli in seguito a violazione o inadempimento di diritto comunitario.

La responsabilità della Comunità verso i singoli è il modello sul quale la Corte ha costruito la responsabilità dello Stato membro verso i medesimi soggetti. La responsabilità della Comunità è stata precedentemente analizzata nei suoi tratti essenziali, ma lo stesso trattato[54], nel delinearla, fa riferimento ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri. La stessa Corte di Giustizia ed il Tribunale di Primo grado hanno dato a questo riferimento non il significato di tendenziale ricerca di un comun denominatore per la configurazione della responsabilità rispetto ai differenti assetti nazionali, bensì quale tendenziale costruzione di un sistema che meglio corrispondesse alle esigenze del diritto comunitario, pur attingendo dai sistemi nazionali.

Da questi presupposti la Corte ha tratto le condizioni per la configurazione della responsabilità aquiliana della Comunità:

occorrono l'illiceità del comportamento dell'istituzione, un danno effettivo e l'esistenza di un nesso causale fra il comportamento commissivo od omissivo e il danno subito dalla persona danneggiata[55]. Il ripeterli in questo contesto non è semplice esercizio di scrittura: da questi stessi criteri la Corte ha elaborato i caratteri della responsabilità dello Stato. L'estensione analogica non è derivata da una mancanza degli strumenti interpretativi da parte della Corte, ma da un dato di fatto essenziale: le due responsabilità sono spesso intrecciate tra loro, data la difficoltà di risalire alla responsabilità per danni cagionati a terzi in attuazione del diritto comunitario.

Le sempre maggiori difficoltà di imputazione a fronte del sempre più complesso raggio d'azione della Comunità retto dall'estensione strumentale delle competenze ad opera della stessa Corte, come dal coinvolgimento di istituzioni nazionali (periferiche o centrali) ed istituzioni comunitarie nel concretizzare la normativa comunitaria, ha condotto la Corte non solo all'elaborazione di un concetto di responsabilità similare, ma anche all'elaborazione di un criterio che garantisse comunque al singolo una tutela effettiva: questa è la c.d. competenza efficiente[56].

Il principio della competenza efficiente consiste in ciò:

la giurisdizione sul risarcimento della lesione causata al singolo spetta al giudice nazionale nella misura in cui l'ordinamento interno sia in grado di tutelare la posizione soggettiva danneggiata. Nel caso in cui una tale protezione non sia realizzabile sul piano interno, al soggetto è data la possibilità di rivolgersi al giudice comunitario affinché il danno sia comunque risarcito. Il principio è molto meno innovativo di quanto si possa credere, dato che rappresenta un'applicazione di un principio generale dell'ordinamento comunitario, ovvero del principio di sussidiarietà, art.5 Trat.Ce, in ambito di tutela di situazioni soggettive lese.

Per estendere ancora la tutela garantita, la Corte ha reso l'azione di responsabilità autonoma rispetto a quella di annullamento o di ricorso in carenza, però ha ristretto l'ambito di applicazione di una tale azione: il singolo è sicuramente protetto verso atti amministrativi con effetti diretti verso il ricorrente, non lo è, o lo è in misura strettamente limitata, nel caso di atti normativi. Nella sentenza Zuckerfabrik afferma:

"Nel caso in cui il danno derivi da un atto normativo che implica delle scelte di politica economica, la responsabilità della Comunità per il danno che i singoli possono aver subito in conseguenza di questo atto sussiste unicamente in caso di violazione grave di una norma superiore intesa a tutelare i singoli"

Ciò significa che la possibilità di risarcimento è praticamente nulla quando vi sia un alto grado di discrezionalità a favore delle istituzioni comunitarie, il campo si restringe ulteriormente dato che non tutte le violazioni gravi coincidono con violazioni di norme superiori.

La responsabilità dello Stato verso i singoli per violazione del diritto comunitario si pone quindi all'interno di una cornice molto articolata.

Sia il diritto comunitario derivato che la Corte si erano occupati di questo tema prima anche della sentenza Francovich, riconoscendo la responsabilità di amministrazioni pubbliche per danni causati a terzi in violazione del diritto comunitario.

Nel diritto derivato la svolta è avvenuta con le direttive 89/665 e 92/13 che, nell'ambito degli appalti pubblici, hanno imposto un particolare regime ai ricorsi interni alle gare di aggiudicazione. Lasciando da parte l'analisi della specifica materia, ciò che dobbiamo catturare è il principio sottostante: il sistema risarcitorio previsto dalle due direttive è finalizzato all'effetto utile della protezione giuridica dei soggetti lesi, non definito nelle sue componenti, ma lasciato alla legislazione interna. Agli Stati membri viene lasciata la scelta di utilizzare gli strumenti già predisposti dall'ordinamento per la protezione di situazioni soggettive analoghe a quelle fondate dal diritto comunitario, a patto che ciò non implichi uno svantaggio per coloro che beneficiano di quest'ultime posizioni. Sempre in ossequio al principio di sussidiarietà, il diritto comunitario, in quanto prevalente, è capace di fondare nell'ordinamento interno posizioni soggettive nuove che lo Stato è chiamato a tutelare e sviluppare: la Comunità non interviene direttamente almeno fino a quando gli strumenti predisposti dallo stato ottengano l'effetto utile che il diritto comunitario voleva raggiungere; se lo Stato non applica il diritto o non rende tutelabili le posizioni che da quel diritto sorgono, la Comunità, tramite l'istituto della responsabilità interviene. L'intervento può stare a monte, ovvero costringendo lo Stato ad applicare e rendere efficace il diritto prodotto dalle istituzioni comunitarie, oppure può essere ex post, ovvero nonostante l'applicazione del diritto lo Stato può essere chiamato a correggere gli strumenti di tutela.

Nella sentenza Russo contro AIMA del 1976 la Corte afferma:

"Nell'ipotesi che il danno derivi al soggetto dalla violazione di una norma del diritto comunitario da parte dello Stato, quest'ultimo dovrà risponderne, nei confronti del soggetto leso, in conformità alle disposizioni di diritto interno relative alla responsabilità della pubblica amministrazione".

Solo con la sentenza Francovich si giunge a configurare una responsabilità dello Stato membro per omissione di attività legislativa in contrasto con norme dell'ordinamento sovranazionale. La svolta di questa sentenza sta proprio nel riconoscere una responsabilità dello Stato sia nel caso di omissione che di emanazione di norme contrastanti con il diritto comunitario: lo Stato sarà responsabile sia nel caso in cui non recepisca una norma comunitaria fonte di una posizione soggettiva di vantaggio, sia nel caso in cui la recezione del diritto comunitario derivato ne rappresenti una violazione che comunque limita i benefici verso quei soggetti cui l'atto era diretto. La responsabilità sarà certa se si riscontrano i seguenti caratteri:

se la direttiva violata implica l'attribuzione di diritti a favore dei singoli;

se il contenuto di tali diritti può essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva;

se vi è un nesso di causalità tra la violazione dell'obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi.

Restavano aperte due problematiche, almeno per l'ordinamento italiano: se la responsabilità sorgesse anche per la lesione di interessi legittimi, se vi fossero dei criteri generali da applicare a questa nuove responsabilità da parte dei legislatori nazionali.

La sentenza Francovich aveva semplicemente aperto la porta ad un nuovo regime di responsabilità e quindi alla tutela di una nuova posizione soggettiva di matrice comunitaria nell'ordinamento nazionale: la sentenza Brasserie du pecheur definisce i confini di questa nuova responsabilità, sempre con riferimento a quella preesistente in ambito comunitario[57]. La Corte afferma innanzitutto che la responsabilità ed il relativo obbligo risarcitorio sussistono in qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario, qualunque sia l'organo dello Stato membro che la pone in essere. Ciò che preme alla Corte è la tutela effettiva del singolo in ragione di posizioni soggettive fondate dal diritto comunitario: il raggiungimento di un tale fine non è garantito dalla possibile tutela affidata ai giudici nazionali, ma dalla reale possibilità di garantire un risarcimento alla lesione . Il fine superiore è garantire una tutela grosso modo equivalente a tutti i soggetti dell'ordinamento, indipendentemente dal soggetto, statale o comunitario, che ha causato il danno. Per questo ritiene valida anche verso lo Stato la discriminante della discrezionalità, lasciando agli Stati un margine di sicurezza nell'esercizio dei loro poteri di normazione, infrangendo il quale lo Stato stesso sarebbe sommerso dalle presumibili azioni per danni. In definitiva le condizioni individuate sono:

che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli;

che la violazione sia manifesta e grave;

che vi sia un nesso causale diretto tra la violazione dell'obbligo comunitario dello Stato e il danno.

E' significativo dell'assetto sostanziale della giurisprudenza comunitaria il fatto che, né la sentenza Francovich, né la sentenza Brasserie du pecheur, facciano riferimento agli interessi legittimi o ai diritti soggettivi, ma semplicemente a diritti, coinvolgendo quindi il maggior numero di posizioni soggettive tutelabili. Il carattere della gravità si collega ancora una volta alla gravità dell'infrazione ed alla violazione di norme superiori, l'aggettivo manifesta si collega in questo contesto alla precisione, alla chiarezza ed all'immediata applicabilità della norma comunitaria violata. Meno spazio discrezionale di attuazione è lasciato allo Stato membro, più immediata sarà l'identificazione della responsabilità, più discrezionalità avrà lo Stato, più semplice sarà trovare una via di fuga, magari giustificandosi tramite un'interpretazione, in buona fede, della normativa comunitaria. L'ultimo tassello è rappresentato dalla sentenza Dillenkofer : la questione lasciata aperta era sulla posizione che l'azione di responsabilità dello Stato, per danni a terzi in violazione del diritto comunitario, doveva rivestire nell'ordinamento interno, in particolare sulla pregiudizialità dell'azione di accertamento dell'inadempimento dello Stato. La Corte, nella sentenza citata risponde:

"Non si può subordinare il risarcimento del danno al presupposto di una previa constatazione, da parte della Corte, di un inadempimento imputabile allo Stato, né l'esistenza di una condotta dolosa o colposa dell'organo statale al quale l'inadempimento è imputabile".

L'azione di responsabilità dello Stato si configura come rimedio autonomo, così come la stessa azione contro la Comunità.



III.7 - LA TUTELA DELLE POSIZIONI SOGGETTIVE TRA DIRITTO COMUNITARIO E DIRITTO NAZIONALE


La progressiva espansione e la crescente effettività dell'ordinamento comunitario hanno da tempo innescato una profonda consequenziale trasformazione del diritto amministrativo e del diritto amministrativo processuale.

Per quanto riguarda il primo va tenuto presente l'approccio sostanzialista ed informale che il diritto comunitario ha nei confronti della realtà che intende disciplinare. Ciò si scontra con l'approccio dell'ordinamento nazionale, sostanzialmente fondato su categorie a priori logico-formali; il diritto comunitario, sul modello anglosassone, che rifugge anche da modesti gradi di astrazione, ha un carattere fortemente pragmatico ed opera mediante la valutazione a posteriori di un certo effetto[59].

Gli effetti immediatamente visibili sono molti:

In primo luogo la progressiva vanificazione del principio di tipicità degli atti amministrativi, che finora ha costituito un dogma dottrinario indiscusso, anche se fortemente svalutato dalla giurisprudenza che, da parte sua, ha sempre ritenuto prevalente il momento sostanziale sul momento formale.

In secondo luogo l'erosione della distinzione tra diritto pubblico e diritto privato; distinzione che l'ordinamento comunitario anche sulla base della tradizione anglosassone ritiene inutile ai propri fini, con l'effetto di condizionare anche l'ordinamento nazionale.

D'altra parte anche l'ordinamento interno si è già da tempo incamminato sulla via di una crescente assimilazione tra le due branche del diritto, ad esempio allorché con l'articolo 11 della legge sul procedimento amministrativo ha affermato la tendenziale fungibilità dei moduli provvedimentali e dei moduli convenzionali, affidando l'intera materia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Ed infatti, in coerenza con una visione dei cittadini in funzione di attori e non più di spettatori della vita amministrativa, un sempre più diffuso contrattualismo, atipico, sta prendendo il posto dei classici provvedimenti unilaterali imperativi.

In terzo luogo l'ordinamento comunitario sta creando delle situazioni soggettive proprie, diverse da quelle dell'ordinamento nazionale.

A questo proposito si potrebbe semplicemente sostenere che il diritto comunitario conosce solo diritti soggettivi e non anche interessi legittimi: il nostro ordinamento recepisce quindi come rivoluzionarie norme comunitarie che partono semplicemente da un'altra base. Eppure la disputa non sembra così semplice: innanzitutto non è certo che gli interessi legittimi siano incompatibili con l'ordinamento comunitario, né è accertato che il diritto comunitario garantisca sempre una tutela maggiore al cittadino verso la pubblica amministrazione solo per la visione funzional-sostanzialista o per la non previsione della categoria degli interessi legittimi.

I così definiti diritti comunitari[60] sono situazioni soggettive che non coincidono pienamente né con i diritti soggettivi né con gli interessi legittimi del sistema nazionale, anche se, spesso, vengono qualificati con l'una o l'altra categoria. In effetti sia il diritto soggettivo che l'interesse legittimo sono entrambi strumenti di tutela di un sottostante interesse materiale: la differenza sta nei termini di tutela. Il diritto soggettivo è tutelabile in un ampio termine di prescrizione; è una situazione solitaria, un valore soggettivo attribuito nell'esclusivo interesse del suo titolare; ed è collegato soltanto in via mediata con l'interesse generale dell'ordinamento, nel senso che quest'ultimo è soddisfatto dalla semplice predisposizione di idonea normativa di tutela a favore del titolare dell'interesse materiale ed indipendentemente dall'effettiva utilizzazione di tale normativa.

L'interesse legittimo è tutelabile in un breve termine di decadenza; pur essendo anch'esso attribuito nell'esclusivo interesse del suo titolare ed autonomamente azionabile dal punto di vista sia procedimentale che processuale, è una situazione collegata in via immediata con un altro valore non soggettivo ma oggettivo, e cioè con un interesse pubblico concreto, che insiste sullo stesso interesse materiale ed è soddisfatto solo dall'effettiva osservanza della normativa che disciplina l'azione amministrativa: con la conseguenza che l'eventuale inazione del titolare dell'interesse legittimo non preclude eventuali interventi in autotutela dell'autorità titolare dell'interesse pubblico e della relativa potestà amministrativa. In poche parole, dell'interesse materiale oggetto del diritto soggettivo l'ordinamento prevede la semplice tutelabilità, mentre dell'interesse materiale oggetto dell'interesse legittimo e della potestà amministrativa l'ordinamento prevede l'effettiva tutela.

Ora, i così detti diritti soggettivi comunitari, pur essendo denominati quali diritti e pur essendo azionabili nel termine ampio di prescrizione, sono, di regola, considerati anche come valori oggettivi, non esclusivi del privato titolare dell'interesse materiale ma propri anche dell'ordinamento; ciò è confermato dalla possibilità che a tutelarli sia un intervento sostitutivo o cumulativo della Commissione o di altri organi comunitari su semplice denuncia o addirittura d'ufficio, e quindi indipendentemente da un'azione diretta degli interessati. Vengono così in essere situazioni oggettive che non coincidono pienamente né con i diritti soggettivi tradizionali né con gli interessi legittimi ma che sono in un certo senso intermedie, che l'ordinamento comunitario non differenzia: potremmo definirli interessi comunitari. Si tratta di interessi che operano in una prospettiva che dal punto di vista nazionale sarebbe da considerare contraddittoria: in una prospettiva caratterizzata, da una parte, dallo sviluppo nei privati di situazioni soggettive che sarebbero da considerare diritti o quasi diritti e, dall'altra, dal permanere nella Pubblica Amministrazione di ampi margini di potestà amministrativa e quindi di discrezionalità.

Può darsi quindi che l'interesse legittimo non sia in una fase irrimediabilmente irreversibile: il nostro ordinamento è sconvolto molto più dalla pubblicizzazione del privato e dalla privatizzazione del pubblico, fenomeno che carica sempre più il diritto soggettivo di finalità pubblicistiche e carica sempre più l'interesse legittimo di valenze pretensive e partecipative.

Dal punto di vista processuale il fenomeno più interessante è che la giurisdizione nazionale sui c.d. interessi comunitari viene a configurarsi come un nuovo settore di giurisdizione esclusiva, e cioè di giurisdizione per materia, che prescinde dall'analisi e dalla qualificazione della situazione soggettiva tutelata. E, poiché tale giurisdizione esclusiva è in gran parte attribuita al giudice amministrativo[61], ne deriva che la giurisdizione amministrativa esclusiva non può più essere ritenuta un'anomalia del sistema: d'altronde il giudice ordinario conosce di interessi legittimi, ad esempio in materia familiare e societaria, così il giudice amministrativo può conoscere di diritti soggettivi.

Per quanto riguarda gli effetti dell'ordinamento comunitario sul processo amministrativo va ricordata l'introduzione del principio della disapplicazione generalizzata delle norme interne in contrasto con tale ordinamento; principio formulato dalla Corte di Giustizia, avallato dalla Corte Costituzionale, e la cui naturale evoluzione appare suscettibile di trasformare a fondo la struttura del processo amministrativo[62]. La finalità dello stesso strumento della disapplicazione è quella di evitare violazioni ad opera degli ordinamenti statali, sia pure temporanee e tali da consentire ai responsabili illegittime se pur transitorie rendite di posizione. A tal fine esclude la necessità di un qualsiasi preventivo accertamento ufficiale dell'illegittimità comunitaria della norma interna. Quindi qualsiasi operatore qualificato nei casi di illegittimità comunitaria palese può legittimamente rifiutarsi di dare esecuzione alla norma interna contrastante oppure, nel dubbio, richiedere l'intervento dichiarativo, spesso additivo, della Corte di Giustizia.

Ma le violazioni dell'ordinamento comunitario possono derivare non solo da norme nazionali ma anche da provvedimenti amministrativi nazionali. Nella logica dell'ordinamento comunitario questa distinzione è del tutto irrilevante, come è irrilevante se la legge nazionale provenga dal legislatore nazionale invece che dal legislatore regionale: non importa il mezzo, conta esclusivamente il risultato. Nella stessa logica dovrebbero essere disapplicati anche i provvedimenti amministrativi: ipotesi già sperimentata in sede di giurisdizione esclusiva[63]. Nella misura in cui questo strumento potrà diventare normale, il processo amministrativo subirà altre trasformazioni oltre a quelle già in corso. La disapplicazione può mandare in tilt l'intero sistema dell'impugnazione: la disapplicazione attiene all'esistenza della potestas decidendi e quindi ad una condizione dell'azione rilevabile d'ufficio. L'illegittimità comunitaria di un provvedimento amministrativo non dovrebbe necessariamente costituire oggetto di un specifico motivo di censura ma dovrebbe poter essere liberamente dedotta in qualsiasi momento ed essere rilevata d'ufficio dal giudice .

In prospettiva dovrebbe così formarsi un vasto e crescente ordine di vizi di legittimità che si sottrarrebbero al normale regime delle impugnazioni. Ed ancora non dovrebbe sussistere alcun logico motivo perché i vizi di illegittimità comunitaria, che darebbero luogo alla disapplicazione d'ufficio e senza limiti di tempo, dovrebbero avere un trattamento differenziato dai vizi di legittimità nazionale che danno luogo alla semplice annullabilità su ricorso e entro termini ristretti di decadenza. La questione si porrebbe allora per i vizi derivanti da norme interne che recepiscono direttive o decisioni comunitarie.

Sicuramente notevoli ed immediati effetti sul processo amministrativo li ha provocati il carattere informale e sostanzialista del diritto comunitario. Nel nuovo "Stato a diritto informale"[65] la filosofia comunitaria potrebbe incidere beneficamente sull'eccesso di garantismo della giustizia amministrativa: eccesso a cui la l.205/2000 ha tentato di porre un freno, dato che non esisteva un contratto ad evidenzia pubblica non impugnato, solo al fine di godere dell'eventuale sospensiva, per cui alla collettività veniva a costare più la tutela giurisdizionale che l'opera pubblica appaltata. La nuova filosofia comunitaria sposta l'occhio del giurista e dell'interprete dal piano formale a quello pragmatico dell'intero comportamento dell'Amministrazione: non ci dobbiamo però far trascinare troppo lontano, denominando ad esempio il comportamento della P.A. come "rapporto". Il rischio è di applicare al nostro ordinamento categorie inesistenti, dato che il diritto amministrativo italiano non ha una concezione bilaterale della potestà amministrativa e dell'oggetto del processo amministrativo, concezione che invece il termine rapporto implica. Un notevole e possibile passo avanti potrebbe coincidere, da una parte, con l'esclusione della tutelabilità di interessi legittimi puramente strumentali o formali, che risultino indipendenti dall'esistenza di un'effettiva posizione sostanziale tutelata, e, dall'altra, consentendo l'integrazione postuma della motivazione del provvedimento impugnato, ferma restando la condanna dell'Amministrazione alle spese giudiziarie e all'eventuale risarcimento.

Il processo amministrativo è in continuo divenire, anche a fronte di nuove categorie logico-giuridiche che si trova ad affrontare e che non sono proprie dell'ordinamento in cui il giudice amministrativo è abituato ad operare. Che la diatriba non sia più tra interesse legittimo e diritto soggettivo sembra appurato e digerito, manca però una seria consapevolezza che la svolta sta semplicemente in un'organica ripartizione di competenze per materia (svolta che non sembra essere stata raggiunta con la 205/2000), e cioè su blocchi di giurisdizione esclusiva che rendano il giudice amministrativo giudice naturale di tutta l'azione amministrativa. A sorreggere questa speranza è sufficiente contare quanti dei ricorsi che ingolfano l'operare della Corte di Cassazione si fondino sulla necessità di distribuire il carico tra interessi legittimi e diritti soggettivi: la Corte svolge quindi una funzione di diritto ma non di giustizia e di immediata tutela del cittadino.

Vediamo adesso più da vicino gli influssi del diritto comunitario sul diritto amministrativo processuale, soprattutto a fronte di queste nuove fattispecie, ma anche rilevando le modifiche apportate all'ordinamento nazionale per aumentare il grado di tutela effettiva del cittadino.

Innanzitutto l'ordinamento comunitario, sistema sovranazionale, ma non federale, non prevede un sistema di giurisdizione articolato anche a livello locale per l'applicazione del diritto comunitario: attualmente gli unici organi giurisdizionali sono la Corte di Giustizia e il Tribunale di primo grado. Ma, a differenza del diritto internazionale, il diritto comunitario, come si è già più volte detto non si applica solo ai soggetti statali, conferisce invece diritti ed impone obblighi anche ai cittadini degli Stati membri.

Il problema dell'applicazione del diritto di derivazione sovranazionale poteva essere risolto, come di fatto lo è stato, attribuendo un ruolo fondamentale ai giudici nazionali. I giudici nazionali, ordinari e speciali, sono divenuti il riferente naturale del diritto comunitario.

In linea di principio, in assenza di misure di armonizzazione[66], i giudici nazionali sono tenuti ad applicare le disposizioni processuali e, più ampiamente, rimediali, previste dai rispettivi ordinamenti in relazione alle situazioni giuridiche di natura interna, la c.d. autonomia procedurale. Letteralmente il Trattato CE non fa riferimento ai giudici, ma la loro funzione si fa discendere dall'art.10: "Gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dal presente Trattato ovvero determinati da atti delle istituzioni della Comunità. Essi facilitano quest'ultima nell'adempimento dei propri compiti. Essi si astengono da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del presente Trattato."

In base a tale norma, tutti gli organi dei Paesi membri, ivi compresi evidentemente gli organi giurisdizionali, devono cooperare lealmente con le istituzioni comunitarie, per consentire il raggiungimento degli obiettivi dell'integrazione europea. Quindi, la suddetta autonomia procedurale trova un limite nell'effettiva applicazione del diritto comunitario, ma anche nell'effettività della tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche soggettive di origine comunitaria. Ed è proprio invocando il principio di effettività che la Corte di Giustizia ha indotto modificazioni talora profonde nei sistemi nazionali di giustizia amministrativa.

Per quanto riguarda la tutela ad opera dei giudici nazionali di posizioni soggettive che trovano la loro fonte nel diritto comunitario, il parametro dell'effettività è sempre più spesso rappresentato dal sistema rimediale costruito dalla stessa Corte a partire dalle disposizioni del Trattato CE e dal Regolamento di procedura per i giudizi dinanzi alla stessa o al Tribunale[67].

L'articolo 230 (ex art.173) del Trattato CE ammette la legittimità dei ricorrenti non privilegiati in due ipotesi diverse:

Quando i soggetti ricorrenti siano gli stessi destinatari di una decisione[68].

Quando la decisione, pur apparendo nella forma di un regolamento o di decisione presa nei confronti di altre persone, riguarda direttamente ed individualmente il soggetto ricorrente[69].

I ridotti limiti nei quali viene riconosciuta la legittimazione dei privati al ricorso impugnatorio si spiegano con la presenza di rimedi giurisdizionali in sede nazionale.

Così ad esempio le resistenze ad ammettere l'impugnabilità dei regolamenti si spiegano con il fatto che quel tipo di atto comunitario, data la natura generale ed astratta, diventa lesivo una volta trasposto in atti puntuali, vale a dire decisioni delle istituzioni comunitarie o provvedimenti degli organi amministrativi nazionali: atti che diventano impugnabili in sede comunitaria nella veste di decisione o in sede nazionale in veste di atti amministrativi. Da questa prospettiva sembra coerente che l'articolo 230 non citi le direttive, che, almeno in teoria, richiedono l'intervento del legislatore nazionale.

Tuttavia, considerata la tendenza di taluni modelli di giustizia ad avanzare la tutela, quantomeno dei diritti fondamentali, consentendo l'impugnazione diretta da parte del singolo di atti a carattere normativo, onde evitare che lo stesso sia costretto ad attendere uno sfavorevole provvedimento individuale, la scelta operata dal Trattato e dalla Corte non sembra molto avanzata.

I problemi di legittimazione del singolo si pongono in forma ancora più accentuata in relazione al ricorso in carenza ex art.232 (ex art.175) del Trattato.

Infatti, gli atti normativi, per definizione generali ed astratti, non vengono adottati nei confronti di soggetti particolari, per cui nessuno privato, a rigor di logica, può lamentarne la non adozione. Inoltre, sempre in linea di principio, i ricorrenti non privilegiati non possono far valere la carenza nell'adottare provvedimenti puntuali dei quali non siano destinatari: già a suo tempo la Corte ha infatti escluso che il privato possa ricorrere per l'omissione da parte della Commissione di atti o possa ricorrere contro un Stato non adempiente gli obblighi comunitari[70].

La ristretta legittimazione ad agire riconosciuta ai ricorrenti non privilegiati ha sicuramente impedito lo sviluppo di coerenti orientamenti giurisprudenziali che potessero porsi come modelli di effettività per le giurisdizioni nazionali.

L'individuazione dei presupposti che radicano la legittimazione al ricorso dinanzi ai giudici nazionali da parte della giurisprudenza della Corte di Giustizia è resa ancora più difficile dalla disparità di soluzioni riscontrabili nei diversi ordinamenti nazionali. E, se persistono grandi differenze sul piano nazionale, il sistema comunitario non si presenta certo come punto di riferimento univoco: la costruzione di una teoria delle posizioni giuridiche garantite dal diritto comunitario, che costituisce il presupposto sostanziale per affrontare il problema di diritto processuale della legittimazione ad agire, è stata finora ostacolata dal mancato chiarimento dei rapporti tra la questione dell'individuazione delle posizioni giuridiche soggettive e degli effetti diretti di determinate categorie di atti delle istituzioni comunitarie. Ed infatti non esistono sentenze della Corte che verifichino la compatibilità del principio di effettività comunitario con le regole processuali nazionali per ciò che concerne i soggetti legittimati ad agire. Può accadere quindi che una situazione legittimante per il nostro ordinamento non lo sia per il diritto comunitario, lasciando il soggetto interessato senza tutela. La giurisprudenza italiana si è dimostrata all'opposto tanto flessibile da offrire tutela a tutte le nuove situazioni giuridiche che il diritto comunitario ha creato nel nostro ordinamento[71].

La Corte di Giustizia si è limitata invece ad appropriarsi, in modo esclusivo, della competenza all'annullamento di atti comunitari in un'ipotesi eccezionale: ovvero nel caso si tratti di vizio di nullità assoluta o inesistenza dell'atto, il giudice comunitario potrà, d'ufficio, annullarlo. Nella sentenza Peterbroeck, tra le altre, la Corte, invocando il principio di effettività, ha concesso analogo potere, sia pure circondandolo di limiti, ai giudici nazionali, senza far specifico riferimento alla natura del vizio dell'atto amministrativo adottato in violazione del diritto comunitario; come se riconoscesse al giudice nazionale poteri superiori ai propri.

Nel 1989, il Tar Piemonte, con la sentenza n.34, aveva attribuito al giudice nazionale il potere di sollevare d'ufficio un motivo di invalidità di un atto amministrativo adottato in violazione del diritto comunitario, pur se non invocato dalle parti, qualificando come nullità il vizio relativo. La sentenza e la posizione presa dal Tar sono state pesantemente criticate, sia per la qualificazione del vizio come nullità, sia per il potere di sollevare d'ufficio l'eventuale illegittimità dell'atto. In materia non si è però ancora raggiunta un'opinione né una giurisprudenza costante da parte della stessa Corte di Giustizia.

Dal punto di vista dei provvedimenti cautelari, il Trattato CE affianca alla tutela tipica la sospensione dell'atto impugnato ex art.242 (ex art.185): una tutela atipica, il cui contenuto si adegua al caso concreto. I presupposti invece sono quelli classici: il fumus boni juris ed il periculum in mora[72]. La Corte ha fatto un'applicazione generosa dei poteri cautelari in relazione ai procedimenti di infrazione contro gli Stati membri ex art.226 (ex art.169), mentre non si è allo stesso modo esposta nei confronti dei singoli ricorrenti: come se il Giudice Comunitario avesse due linee d'azione a seconda dei poteri in gioco. In seguito la Corte ha sempre ribadito la portata generale dello strumento cautelare ex art.186 del Trattato, ed è da sottolineare come la stessa Corte abbia, attraverso sentenze quali Factortame II, Zuckerfabrik e Atlanta, costruito standards di tutela a livello nazionale molto elevati. Nelle motivazioni la Corte ha posto l'accento sullo stretto legame che esiste tra principio di effettività e tutela cautelare, tanto che il rispetto del primo può richiedere anche strumenti di tutela atipica.

E per le ricadute sul piano nazionale, va ricordato che alla base della sentenza del Tar Lombardia , in cui il giudice amministrativo ha adottato extra legem provvedimenti cautelari di carattere positivo anche nelle materie in cui un simile potere non era previsto dalla legislazione vigente, troviamo ancora il principio di effettività comunitario, ma anche l'art.13 della Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo .

Il sindacato della Corte e del Tribunale di primo grado ex art.230 (ex art.173) sugli atti delle istituzioni comunitarie non pare però altrettanto incisivo, e ciò, forse, anche in relazione alla natura, normalmente normativa, degli atti sottoposti a giudizio. Nonostante abbia fatto propri principi quali la proporzionalità e la tutela dell'affidamento, l'approfondimento del sindacato per il giudice comunitario resta limitato: come nel modello francese si nega al giudice di sostituire le proprie valutazioni ed i propri apprezzamenti a quelli degli organi amministrativi[75].

Al riguardo, una recente sentenza[76] della Corte sembra imporre agli ordinamenti nazionali standard molto ridotti. La Corte ribadisce il parallelismo tra rimedi offerti ai privati a livello comunitario e nazionale: a tal fine richiama la giurisprudenza in materia di ricorsi ex art.230 (ex art.173) del Trattato. Secondo la Corte insomma, nel momento in cui un'autorità comunitaria è chiamata a compiere valutazioni complesse, dispone a tal fine di un ampio potere discrezionale il cui esercizio è assoggettato ad un controllo giurisdizionale limitato, controllo che non implica mai una sostituzione da parte del giudice delle valutazioni compiute dall'istituzione con le proprie: il giudice deve limitarsi a verificare ad esaminare l'esattezza sostanziale dei fatti e delle deduzioni compiute dall'organo decidente; se, in sostanza, il provvedimento non è viziato da errore manifesto o sviamento di potere, o se l'autorità non ha largamente superato i limiti di discrezionalità, il giudice non può indagare oltre.

Tali carenze, sia nella tutela effettiva che negli strumenti di reazione del singolo verso atti comunitari, è aggravata dalla mancanza di una solida elaborazione del sistema delle fonti a livello comunitario, come di un riferimento sul concetto di discrezionalità, di atto amministrativo e di procedimento.

Sul piano nazionale, la giurisprudenza amministrativa non brilla certo per l'approfondimento sul sindacato dell'azione amministrativo. Il Consiglio di Stato tutela da sempre ampie sfere di merito a favore dell'autorità amministrativa e si rifiuta di verificare le valutazioni tecniche operate dalla stessa, salvo le varie intrusioni effettuate tramite un funambolico utilizzo dell'eccesso di potere. Grazie all'influsso del diritto comunitario e di un ampio utilizzo del principio di proporzionalità, l'attività della Pubblica Amministrazione è stata sottoposta a sempre più penetranti controlli.

Ancora il Tar Lombardia testimonia in una sentenza del 1998[77], questa nuova sensibilità:

" Il principio di proporzionalità costituisce in altri ordinamenti, tra cui quello comunitario, abituale parametro di valutazione della legittimità dell'azione amministrativa; laddove esso è stato particolarmente approfondito se ne sono evidenziati i seguenti tre elementi costitutivi:

a)  l'idoneità: un mezzo appare idoneo allo scopo se, in base ad un giudizio prognostico, possa ragionevolmente ritenersi in grado di agevolare concretamente il raggiungimento dell'obiettivo;

b)  la necessarietà: un mezzo è necessario se, tra quelli idonei ugualmente efficaci, sia il meno gravoso per gli interessi sacrificati;

c)   la proporzionalità in senso stretto: un mezzo è proporzionale se non eccessivo, cioè intollerabile in raffronto al fine perseguito."

Talvolta, il richiamo a tale principio non rispecchia però l'approfondimento del sindacato, ma nasconde un'applicazione del semplice principio di ragionevolezza dell'azione amministrativa.

Sul piano della valutazione del sindacato del giudice verso l'azione amministrativa, viene in risalto il problema dei poteri istruttori.

In ambito comunitario a fronte di un sindacato poco incisivo stanno poteri istruttori poco incisivi.

Anche qui il movimento giurisprudenziale è ambivalente: nei confronti degli atti comunitari la Corte si ferma generalmente alle prove, per la maggior parte documentali, fornite; sul piano nazionale, impone, in nome del principio di effettività, che l'ordinamento non renda impossibile o eccessivamente difficile per il cittadino far valere diritti derivanti da una normativa comunitaria[78].

Il nostro ordinamento è uno fra quelli nei quali i poteri istruttori del giudice amministrativo sono molto limitati: gli strumenti sono soprattutto documentali, il che è perfettamente coerente con il divieto di sostituire le proprie valutazioni con quelle effettuate dalla P.A..

Per estendere i poteri del giudice, si è spesso invocato il principio di effettività del diritto comunitario, fino alla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo.

La possibilità di accedere alla tutela cautelare atipica, già analizzata, lascia una certa copertura al singolo nel caso di inerzia dell'istituzione comunitaria: potrebbe essere anche una porta verso un ampliamento dei poteri di decisione nel merito del giudice, attraverso un'interpretazione evolutiva dell'articolo 231 del Trattato Ce.

Attualmente però il principio di effettività non è stato invocato per consentire ai giudici amministrativi nazionali l'adozione di tipi di sentenze diverse da quelle di semplice annullamento. Considerando tuttavia il rapporto di strumentalità tra tutela cautelare da un lato, e caratteri della tutela di merito dall'altro, non può escludersi che il rafforzamento del primo aspetto possa influire sul secondo.

Abbiamo già visto come la responsabilità comunitaria sia ristretta all'ipotesi dell'art.288 (ex art.215) del Trattato Ce. Circoscritta all'ipotesi di violazione manifesta e grave nelle materie in cui le istituzioni stesse godano di ampi poteri di scelta normativa o politica, mentre, nel caso di atti amministrativi, la colpa discende dall'atto illegittimo in se. La Corte, nella Sentenza Francovich, riconosce il principio della responsabilità degli organi degli Stati membri per violazioni di disposizioni comunitarie attributive di diritti a favore dei singoli. Nelle seguenti Brasserie du Pecheur e Factortame II, sempre analizzando la responsabilità dello stato membro, si appoggia, come già detto, ai parametri con cui la stessa Corte valuta la responsabilità extracontrattuale degli organi Comunitari, ex art.288 (ex art.215):

" Invero, da un alto, l'art.215, secondo comma, del Trattato fa rinvio, in tema di responsabilità extracontrattuale della Comunità, ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, ai quali la Comunità fa del pari riferimento, in mancanza di norme scritte, in altri settori del diritto comunitario. Dall'altro, i presupposti del sorgere della responsabilità dello Stato per danni cagionati ai singoli in conseguenza della violazione del diritto comunitario non debbono essere diversi, in mancanza di specifica giustificazione, da quelli che disciplinano la responsabilità della Comunità in circostanze analoghe. Infatti, la tutela dei diritti attribuiti ai singoli dal diritto comunitario non può variare in funzione della natura, nazionale o comunitaria, dell'organo che ha cagionato il fatto."

Ma da ciò si deduce in realtà che nel caso in cui le autorità godano di ampi margini di discrezionalità, la loro responsabilità potrà essere impegnata solo in caso di violazione grave e manifesta del diritto comunitario, mentre se manca un tale potere di apprezzamento la semplice lesione di una posizione giuridica garantita dal diritto comunitario farà sorgere il diritto al risarcimento del danno.

Possiamo affermare che la Corte ha costruito un sistema di responsabilità delle autorità nazionali per violazione del diritto comunitario, sistema comune a tutti gli Stati membri.

L'analisi della giurisprudenza della Corte evidenzia la formazione di un sistema di giustizia amministrativa comune ai Paesi membri. L'atteggiamento del giudice amministrativo italiano di fronte alla formazione di un sistema comune di giustizia amministrativa oscilla tra la partecipazione entusiasta e la semplice presa d'atto: spesso pare che il diritto comunitario divenga strumento di leva delle corti inferiori per scardinare le convinzioni delle Corti Supreme.

Il diritto comunitario e la Convenzione europea dei diritti dell'Uomo sono invero strumenti dei giudici amministrativi, soprattutto di primo grado, per aumentare la tutela effettiva delle posizioni giuridiche dei singoli nel processo amministrativo nazionale. Ma lo stesso Consiglio di Stato, che pure ha dimostrato una chiusura netta verso la Convenzione Europea dei diritti dell'uomo[79], non si è mai posto in posizione di scontro verso il giudice comunitario o i principi da questo elaborati. D'altra parte, dal punto di vista italiano, la giurisprudenza comunitaria è sempre apparsa come veicolo di maggior tutela delle posizioni giuridiche dei singoli rispetto a quanto previsto dalla normativa nazionale; il naufragio dei successivi tentativi di riforma generale del processo amministrativo (compreso, in base ad considerazioni strettamente personali, la nuovissima 205/2000) da parte del legislatore ha accentuato il ruolo del diritto comunitario come strumento per introdurre nel sistema i necessari aggiornamenti. Potrebbe darsi, e ci auguriamo che accada il contrario: un contributo italiano alla costruzione di un degno processo amministrativo all'interno dell'Unione Europea; prima ancora che a livello italiano la riforma sarebbe auspicabile a livello comunitario, sviluppandone i nodi centrali quali ad esempio l'ampiezza della legittimazione, la profondità del sindacato sugli atti della pubblica amministrazione (e quindi poteri istruttori e decisionali verso gli stessi), nonché l'effettività della tutela. Fino a pochi anni fa, affidare il controllo della tutela dei singoli ai giudici nazionali con le opportune modifiche dei sistemi interni pareva una soluzione adeguata: attualmente l'azione comunitaria è talmente permeata nel tessuto statale, in forme sempre diverse e sempre più vicina ai singoli, che si rende necessaria, anche in forza di quel richiamo alla Convenzione dei diritti dell'uomo nel Trattato, la costruzione di un adeguato sistema di tutela del singolo. Il rischio è di lasciare i diritti dell'individuo scoperti proprio verso quell'istituzione che ne ha sviluppato la tutela nei singoli Stati: non possiamo ancora dire quale sarà la veste che l'Unione Europea assumerà nei prossimi anni, se avranno la meglio i federalisti, certo è che il suo cammino comincia ad assumere sempre più le sembianze di Stato, come tale il suo intervento aumenta e si diversifica in maniera molto più rapida rispetto all'evoluzione che abbiamo visto fare alla sua forma originaria, si fa sempre più ampio e vicino, ma il suo giudice pare restare troppo lontano.



III.8 - LA CARTA EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO


E' innanzitutto necessario giustificare la posizione di questo paragrafo nel sistema di ricerca qui esposto. La motivazione risiede nel particolare oggetto del paragrafo stesso, e nella configurazione giuridica che tale oggetto assume nell'ordinamento comunitario: appunto la Carta Europea dei Diritti dell'uomo. La Carta, di cui tracceremo a breve la nascita e le ragioni di stesura, non ha attualmente una rilevanza giuridica determinata all'interno del sistema comunitario. Per questo l'esame della stessa si trova al termine del capitolo relativo all'ordinamento dell'UE; essa rappresenta un possibile scenario di sviluppo del suddetto ordine giuridico, scenario che tenteremo di immaginare, ma che non ha un effettivo riscontro nell'immediato.

A tal fine sarà utile analizzare a quale necessità questa Carta ha inteso rispondere, prima di commentare i pochi articoli che riguardano l'argomento qui trattato, ovvero i principi e le caratteristiche del sistema amministrativo comunitario.

La posizione si giustifica anche per ciò che segue, ovvero l'analisi del sistema giuridico che sostiene la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo: la Carta rappresenta un'ulteriore conferma del legame tra ordinamento comunitario e CEDU, come se non fosse più sufficiente il richiamo dell'art.6 del Trattato sull'UE e come se le istituzioni comunitarie avessero sentito la necessità di riscrivere a propria misura diritti in parte già contenuti nei trattati istitutivi, in parte elaborati dalla Corte di Giustizia, in parte comunque presenti nell'acquis communautaire.

A conclusione del Consiglio europeo di Colonia del 3 e 4 giugno 1999 i Capi di Stato e di Governo dell'Unione Europea deliberavano di consolidare la tutela dei diritti fondamentali nell'Unione stessa in una Carta, allo scopo di rendere la tutela dei diritti dell'uomo più visibile.

Allo stato attuale l'Unione Europea non è del tutto priva di una tutela dei diritti fondamentali, anche se gran parte del vuoto in materia contenuto nei trattati è stato colmato dalla Corte di Giustizia. Ma la stessa Corte ha spesso agito senza riferimenti normativi propri, attingendo, caso per caso, dalla Convenzione del 1950 e dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri.

I passi avanti effettuati tramite i Trattati di Maastricht e di Amsterdam, correlando il sistema comunitario alla CEDU, con l'art.6 del Trattato sull'UE, non hanno risolto il problema dell'individuazione di un catalogo scritto dei diritti tutelati dall'Unione[80].

Il problema della codificazione, e del catalogo di riferimento è da tempo discusso in ambito comunitario; finora ha visto contrapposti due principali linee di pensiero: la prima, favorevole all'ipotesi di una adesione da parte della Comunità e dell'UE, in quanto soggetti di diritto internazionale, alla Convenzione Europea di Strasburgo; la seconda, propensa all'elaborazione di una Carta dei diritti propria dell'ordinamento comunitario.

La strada imboccata dal Consiglio di Colonia segue la seconda impostazione, la prima era già stata sbarrata dalla stessa Corte di Giustizia con il Parere n.2/94 del 28/03/1996. Le basi della stesura sono state individuate nella CEDU, nelle tradizioni costituzionali degli Stati membri, nei diritti sociali ed economici specificatamente collegati alla cittadinanza europea. Per portare a termine il progetto, lo stesso Consiglio istituiva un organo ad hoc, la cui composizione è stata precisata dal Consiglio europeo di Tampere nell'ottobre del 1999, sulla base della Risoluzione del Parlamento del 16 settembre dello stesso anno . L'organo, denominato ufficialmente Convention, ha avviato i propri lavori il 17 dicembre del 1999 .

La Carta dei Diritti dell'uomo è stata adottata dal Consiglio europeo nel vertice di Nizza del dicembre del 2000, proposta alla Commissione ed al Parlamento come testo base per la proclamazione solenne di una Carta dei diritti dell'uomo, condivisa dalle istituzioni suddette: uno sbocco quindi di natura politica.

L'elaborazione del Progetto, anche se la natura resta attualmente politica, risulta comunque coerente con l'impegno assunto, da tutti i paesi membri a partire dal 1997, di sottoporre a revisione il Trattato di Amsterdam in tempi ravvicinati[83]. In realtà, da sempre, la Comunità ha proceduto ad un crescente ampliamento delle proprie competenze o per revisione dei Trattati o (e soprattutto) per via giurisprudenziale attraverso l'interpretazione creativa della Corte del Lussemburgo.

La decisione di elaborare la Carta coincide con la volontà di porre in essere una codificazione dei diritti fondamentali dell'uomo, e quindi con l'abbandono di quella tesi che riteneva le prerogative dei singoli già protette dall'Unione. Quest'ultima tesi è stata a lungo sostenuta dalla stessa Corte di Giustizia, la quale individuava nei Trattati stessi una Carta aperta dei diritti fondamentali sì da consentire una adeguata tutela dei singoli a livello europeo[84]. Se così fosse, l'ordinamento comunitario sarebbe giunto a possedere quell'elemento che, secondo le dominanti teorie sistemiche del diritto, contraddistingue la sovranità statale, l'autoreferenzialità nella produzione del diritto, potendo ogni singolo ordinamento statale ex se, mutare un dato complesso di norme senza ricorrere ad altri principi o regole giuridiche di integrazione.

Dall'altra parte le Corti Costituzionale degli Stati membri, soprattutto quella italiana e quella tedesca hanno da sempre contrapposto a questa teoria la riserva della c.d. kompetenz-kompetenz, rivendicando cioè la potestà di dire l'ultima parola in tema di rispetto dei diritti dell'uomo, il che implica la possibilità di opporsi a processi di intensificazione dei legami comunitari che dovessero risultare lesivi del nucleo essenziale di tali diritti .

La Corte Europea è, comunque, riuscita ad imporre, in un lungo duello, l'idea che l'Unione costituisca un ordinamento diverso e superiore a quello degli Stati, la cui più importante applicazione è la prevalenza del diritto comunitario su quello di origine statale, e, successivamente, a introdurre il principio della responsabilità degli Stati nei confronti dei propri cittadini per il mancato adeguamento dell'ordinamento interno alle direttive comunitarie. Le conclusioni ultime dell'attuale assetto costruito dalla Corte di Giustizia conducono all'esclusione della possibilità di invocare i diritti fondamentali protetti dagli Stati membri per impedire l'entrata in vigore delle disposizioni comunitarie: conclusioni che, se prese alla lettera, rappresentano l'esatto contrario di quello che sostengono le Corti Costituzionali[86].

E' innegabile però la progressiva espansione della normativa comunitaria, espansione fino ad oggi indotta dagli stessi obiettivi di libero mercato che governano gran parte della normativa comunitaria, normativa che trova il suo fondamento primo nel rispetto e nello sviluppo delle quattro libertà fondamentali, le quali assumono a loro volta il ruolo di norme sopra ordinate. Ma la sostanza dell'integrazione europea resta un processo tipicamente giuridico: un impetuoso processo di unificazione unilaterale e selettivo, e che pone al suo centro le quattro libertà comunitarie in una posizione di gerarchia assoluta assumendole come delle fonti per ulteriori diritti e prerogative dei singoli[87].

E' inevitabile che lo stringersi dell'integrazione economica implichi, da un lato, misure per combattere il social dumping[88] e dall'altro lato misure per mantenere la coesione e l'equilibrio. Ciò che ai costituzionalisti nazionali può sembrare strano è il processo invertito di riconoscimento dei diritti fondamentali: nell'UE, la protezione e la tutela dei diritti diviene mezzo per salvaguardare il libero mercato, per questo solo nel 2000 si giunge ad elaborare un progetto di Carta dei Diritti, e forse anche perché, in parte, la Corte dice il vero affermando che di fatto alla base del diritto comunitario sono già riconosciuti i diritti della Convenzione e delle tradizioni costituzionali.

Lo stesso presidente della Convention, S.Simitis, nella relazione di apertura dei lavori ribadisce però la necessità di scrivere i diritti:

"Per quanto le statuizioni della Corte di giustizia possano essere lodevoli, non può dimenticarsi che il suo vero compito è quello di garantire i diritti fondamentali e non di formularli. La Corte perciò, con ogni ulteriore contributo alla creazione dei diritti fondamentali, mette ancora in dubbio la propria legittimazione. E' inoltre difficile valutare il significato e la portata di diritti fondamentali statuiti ad hoc e ad hoc modificati."

Ancora, le ragioni della codificazione si ritrovano affermate nella relazione redatta dalla stessa Convention; nel documento presentato alla Commissione Europea "Per l'affermazione dei diritti fondamentali nell'Unione Europea. E' tempo di agire" si afferma:

"Anche se i riferimenti generali ad altre convenzioni suggeriscono l'equivalenza dei diritti fondamentali, indipendentemente dal documento in cui essi figurano, le principali fonti dei diritti sociali, vale a dire la Carta europea e la Carta comunitaria, sono considerate in realtà solo come la base per le politiche comunitarie. L'impressione che se ne ricava è inevitabilmente quella di un approccio selettivo nei confronti dei diritti fondamentali, nonché di una valutazione selettiva dell'importanza di quest'ultimi.

Taluni diritti beneficiano del massimo di protezione, in parte per la possibilità di difenderli per via giudiziaria. Altri, come i diritti sociali, rischiano di vedersi relegati allo stato di semplici aspirazioni delle istituzioni dell'Unione e dei suoi stati membri."

Per questo, almeno sul piano politico e per il movimento di opinione pubblica che ha circondato la stesura della Carta, questo progetto assume un suo ruolo[89].

Inquadrate brevemente le circostanze e le tendenze che hanno condotto all'elaborazione della Carta, tentiamo di inserirla nell'ambito di questa ricerca.

Sul piano del diritto amministrativo e della protezione delle situazioni soggettive, rispetto anche agli organi dell'Unione, la Carta contiene, nel Capo V, intitolato "Cittadinanza", l'art.41, "Diritto ad una buona amministrazione":

"Ogni individuo ha diritto a che le questioni che lo riguardano siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell'Unione.

Tale diritto comprende in particolare:

il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio;

il diritto di ogni individuo di accedere al fascicolo che lo riguarda, nel rispetto dei legittimi interessi della riservatezza e del segreto professionale;

l'obbligo per l'amministrazione di motivare le proprie decisioni.


Ogni individuo ha diritto al risarcimento da parte della Comunità dei danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell'esercizio delle loro funzioni conformemente ai principi generali comuni agli ordinamenti degli Stati membri.

Ogni individuo può rivolgersi alle istituzioni dell'Unione in una delle lingue del Trattato e deve ricevere risposta nella stessa lingua"

Vi sono altri articoli della Carta, quali ad esempio l'art.42, 43 ,47 e le disposizioni contenute nella parte finale, sull'ambito di applicazione della Carta, che interessano il diritto amministrativo, ma il punto di partenza resta l'art.41.

Nel precedente paragrafo, avevamo illustrato i principi riconosciuti alla base del diritto amministrativo europeo, sottolineando però che molti tra quelli comunque tutelati, non avevano un riscontro letterale nel trattato, altri erano rintracciabili nella costante giurisprudenza della Corte di giustizia. Ancora si è accennato alla diatriba accesa in dottrina sulla necessità e l'utilità di pervenire ad una codificazione degli stessi, magari sull'impronta della l.241/1990. Posto che l'art.41 non ha per il momento valenza giuridica vincolante, né per le istituzioni comunitarie, né per le istituzioni nazionali, dato che la Corte di Giustizia è riuscita a rendere giustiziabili principi neanche scritti, non è un'ipotesi remota che l'articolo in questione assuma, nel breve periodo, un ruolo di primario riferimento per l'assetto amministrativo nazionale e comunitario.

Ad una prima lettura, l'articolo non sembra introdurre novità eclatanti, riletto in chiave tradizionale, esso elenca alcuni principi già ben presenti nel sistema amministrativo italiano: il primo comma stabilisce il giusto procedimento , il secondo comma ne elenca le caratteristiche principali quali il diritto al contraddittorio, il diritto di accesso e l'obbligo di motivazione.

Il terzo comma stabilisce il principio del risarcimento per ogni danno causato dalla Comunità o dai suoi agenti, nell'esercizio delle loro funzioni, conformemente ai principi generali comuni agli ordinamenti degli Stati membri.

Non si tratta chiaramente di uno statuto esaustivo dell'azione amministrativa ma, essendo l'articolo inserito in un quadro normativo di principio, i principi fondamentali sembrano essere stati carpiti[90]. Il punto che forse meno convince è il terzo comma: il riferimento ai principi generali comuni agli ordinamenti degli Stati membri disorienta. La disciplina della responsabilità extracontrattuale degli organi della Comunità, quale già analizzata nei paragrafi precedenti, non può fondarsi su una visione comune elaborata sulla scorta degli ordinamenti nazionali: innanzitutto per le enormi divergenze che gli attuali sistemi di responsabilità extracontrattuale della P.A. mantengono nelle normative nazionali.

In secondo luogo, abbiamo evidenziato come l'azione amministrativa comunitaria sia multiforme, ed il terzo comma non chiarisce il proprio ambito di applicabilità. Il termine "danni cagionati" non è sufficiente perché lascia ancora una volta all'opera interpretativa della Corte il disegno dei confini della reale responsabilità degli organi e degli agenti comunitari. Si potrebbe obiettare che non vi sono neanche limiti, ma ogni diritto si configura anche per i limiti esterni che gli si attribuiscono. A fronte di una previsione così generale, fa da specchio la completa previsione dell'art.47, che disciplina il diritto ad un ricorso effettivo e a un giudice imparziale; i primi due commi recitano:

"Ogni individuo i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati ha diritto ad un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo.

Ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente e entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni individuo ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare".

Le fonti di una tale previsioni conducono velocemente agli artt.13 e 6.1 della CEDU: come se fosse necessario ribadire, in linguaggio europeo, un principio che, a detta della stessa Corte di Giustizia, fa da tempo parte dell'acquis comunitario, ed è inoltre esplicitamente richiamato dall'art.6 Trat.UE.

Ora, questa ripetizione può avere due effetti positivi: data l'interpretazione estensiva che la Corte per il rispetto della Convenzione da cui l'art.47 è stato tratto ha fatto, e continua a fare, possiamo immaginarne un utilizzo analogo anche ad opera della Corte del Lussemburgo verso gli organi sottoposti alla sua esclusiva giurisdizione; verso gli Stati membri questo principio non ha più possibilità di essere ignorato, giunge infatti dentro gli ordinamenti statali non più soltanto tramite fonte internazionale, ma da fonte comunitaria, con diritto assoluto (o quasi) di prevalenza rispetto al diritto interno contrastante. In poche parole, il mancato rispetto del principio del giusto processo potrebbe comportare per lo Stato membro una doppia violazione: verso il diritto comunitario e verso il diritto internazionale, contenuto nella Convenzione dei Diritti dell'uomo[91].

Più di questo non possiamo ipotizzare, anche perché non vi è stata ancora una sentenza della Corte di Giustizia che avesse quale oggetto i diritti contenuti nella Carta, così come elencati nella Carta, posto che molti di essi già erano presenti nel diritto comunitario.

Certo è che la Carta si configura come valido punto di partenza per una visione più sistematica dei diritti garantiti dall'Unione e quindi quale parametro per verificare la legittimità dell'azione della Comunità stessa. Allo stesso tempo, essa riveste un ruolo decisivo anche per gli Stati membri, nella misura in cui molte delle incertezze legate alla sempre possibile evoluzione della giurisprudenza della Corte di Giustizia possono essere anticipate dalla Carta.

Per ciò che concerne il diritto amministrativo sia sostanziale che processuale, la speranza è che gli articoli contenuti nella Carta non solo fungano da base per la creazione di un sistema più coerente, ma che fungano anche da ispirazione per una legislazione comunitaria completa. Infatti, nella misura in cui ormai sembra trionfare il principio della prevalenza degli effetti, che coincide con la caduta del principio di tipicità, si dimostra ancora più urgente la necessità di comporre un quadro normativo univoco, almeno a livello comunitario: un quadro all'interno del quale siano visibili i diritti e le posizioni soggettive tutelate dall'ordinamento, gli strumenti di reazione in caso di violazione e i principi di responsabilità a cui le istituzioni della comunità sono sottoposte[92].




Cfr. tra le altre Sentenza Van Gend-loos, 5/02/1963, causa 26/62 e Costa, 15/07/1964, causa 6/64.

Le brevi nozioni del sistema di diritto comunitario sono tratte da AA.VV., "Diritto amministrativo comunitario", Rimini, 1994 e da G.Gaja, "Introduzione al diritto Comunitario", Bari, 1999.

La numerazione degli articoli segue le tabelle di corrispondenza elaborate in base all'art.12 del Trattato di Amsterdam.

Cfr. Sentenza Simmenthal, 1978.

Se se ne ammette l'esistenza, dato che alcune voci in dottrina continuano a negarne l'esistenza. Abbiamo già analizzato il problema precedentemente e dichiarato di adeguarsi a coloro come M.P.Chiti e S. Cassese che ne sostengono l'operatività e la presenza.

Cfr. S. Giacchetti, in "Atti del Convegno sulle nuove problematiche del diritto processuale amministrativo", Palermo, 23/06/2000.

Quella del diritto pubblico dell'economia è forse la più macroscopica.

Cfr. le Sentenze nn. 183/1973, 170/1984 e 232/1989.

Scritto per altro in funzione ben diverse e cioè per favorire l'ingresso dell'Italia nell'ONU, in un momento storico in cui le Comunità Europee non erano ancora neanche un'ipotesi.

Un tale risultato è stato tra l'atro imposto alla Corte dalla pressione della Corte delle Comunità che da tempo riteneva inadeguato il sistema di adeguamento dell'ordinamento italiano; Cfr. Sentenze 170/1984 e 113/1985.

E' il caso delle direttive self-executing, delle decisioni della stessa Corte di Giustizia e dei principi che da tali decisioni possono essere estratti, come ribadito dalla stessa Corte nelle sentenze nn. 113/1985 e 389/1989.

Legge Comunitaria del 1992.

Non dobbiamo dimenticare che solo con la Legge La Pergola n.89/1986 e successive modifiche le Regioni riescono ad infrangere il muro del diritto Comunitario. Fino agli anni 90 si riteneva che le regioni non potessero applicare o dare attuazione alla normativa comunitaria per quanto attinente a materie che la stessa Costituzione attribuiva al legislatore regionale: le motivazioni di un tale divieto si facevano risalire alla responsabilità di un eventuale inadempimento, la cui imputabilità ricadeva comunque sullo Stato e non sulla Regione.

Come ad esempio l'articolo 117 della Costituzione che elenca le materie di competenza legislativa ripartita tra Stato e Regioni.

Vedi in particolare la direttiva sui ricorsi n.89/665 e la Sentenza della Corte di Giustizia del 1990 sul caso Factortame, che ha stabilito che gli Stati membri debbono comunque garantire una tutela cautelare del diritto comunitario anche se tale tutela non è prevista dagli ordinamenti nazionali; ciò in quanto esiste nel diritto comunitario un principio di effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni soggettive che nel diritto comunitario stesso trovino la loro fonte.

Sentenza che si riferiva ancora una volta ai rapporti Stato-Regioni ed in cui la Corte ribadisce l'inapplicabilità, nei confronti della normativa comunitaria, delle disposizioni costituzionali che disciplinano l'attività normativa degli organi dello Stato.

La teoria della disapplicazione eventuale della legge di ratifica dei Trattati comunitari è tratta dall'esauriente esame della questione fatta da M.Vacca, "La costruzione dell'ordinamento comunitario e gli Stati membri", Milano, 1996.

Lo sviluppo della problematica è stato costruito intorno all'articolo di L.Violini, "Prime considerazioni sul concetto di Costituzione Europea", in RDPC, 1998, pp.1225 e ss.

Cfr. M.P.Chiti, "Diritto amministrativo europeo", op.cit., pp.102 e ss.

Sull'argomento cfr. M.P.Chiti, "Il mediatore europeo e la buona amministrazione comunitaria", in RIDPC, 2000, pp.320.

Molti dei principi che si pretende sottendano al procedimento amministrativo comunitario non sono né codificati né inseriti nel Trattato, se non per profili particolari come nel caso del principio di proporzionalità e di quello di buona amministrazione. La Carta Europea non ha aggiunto un gran che, oltre al fatto di non essere vincolante. L'articolo 41 della Carta Europea dispone in effetti il diritto ad una buona amministrazione, nei seguenti termini: "Ogni individuo ha diritto a che le questioni che lo riguardano siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell'Unione.

Tale diritto comprende in particolare:

il diritto di ogni individuo ad essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio;

il diritto di ogni individuo di accedere al fascicolo che lo riguarda, nel rispetto dei legittimi interessi della riservatezza e del segreto professionale;

l'obbligo per l'amministrazione di motivare le proprie decisioni.

Ogni individuo ha diritto al risarcimento da parte della Comunità dei danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell'esercizio delle loro funzioni conformemente ai principi generali comuni agli ordinamenti degli Stati membri.

Sull'efficacia e sui limiti di tale enunciazione ritorneremo alla fine del capitolo.

Non si deve dimenticare che nel diritto comunitario la distinzione tra principi generali a carattere giurisprudenziale o scritto non ha il medesimo rilievo che nella maggior parte delle giurisdizioni nazionali, dato il carattere di fonte del diritto delle statuizioni giurisprudenziali e dei principi generali in modo particolare, che sono anche essenziale componente dell'acquis comunitario. Cfr. M.P.Chiti, op.cit..

Per una descrizione più approfondita vedi Chiti,M.P. - Greco,S. , "Trattato di diritto amministrativo europeo", Milano, 1997.

Anche nel caso in cui il principio derivi da un particolare ordinamento, spesso se ne riscontra una forma similare negli altri Stati membri: è il caso del principio di proporzionalità proprio del sistema tedesco, ma rintracciabile in Italia nell'ampia categoria dell'eccesso di potere.

Cfr. Tribunale di Primo grado, sentenza 25/03/1997.

Cfr. Caso Algera, cause 7/56 e 7/57 del 1957.

Lo "statuto" del diritto amministrativo comunitario è stato svolto tenendo conto delle indicazioni di M.P.Chiti , "Diritto amministrativo europeo", op.cit. e di Cappelletti-Pizzorusso, "L'influenza del diritto europeo sul diritto italiano", Milano, 1992.

Vedi, come dimostrazione di un atteggiamento positivo rispetto all'affermazione di un tale diritto, il già citato articolo 41 della Carta Europea dei Diritti dell'uomo.

Diremmo però che una tale impostazione è perfettamente coerente con la visione sostanzial-funzionalista di tutto il diritto comunitario. L'ordinamento comunitario parte da altri presupposti rispetto agli ordinamenti nazionali: deve raggiungere risultati, non fare dottrina.

Il problema della codificazione dei principi di diritto amministrativo è stato, con relativi limiti, risolto dalla Carta Europea dei Diritti dell'uomo che, almeno agli articoli 41,43 e47 dispone dei principi generali alla base dell'azione amministrativa. Il problema è verificare se tali principi abbiano o siano in grado di acquistare il ruolo di norme superiori o equiparate al trattato, e non solo fonti di riferimento giurisprudenziale come attualmente ipotizzabile. La problematica relativa alla Carta verrà svolta nell'ultimo paragrafo di questo capitolo.

Vedi M.P.Chiti, "Diritto amministrativo europeo", op.cit. La trattazione che segue sui principali ricorsi per la tutela giurisdizionale segue l'impostazione fatta dallo stesso autore.

Non è da trascurare, anche se qui non rilevante, la disputa, tuttora aperta in dottrina ed in giurisprudenza, sull'individuazione dei soggetti non privilegiati legittimati ad agire. La questione riguarda non le persone fisiche ma le persone giuridiche e si lega alle differenti modalità di attribuzioni della capacità giuridica da parte degli ordinamenti statali. Per le persone giuridiche pubbliche, la Corte ha deciso di attenersi alla qualificazione fatta dal diritto interno, per le persone private si è adottato invece il criterio sostanzialista, onde evitare disparità di trattamento e fenomeni di esclusione dalla tutela predisposta.

Per un completo inquadramento della suddetta eccezione vedi sentt. 14/12/1962, c-31-33/1962 e 16/07/1981 c-33/80.

Cfr. Sent.6/03/1979, c-92/78.

Certo si può sempre sperare nell'utilizzo da parte dell'istituzione, che aveva emanato l'atto sottoposto ad eccezione di invalidità, del principio di autotutela, ovvero nell'eliminazione per invalidità indotta dell'atto. Ma non vi è nessun obbligo per l'istituzione stessa, quindi non sembra che l'eccezione riesca nell'intento di rafforzare il principio di legalità, né tanto meno quello di certezza del diritto(almeno nell'opinione di chi scrive). Per il rispetto del superiore principio di uguaglianza sostanziale, l'annullamento dell'atto ottenuto tramite eccezione incidentale dovrebbe estendersi a tutte le posizioni soggettive analoghe, senza costringere gli altri soggetti coinvolti, ma non parti della controversia, ad esperire un'ulteriore azione.

La citazione "indiretta" è tratta da G.Santaniello (a cura di), "Trattato di diritto amministrativo", Padova, 1988, il quale fa riferimento all'opera di M.S.Giannini "Il pubblico potere. Stati e Amministrazioni pubbliche", Bologna, 1986.

Ciò è vero non solo per l'ordinamento interno, ma anche per i varchi che si sono creati altri ordinamenti in quello nazionale, inserendo altre responsabilità ed offrendo nuovi strumenti di tutela come la Corte di Giustizia, il Tribunale di primo grado ed il mediatore per l'ordinamento comunitario e la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo per l'ordinamento internazionale.

Secondo una ricostruzione fin troppo schematica, i tradizionali canoni civilistici sulla responsabilità extracontrattuale impongono al giudice di individuare l'effettività del danno, l'esistenza o meno della colpa del soggetto responsabile, il nesso di causalità tra evento e azione negligente. Gli schemi pubblicistici ricercano invece l'esistenza di una ben determinata violazione normativa e la verifica dei danni conseguenti dopo aver dimostrato il nesso di causalità.


Ratificato in Italia con la L.209/1998.

L'argomento, qui trattato solo con riferimento alla P.A. e alla responsabilità della stessa quale strumento di tutela dei cittadini europei, ha in realtà un'importanza molto superiore nell'ambito comunitario, basti qui ricordare il nodo cruciale che quest'articolo ha rappresentato per l'estensione ad est dell'Unione Europea, uno per tutti il caso della Turchia.

La modifica dell'articolo 291 (ex art.218) contenuta nel Trattato di Amsterdam è coerente con la modifica apportata dal precedente Trattato di Maastricht all'articolo 288 (ex art.215), e soprattutto in linea con l'importanza data da entrambi i Trattati alla politica monetaria dell'Unione.

In questo senso vedi M.P.Chiti, "Diritto amministrativo europeo", op.cit.

L'analisi delle caratteristiche della responsabilità extracontrattuale delle istituzioni comunitarie segue l'orientamento svolto dal suddetto autore.

Per la verifica del nesso di causalità cfr. il combinato disposto degli artt.40 Trat.CeCA e 288 Tr.CE. Una prima trattazione dell'argomento da parte della Corte si ha nella sent. Lutticke, causa 4/69 del 28/4/1971.

Vedi in merito sent. Zuckerfabrik, causa 5/71, 2/12/1971.

Vedi sentenza 17/5/1990, causa c-87/89.

Cfr. Cause riunite 60-120/87 del 1988.

Cfr. F. Capelli, "La responsabilità extracontrattuale degli Stati e della Comunità : l'art.215 Trat.Ce", in Riv .Trim.Dir.Pub., 1996, n.2, pag.501.

Cfr. da ultimo le cause riunite T-480/93, febbraio 1999.

La Raccomandazione citata è forse la più esplicita, ma il Consiglio si era già espresso in tal senso con altri documenti: nel 1980 con un Documento propositivo sull'esercizio del potere discrezionale e la protezione dei diritti dell'uomo e ancor prima nel 1977, soffermandosi maggiormente sulla tipologia degli atti amministrativi. Tali iniziative non hanno avuto del resto larga eco tra gli Stati, in parte perché andavano ad intaccare uno dei pochi regni rimasti alla sovranità statale (l'Amministrazione Pubblica), dall'altra per l'oggettiva difficoltà di adeguare alcuni ordinamenti all'orientamento del Consiglio.

Un'analisi approfondita della responsabilità dello Stato membro per la violazione di obblighi comunitari è contenuta nel saggio di A.Saggio, "La responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario", in Danno e Responsabilità, n.3/2001, pp.223 e ss. L'analisi qui esposta trae spunto sia dal saggio citato, incentrato per altro più sulla problematica legata alla disciplina degli appalti e degli aiuti di Stato alle imprese, sia dagli Atti del 46mo Convegno di Studi Amministrativi, Varenna, 21-23 Settembre 2000.

Una procedura simile può essere posta in essere dagli Stati membri nei confronti di uno Stato inadempiente, nei limiti dell'art.227Trat.Ce. In tal senso vedi sent. 16/05/200, c-388/95 Belgio vs Spagna. Esistono inoltre specifiche ipotesi di inadempimento per le quali il Trattato prevede una procedura d'infrazione accelerata.

Così nella sent. 13/12/1991, c-33/90 Commissione vs Italia: "sebbene ogni Stato membro sia libero di ripartire come crede opportuno le competenze normative sul piano interno, tuttavia a norma del Trattato CE esso resta il solo responsabile, nei confronti della Comunità, del rispetto degli obblighi derivanti dal diritto comunitario". L'impostazione della Corte, che qui rileva sul piano ella responsabilità, ha avuto, nell'ordinamento italiano, grandi ripercussioni sul piano della legittimazione delle Regioni ad applicare la normativa comunitaria. Coloro che negavano la competenza delle regioni ad applicare direttamente la normativa comunitaria avente ad oggetto materie che, dall'art.117 Cost., erano attribuite al legislatore regionale, ponevano l'accento proprio sull'unicità dell'imputazione rispetto ad un'eventuale violazione.

E come vedremo la stessa Carta Europea dei diritti dell'uomo all'art.41, II Comma.

Per una visione molto più competente della questione vedi P.Passarone, "La responsabilità extracontrattuale delle istituzioni comunitarie nella giurisprudenza della Corte di giustizia", in RIDPC, 1993, pp.193e ss.

Definizione coniata da G.Tesauro, "Diritto comunitario", Padova, 1995, citata ed utilizzata nello stesso senso da G.Gaia, "Introduzione al diritto comunitario", Bari 1999.

Lo studio dell'evoluzione tramite le sentenze qui citate trae spunto da G.Catalano, "Responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario", in Foro it., 1997, pp.321

La soluzione non trova fondamento in disposizioni puntuali del Trattato, ma deriva da un'interpretazione molto elastica, da parte della Corte, dell'art.10 Trat.Ce e dell'art.220 con cui la Corte attribuisce a sé il ruolo di coordinamento del sistema comunitario per la realizzazione delle esigenze fondamentali dell'ordine giuridico che è chiamata a tutelare.

Esempi di questa impostazione sono ad esempio la direttiva sugli Appalti, la n.89/440, in cui si legge "esecuzione con qualsiasi mezzo" o la definizione, sempre all'interno di detta direttiva, degli enti aggiudicatori quali "Definiti in modo diverso dal semplice riferimento alla loro qualificazione giuridica". Ancora la funzionalità si coglie nella sentenza Factortame, con cui s'impone la tutela cautelare quale garanzia processuale concreta. Ancora, la sentenza 21/02/1991 ha dichiarato illegittimo l'articolo 15 della Legge Merli nella parte in cui prevedeva l'illegittimità del silenzio assenso in quanto la procedura amministrativa non dava garanzie concrete di effettiva valutazione, da parte dell'amministrazione competente, degli interessi in gioco.

La teoria qui esposta della creazione dei c.d. diritti soggettivi comunitari ed il loro possibile inserimento nell'ordinamento nazionale prende spunto da un articolo di S.Giachetti, "Profili problematici della c.d. illegittimità comunitaria", in Giust.it, 1998.

Cfr. in questo senso la stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione, tra le altre le Sentenze nn. 1221/1990 e 1296/1991.

Sullo sviluppo e l'impatto del diritto comunitario vedi AA.VV, "La tutela del cittadino e la Pubblica Amministrazione: il piano nazionale ed il piano comunitario", Padova, 1991

Il Consiglio di Stato delineò tale ipotesi sia nella sentenza 7/1989 che nella 154/1992, la particolarità sta nel fatto che in entrambe le ipotesi il giudice le ritenne due eccezioni.

Con l'obbligo in questo caso, come rilevato dal Consiglio di Stato nelle sentenze sopra riportata, di contestare preventivamente la circostanza alle parti: questo perché deve ritenersi viziato di eccesso di potere giurisdizionale, per violazione dell'articolo 24 della Costituzione, decidere la causa per un motivo rilevato d'ufficio senza che le parti siano state poste in grado di far valere le loro eventuali ragioni in senso contrario.

Cfr. G.Catalano, "Responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario"

Un ampia e profonda armonizzazione è stata compiuta, ad esempio, nel campo dei pubblici appalti. Per una trattazione approfondita, M. Protto, "L'effettività della tutela giurisdizionale nelle procedure di aggiudicazione di pubblici appalti", Milano, 1997.

Vedi per approfondita trattazione dei rapporti tra le due giurisdizioni: M.Gnes, "Giudice Amministrativo e diritto comunitario", Rimini, 1999.

Com'è noto la decisione , nel sistema comunitario, è la forma con cui vengono adottati gli atti individuali, ovvero i provvedimenti amministrativi.

Per quanto riguarda il carattere diretto ed individuale degli effetti dell'atto che legittimano l'impugnazione da parte di soggetti c.d. non privilegiati e che non ne risultino i destinatari formali, si può solo osservare che il riferimento non è solo agli effetti dell'atto ma, tra gli elementi invocati dalla giurisprudenza al fine di riconoscere la legittimazione al ricorso, figura in posizione rilevante anche l'eventuale partecipazione del ricorrente al procedimento che ha condotto all'emanazione dell'atto. Per una trattazione più approfondita vedi M.P.Chiti e G.Greco, (a cura di) "Trattato di diritto amministrativo europeo", op.cit.

Cfr. Sentenza Causa 246/81 del 1981 e Causa 247/87 del 1989.

Per una visione complessiva e critica dello stato di tutela del cittadino, cfr.Biavati-Carpi, "Diritto processuale comunitario", Milano 1994; E.Picozza "Diritto amministrativo e diritto comunitario", Torino, 1997; G.Recchia, "La Responsabilità della Pubblica Amministrazione in diritto comunitario e in diritto comparato", in Dir.Proc.Amm., 2000, pp. 643 e ss.

Per il requisito del periculum in mora va ricordato che la valutazione non viene effettuata esclusivamente per l'interesse dell'attore, ma è necessario un bilanciamento dei contrapposti interessi, tra cui quello all'effettività dei procedimenti decisionali, eventualmente subordinando la concessione del rimedio cautelare al deposito di una cauzione destinata a compensare il pregiudizio subito dal destinatario del provvedimento d'urgenza che risulti poi vittorioso, nel merito. Così la Corte di Giustizia, Causa C-224/97, 26/04/1999.

Cfr. Sentenza n.727/d, 27/10/1997 con nota di G.Spadea, in Foro Amm., 1998, pp.1245.

Nel caso di specie il Tar Lombardia, invocando il disposto dell'art.2 Dir. 89/665/CEE e la sentenza della Corte in causa C-236/95, 19/09/1996 (Sentenza contro la Grecia, il cui ordinamento non prevedeva secondo la Corte sufficiente garanzie contro gli atti amministrativi), ha ritenuto ammissibile un ricorso ex art.700c.p.c. per ottenere una tutela cautelare atipica prima dell'instaurazione della causa di merito, discostandosi dalla normativa nazionale ( che prevede solo la possibilità di ottenere la sospensione dell'atto contestualmente impugnato).

Il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione Sicilia, nella Sentenza n.114/1993, invocando il principio di effettività della tutela giurisdizionale come elaborato dalla Corte di Giustizia nel caso Factortame II, ha ritenuto plausibile un provvedimento cautelare nel giudizio di ottemperanza, operando un'interpretazione comunitariamente conforme delle regole processuali che andavano nel caso applicate ad una situazione puramente nazionale.

In alcuni settori, come quello della concorrenza, nei quali le istituzioni comunitarie godono di poteri di amministrazione diretta, la Corte si è spinta invece molto oltre la semplice cassazione di diritto. Cfr. V.Sottili "Il controllo della concorrenza nel diritto comunitario", Milano, 1998.

Cfr. Corte Giust. Ce, Causa C- 120/97 del 21/01/1999, con Nota di R.Caranta, in RIDPC, 1999, pp.521 e ss..

Cfr. Tar Lombardia, n.922 5/05/1998, in Foro Amm., con Nota di I.Zingales, 1998, pp.1254.

Cfr. Corte Giust.Ce, Causa 199/82 del 9/11/1983, il c.d. caso San Giorgio.

Cfr. Cons. St., n.781 del 28/04/1998.

E torniamo quindi al problema della codificazione. Più specificatamente, il problema sta nella mancanza di un riferimento univoco e scritto, certo soggetto all'interpretazione dei Giudici comunitari, ma ben visibile dai cittadini. Se il problema rapportato alla codificazione del procedimento amministrativo può sembrare trascurabile, non lo è affatto sul piano dei diritti inviolabili dell'uomo.

Tale organo, la Convention, risultava composto di 15 rappresentanti dei Capi di Stato e di Governo degli Stati membri, di un rappresentante del presidente della Commissione europea, di 16 membri del Parlamento europeo e da 30 membri dei Parlamenti nazionali, in ragione di 2 per ogni stato membro. In qualità di meri osservatori, due membri della Corte di Giustizia e due rappresentanti del Consiglio d'Europa, di cui uno membro della Corte di Strasburgo, mentre un ruolo consultivo è stato assegnato ad altre istituzioni comunitarie, quali il Comitato delle regioni, il Comitato economico e sociale e il mediatore europeo. Risulta quanto meno sui generis la composizione di questo organo para costituente: d'altronde ciò risulta coerente con il diverso assetto dei poteri all'interno dell'ordinamento comunitario rispetto a quello dei singoli Stati membri; ancora una volta però un certo deficit democratico potrebbe sottolinearsi già nella composizione dell'organo, a prescindere dai contenuti poi elaborati.

Spicca senz'altro l'assenza assoluta delle Corti Costituzionali nazionali, dalla cui giurisprudenza però attingerà la Convention per la stesura dei diritti della Carta (considerando poi che molto del dibattito sulla codificazione dei diritti è stato costruito sul lavoro congiunto delle Corti Costituzionali nazionali con la Corte di Giustizia ).

Lo studio in dettaglio dello sviluppo dei lavori della Convention, dalla sua costituzione all'elaborazione del Progetto, viene svolto da M.Cartabia, "Cronache Costituzionali dell'Unione Europea", in Quad.Cost., n. 4, 2000, pp.459 e ss.

Vedi, Relazione della Commissione europea per l'anno 1999,Parte III "Diritti dell'uomo e libertà fondamentali", disponibile presso il sito della Commissione Europea.

La Corte di Giustizia nel parere n.1/91 ha sostenuto che il Trattato sull'Unione, sebbene elaborato secondo modalità tipiche delle convenzioni internazionali, deve considerarsi la Carta Costituzionale di una comunità di diritto. Già nella sentenza Les Verts del 1986 aveva definito, il Trattato, la Carta Costituzionale. Per uno studio approfondito dello sviluppo costituzionale dell'UE, vedi F.Snyder, "General Course on Costitutional law of european union", IUE, 1998.

Per la posizione della Corte Costituzionale italiana, vedi paragrafi precedenti.

Uno scontro tale tra le due visioni provocherebbe sicuramente una crisi del sistema. In effetti una collisione costituzionale sembra già essersi verificata con la sentenza della Corte di giustizia dell'11/01/2000 (caso Kreil) con la quale si è giudicata contrastante con un direttiva europea del 1976 sul principio di parità di trattamento la discriminante esclusione delle donne tedesche dagli impieghi militari comportanti l'uso di armi, esclusione che però è contenuta nell'art.12 della Legge fondamentale tedesca.

Un ulteriore pericolo di collisione tra ordinamenti emerge anche dalla sentenza del 18/12/1999 della Corte di Strasburgo (caso Matthews, analizzato nel capitolo successivo) con la quale si è ritenuto che la normativa comunitaria violasse la Convenzione del 1950; la responsabilità della violazione è ricaduta però sul Regno Unito, data la non sottoposizione dell'UE, per volontà della stessa Corte del Lussemburgo, alla giurisdizione della Corte di Strasburgo.

Così, M.R.Ferrarese, "Le istituzioni della globalizzazione", Bologna, 2000; ancora sostiene: "Parlare, con la prevalente dottrina, di un sistema sui generis, che da un lato non è più completamente a disposizione degli stati ma dall'altro lato non è ancora sovranazionale vuol dire, in sostanza, ammettere che ci si trova in presenza di un fenomeno inspiegabile con i paradigmi tradizionali, a cominciare dal concetto di monismo in base al quale la norma di riconoscimento di un ordinamento valido deve essere esclusiva del medesimo ordinamento."

Pratica esemplificativa delle problematiche legate all'armonizzazione delle diverse legislazioni: in sostanza con social dumping s'intende quel comportamento delle imprese che tendono a prelevare dai diversi ordinamenti norme a loro favore, spostandosi a seconda della legislazione più favorevole.

Alcuni autori, definiti neocorporativisti, tra cui F.W.Sharp, hanno prospettato invece uno scenario del tutto opposto, auspicando la creazione di una tecnocrazia sotto tutela giuridico amministrativa, ed escludendo la creazione di una qualsiasi Costituzione europea. Vedi, per la visione opposta a quella sostenuta in queste pagine, F.W.Sharp, "Governare l'Europa", Bologna, 1999.

Almeno vengono puntualmente elencati i diritti che assolutamente non possono essere ignorati da un qualsiasi procedimento amministrativo, qualsiasi atto che abbia effetti diretti verso i soggetti dell'ordinamento comunitario dovrà rispettare i criteri contenuti nell'art.41. Sembra una soluzione ottimale, l'identificazione delle tipologie di provvedimenti era impensabile, sia per l'atteggiamento funzional-sostanzialista del diritto comunitario in genere, sia perché la Carta nasce come fonte di norme generalissime. Era fondamentale porre dei limiti a dei provvedimenti che provocavano effetti diretti, la forma non conta.

Già prima della Carta in realtà potevamo ipotizzare, e forse scrivere, un ricorso indirizzato alla Commissione europea contro l'Italia per violazione dell'art.6.1 della CEDU. Ricorso che però avrebbe condotto la causa su di un piano diverso: una simile denuncia implica infatti sanzioni per lo Stato membro, quali, in casi estremi, la sospensione dello Stato dall'UE. Il rimedio si dimostra efficace sul piano politico, ma non di immediata tutela del soggetto leso.

La problematica della coesistenza di vari principi derivanti da diversi ordinamenti , come si prospetta in questo caso, tra Carta europea, Convenzione dei Diritti dell'uomo del 1950, e i principi contenuti nella Costituzione italiana, verrà approfondito nell'ultimo capitolo, soprattutto in relazione agli artt. finali della Convenzione e della Carta, articoli che appunto ne delineano gli ambiti di azione.




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