|
|
LA DISOCCUPAZIONE: KEYNES E FRIEDMAN
Un'analisi delle teorie sulla disoccupazione secondo l'impostazione keynesiana e secondo la critica monetarista; la distinzione tra disoccupazione volontaria e involontaria; esempi dall'Italia odierna.
Nel ventesimo secolo si sono scontrate sostanzialmente due teorie essenziali. L'una, elaborata dall'economista inglese John Maynard Keynes, porta ad un più ampio intervento dello Stato nell'economia; l'altra, rivitalizzata dalla scuola monetarista di Milton Friedman, prende le mosse dagli economisti classici dell'800 e contiene una difesa della libertà d'intrapresa p 919i85j rivata.
La "summa" del pensiero di Keynes si può trovare nel famoso e voluminoso trattato "Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta" (1936; trad. it. Utet, 1963), mentre l'economista di Chicago, insignito del Premio Nobel nel 1976, ci ha lasciato una mole notevole di articoli specializzati e pochi lavori isolati, di cui la gran parte non disponibili nella nostra lingua; si guardi in ogni modo "Efficienza economica e libertà" (1962; trad. it. Vallecchi, 1967).
Lo sforzo che faremo sarà quello di analizzare il punto di vista di Keynes sia in generale sia in merito alla disoccupazione e, alla luce di un confronto con Friedman, il suo più lucido antagonista, descrivere qualche prospettiva di sviluppo del dibattito con attenzione al caso italiano.
Keynes è spesso visto come uno statalista, e le sue implicazioni vanno indubbiamente in tal senso. In effetti, sebbene egli sostenesse il Partito Liberale inglese, nel trattato "La fine del lasciar fare" (1936) ebbe modo di scrivere: «Non è vero che gli individui posseggono una "libertà naturale" imposta sulle loro attività economiche», che non è certo un'espressione estremamente felice per chi altrove giurava di difendere in ogni caso il sistema capitalistico.
A parte però le diatribe politiche, l'importanza di Keynes non è da sottovalutare. Da lui non trassero ispirazione (o giustificazioni teoriche) soltanto le socialdemocrazie nordiche, ma molti governi anche italiani durante l'arco di tutto il dopoguerra: si pensi all'esperienza del centro-sinistra (dal 1963) che prese avvio con la nazionalizzazione dell'ENEL. L'espansione smisurata del nostro debito pubblico è solo uno degli esempi di applicazione del pensiero keynesiano.
Keynes, tanto per cominciare, è assieme al nostro connazionale Piero Sraffa il più fulgido esempio di come gli economisti del nostro secolo abbiano cercato (a volte inventandole) strade che, una volta percorse, avrebbero condotto al grande sogno dell'umanesimo occidental-cristiano: mettere a disposizione del maggior numero di gente possibile i vantaggi del progresso tecnico.
Egli contesta principalmente l'estrema fiducia nel modo in cui si formano i prezzi nel "libero scambio" nutrita da tutti gli economisti che lo avevano preceduto e che egli chiama "classici". Tra loro è da annoverare anche Marx, che effettivamente partì da una concezione smithiana del capitalismo.
Keynes fa piazza pulita dei presupposti smithiani a cominciare dalla "mano invisibile" che guiderebbe le scelte degli agenti (consumatori e produttori), sostenendo che una simile situazione può crearsi solo con un'effettiva "perfetta conoscenza" di tutti i parametri: questa, nel modello classico del mercato, formulato dall'inglese Edgeworth (cfr. la "scatola di Edgeworth", un grafico presente in ogni manuale di microeconomia), è garantita dalla presenza di un banditore che, come succede nelle Aste, fornisce ogni informazione a chi poi scambierà merci con denaro o viceversa.
Il banditore è un'invenzione teorica, è ovvio, ma Keynes sostiene che senza di lui il modello classico non può funzionare: senza di lui entrano in gioco l'incertezza e le aspettative, le previsioni; la moneta assume allora un ruolo di sicurezza, soprattutto per i consumatori finali. Costoro, di fronte all'incertezza sui prezzi di mercato dovuta all'assenza del coordinamento, mostrano preferenza per la detenzione di una certa quantità di moneta liquida di modo da garantirsi da sbalzi futuri e imprevedibili. In altre parole, preferiscono risparmiare piuttosto che spendere almeno una parte del proprio denaro. Così facendo, si creano nei mercati le crisi da insufficienza di domanda di beni di consumo, a causa delle quali le imprese vendono meno, non vedono affluire capitali e dunque non dispongono di risorse per investimenti.
La ricetta keynesiana contro la disoccupazione, riassunta nel motto «sostenere la domanda!», parte proprio da qui, ed è oggi ripresa da molti uomini politici della sinistra europea, anche se a livello teorico alcuni dei suoi seguaci precisano che egli volle unicamente indicare linee-guida e nuove problematiche su cui aprire un dibattito.
Keynes fu il primo economista (e qui risiede il suo maggior merito) ad accorgersi dell'esistenza, nei cicli economici, di crisi di breve periodo, cioè inferiori a un anno. Egli delimitò dunque al breve periodo le sue analisi, e qui sta invece il suo limite, come poi vedremo. In una simile situazione, con salari e prezzi fissi, affermò che la disoccupazione dipende in ultima analisi dall'insufficiente domanda di beni da parte dei consumatori: essa infatti determina scarsi ricavi per le imprese che dunque non hanno propensione ad investire e ad assumere. "Sostenendo la domanda", cioè invogliando i consumatori ad acquistare beni, si farebbero arrivare gettiti "freschi" di capitali alle imprese ed esse potrebbero poi, per produrre di più, reinvestirli ed assumere nuova forza lavoro, portando il sistema ad uscire dalla crisi occupazionale.
Per dirla con le parole di Keynes, «il risparmio, da virtù privata, diviene pubblico vizio».
Ma come fare per aumentare la base di consumatori? Keynes consiglia di aumentare la quantità di moneta circolante, e ciò può essere raggiunto sostanzialmente in due modi: o aumentando la spesa pubblica a parità d'imposte, o diminuendo le imposte per "lasciare" ai cittadini una più ampia disponibilità del loro denaro.
Il secondo metodo è però sconsigliabile, secondo la visione keynesiana, perché i consumatori potrebbero anche decidere di non destinare al consumo il denaro risparmiato con la diminuzione delle imposte. Un esempio del primo metodo è invece il provvedimento del Governo Prodi in tema di incentivi sulla rottamazione delle automobili e dei motorini: il Tesoro eroga un contributo (=aumento della spesa pubblica) a fronte di ogni auto rottamata, e in cambio il proprietario s'impegna ad acquistarne una nuova (=desiderato aumento del consumo privato).
L'esempio è perfettamente emblematico sia dell'intuizione sia del limite dell'analisi keynesiana: dobbiamo infatti ammettere che il sistema ha funzionato poiché grazie agli incentivi, e fintantoché sono durati (breve periodo), il settore auto del gruppo Fiat non ha, è vero, assunto manodopera aggiuntiva, ma nemmeno ha chiesto cassa integrazione e pre-pensionamenti. Però, non appena il provvedimento è scaduto (inizio del lungo periodo), la Fiat si è ritrovata con gli stessi problemi di prima e ha immediatamente rilanciato le domande di cassa integrazione.
Keynes, con il suo amore per i paradossi, arrivò a sostenere che se il Governo assumesse disoccupati per impiegarli in lavori improduttivi (come scavare buche e poi riempirle nuovamente), ciò, per quanto assurdo, sortirebbe comunque l'effetto positivo di dare disponibilità di denaro e di spesa a persone che prima non l'avevano. Naturalmente i suoi discepoli si resero conto che una simile politica non può essere portata all'estremo, ma la richiesta di "lavori socialmente utili", pur avanzata da un partito che si rifà al comunismo, in fondo richiama proprio questo principio keynesiano.
Il fatto che l'analisi fin qui descritta sia concentrata nel breve periodo non è comunque l'unico suo limite: un altro può essere individuato nella presupposizione di una disoccupazione particolare, detta "involontaria", per la quale i disoccupati bussano alle imprese ma queste non hanno convenienza ad assumerli in quanto prive di capitali per via dell'insufficiente domanda di beni.
Ma non è questo l'unico tipo esistente: Milton Friedman ne indica un altro nel suo tentativo di ridefinire le teorie liberiste rifondando la scuola monetarista. Vediamo di capire quale.
Friedman non ripone fiducia nel sostegno della domanda: egli ritiene che il sistema economico spesso non riuscirebbe a soddisfare una domanda crescente poiché già presenta un livello di produzione di equilibrio: e poiché non v'è ragione per le imprese di modificare una produzione già in equilibrio, maggiore domanda si tradurrebbe in un puro aumento dei prezzi! Va qui precisata la nozione di equilibrio, diversa da quella degli economisti classici dell'800 che per primi la definirono: per costoro, una delle condizioni sufficienti era la "piena occupazione"; va da sé che tale condizione è irrealistica.
La scuola monetarista ha allora analizzato il concetto di disoccupazione, trovando che essa dipende sovente da imperfezioni del mercato del lavoro, in altre parole da eterogeneità di qualifiche o di territorio o da scarsità d'informazioni. Questo fa sì che esistano contemporaneamente posti da occupare e disoccupati. Ad esempio possono esistere posti vacanti da operaio e disoccupati che aspirano a un posto da impiegato (eterogeneità di qualifiche), oppure posti vacanti in Veneto e disoccupati in Campania (eterogeneità di territorio), o infine non esistono informazioni sufficienti circa i posti vacanti (scarsa trasparenza del mercato).
Questa disoccupazione, ignorata da Keynes, è detta "volontaria"; le è associato un "tasso naturale di disoccupazione" definito come un numero di disoccupati pari al numero di posti vacanti: è ad essa che corrisponde l'equilibrio ("naturale") à la Friedman, in altre parole la situazione in cui una crescita della domanda non potrebbe essere soddisfatta da un sistema economico già in equilibrio.
A ben vedere, dunque, la controversia si può ridurre a capire quale dei due tipi di disoccupazione prevalga in un determinato sistema e in un determinato momento storico, essendo molto probabile che i due tipi siano concomitanti.
Dunque un'impostazione teorica della questione vuole che i responsabili della politica economica si attengano a una precisa analisi della realtà.
Nell'Italia odierna, si possono trovare esempi che in apparenza avvalorano entrambe le teorie. Al nord siamo in presenza di eccessiva eterogeneità tra le qualifiche richieste e quelle offerte: mancano tecnici specializzati ma sembra esservi eccesso di laureati generici. In alcune zone del sud, invece, pare sia la scarsa convenienza a produrre da parte delle imprese a determinare scarsi investimenti ed assunzioni.
Ma se nel primo caso (quello del nord) siamo certamente di fronte a una disoccupazione volontaria à la Friedman, non è per nulla scontato che nel secondo caso (quello di alcune zone del sud) sia sufficiente accrescere la domanda per sbloccare la situazione. In quei territori, infatti, esiste purtroppo un fattore esogeno rilevante che complica le cose: si tratta della presenza della criminalità organizzata, costituita in potere sociale ed economico, che prospetta enormi rischi per chi vorrebbe investire. Per un'analisi corretta della situazione meridionale, dovremmo prima sconfiggere definitivamente il potere mafioso.
Dunque i responsabili della politica economica, se agissero per il bene del Paese e scevri dalle ideologie o quantomeno non succubi ad esse, dovrebbero adottare un "policy mix" in grado di assecondare i bisogni reali dei micro-territori.
Nel caso italiano, sembra indispensabile una politica lungimirante che riduca il costo del lavoro e della burocrazia (il che non è un «regalo alle imprese» ma un regalo a tutti perché porta con sé nuovo lavoro) accompagnata da una politica scolastica di adeguamento alle necessità locali. Se si pensa all'Università di Castellana, i cui laureati trovano quasi immediatamente lavoro nella provincia di Varese, ci si accorge che qualche tentativo è già stato effettuato con successo. Questo, in linea di massima, dovrebbe bastare per il nord.
Al sud, come detto, c'è un fattore esogeno pericoloso: il potere sociale della criminalità organizzata, che va estirpato accrescendo nei più giovani una cultura della legalità che li vaccini da tentazioni mafiose oltreché naturalmente agendo in sede di politica giudiziaria e di ordine pubblico. Solo con questa base una politica "monetarista" potrà avere effetti anche nei territori depressi d'Italia.
Va anche detto, per onor di precisione, che tutto ciò può valere per i settori produttivi tradizionali e in specie per quelli di carattere industriale, ma in un mondo che cambia repentinamente il più importante fattore in grado di generare lavoro è la creatività. Essa si traduce nell'interiorizzazione dei cambiamenti sociali e nella capacità di rispondere ad essi in maniera rapida ed efficiente: è il metodo che sta alla base delle nuove imprese di servizi e della new economy, che sembra non possano prescindere dall'iniziativa privata.
Privacy |
Articolo informazione
Commentare questo articolo:Non sei registratoDevi essere registrato per commentare ISCRIVITI |
Copiare il codice nella pagina web del tuo sito. |
Copyright InfTub.com 2024