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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CAGLIARI
FACOLTA' DI SCIENZE POLITICHE
Un tentativo di rifondazione etica della politica: il socialismo liberale di Carlo Rosselli
Indice.
Prefazione |
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p. 9 |
Capitolo 1 |
Vita di un socialista atipico |
p. 11 |
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L'ambiente familiare |
p. 11 |
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La Grande Guerra |
p. 13 |
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Il dopoguerra |
p. 14 |
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La "piccola confraternita di salveminiani" e il Circolo di cultura |
p. 16 |
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L'incontro con Gobetti e gli studi in Inghilterra |
p. 19 |
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Il delitto Matteotti: l'inizio della militanza antifascista |
p. 22 |
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Da Il Quarto Stato alla fuga da Lipari |
p. 24 |
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Dalla Francia alla Spagna |
p. 28 |
Capitolo 2 |
Dalla giovinezza all'esilio: gli scritti antecedenti a Socialismo liberale |
p. 33 |
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Il sindacalismo |
p. 33 |
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La tesi di laurea |
p. 33 |
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Gli altri scritti sul sindacalismo |
p. 36 |
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La crisi del socialismo italiano |
p. 39 |
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Metodo liberale e ideale socialista a confronto |
p. 39 |
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La prima versione di Liberalismo socialista |
p. 39 |
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La seconda versione di Liberalismo socialista |
p. 41 |
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Il bilancio marxista |
p. 43 |
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Il paradigma inglese |
p. 45 |
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La lotta al fascismo |
p. 49 |
Capitolo 3 |
Socialismo liberale e la rivoluzione |
p. 53 |
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Socialismo liberale |
p. 53 |
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Le origini del libro: l'occasione letteraria e la motivazione politica |
p. 53 |
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La critica al marxismo |
p. 55 |
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Dal revisionismo al fascismo |
p. 58 |
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Il nuovo umanesimo socialista |
p. 65 |
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Le critiche a Socialismo liberale |
p. 70 |
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Rosselli rivoluzionario |
p. 71 |
Capitolo 4 |
Conclusione: per una rifondazione etica della politica |
p. 77 |
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Sul concetto di socialismo liberale |
p. 77 |
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Individuo e società |
p. 78 |
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Dalla libertà alla giustizia |
p. 80 |
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La democrazia |
p. 81 |
Appendice |
Schema di programma |
p. 85 |
Bibliografia |
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p. 89 |
Prefazione.
Che senso ha scrivere una tesi su Carlo Rosselli, a più di sessant'anni dalla sua morte?
Presso il grande pubblico egli è ricordato, quasi sempre, come un illustre Carneade presente nella toponomastica; presso gli studiosi della storia contemporanea come uno dei maggiori esponenti del fuoriuscitismo e dell'antifascismo. Ma c'è anche un altro Rosselli, talora volutamente trascurato, talaltra riscoperto secondo le mode intellettuali del momento, che precede la figura del fondatore di Giustizia e Libertà: il teorico del socialismo.
Nonostante alcuni limiti in ordine alla sistematicità dell'esposizione, il pensiero del Rosselli teorico del socialismo è originale. Il suo ambizioso proposito fu, infatti, quello di pervenire ad una formulazione del socialismo attraverso la fusione degli elementi fondativi della dottrina socialista non-marxista con quelli del liberalismo non-liberista: il socialismo liberale. L'idea di armonizzare il socialismo con il liberalismo parve a molti un'eresia: come è possibile (se è possibile) ricondurre ad unità dottrine politiche così antitetiche? Nemmeno gli sforzi esegetici più profondi sono riusciti a dare una risposta definitiva, ed il dibattito è tutt'ora aperto.
In quel tentativo Rosselli non fu né il primo né l'ultimo; e l'originalità del suo pensiero non consiste tanto nell'aver fondato una nuova ideologia, quanto, piuttosto, nella peculiarità -da sottolineare- della sua storia personale, del percorso sui generis, che lo porta ad essere un eretico tanto del socialismo quanto del liberalismo. In ragione di ciò, questo lavoro non tratta delle differenze che intercorrono fra Rosselli e gli altri socialisti liberali, ma cerca di focalizzare l'attenzione sul percorso intellettuale, ma anche profondamente pragmatico, della sua ricerca. Di qui due tipi di analisi: un primo, diacronico attraverso la successione dei suoi scritti; un secondo, sincronico sotto forma di chiave interpretativa, cercando di estrapolare il sistema di principi del suo socialismo liberale.
Pertanto, questa tesi, divisa in quattro capitoli, si sviluppa su tre punti:
1) nel primo si evocano gli elementi fondamentali della vicenda biografica di Carlo Rosselli. Benché si sia cercato di non trascurare gli aspetti aneddotici, i maggiori sforzi sono stati riposti nell'evidenziare quali influenze ideologico-culturali, e ciascuna con quale peso, abbiano concorso alla formazione politica del nostro. La conoscenza della biografia di Rosselli è il presupposto indispensabile per comprendere lo spirito complessivo delle sue concezioni;
2) nei due successivi si svolge l'analisi dei suoi scritti. Il pensiero di Rosselli viene esposto attraverso la selezione dei brani ritenuti più significativi della sua produzione letteraria in tema di politica;
3) il quarto, conclusivo, cerca di mostrare come Rosselli voglia, coniugando liberalismo e socialismo, anche in antitesi con il dominante pensiero crociano, riformulare una visione etica della politica.
Capitolo 1. Vita di un socialista atipico.
1.1 L'ambiente familiare.
Per comprendere il pensiero e l'azione di ogni uomo politico, come di ciascun personaggio storico, non si può prescindere dalla conoscenza della sua biografia, e tale regola vale anche per Carlo Rosselli. Anzi, specialmente nel caso di Rosselli, la disamina delle influenze politiche ed ideologiche provenienti dal ricco ambiente familiare ed affettivo nel quale il giovane Carlo e suo fratello Sabatino (meglio noto come Nello) crebbero, si presenta come dato essenziale per questo fine.
Carlo Rosselli nasce a Roma il 16 Novembre 1899 da Joe (all'anagrafe Giuseppe Emanuele), musicista, e da Amelia Pincherle Moravia. Entrambe di origini ebraiche (di estrazione nobiliare Joe, borghese Amelia), le rispettive famiglie parteciparono attivamente alle vicende del Risorgimento: la nonna di Joe, Sara Nathan Levi fu amica di Giuseppe Mazzini1 durante l'esilio londinese di questi, Leone e Giacomo Pincherle (rispettivamente un prozio e il padre di Amelia) ebbero un ruolo di primo piano al tempo dell'esperienza della repubblica veneziana di Daniele Manin .
Joe («largo di spalle, la barba morbida a pieno viso, i capelli neri, lisci, occhi blu»3) e Amelia («minuta ma aggraziata, i capelli di un biondo tiziano, il naso affilato, i grandi occhi azzurri volti agli zigomi» ) si sposarono a Roma nei primi anni '90 dell'Ottocento ma già dopo poco più di un decennio la coppia si separò legalmente.
Infatti Amelia, che da subito mal sopportò l'incostanza del marito nel perseguire la propria aspirazione a perfezionare gli studi di composizione musicale a Vienna (piuttosto che il duro e costante esercizio Joe preferiva le mollezze mondane della capitale asburgica), si decise per la separazione dal coniuge allorché questi, venuto in possesso della cospicua eredità lasciatagli dal padre, morto nel 1901, sperperò quella fortuna in investimenti sbagliati e nei bagordi delle case da giuoco5.
Da quel momento Amelia inizia ad occupare, senza apparente rimpianto dei figli, il vuoto causato dalla lontananza e poi dalla morte del padre ; non è, tuttavia, l'unica figura di riferimento dello sviluppo affettivo e culturale dei giovani Rosselli (Aldo, nato nel 1895, Carlo, e Nello, del 1900).
In effetti, l'evocazione della personalità di Amelia Pincherle Moravia non può esaurirsi alla notazione di essere stata madre di Carlo Rosselli, ma è necessario sottolineare che si tratta di una non secondaria personalità del mondo artistico e culturale del periodo. Composto nel 1898 il dramma Anima , con il quale si afferma come autrice di successo dimostrando una raffinata sensibilità anticonvenzionale, scrive molti testi teatrali (con alterno consenso di pubblico e di critica) ed è, almeno fino all'avvento del fascismo, una delle maggiori organizzatrici dei salotti culturali di orientamento progressista di Firenze (città nella quale si trasferisce con i figli dopo la separazione dal marito).
L'incontro con la madre segna radicalmente sia Carlo che Nello. Essi in lei riconoscono non solo una sicura guida affettiva dal forte carattere, ma anche un limpido esempio, soggettivo ed individualistico, per la costruzione del proprio quadro di riferimento esistenziale8.
Tale paradigma, insofferente alle schematizzazioni preconcette, permeato da un senso volontaristico e rigorosamente morale dell'azione, è una importante chiave di interpretazione della vita e del pensiero di Carlo. In particolare, infatti, egli mutua dalla madre la «religione del dovere» : gli ideali non sono mere astrazioni bensì concreti principi etici per la realizzazione dei quali bisogna lottare .
«Educati da una tale donna -la quale, pur avendo un ingegno che la poneva ben al di sopra della grande maggioranza delle altre donne, non ebbe mai la posa, così antipatica, della "letterata"- i tre ragazzi crescevano amati di sollecito e trepido amore, ma senza quelle colpevoli condiscendenze che possono tramutare i difetti, non gravi e non rari nell'infanzia e nella difficile crisi della pubertà, in storture più tardi irreparabili. Carlo e Nello non davano un gran pensiero: erano bambini come ce ne sono tanti, coi loro capricci che una sgridata o un castigo dato a tempo bastava a correggere. Un temperamento talpoco meno facile da guidarsi aveva Aldo, il loro fratello maggiore»11.
Benché tutti e tre i fratelli abbiano l'opportunità di venire a contatto con l'ambiente culturale fiorentino, così ricco degli stimoli dell'arte poetica e del gusto classico, ben diverso è l'indirizzo di studi che intraprendono. Di carattere docile e portato alla riflessione, Nello segue brillantemente un corso di studi classici e si afferma in età adulta come uno dei maggiori storici del panorama italiano; più estroverso e fisicamente espansivo rispetto al fratello, Carlo è un giovane dalla personalità che mal si concilia con le fatiche dello studio, in generale, e con le discipline umanistiche, in particolare. La madre, accortasi di questa sua naturale inclinazione, a dispetto della tradizione borghese che voleva per i figli una preparazione culturale letteraria, iscrive Carlo all'istituto tecnico.
Tale scelta, se non segna in negativo l'ottenimento di titoli superiori di studio da parte di Carlo (nonostante il fatto che solo il ginnasio aprisse allora in Italia le porte all'università, ebbe modo di recuperare tale svantaggio e di laurearsi per ben due volte), ne indirizza, comunque, lo spirito in senso pratico e pragmatico e, in campo politico, all'azione piuttosto che alla meditazione.
1.2 La Grande Guerra.
Nel 1914 si hanno i prodromi dell'interesse di Carlo per la politica: l'adolescente, così poco incline all'astrazione e assai distante da tutto ciò che non fosse il proprio quadro di vita più strettamente familiare, svela alla sbigottita madre un individuo sulla via della maturità psichica ed intellettuale. E' la tragedia della Grande Guerra (tragedia familiare: Aldo Rosselli muore al fronte nel 1916) e tutto il dibattito politico che anima le serate dei cenacoli intellettuali che si riuniscono in casa Rosselli a spingere verso questa prima, repentina ed inaspettata mutazione della vita di Carlo12.
Vuole «conoscere [.] i dettagli di quella grossa cosa per la quale tutti prendevano partito»13: ora sente il bisogno di ascoltare le opinioni della genitrice, dello zio Gabriele Pincherle (fratello della madre, la seconda figura dell'universo affettivo di Carlo) e di Guglielmo Ferrero .
Pur provenendo da una famiglia di tradizioni liberali, Amelia Pincherle Moravia prende subito una posizione nettamente favorevole all'intervento dell'Italia nel conflitto. Le motivazioni di questa scelta derivano e dall'ostilità che provò nei confronti degli austriaci ai tempi delle persecuzioni che questi operarono contro gli ebrei durante la dominazione asburgica di Venezia, e da un fervente sentimento patriottico specificamente individuale15.
E' così chiaro come sia possibile che il giovanissimo Rosselli proponga questa lettura fin troppo idealizzata ed ingenua degli avvenimenti bellici e della figura di Woodrow Wilson, in particolare, in occasione dell'annuncio dell'ingresso degli Stati Uniti nel conflitto: «Wilson è più che un uomo. E' il lato vero, il lato grande, immenso della guerra. Egli ha chiesto ai popoli di riunirsi tutti tra loro per un ideale comune. E per questo ideale irraggiungibile coi mezzi pacifici, egli ha dato il suo popolo, ha giuocato la sua popolarità. Per fortuna nostra e sua, gli uomini grandi riescono quasi sempre. Ed egli ha vinto. Io mi ricorderò sempre la frase di quel senatore americano che disse: anche se dei venti miliardi che presteremo agli alleati, non ci fosse reso neanche un soldo, saremo egualmente contenti perché saranno stati spesi bene»16.
Ed è appunto spinto da questo slancio patriottico, mazziniano, e dal desiderio di completare idealmente l'opera di Aldo17, che Carlo si impegna prima nel così detto "fronte interno" (è volontario nell'Ufficio notizie per le famiglie dei soldati a Firenze), poi, a metà del 1917, come cadetto della scuola allievi ufficiali di Caserta e, quindi, al fronte, anche se, invero, quasi mai soggetto a reali pericoli.
Se l'esperienza del servizio militare (che si conclude nel 1920) è ben diversa dai vagheggiamenti giovanili, comunque non si rivela infruttuosa. Infatti Rosselli ha modo, in quei tre anni, non solo di completare gli studi (si laurea nel 1921 al Cesare Alfieri di Firenze in Scienze sociali), ma anche di fare due, assai diversi ma egualmente fondamentali, incontri della sua vita: conosce Luigi Russo, in qualità di insegnante di morale militare, e familiarizza con le masse popolari che costituiscono il personale di truppa.
Attraverso Luigi Russo e il suo testo Vita morale e militare, egli si avvicina alla filosofia (per la quale non dimostrerà mai grande passione) ed in particolare all'idealismo di Giovanni Gentile, al quale Russo si ispira. Dalle lezioni di morale militare rafforza l'idea (per lui niente affatto nuova, proveniente come è da un'educazione borghese ispirata agli ideali risorgimentali) del senso del dovere, della preminenza del ruolo della volontà e dell'agire morale nelle vicende umane.
Ma è soprattutto la vicinanza con le masse popolari e proletarie, specialmente nella contingenza della vita di trincea, che segna il Rosselli uomo, prima, e il Rosselli politico, poi. Per propria estrazione familiare e di classe, entrambi i fratelli non avevano avuto che un contatto mediato con i contadini, gli operai e la piccola borghesia. Al di là di un qual certo interesse filantropico della madre per la gente oscura18, assai di rado essi erano venuti a contatto con coloro che occupavano le fasce più basse della stratificazione sociale del periodo.
Per Carlo è una vera e propria sorpresa. Scrive in proposito Bagnoli: «Bastarono quei pochi mesi di contatto con la massa degli umili, e di tanti diseredati, esposti a sacrifici e rischi mortali, travolti da un tragico conflitto da loro né compreso né voluto, a fargli scoprire [.] una realtà sociale fino a quel momento a lui quasi ignota. Fu la rivelazione di un mondo di sofferenze e di ingiustizie, dalla quale doveva prorompere in lui una sete [.] di liberazione, un impulso di solidarietà. Forse è troppo dire [.] che Carlo si sentì socialista al ritorno dalle trincee. Ma è certo che da quella esperienza germinò in lui quel proposito di adoperarsi per il riscatto delle masse che ne avrebbe fatto [.] il futuro fautore di un approdo al socialismo per la via della libertà» .
1.3 Il dopoguerra.
Certamente non è possibile affermare che l'esperienza della guerra sia la molla che porta Rosselli a diventare socialista, ma è certo che quella circostanza guiderà la sua formazione.
Ce ne offre testimonianza egli stesso in un brano di chiaro sapore autobiografico: «Io qui non voglio accennare che a un solo fattore, la guerra. Voglio solo obbiettivamente rilevare lo sconvolgimento immane che essa ha determinato non solo nelle cose, ma nelle anime, nelle coscienze. Le rovine che ha seminato sul suo cammino e che più che nel sacrificio dei morti e nelle sofferenze dei vivi stanno nelle influenze profonde e dolorose che ebbe ad esercitare sull'animo di tutti gli uomini, vecchi e giovani, combattenti e non combattenti. Per una generazione almeno il suo ricordo rivivrà nelle azioni degli uomini. Nel combattente anche più entusiasta, nell'interventista più frenetico, un nuovo equilibrio si andò formando per il contatto realistico col popolo nostro. A contatto col popolo molti conobbero ed apprezzarono la "massa", questa massa su cui oggi si sputacchia tanto volentieri. Ne compresero i dolori, le lacune, le mirabili virtù. Io stesso ricordo con commozione la scoperta che ne feci e il grande amore che mi prese per essa. A contatto colla morte, coi dolori della guerra, lungi dalla falsa letteratura dei vari Barzini, vicino alle piccole e grandi diuturne tragedie, i giovani studenti ch'eran partiti folli di ebrezza e fuori di ogni realtà, vennero temperandosi e una nuova più elevata armonia subentrò. Partiti con un ideale astratto questo, nel farsi concreto, ed essi coll'aderire alla vita e alla realtà, che è sempre complicata e multiforme, furono posti in grado di comprendere tante cose che sarebbero loro certamente sfuggite nel loro isolamento di classe e di professione» .
Gli anni intorno al 1919-1923 rappresentano il periodo della transizione di Rosselli al socialismo. Pur con forti esitazioni e dubbi che vengono definitivamente fugati solo nel 1924, dopo il delitto Matteotti, nel suo animo si fa strada la convinzione della necessità di una svolta ideale e politica: dall'interventismo al socialismo.
Tornato a Firenze ancora sotto le armi, privilegio concessogli per conseguire la laurea al Cesare Alfieri, ha modo di toccare con mano gli effetti controversi della guerra sulla società italiana di quegli anni. Tuttavia, il 1919 vede ancora un giudizio positivo del conflitto da parte sua. E' convinto che ai reduci, a coloro che tanto hanno patito a causa di quella esperienza, spetti il compito di creare la nuova società italiana, abbattendo l'ordine dei vecchi partiti. Ai suoi occhi solo la loro unità di intenti, la loro collaborazione interclassista può condurre la nazione fuori dalle strettoie del parlamentarismo giolittiano da una parte, e dal radicalismo dei nuovi partiti di massa dall'altra21.
Chiare sono in questo periodo le influenze della Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale di Salvemini e dell'associazionismo degli ex-combattenti che da lì a poco sfocerà nel fascismo. Se grande parte ha l'influsso salveminiano sull'avvicinamento di Rosselli al socialismo (almeno quello di matrice non massimalista, seguendo in questo l'orientamento dello storico pugliese), non altrettanto si può dire di quello di matrice proto-fascista.
«In coloro che avevano interrotto una vita monotona per salire alle ebbrezze del comando; in coloro che avevano trovato in essa una scappatoia per un'attività civile non fortunata; in coloro i cui nervi eran stati definitivamente distrutti dalle violente emozioni private; in cui s'eran ridestati i sadici istinti che la lotta risveglia -in tutti questi, e furono moltissimi, la guerra creava lo stato d'animo che condusse alla formazione del fascismo. In altri, e generalmente in coloro che avevano caratteri eminenti di ingegno, molti tra essi che furono più tardi compagni a Carlo Rosselli nelle sue prime lotte politiche- la guerra allargava l'orizzonte delle relazioni umane, li staccava dalla considerazione della politica come "affare di stato", dava a questa un senso più vasto, sì che politica voleva dir ora rifare e riplasmare intorno a sé il mondo di cui essi erano parte» .
Benché sia Carlo che Nello condividano con i prodromi del movimento fascista la consapevolezza della necessità storica del rinnovamento della società e della politica italiana, tuttavia essi se ne discostano gradualmente, ma decisamente, già a partire dagli anni 1920-1921. La retorica della 'vittoria mutilata', il sempre più stretto legame del fascismo cittadino di Firenze con gli interessi reazionari degli agrari toscani e, quindi, la svolta di tale movimento verso il fanatismo nazionalista e antipopolare, la prima propaganda antiebraica, li costringono a rimeditare faticosamente e profondamente i propri ideali. «Essi vedevano da una parte un'esigua minoranza di forsennati avventurieri che coi pugnali branditi si lanciavano all'assalto di tutti quei principi di libertà e di legalità che erano sembrati fino a ieri conquista non più discutibile d'ogni popolo civile. Ma vedevano anche, fenomeno assai più terrificante, una maggioranza, la grande maggioranza degli italiani, che stava a guardare senza reagire [.]. E allora ai Rosselli, mentre quelli assassinavano e bastonavano impunemente, e la gran massa inerte li lasciava fare, si presentò in termini angosciosi il problema morale dell'Italia. Perché accadeva questo generale sfaldamento di tutta una struttura nazionale? Perché questo crollo? Prima di agire, bisognava poter rispondere a queste domande tormentose. Bisognava capire»23.
E' del Gennaio 1921 il primo, superficialissimo, contatto con il Partito Socialista. Carlo accompagna Claudio Treves, conosciuto tramite i cugini Olga e Alessandro Levi, a Livorno, al congresso del partito, per ascoltare il discorso di Filippo Turati. Avverte qualche assonanza con il proprio sentire ma, digiuno di ogni solida conoscenza del pensiero marxista, ancora non prende chiaramente posizione a favore di quella parte politica.
Quel congresso di importanza storica, comunque, facilita l'avvicinamento di Rosselli al socialismo: la rottura fra l'ala massimalista e i riformisti, la creazione del Partito Comunista d'Italia, rende meno impervio un suo coinvolgimento nel partito socialista di Turati, Treves e Giacomo Matteotti, quello unitario (P.S.U.), fondato nell'Ottobre dello stesso anno dopo la loro espulsione dal Partito Socialista Italiano. E', infatti, del Dicembre del 1921 l'inizio della saltuaria collaborazione del fiorentino con Critica sociale, il periodico diretto da Turati.
1.4 La "piccola confraternita di salveminiani" e il Circolo di cultura.
Carlo conosce Gaetano Salvemini nel 1920 tramite Nello: il professore universitario era stato il relatore della tesi di laurea del fratello (dal titolo Mazzini e il movimento operaio in Italia dal 1861 al 1872).
Così Alessandro Levi descrive la gioventù dei fratelli Rosselli: «Carlo, maggiormente dedito all'azione, era, nell'attività pratica, insofferente d'indugi; vivace e talvolta addirittura irruento nella polemica; mal paziente di contraddizioni; voglioso -e capace- di comando. Nello, di natura più mite, era incline allo studio più che alle lotte della politica, a queste partecipe solo per sentimento di dovere, non per innata passione di combattente [.]. Bei giovani, l'uno e l'altro -di alta statura, di aspetto robusto e prosperoso- entrambi di fisionomia aperta; più severa e, direi, dominatrice, quella di Carlo; più sorridente e, direi, incoraggiante alla confidenza, quella di Nello» .
Da questo quadro della personalità di Carlo Rosselli è facile dedurre con quale spirito egli accoglie le feroci critiche che Salvemini muove alla tesi intitolata Il Sindacalismo (relatore il professore Riccardo Della Volta), sulla storia del sindacalismo in Europa, con la quale si era laureato, a pieni voti, in Scienze sociali a Firenze nel 1921.
E' convinto di avere scritto un capolavoro e, aspettandosene l'elogio, ne propone la lettura all'intellettuale pugliese; ma Salvemini abbatte sulla tesi una tempesta di sottolineature a matita, punti interrogativi, ogni tipo di critiche demolitrici, intere pagine cancellate25. Scrive lo stesso Salvemini: «Mi odiò per alcuni giorni. Ma ci ripensò su, riconobbe che il lavoro andava rifatto. E lo pensò e lo ripensò fino al 1930, quando lo pubblicò a Parigi sotto il titolo Socialisme libéral» .
Garosci riferisce che secondo Salvemini quelle pagine erano state scritte sotto l'influenza degli ambienti legati a Critica sociale, ma Tranfaglia obietta che «Carlo subiva influenze più complesse e disparate di quanto pensasse Salvemini» . Secondo Tranfaglia, insomma, Salvemini sottovaluta la radice mazziniana della temperie culturale nella quale Rosselli era cresciuto, dalla quale mai si discosterà, e dal suo personale eclettismo culturale ed ideologico: se è vero che lo storico pugliese trova in quello scritto più un ribollire di idee e di intenti che un'accurata analisi storica, ciò è dovuto, oltre che all'inesperienza di un giovane laureato, alla eredità ideale e spirituale che si tramandava nella sua famiglia. Il volontarismo come strumento di costruzione del reale, l'impegno morale come obiettivo sempre in fieri, il 'culto del gesto' come prassi dell'azione politica porrebbe quei "io penso", "io credo", "io non dubito", che furono oggetto della severa critica salveminiana, più nell'ottica della fiducia nell'azione dell'individuo come faber fortunae sui, che nel riduzionismo di un pensiero non ancora maturo: «Carlo tradusse il mazzinianesimo particolarmente nella lotta politica vivendolo come volontarismo e come fiducia nelle energie morali» .
Invero, l'influenza di Salvemini su Rosselli è da intendersi sotto un duplice aspetto: e teorico del metodo e pratico. Dal primo punto di vista, il maestro trasmette al discepolo strumenti critici tali da permettergli di maturare un chiaro modo di analizzare ed interpretare, obiettivamente, la realtà e di farsene un immagine scevra da schematismi a priori29; dal secondo, egli rappresenta il centro propulsore (anche dal punto di vista dell'organizzazione materiale) per il dibattito di quella cerchia di giovani (oltre ai Rosselli, Piero Calamandrei, Piero Jahier, Ernesto Rossi e altri), la "piccola confraternita di salvemininani" , che, per naturale insaziabilità di conoscenza alcuni, o perché strappati al fascismo dallo stesso Salvemini altri (faccio qui riferimento alla vicenda umana e politica di Rossi), non accettano l'appiattimento culturale e delle coscienze voluto dal regime.
Ma Carlo e Nello non si accontentano di fare parte di quel gruppo: nel 1923 (anno in cui Carlo consegue a Siena la sua seconda laurea, in Giurisprudenza, discutendo una tesi in economia politica dal titolo Prime linee di una teoria economica) si fanno promotori e finanziatori del Circolo di cultura.
Esso rappresenta il punto di raccolta di molti giovani intellettuali di orientamento marcatamente antifascista e si propone il compito di facilitarne la discussione, assai di sovente senza un preciso filo conduttore, carente come è il circolo di un preciso indirizzo di intenti, su svariati temi dell'attualità politica. «Per quanto si trattasse appunto di un dialogo condotto senza una linea preordinata, può essere interessante ricordare che tra i problemi discussi furono la questione meridionale e quella romana, la partecipazione agli utili e all'azionariato operaio, la situazione del latifondo e le affittanze collettive, il sindacalismo rivoluzionario e quello riformista, il federalismo e il liberalismo, la rivoluzione russa, le idee di Proudhon e di Pareto» . Molti di questi temi saranno oggetto, in seguito, del dibattito di Giustizia e Libertà, il movimento politico fondato da Carlo a Parigi nel 1929.
Tale esperienza arricchisce il nostro non solo dal punto di vista politico-culturale ma anche da quello umano: in occasione di quelle riunioni, infatti, conosce Miss Marion Catherine Cave. Inglese, quarta di cinque figli di una famiglia di origini modeste di osservanza quacker, è a Firenze per completare gli studi inerenti la propria laurea sul filosofo e letterato Antonio Conti. A causa dell'esiguità delle risorse che la famiglia può concederle per mantenersi in Italia, Marion, «alta 1,67, i capelli ricci castani, occhi grigio-scuri»32, per guadagnarsi da vivere, insegna inglese al British Institute. E proprio in veste di insegnante aveva incontrato Gaetano Salvemini. Il rapporto professionale era diventato amicizia e così il professore pugliese l'aveva invitata a partecipare alle riunioni del circolo. Marion e Carlo si piacciono subito e cominceranno a frequentarsi appena poche settimane dopo la loro conoscenza, lui ventiquattrenne, lei ventisettenne.
Si sposeranno solo nel 1926, a causa dell'interdizione della madre del giovane: agli occhi di una donna pur dalla sensibilità moderna quale è Amelia Pincherle Moravia, l'attivismo politico di Marion sembrerà disdicevole. Marion Cave, infatti, non sarà soltanto la moglie di Carlo Rosselli ma anche una compagna di lotta nel vero senso della parola: condividerà da subito le idealità del marito e ne asseconderà l'azione, anche se a pena di lunghi periodi di distanza dal coniuge.
1.5 L'incontro con Gobetti e gli studi in Inghilterra.
L'attività di Rosselli negli anni compresi fra il 1922 e il 1924 non si esaurisce, comunque, qui.
Si reca a Torino nel Dicembre del 1922, avendo conseguito soltanto la prima laurea, con l'intento di intraprendervi la carriera accademica. Ha con sé una lettera di presentazione di Alessandro Levi e di Guglielmo Ferrero, ma nell'ateneo piemontese i contatti sono più scarsi di quanto previsto. Nessuno fra Luigi Einaudi, Pasquale Jannaccone, Achille Loria e Gaetano Mosca si rivela essere il "maestro" che egli cerca.
Nel momento in cui pensa di cercare altrove (Bologna o Roma) spazio per le sue aspirazioni universitarie, il nostro è però indotto a prolungare il soggiorno nell'ex capitale: grazie all'amicizia di Mario Fubini, viene a contatto con Gobetti e gli altri giovani che animano La Rivoluzione liberale.
Il rapporto fra i due non è subito facile; anzi, sulle prime, si delinea, se non un vero e proprio conflitto fra personalità, un avvicinamento dagli effetti controversi: si apprezzano ma mai sino in fondo, si studiano.
In effetti Rosselli si rende conto che l'ambiente torinese, se quasi nulla gli aveva dato dal punto di vista delle chances di ottenere un posto anche solo come assistente, gli avrebbe potuto giovare sul versante della formazione politica e che l'amicizia di Gobetti, che già da tempo operava in quell'ambito, molto avrebbe avuto da insegnargli. Torino è la città operaia per eccellenza, la città dell'Ordine Nuovo, ricca di fermenti ideologici, così diversa da Firenze, legata al mondo rurale.
«Con Fubini, Carlo fa lunghe passeggiate e, per rendersi conto delle condizioni di vita del proletariato industriale, si spinge nei quartieri operai di Torino: c'è senza dubbio in quest'atteggiamento qualcosa di letterario, che si spiega alla luce della formazione essenzialmente libresca e dell'ambiente altoborghese da cui Rosselli proviene ma c'è, anche, un'autentica esigenza di allargare l'orizzonte fiorentino, il tentativo di comprendere la tematica operaista dei gobettiani»33. Si convince di trovarsi lontano dall'opprimente cappa della Toscana fascista. Ma la sua è solo una fugace illusione: pochi giorni prima si era svolta la Marcia su Roma e l'attivismo fascista, che anche in quella città incomincia a farsi insistentemente sentire, gli ricorda che il fascismo non ha alcuna intenzione di essere un movimento estemporaneo, per quanto virulento, di ex-combattenti delusi dai risultati della Prima Guerra Mondiale.
Rapporto difficile quello fra Rosselli e Gobetti, si è detto, fecondo non di suggestioni passeggere ma portatore di un vero e proprio scambio di valori e di esperienze che conducono il primo ad un ulteriore passo verso la formazione delle proprie concezioni politiche.
Il bagaglio di esperienze dei due è assai diverso, e di questa differenza di fondo si nutre tutto l'incontro. Gobetti è un rivoluzionario liberal-radicale di matrice culturale filosofico-letteraria, intellettuale già maturo; Rosselli un neolaureato dalla formazione di impronta socio-economica incline al socialismo riformista. Tale distanza, comunque, non impedisce al nostro di collaborare con La Rivoluzione liberale, scrivendo alcuni articoli pubblicati fra il 1923 ed il 1924, attraverso i quali è possibile, oggi, ricostruire i punti di contatto e le note di differenziazione da Gobetti.
Entrambi concordano sull'opinione che il fascismo sia lo sbocco naturale della crisi strutturale dello Stato italiano, così come si formò nel 1860 e come evolse nel 1922. A loro avviso, infatti, la sua formazione portò con sé il 'peccato originale' di una costruzione artificiosa: l'Italia aveva solo apparentemente compiuto il proprio Risorgimento. Tale apparenza poggia sul dato storico che quella epoca si caratterizzò più propriamente come "conquista regia" (interpretazione questa non osteggiata ma favorita dalla storiografia 'ufficiale' del periodo) piuttosto che come movimento di popolo consapevolmente creatore di un'identità nazionale nuova e diversa da quelle degli Stati preunitari, e dal Regno di Sardegna specialmente.
Rosselli chiarirà meglio la sua posizione a riguardo nel 1935. L'occasione gli sarà fornita dalla polemica che sorgerà quell'anno sui Quaderni di Giustizia e Libertà a seguito di un intervento dell'intellettuale comunista Andrea Caffi dal titolo Appunti su Mazzini.
Caffi sosterrà che il Risorgimento fu un movimento marginale della storia europea e bollerà il pensiero di Mazzini come debole e velleitario. Infine, considererà il sistema socio-politico lasciato in eredità dal Risorgimento, «addomesticato, deviato, confiscato da profittatori equivoci»34, fra le maggiori fonti della genesi del fascismo. Pochi giorni dopo, Rosselli, rispondendo a Caffi con l'articolo Discussione sul Risorgimento, darà una lettura di quella fase storica completamente diversa. Infatti, se è pur vero che «tra lo Stato italiano dopo il '60 e il fascismo c'è un rapporto, se non di filiazione, per lo meno di degenerazione progressiva che ci obbliga [.] a non a fermare la storia italiana al 1914, ma a proseguirla senza troppi intralci sino alla marcia su Roma e oltre» , non è lecito confondere il Risorgimento moderato e filopiemontese de L'età del Risorgimento italiano di Omodeo con quello «popolare, proletario, a cui la rivoluzione italiana può e deve idealmente ricollegarsi, come deve ricollegarsi alle meravigliose lotte e battaglie di strada di Milano, di Brescia, di Venezia, di Roma» .
Da queste premesse, tornando al rapporto Rosselli-Gobetti, è prontamente intuibile la comune concezione sulla rivoluzione come movimento 'dal basso' per la riconquista popolare della libertà: un 'nuovo Risorgimento' che faccia del metodo liberale il terreno di confronto dinamico di uno scontro-incontro intergenerazionale ed interclassista, capace di ricostruire sulle rovine di una società in sfacelo nuovi orizzonti democratici37.
Nonostante questi grandi punti di comunanza, la distanza di fondo fra i due esiste e si fa sentire di là dagli anni, nel periodo più maturo del pensiero rosselliano. Tranfaglia rende conto di ciò in diversi passi chiarificatori allorché, delineando le differenze esistenti fra Rosselli, Gobetti, e Gramsci, tratteggia le motivazioni ideologiche che portano il fiorentino a discostarsi grandemente dalla tradizione marxista: «l'influenza dell'idealismo di Croce e di Gentile fu fondamentale per Gramsci e Gobetti, e in quest'ultimo, più che nel sardo, rimase fino alla morte come un limite non superato. Ma, pur con gli innegabili aspetti negativi che è dato cogliere, soprattutto nel periodo meno maturo, in Gramsci come in Gobetti, la conoscenza dell'idealismo filosofico consentì all'uno e all'altro di accostarsi a Marx in maniera più approfondita e consapevole di quanto fosse possibile a Carlo Rosselli. [.]Per Rosselli, che per la filosofia non ebbe mai, come il suo maestro Salvemini, né attitudine né passione [.], il marxismo apparve fin dai tempi della tesi di laurea come un sistema ideologico chiuso e dogmatico, fermo alla sovranità assoluta delle forze di produzione, escludente qualunque apporto idealistico e volontaristico. [.]E, tuttavia, accanto ai condizionamenti ideologici e culturali, furono le condizioni pratiche dell'esistenza a influire sul cammino che avrebbero percorso Gramsci e Gobetti da una parte -pur con palesi differenziazioni che ne segnarono l'azione e il pensiero- e Carlo Rosselli dall'altra. In primo luogo, la città: un centro in rapida espansione industriale Torino in cui il sorgere di una "nuova classe" -il proletariato industriale- rappresentava il fenomeno essenziale della società di quegli anni, dove l'ambiente culturale, se non l'università, accanto ai soliti interessi letterari, si apriva a poco a poco ai nuovi problemi della condizione operaia per i primi; una città Firenze che continuava a vivere in stretto contatto con le campagne e con i problemi dell'agricoltura, dove la società letteraria restava il punto di riferimento obbligato d'ogni iniziativa e al proletariato industriale si guardava da lontano, senza poter cogliere direttamente la novità che esso rappresentava, per il giovane Rosselli. Si aggiunga il fatto che la famiglia di Rosselli faceva parte della raffinata borghesia ebraica fiorentina e che inevitabilmente Carlo aveva frequentato nella sua adolescenza, e dopo, giovani provenienti da quell'ambiente e da altri sempre dell'alta borghesia, in maniera da potersi rendere conto solo astrattamente dei problemi del proletariato. Queste circostanze, accanto all'influenza determinante di Turati e di Treves negli anni venti, valgono anche a spiegare il fatto che Rosselli, pur avendo perfettamente compreso sul piano intellettuale l'importanza della fabbrica e dell'industria fin dal 1921, e avendo salutato con favore nella sua tesi di laurea l'occupazione delle fabbriche -sia pure intesa come strumento di azione sindacale rivendicativa, a volte come germe di una nuova società di produttori- non accederà mai all'"operaismo" di Gobetti, insisterà in varie occasioni sull'importanza delle masse rurali e della piccola borghesia, resterà insomma sempre lontano da componenti fondamentali dell'esperienza non solo gramsciana ma anche gobettiana»38.
Nel Luglio del 1923, subito dopo essersi laureato in legge, Rosselli è a Genova per conoscere, presentatogli da Salvemini, Attilio Cabinati. Questi gli promette un posto come assistente della cattedra di Economia politica all'Università Bocconi di Milano per l'anno accademico 1923-1924 ma ammonisce il giovane studioso sulla necessità, per ricoprire quel ruolo, di approfondire la teoria economica del sindacalismo, già oggetto della sua seconda t 222c29c esi di laurea e degli interessi scientifici dello stesso Cabinati.
Proprio spinto da ciò, il nostro si reca due volte in Gran Bretagna, la prima delle quali nel periodo compreso fra l'Agosto e l'Ottobre di quell'anno.
Durante quel soggiorno alterna l'apprendimento del pensiero di economisti quali Keynes, Marshall e Pigou (Rosselli sarà uno tra i primi insegnanti di economia che introdurrà in Italia il pensiero dei marginalisti) presso la biblioteca della London School of Economics, con l'esperienza diretta dei modi di organizzazione e di lotta politica del sindacato inglese e del Labour Party. Partecipa ad un seminario della Fabian Society (dove conosce gli economisti Sidney James e Beatrice Webb, George Douglas Howard Cole e Richard Henry Tawney) e al congresso delle Trade Unions.
Scrive Tranfaglia: «L'impressione che egli trae da quegli incontri è, nel complesso, positiva: l'ascesa dei laburisti che l'anno dopo andranno al potere, l'empirismo dei socialisti inglesi che rifiutano ogni dogmatismo di origine marxista, l'interesse che lo stesso Salvemini nutre per l'esperienza britannica sono tutti elementi che lo inducono a guardare al laburismo e all'ideologia a cui in una certa misura il movimento s'ispira, come alla soluzione socialista dell'avvenire»39.
In effetti, ciò che lo impressiona maggiormente è il modo empirista e pragmatico con il quale tutta la sinistra anglosassone si batte per rivendicazioni di natura prima di tutto sindacale, piuttosto che dottrinale, all'interno di un quadro istituzionale e socio-politico a metodo liberal-democratico, così diverso da quello italiano che ancora si interroga sulle scaturigini del fascismo. Resta colpito per «l'apparente mancanza di scosse attraverso cui la classe lavoratrice si avvicina gradualmente alla conquista del potere»40.
Ciò che Carlo coglie nel suo articolo Liberalismo socialista, pubblicato in quel periodo su Critica Sociale e riapparso sotto forma di saggio il 15 Luglio 1924 su La Rivoluzione liberale, è il dato che il Labour Party tenta di coniugare l'ideale liberale dei diritti individuali con l'esigenza socialista del walfare pubblico: la sinistra inglese si avvia sulla strada del new Liberalism41.
1.6 Il delitto Matteotti: l'inizio della militanza antifascista.
I mesi fra la fine del 1923 e la metà del 1924 vedono il consolidarsi del potere di Mussolini: la vittoria nelle elezioni dell'Aprile 1924 del 'listone' fascista (facilitata dalla 'legge Acerbo') e l'assassinio di Matteotti aprono la strada alla dittatura.
Rosselli al momento condivide sostanzialmente la strategia aventiniana delle opposizioni: l'astensione dalla partecipazione alle sedute della Camera.
Unica voce parzialmente fuori dal coro, contraria a quella tattica che si rivelerà infruttuosa, è quella di Giacomo Matteotti: il deputato socialista, in un celebre discorso parlamentare, contesta il risultato delle elezioni accusando il P.N.F. di brogli e violenze.
La risposta fascista non si fa attendere: l'assassinio di Matteotti, prima vittima illustre del ventennio, segna l'interruzione del funzionamento del sistema democratico italiano. «La soppressione di Matteotti ha gettato nello smarrimento le classi medie pregiudizialmente non avverse al fascismo; dalle asole di numerose giacchette sono spariti i "brigidini" (così i fiorentini chiamano i distintivi del fascio), le opposizioni ne hanno slancio. A Carlo e Nello Rosselli balza evidente la funzione, nella fase storica d'improvviso riaperta, d'un eventuale blocco di centro -luogo di convergenza di forze battute e disperse, proletariato urbano, borghesia intellettuale, gruppi moderati, intellettuali, contadini- alternativo al fascismo ma in pari tempo anche al bolscevismo. Entrambi finora esterni ai partiti, si risolvono infine ad entrarvi»42.
Carlo, confortato in quella decisione anche dal consiglio di Salvemini, abbandonate le posizioni legalitarie, aderisce al Partito Socialista Unitario43; Salvemini, Ernesto Rossi, Marion e Nello all'Unione Democratica di Amendola.
«La secessione parlamentare chiamata Aventino [.] è stata, nei confronti del fascismo in difficoltà per l'assassinio di Matteotti, un pugno sempre alzato nel gesto di colpire e mai spinto a colpire veramente. Certo, Mussolini ha passato momenti fortemente critici. Ma quel pugno alzato senza colpire gli ha permesso infine di venire fuori dallo sbando»44. Il discorso del duce del 3 Gennaio 1925, con il quale si assume tutta la responsabilità politica dell'omicidio di Matteotti, dà la spallata definitiva alle barcollanti speranze degli antifascisti di una soluzione pacifica della crisi.
La reazione di Carlo è pronta: finita bruscamente l'esperienza del Circolo di cultura45, assieme al fratello, a Nello Traquandi ed Ernesto Rossi, informato ma non coinvolto direttamente Salvemini, intraprende l'attività clandestina del Non mollare. Esso rappresenta la prima occasione di lotta contro il fascismo sul piano dell'illegalità .
L'obiettivo di quel giornale è cercare di ostacolare il consolidamento del potere di Mussolini, non più facendo leva sullo spirito democratico di una borghesia (a questo punto sembra chiaro) politicamente connivente con le efferatezze del regime, ma sulle energie morali delle masse che si vogliono ridestare attraverso l'opera di informazione.
Nonostante un qual certo pessimismo verso quel tipo di azione47, Non mollare dimostra una vitalità eccezionale e tre delle sue uscite sono memorabili. Nell'Aprile del 1925, infatti, ottiene un clamoroso successo l'appello dei suoi giornalisti alla popolazione di Firenze per boicottare l'imminente visita dei reali in città, in modo tale «che il re sentisse che l'Italia non era fascista» ; precedentemente, nel numero del Febbraio dello stesso anno, il giornale aveva pubblicato il cosidetto "memoriale Filippelli", grazie il quale si svelarono alcuni retroscena del delitto Matteotti: Filippo Filippelli, già direttore del quotidiano fascista il Corriere Italiano, vi descriveva la propria correità in quel fatto di sangue e ne indicava in Mussolini il mandante .
Questo fatto scatena l'occhiuta polizia fascista sulle tracce della sediziosa redazione, ma l'efficiente rete di contatti e di distribuzione del giornale permette loro di mantenere l'anonimato fino al Luglio 1925. Solo grazie alla delazione del tipografo Pinzi è possibile identificare in Ernesto Rossi e in Gaetano Salvemini (tra gli altri) due dei maggiori organizzatori: Rossi fugge prima di essere arrestato, Salvemini viene processato.
Per reazione, Rosselli fa subito uscire un altro numero del giornale, nel tentativo di scagionare il professore dalle accuse imputategli; ma ciò che lo salva dal carcere (e che gli consentirà di rifugiarsi in Francia) è l'amnistia per reati politici emanata, pochi giorni dopo l'inizio del processo, proprio allo scopo di mantenere impuniti i complici del delitto Matteotti.
Il penultimo numero di Non mollare del Settembre 1925 sortisce effetti altrettanto clamorosi di quelli dei due precedentemente citati. In quella uscita è pubblicata una lettera di Cesare Rossi, capo ufficio stampa della Presidenza del Consiglio dei Ministri e membro del Gran Consiglio del Fascismo, con la quale aveva ricattato il duce minacciando di rendere pubblico un memoriale, in suo possesso, simile a quello di Filippelli.
Le rappresaglie dei fascisti fiorentini sono di eccezionale gravità: la notte di S.Bartolomeo, fra il 3 e il 4 Ottobre, vede l'uccisione di numerose personalità antifasciste fra le quali Gustavo Console e Gaetano Pilati.
1.7 Da Il Quarto Stato alla fuga da Lipari.
Dopo quegli avvenimenti Rosselli comprende che il cerchio della repressione si sta stringendo intorno a sé, perciò decide di trasferirsi, nei primi mesi del 1926, a Milano per proseguire lì la propria attività politica.
Quella città non gli è sconosciuta giacché nel periodo fra il 1923 ed il 1924 aveva collaborato con Luigi Einaudi presso l'Università Bocconi. La sua carriera universitaria era proseguita presso l'ateneo di Genova, fra il 1924 e il 1926, in qualità di professore incaricato in discipline economiche.
L'esperienza come insegnante nel capoluogo ligure era terminata a causa delle «sue manifestazioni contrarie al governo nazionale» che avevano provocato il risentimento dei fascisti (era stato aggredito da un gruppo di squadristi, ma aveva ricevuto la solidarietà degli studenti). Avrebbe potuto, comunque, tentare di mantenere il posto, ma decide di desistere per dedicarsi interamente alla lotta politica .
Riguardo a tale scelta, Tranfaglia puntualizza: «Quanto al proprio destino personale, Rosselli aveva scoperto proprio nella crisi seguita all'assassinio di Matteotti la genuina vocazione della sua vita: che non era certo quella di insegnare principi di economia da una cattedra universitaria mentre tutto il paese attraversava una profonda crisi che tutto coinvolgeva, bensì l'altra di subordinare ogni aspirazione di carriera e di ricerca all'esigenza, etica prima ancora che politica, di abbattere il fascismo. A una simile scelta spingevano Carlo la tradizione risorgimentale della sua famiglia, gli ideali libertari della sua formazione spirituale e insieme un temperamento che era fatto per l'azione politica assai più che per la riflessione teorica o per l'opera culturale a lunga scadenza»53.
Il suo impegno militante si concretizza nella pubblicazione de Il Quarto Stato - Rassegna Socialista di cultura politica, iniziativa nella quale coinvolge, tra gli altri54, anche Pietro Nenni. Il giornale, nelle intenzioni di Rosselli, dovrebbe essere il luogo ideale di progettazione per una nuova alleanza antifascista composta da liberali, socialisti riformisti e repubblicani: la ricerca di una prospettiva di governo possibile, ad una sinistra che vede dispersa e rinunciataria.
E proprio nell'articolo d'esordio del primo numero, intitolato Autocritica (27 Marzo 192655), accusa il Partito Socialista «di essere venuto meno sul piano dell'iniziativa, di non essere stato capace di assurgere a ruolo dirigente» , sia nella situazione attuale quanto nei momenti decisivi della nascita e della crescita del fascismo (accusa che gli costerà la dura replica di Claudio Treves dalle colonne della Critica sociale): pur convinto che «fu necessaria questa tragedia» , bisogna, ora, abbandonare il lassismo e l'apatia ed operare un rinnovamento ideologico profondo. E' d'uopo superare la tradizionale linea socialista del materialismo storico accostando il partito ad un indirizzo chiaramente repubblicano e volontarista: solo l'amore per la libertà universale, e non la cura degli interessi di classe, un'impronta libertaria e, quindi, autenticamente democratica, può portarlo fuori dai settarismi delle correnti massimaliste e comuniste e renderlo soggetto politico di massa realmente alternativo al fascismo.
Il 26 Ottobre 1926 si tiene a Milano, via Borghetto 5, a casa Rosselli, il primo (ed ultimo) congresso del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. I delegati salutano con favore la mozione del nostro che propone la riunificazione di quel partito con il P.S.I. di Nenni come premessa per la costruzione di un fronte unico socialista-repubblicano. Ma oltre a ciò, quel congresso è importante perché in quella occasione si parla per la prima volta dell'ipotesi di «salvare all'estero i capi [.] delle organizzazioni socialiste»58: era già da tempo nell'aria la successiva stretta fascista contro le organizzazioni sovversive .
Gli albori del "fuoriuscitismo" vedono Rosselli capeggiare l'azione antifascista. Così Fiori descrive come il fiorentino e i suoi collaboratori si danno completamente a quella impresa: «Ora anima la casa di via Borghetto un andirivieni insolito. Carlo s'è dato un nuovo scopo, organizzare il passaggio di confine degli antifascisti più esposti, ed ecco in azione il primo nucleo operativo, una specie di club degli espatri clandestini. Tra gli affiliati i fondatori de "Il Caffè", due cospiratori provenienti dai ranghi del liberalismo classico: il crociano Riccardo Bauer, milanese di origine boema, trent'anni, volontario di guerra più volte ferito, laureato in scienze economiche, sino al '24 segretario del Museo sociale della Società Umanitaria di Milano, cacciato per le sue idee politiche; e il giornalista Ferruccio Parri, piemontese di Pinerolo, trentasei anni, quattro volte ferito sul Carso e sul Piave, tre medaglie d'argento, due promozioni sul campo (sino al grado di maggiore), addetto stampa dell'Alto Comando, estensore del "Bollettino della vittoria" firmato da Diaz, redattore del "Corriere della Sera" e al tempo stesso, per un anno e mezzo, professore al "Parini" di Milano»60.
Già emigrati Claudio Treves, Giuseppe Saragat e Pietro Nenni, Carlo decide di far fuggire verso la Francia il vecchio leader socialista Filippo Turati, traendolo da un profondo stato depressivo causato sia dalla sconfitta della sinistra sia dalla recente scomparsa della compagna Anna Kuliscioff.
Prima Turati è trasferito da Milano in altre località, attraverso diverse tappe, poi, essendo molto controllate le vie di terra, si opta per una traversata di mare in direzione Corsica. Così, il 12 Dicembre 1926, dopo dodici trascorse a bordo di un motoscafo, salpati da Savona, Turati, Sandro Pertini (che aveva fornito le strutture organizzative per l'imbarco), Rosselli, Parri, al timone Italo Oxilia, riescono a sbarcare oltre confine.
Rientrarti in Italia il giorno successivo, Rosselli e Parri vengono arrestati sulle coste della Versilia come sospetti complici del bandito Sante Pollastri, e rinchiusi nel carcere di Forte dei Marmi.
La notizia della fuga di Turati desta molta impressione nell'opinione pubblica europea. Nel Maggio del 1927, Carlo è trasferito ad Ustica, «piccola isoletta, nuda, di un chilometro per tre, sperduta nel Mediterraneo tra la Libia e la Sicilia»61, egli stesso a quel confino che con la sua attività aveva risparmiato a tanti amici.
Molto si è dibattuto fra gli storici sul valore che quel gesto ebbe per Rosselli e sul perché non fuggì insieme a Turati. Probabilmente, la migliore interpretazione ci è fornita da Garosci il quale sottolinea il fatto che egli intende istituire «un legame ideale concreto tra la lotta dell'Italia per la sua libertà nel Risorgimento, e il suo gesto; tra l'amicizia dei suoi nonni con Mazzini, e la sua devozione a Turati»62. Il paragonare il suo gesto verso Turati all'aiuto che i nonni offrirono a Mazzini, ribadito in una lettera al giudice istruttore del processo che lo ha 'alla sbarra' insieme a Parri, tenutosi a Savona fra il 9 ed il 13 Settembre 1927, contiene in sé una grave minaccia per la credibilità del regime: se l'accostamento fra Mazzini e Turati è sostenibile, così come il primo combatté contro gli oppressori d'Italia, il secondo si era opposto ai nuovi oppressori, i fascisti.
«Doveva essere un processo esemplare contro i portatori di sovversione. Fin dalle prime udienze, è chiaramente percepibile la diversa fisionomia che i combattivi imputati sono riusciti a dargli, di processo contro la dittatura. Un capovolgimento clamoroso, con echi e giubilo nei quartieri popolari della città. Troviamo espresso efficacemente il cambio di significato politico dell'evento giudiziario nelle testimonianze di Levi e della Barclay Carter. Levi: "Il processo era rovesciato, gli imputati accusatori e giudici [.]. Splendevano di coraggio e di giovinezza. Portavano con sé un mondo nuovo e insieme la grande tradizione del Risorgimento". Barclay Carter: "Non lui, Rosselli, è l'imputato, ma tutto il fascismo, che egli inchioda alla sbarra". In aula, Rosselli e Parri, mai intimiditi, calmi, ripetono ciò che più volte hanno detto e scritto al giudice istruttore. Rosselli: "Il fascismo, che ha soppresso con violenze cieche e fulminato con leggi inique ogni possibilità di opposizione legale; che con la legge del bastone, strumento della sua fortuna e della sua nemesi, ha inchiodato in servitù milioni di cittadini, gettandoli nella tragica alternativa della supina acquiescenza della fame o dell'esilio; esso, non altri, è l'autore di quel fuoriuscitismo che ora male accusa di lesa Patria [.]. Dopo le rappresaglie di novembre [1926], ai capi dell'opposizione non restava che un gesto da compiere: emigrare"»63.
Quella arringa difensiva vale per gli imputati una pena tutto sommato lieve, non essendo stati riconosciuti colpevoli del reato più grave, l'espatrio politico, poiché Turati era «malato e bisognoso di cure»64: il collegio giudicante (presidente il cavalier Pasquale Sarno, a latere Giovannantonio Donadu e Angelo Guido Melinossi) li condanna a soli dieci mesi di carcere, i più dei quali già scontati, e cinque anni di confino a Lipari. «La sentenza fu coraggiosa. Riconoscere lo stato di necessità dell'espatrio di Turati significava affermare l'illegalità del regime» .
A fine Dicembre del '27 il fiorentino giunge a Lipari e vi rimarrà fino al 27 Luglio 1929, quando ne fuggirà. Quel periodo così lungo non è affatto infruttuoso: oltre a permettersi il 'lusso' di stare vicino alla moglie Marion e al figlio Giovanni Andrea ("Mirtillino", poi noto come John), nato l'8 Giugno 1927, fino ad allora conosciuto soltanto attraverso le sbarre del carcere, studia, medita, approfondisce le radici del suo pensiero.
Letture intense. Fra le tante, Cattaneo, Croce, Cavour, De Ruggiero, Cuoco, Sorel e De Man67. E' l'ora, insomma, di una risistemazione generale delle proprie idee che sfocierà nella stesura di Socialismo liberale, il suo scritto di maggior spessore teorico. Parimenti ha la possibilità di fare la conoscenza di altri esiliati illustri e meno illustri: Emilio Lussu, Francesco Fausto Nitti, Gioacchino Dolci, Paolo Fabbri.
In una lettera a Gina Lombroso Ferrero egli stesso descrive vividamente i suoi sentimenti durante la permanenza nell'isola: «I giorni volano via uno dopo l'altro con discreta rapidità e, se non fosse per la tempesta interiore, ci si potrebbe anche illudere di condurre una vita quasi normale. Ma è una vita tutta forma, nulla sostanza, come un pane senza lievito, un giorno senza luce; una vita non inutile (almeno spero), ma una vita spoglia di ogni attributo volontaristico. Paglia in balia del vento, che un ciclone può disperdere per mille strade, anche per sempre; ostaggi variabili in funzione di forze nei nostri rispetti del tutto trascendenti, sulle quali non possiamo in guisa alcuna influire. Oh ma non creda, cara signora, che io sia scorato, che mi lasci prendere dalla malinconia. Tutt'altro. Mi limito a fissare obiettivamente il nostro stato civile e. morale. Chi ha, per sua fortuna, ventotto anni, coscienza serenissima, intuizione di un avvenire diverso, può ben stare a confino senza abbattersi e sciuparsi. Potranno anche apparire un giorno, questi di confino, anni preziosi per il nostro perfezionamento spirituale e culturale. A condizione di non. adagiarsi nel letto di Procuste e mantenere desto lo spirito di insofferenza morale. Diversamente si rischia, per un processo di lento smidollamento, di adattarsi anche alle situazioni più ripugnanti»68.
L'"insofferenza morale" di cui parla si traduce ben presto nella volontà d'azione, nella progettazione di un piano di fuga. Anche in quelle circostanze sfavorevoli Rosselli non si rassegna a ciò che può sembrare inevitabile69. Vuole coinvolgere Lussu in quel progetto e ci riesce: anche altri avevano tentato di fuggire dall'isola, senza riuscirci, ma, agli occhi del sardo, la sua proposta di evasione sembra nientaffatto peregrina. Il fatto di poter contare su amicizie influenti esterne all'ambiente isolano, la relativa libertà di movimento della quale Marion gode, le grandi sostanze di Carlo rendono possibile quella impresa temeraria. Il Dream V (ancora una volta un motoscafo ed una traversata nella vita di Rosselli) li restituisce alla libertà .
Grande eco dell'impresa in Italia. «L'atto di coraggio con cui fu sfidata la dittatura ruppe all'improvviso [.], anche a causa del suo carattere avventuroso, la grigia monotonia di una vita pubblica che non sapeva scuotersi di dosso, per la passività dei vecchi partiti, il manto pesante di una dittatura sempre più soffocante» . E' l'inizio dell'epopea di Giustizia e Libertà.
1.8 Dalla Francia alla Spagna.
Rosselli non è il primo esule italiano in Francia: operavano già da tempo i comunisti e la Concentrazione antifascista, formazione politica capeggiata da Pietro Nenni, nata dall'unione fra socialisti massimalisti e unitari, alcuni socialdemocratici e popolari, Partito Repubblicano, Confederazione Generale del Lavoro e Lega per i diritti dell'uomo.
Carlo manifesta subito la propria distanza da queste formazioni. Specialmente alla Concentrazione rimprovera di non prodursi in altro che in sterili battaglie giornalistiche dalle pagine de La Libertà (diretta da Claudio Treves), nell'attesa miracolistica che il fascismo si sgretoli da sé. Per un uomo dalla cultura politica imbevuta di azionismo risorgimentale e di idealismo mazziniano, inebriato dal "culto del gesto", l'attività della Concentrazione è più che immobilismo: è «l'Aventino più la sconfitta»72.
Di qui la necessità di creare qualcosa di nuovo, qualcosa che, a differenza degli altri che agiscono dall'estero per l'estero, sia capace di fare qualcosa dall'estero sull'Italia . Rosselli riflette «sull'ipotesi di fondazione d'un movimento nuovo, antagonista dei comunisti ma anche discontinuo rispetto ai socialisti e in generale agli uomini, alla mentalità e ai metodi del mondo politico prefascista [.]. La rottura col passato è un'esigenza diffusa. Si associano alla proposta di rinnovamento fuoriusciti di provenienza liberale e repubblicana. Liberale il giornalista romano Alberto Cianca [.], caporedattore del "Messaggero" fino al '21, direttore de "L'Ora" di Palermo e del "Mondo" amendoliano, a Parigi direttore dal '27 di un periodico satirico, "Il Becco Giallo". Repubblicano l'ex deputato Cipriano Facchinetti, [.] molisano di Campobasso, redattore a Milano del "Secolo" e direttore de "L'Italia del Popolo"» .
Il movimento Giustizia e Libertà nasce «formalmente durante un riunione [nell'Agosto del 1929] a casa di Alberto Tarchiani, cui parteciparono Rosselli, Emilio Lussu, Francesco Fausto Nitti, Alberto Cianca, Gaetano Salvemini, Cipriano Facchinetti e Raffaele Rossetti e [.] trasse il nome, a riprova della suggestione risorgimentale, dalle ultime parole di un verso carducciano» . Vede la luce «un movimento rivoluzionario [.] che innalza la pregiudiziale repubblicana e chiama a raccolta tutte le forze non comuniste pronte all'azione -gesti clamorosi, atti di aggressione e di rivolta, la violenza combattuta con la violenza, sino al tirannicidio- e convinte della necessità dello scatto insurrezionale, sola via di uscita dal fascismo» .
Si suole fare una partizione in due della cronologia della vita di Giustizia e Libertà, legata alle sue due diverse modalità di intervento: una 'gestuale', svoltasi dal 1929 al 1932, caratterizzata dalla concertazione con una fitta trama di contatti in Italia di azioni dimostrative di intento insurrezionalistico; un'altra 'politica', fra il 1932 e il 1937, data della morte di Rosselli, dove l'organizzazione, riflettendo sulle sconfitte della prima fase, si dota di un vero e proprio programma e di un organo di dibattito (il periodico i Quaderni di Giustizia e Libertà).
Appartengono alla prima il volo dimostrativo di Giovanni Bassanesi e Gioacchino Dolci su Milano con lancio di volantini esortanti la popolazione alla rivolta (11 Luglio 1930) e il tentativo, fallito, di un secondo volo, questa volta su Torino78.
Il 1932 vede l'ingresso di G.L. all'interno della Concentrazione antifascista sulla base di un accordo che prevede una netta divisione dei compiti: alla Concentrazione spetta l'organizzazione e la rappresentanza all'estero dell'antifascismo italiano, a G.L. l'azione in Italia.
Anche dal punto di vista teorico si procede a importanti innovazioni: dopo la Dichiarazione iniziale di principi, che aveva delineato un abbozzo di linea programmatica, lo Schema di programma dota il soggetto politico di un vero e proprio manifesto di azione.
«Sul piano sociale esso, pur sostenendo la socializzazione del sistema bancario e di talune industrie e il controllo operaio, era ispirato ad una visione realistica, che rifuggiva da ogni estremismo, moderna sia per la concezione di un'economia a due settori, pubblico e privato, sia per la considerazione della produttività dell'impresa»79. Più radicali sono invece le posizioni sull'assetto istituzionale dello Stato. Il nuovo assetto repubblicano dovrebbe nascere dall'elaborazione di comitati locali rivoluzionari, passato al vaglio di un'assemblea costituzionale eletta a suffragio universale . Se tale programma incontra la simpatia degli anarchici, critici ma non del tutto contrari i socialisti, la polemica con i comunisti è aspra.
Anche i fatti dell'"Ottobre" (1934) spagnolo trovano Rosselli all'avanguardia rispetto agli altri antifascisti italiani. Per lui che già l'anno precedente aveva scorto nell'avvento di Hitler al potere tristi presagi e l'inizio dell'accerchiamento della democrazia europea da parte dei fascismi, è subito chiara l'urgenza di un intervento nella penisola iberica81.
Distanti da questo appello i comunisti, timorosi che G.L. acquisti ulteriore importanza, anche i socialisti rispondono negativamente, legati fortemente alla propria tradizione pacifista. «Il 1934, su queste premesse, vede la rottura della Concentrazione antifascista, e in particolare la fine dell'alleanza tra Giustizia e Libertà e PSI. Le cause immediate sono aneddotiche, appena degne di essere menzionate: un articolo di Lussu sulla guerra civile italiana giudicato non a torto offensivo dagli alleati socialisti; l'iniziativa presa da Rosselli di stampare all'estero, dove Giustizia e Libertà s'era impegnata a non organizzarsi, un "Giornale degli Operai", assieme ai militanti da poco usciti dal PCI; esso mise in allarme la CGL socialista all'estero. In verità c'erano ragioni più profonde. Né Giustizia e Libertà né i socialisti erano più quelli di prima; Giustizia e Libertà aveva perso un po' del brillante che le veniva dalle prime imprese ardite; i socialisti si erano rafforzati in Italia. Ma soprattutto era l'epoca della preparazione del Fronte popolare in Francia; se il PSI doveva trattare con un alleato esigente e talvolta ingombrante, era molto più logico che nel nuovo clima questo non fosse -tanto meno esclusivamente- Giustizia e Libertà, ma piuttosto, in parallelo con ciò che accadeva in Francia, il partito comunista. Questo, rinunciando alla sua precedente ostilità, è in grado di dare al PSI ben più largo accesso a masse prima ostili e indifferenti, di aprirgli ben più largo campo di manovra in Italia e in Europa. Così cessò di vivere, in seguito ai minori incidenti avvenuti, la Concentrazione antifascista; e si avviò, tra PSI e PCI, quel dialogo che doveva portare alla conclusione, sempre nel 1934, un primo "patto di unità di azione", sul modello di quello stretto fra i corrispondenti partiti francesi, e fu avviato anche l'abbozzo di un tentativo di costituzione tra partiti in esilio, di un "fronte popolare" sul modello francese. Questo "fronte" non poté mai formalmente essere costituito, perché Giustizia e Libertà non voleva adattarsi a far la parte del terzo gruppo, "democratico borghese", del "fronte"»82.
Il pronunciamento franchista del 18 Luglio 1936 e la successiva rivolta dei legittimisti fugano i temporeggiamenti di Rosselli: si fa promotore della costruzione, in Spagna, di una colonna italiana di combattenti, in soccorso delle forze repubblicane.
Questa necessità non è, al momento, affatto sentita né dal governo frontista francese né tantomeno dagli antifascisti italiani: «Essi esclusero inizialmente ogni forma di intervento armato e propugnarono il semplice invio di medicinali ai repubblicani spagnoli. I repubblicani non hanno bisogno di uomini, essi dicevano, anche se l'attacco di sorpresa dei ribelli li aveva colti interamente impreparati»83.
Il significato che Rosselli attribuisce a quell'intervento non è solamente di un aiuto ad un movimento insurrezionalista locale, bensì di prologo alla riscossa delle forze democratiche contro l'ondata montante dei fascismi europei. Scrive, infatti: «Dall'esito -secondo noi indubbio- della lotta fra Spagna moderna e proletaria e Spagna feudale e borghese dipenderà probabilmente per molti anni l'esito della lotta sociale in Europa. Se la rivoluzione vince, è, per la nostra causa, un trionfo importantissimo, l'Occidente estremo che raggiunge, con un apporto che sarà certo originalmente creatore, l'Oriente [qui l'allusione è alla rivoluzione russa], la progressione dei fascismi, spezzata. Se invece la controrivoluzione dovesse avere il sopravvento, è la campana a morto per le ultime democrazie europee. Il Fronte popolare francese potrebbe contemplare nell'altrui agonia la propria agonia, e la fascistizzazione d'Europa non sarebbe allora che una questione di tempo e di modo. Per questo noi diciamo, non nell'esaltazione febbrile di un'ora, ma nella calma delle decisioni maturate, che la rivoluzione spagnola è la nostra rivoluzione; che la guerra civile del proletariato in Spagna è guerra di tutto l'antifascismo» .
I fatti che seguiranno sono noti. Il comando della Colonna d'Aragona (esercitato congiuntamente con il repubblicano Mario Angeloni) gli porterà più dolori che gioie: dopo il primo scontro con i franchisti a Huesca e la vittoria storica contro i fascisti italiani a Guadalajara, in quella divisione cominceranno a serpeggiare i malumori dovuti all'eterogeneità degli indirizzi politici dei soldati, anche provocati dalla notizia della prossima formazione, da parte dei comunisti, del battaglione Garibaldi, all'interno delle Brigate internazionali.
Nel 1937, infatti, l'U.R.S.S. decide il suo coinvolgimento indiretto nel conflitto attraverso l'incoraggiamento alla creazione di formazioni combattenti volontarie e l'appoggio economico a queste (come già Hitler e Mussolini avevano fatto con i franchisti). Invero, però, quell'invio di truppe ha un duplice scopo: da una parte battere Franco, dall'altra impedire che i frutti di un'eventuale vittoria andassero ai non-comunisti.
Così la colonna capeggiata da Rosselli, che tanto aveva ricevuto in termini di supporto logistico dal governo anarcosindacalista di Catalogna e che si era avvalso dell'apporto di tanti soldati in tuta grigio-verde di estrazione trotzkista, è costretta allo scioglimento, dopo esserle stato rifiutato un nuovo inquadramento nelle Brigate internazionali come Battaglione motorizzato Matteotti.
Il 6 Dicembre 1936 Rosselli si dimette dal comando. Di lì a poco si recherà in Francia per curarsi da una flebite della quale aveva già sofferto da ragazzo, riacutizzatasi a causa dei combattimenti. L'"unico possibile successore di Mussolini" (così viene definito in una nota del Ministero degli Affari Esteri destinata al ministro Galeazzo Ciano) è già da tempo all'attenzione del governo italiano, e i fascisti pensano che sia giunto il momento di 'fare i conti' con lui.
La libertà di movimento della quale il fratello Nello gode dovrebbe insospettire Carlo, ma non è così. La felicità di riabbracciarsi a Bagnoles-de-l'Orne, il 9 Giugno 1937, costa loro la vita. I servizi segreti del duce avevano già incaricato l'organizzazione filofascista francese Cagoule di eliminare quelle 'persone incomode'. La visita di Nello permette ai sicari di individuarlo.
Franco Baldini ne Il cono d'ombra descrive in modo particolareggiato le modalità dell'agguato e dell'uccisione dei due fratelli85; Carlo Rosselli viene trucidato, senza poter vedere realizzato nessuno di quegli obiettivi ideali per i quali aveva lottato, che pur oggi, nella democrazia italiana del secondo dopoguerra, trovano, almeno in parte, riscontro.
Capitolo 2. Dalla giovinezza all'esilio: gli scritti antecedenti a Socialismo liberale.
2.1 Il sindacalismo.
2.1.1 La tesi di laurea.
La tesi con la quale si laurea in Scienze sociali nel 1921 presso l'istituto Cesare Alfieri di Firenze, intitolata Il sindacalismo, è il primo scritto di ampio respiro politico di Carlo Rosselli.
Nel momento in cui si sviluppano gli incunaboli della Marcia su Roma e il nostro, dopo un'iniziale disorientamento, comincia a maturare propri orientamenti politici stabili, tale scritto dimostra che nella sua opzione non-fascista (se non antifascista, in quel momento) «non c'era soltanto una scelta istintiva, di "gusto" fra fascisti e socialisti ma anche, e soprattutto, una convinzione maturata attraverso la conoscenza di una vasta letteratura europea sui problemi del socialismo»1.
Delle reazioni critiche di Salvemini a quella tesi già si è detto, ed in effetti, l'autore «più che badare a un'esposizione coerente e sistematica dei problemi del sindacalismo, indugia di frequente sull'una o sull'altra questione teorica e si allontana dal tema centrale per una serie di divagazioni marginali rispetto all'assunto iniziale»2.
Ciò che gli interessa e su cui maggiormente concentra le proprie attenzioni, infatti, non è proporre al lettore una visione storica, oggettiva, dell'evoluzione del movimento sindacale, argomento che dovrebbe essere principale, bensì una discussione teorica, di taglio politico-sociologico, intorno ai suoi sviluppi futuri.
Partendo da un giudizio storico positivo sul ruolo produttivo delle corporazioni (specialmente di quelle medievali) e sulla funzione di controllo sociale che esse svolgevano, considera indissolubile il legame esistente fra il sindacato (odierna forma delle corporazioni), il socialismo e la lotta di classe. La lotta di classe, nell'ottica della contemporaneità, è lo sbocco inevitabile della fatale tendenza, all'interno delle comunità umane, di alcuni individui o gruppi di individui a reagire ai tentativi di ingiustificato predominio di altri. E' questo un fenomeno naturalmente ineliminabile della storia umana, allo studio del quale il socialismo si è dedicato attraverso un potente corpus di riflessioni filosofiche e di leggi economiche.
Nelle prime pagine dello scritto, il laureando esprime la propria preferenza per la centralizzazione del coordinamento della lotta sindacale: si dice avverso alla molteplicità delle tendenze locali perché ritiene che solamente l'unità dell'azione operaia possa garantirle chances di successo. Nonostante questa opzione generale, però, non condanna l'occupazione delle fabbriche intrapresa dei socialisti torinesi pochi mesi prima. Ambiguamente, pur non accogliendo con favore le dimostrazioni autononomistiche delle articolazioni territoriali dell'organizzazione sindacale, guarda con fiducia all'azione diretta dei lavoratori.
Nei capitoli centrali del suo lavoro, Rosselli illustra le differenze fra il sindacalismo rivoluzionario e quello riformista. Benché, nelle pagine conclusive, affermi esplicitamente di accordare la propria preferenza per i metodi e le finalità del secondo, «alcuni aspetti del sindacalismo rivoluzionario lo affascinano inducendolo a sfumare certi giudizi ed a cercare più volte una posizione mediatrice tra l'una e l'altra tendenza: si palesa, in realtà, al di là delle inevitabili incertezze di un giovane che non ha ancora ventidue anni, quella che sarà una costante del temperamento politico di Rosselli, la volontà cioè di conciliare in una nuova sintesi idee e motivi provenienti da concezioni politiche differenti» .
Il fiorentino constata che il sindacalismo «è di fatto soprattutto un movimento per l'elevazione del proletariato» e che le sue correnti, rivoluzionaria e riformista, «partono tutte da una base comune; sono tutti rami dello stesso tronco» , il socialismo. Inizialmente analizza le caratteristiche del ramo rivoluzionario.
Di questo, e delle teorie di Sorel6, in particolare, accetta l'idea, che si salda bene al suo spirito mazziniano, secondo la quale l'educazione morale del proletariato costituisce il primo passo verso la sua emancipazione sociale: «il socialismo», argomenta Rosselli, «perché sia benefico all'umanità occorre che sia conquista e non concessione; occorre anche ricordare, che se pure la borghesia è rilassata e in piena decadenza, la sua storia è un eroismo continuato: si è organizzata, ha lottato, ha atteso soffrendo e finalmente con la rivoluzione dell'89 è riuscita a vincere definitivamente. Questa stessa lotta e questi stessi sacrifici dovrà essere pronto a sopportare il proletariato, ed è perciò che occorre un'azione morale educativa che foggi i nuovi lottatori» .
Diversamente dall'intellettuale marxista, per il quale il socialismo è lo sbocco fatale della crisi del capitalismo e del sistema borghese, l'avvento del socialismo può realizzarsi solamente attraverso l'intervento consapevole e volontario del proletariato oppresso.
Nell'analisi del ruolo delle masse e dei modi attraverso i quali sollecitarle verso la costruzione di una società più giusta, però, si consuma la distanza profonda fra Rosselli e i sindacalisti rivoluzionari. L'attacco rivoluzionario alle istituzioni democratiche, la violenza come prassi di rivendicazione politica, lo sciopero generale8, gli sembrano mezzi del tutto inadeguati a preparare le classi subalterne alla propria riscossa.
La critica poggia su due assunti basilari: il rispetto delle istituzioni politiche come complesso di regole di tipo procedurale capaci di incanalare la lotta dentro gli alvei del confronto democratico, pacifico, gradualista; il bisogno di un'elaborazione autonoma dei soggetti dell'azione sindacale piuttosto che dell'attivismo di minoranze elitarie.
In base al primo, il giovane fiorentino riflette sulla funzione di ammortizzatore della conflittualità sociale che la libertà di associazione è in grado di svolgere. La potestà dei privati cittadini di creare una rete diffusa di enti intermedi fra essi e lo Stato, riflesso delle garanzie democratiche offerte dal sistema parlamentare, è, a suo avviso, una valida risposta al quesito su come conciliare il bisogno di protezione degli interessi dei lavoratori con la necessità di evitare che la contrapposizione fra classi sfoci in aperto conflitto, dai risvolti violenti.
Riguardo alle modalità dell'azione sindacale, invece, pur facendosi sostenitore, assieme ai rivoluzionari, delle istanze 'federaliste' dell'organizzazione, al fine di sottrarre l'originalità dell'elaborazione politica delle periferie alle parole d'ordine del vertice, accusa il sindacalismo rivoluzionario di settarismo e di estemporaneità anarcoide; di essere incapace, cioè, di rendere i lavoratori soggetti partecipi ed intellettualmente attivi di quella stessa rivoluzione sociale per la quale esso dice di battersi .
Sostanzialmente, Rosselli rimprovera ai marxisti di avere completamente perso di vista l'aspetto spirituale del socialismo a favore di un chiuso dottrinarismo materialista alieno ai problemi del vivere quotidiano dei proletari.
Scrive, infatti, a proposito: «La parte morale, pur non disprezzandola, viene riposta dai più al secondo piano, o completamente trascurata. E ciò è naturale: se il socialismo deve essere, dovrà essere, inutile preoccuparsi gran che dei suoi elementi formativi. Son rari peraltro, e per fortuna, questi marxisti che tengono presente solo il lato economico; gli altri hanno da fare i conti con le masse lavoratrici, col popolo che soffre, e che non si accontenta del fatale di là da venire. Il popolo che va perdendo ormai la sua fede nella religione come visione di perfezione ultraterrena, che agogna nuovo cibo; che trasforma continuamente a suo uso e bisogno tutto ciò che gli vien dato in pasto. E' inutile affannarsi a negare il carattere religioso del socialismo; esso è; la massa convinta lo rende tale. [.]Il vero socialista è un religioso; il socialismo è fede. Da questo lato peraltro è innegabile che il socialismo nel suo sviluppo attuale non può costituire un sistema completo; esso si arresta alla vita terrena, disprezza la metafisica dell'anima, non è sufficiente a soddisfare la sete spirituale. E se il socialismo è limitato ed è un sistema non completo, ancor più lo è il sindacalismo inteso come puro movimento economico»10.
Motivando la propria preferenza per la pratica riformista del sindacalismo, e del socialismo in generale, in ragione di tutte le motivazioni fin qui addotte11, affonda la propria critica al sindacalismo rivoluzionario.
«Noi crediamo fermamente», afferma, «alla vittoria del socialismo a metodo riformista, e di conseguenza del sindacalismo riformista. Con ciò peraltro non neghiamo senz'altro qualunque valore al metodo rivoluzionario; esso può presentarsi necessario in determinati periodi storici come mezzo per giungere al fine; ad esempio: non crediamo che la Russia avrebbe potuto fare a meno di compiere la rivoluzione, il trapasso violento. [.]Ma in altri paesi, come ad esempio in Italia, le condizioni sono senza dubbio profondamente diverse. [.]Il riformismo trionfa perché il sindacato rivoluzionario [.] richiede delle qualità morali di prim'ordine, una subordinazione cosciente dell'interesse del singolo all'interesse collettivo, la visione sempre presente della rivoluzione sociale. E' insomma possibile a concepirsi solo se formato dalla élite della classe operaia. Perché occorre tener presente che la grande massa dei lavoratori, vive, soffre, lavora, soprattutto per l'oggi; ben pochi sono gli idealisti che riescono a posporre praticamente nella dura realtà quotidiana i loro interessi immediati, ad un alto interesse generale ed a un ideale futuro della conformazione della società umana. Questo è l'errore profondo della dottrina e della pratica sindacalista rivoluzionaria, come pure della dottrina socialista rivoluzionaria; si astrae cioè dalla massa, da quella stessa massa che si vuole riscattare e redimere, e si finisce in pratica con la dittatura della minoranza»12.
Per scrivere queste righe, Rosselli ha tratto ispirazione dalla sua conoscenza della pratica del gildismo e del laburismo britannici. In Inghilterra, fa notare, dove già da tempo la lotta politica si svolge prevalentemente, se non esclusivamente, sul campo della contesa elettorale, le rivendicazioni sindacali hanno un carattere eminentemente pratico, di ottenimento graduale di risultati concreti, tese al miglioramento tangibile delle retribuzioni e delle condizioni di vita sul posto di lavoro13.
2.1.2 Gli altri scritti sul sindacalismo.
Il neolaureato ha modo di ritornare su questi argomenti nel Dicembre 1921 con un articolo su Critica sociale, intitolato Lineamenti della crisi sociale, recensione dell'omonimo libro di Eugenio Artom, pubblicato l'anno precedente.
Mentre Artom, delineando gli elementi della crisi sociale del periodo, ne «pone la causa fondamentale nella lotta che, specie sul terreno economico, si combatte fra i tre principali coefficienti dell'evoluzione contemporanea: l'individualismo, l'associazionismo, lo Stato» , Rosselli ritiene che, mentre l'individualismo è «giunto ormai al suo massimo sviluppo» ed «esiste tuttora la coincidenza delle finalità dei singoli con quelle statuali in tutti i casi di attività puramente etica e politica», sia nato un «dissidio nel campo economico, sì da poter affermare che solidarismo ed individualismo sono oggi divisi dal problema della proprietà». E' stato scavato, cioè, un solco profondo fra le leggi del libero mercato e le istanze di maggior giustizia sociale avanzate dai lavoratori.
A queste dà risposta il sindacato, con la sua interdizione tanto al collettivismo statalista quanto al liberismo selvaggio. Pur rilevando che esso, «specie nel campo industriale, si presenta come un vero e proprio piccolo Stato», il fiorentino dissente dalla proposta di Artom di «ricondurre il sindacato nell'orbita statuale»15, come organo di produzione, in quanto questo «significherebbe soffocarne lo sviluppo, togliergli la possibilità di essere ciò che invece è destinato ad essere: l'impalcatura della futura costruzione, le fondamenta del sistema sociale a venire» .
Il pensiero di Carlo Rosselli riguardo al conflitto tra teoria economica liberista e sindacalismo, e sui motivi della nascita di questo conflitto, sono ulteriormente chiariti in Per la storia della logica. Economia liberale e movimento operaio, 'pezzo' scritto per La Rivoluzione liberale del 15 Marzo 1923.
«La libera concorrenza», constata, «è la colonna centrale del sistema liberale; dogma fondamentale della scuola è "il libero giuoco delle Forze economiche"», per il quale «gli economisti classici e postclassici [.] negarono esplicitamente o implicitamente in base a diverse teorie l'utilità delle unioni di mestiere» .
Tuttavia: «Allo stato attuale della scienza, per quanto a denti stretti, si può dire che in generale gli economisti liberali riconoscono l'utilità, soggettiva e sovente oggettiva, alcuni financo la necessità delle organizzazioni operaie. Senza dirlo esplicitamente, visto che l'organizzazione sorse allo scopo precipuo di eliminare la concorrenza nella offerta di lavoro tra i membri esercenti uno stesso mestiere, affermano dunque l'utilità e la necessità che alla concorrenza nella offerta si opponga la solidarietà tra i detentori della cosidetta merce-lavoro attraverso l'associazione professionale. Volere o volare, si rigiri la frittata come più piace, questo si chiama uno strappo palese al sistema liberale. Si riconosce cioè esplicitamente che vi sono dei casi nei quali è necessario porre un argine artificiale al "libero giuoco delle forze economiche", alla concorrenza sfrenata»18.
La battaglia degli operai, però, è ancora di là da essere vinta. L'opportunismo borghese vuole la frammentazione delle organizzazioni sindacali e la frantumazione del loro coordinamento, così da renderle incapaci di essere un interlocutore forte nella contrattazione e, perciò, credibile agli occhi dei lavoratori stessi. Questo «elemento politico disgregatore nel giuoco delle forze sindacali»19 è, quindi, la minaccia che una vera e solida organizzazione operaia deve osteggiare: «I fenomeni di parassitismo e di accordi colposi col padronato sono tanto più difficili quanto più misera, debole, divisa, è l'organizzazione generale dei produttori» .
L'aspra critica di Rosselli al liberismo ed al liberalismo trova due nuovi capitoli in Contraddizioni liberiste ed in Luigi Einaudi e il movimento operaio, articoli scritti in polemica con Einaudi, come testimonia anche il titolo del secondo di essi.
Nel primo, ribadendo che non è logicamente possibile «applicare i principi della libertà di organizzazione e di concorrenza ad un movimento che, come quello sindacale, trova la sua base, il suo elemento vitale, nello sforzo costante di eliminare la concorrenza tra i membri detentori della forza-lavoro» e che «la legge immanente del sindacato è di tendere ad assorbire tutti gli elementi della categoria»21, evidenzia che «il sindacato ha da essere necessariamente aperto a tutti, necessariamente democratico, se vuole ottenere un qualche effetto in campo economico» , ed aggiunge che l'unità sindacale non implica affatto la formazione di un cartello monopolistico nell'offerta di lavoro.
Il secondo articolo trova la sua linea narrativa nel parallelo che l'autore traccia fra Einaudi e il movimento liberale italiano, entrambi caduti nell'abbraccio mortale del fascismo.
«In Luigi Einaudi», esordisce, «io vedo nobilmente incarnata la tragedia del liberalismo italiano: di quel liberalismo di un tempo così diffuso fra i giovani che sapeva comporre -e magari sacrificare- le premesse economiche della scuola classica d'economia con le esigenze che andavano imperiosamente affermandosi col risveglio delle classi proletarie; di quel liberalismo che, superando pregiudizii, interessi di classe, deviazioni e degenerazioni inevitabili in ogni moto di masse, e che possono efficacemente combattersi solo dall'interno, vedeva nel sorgente moto operaio il concreto depositario della funzione liberale e la forza dell'avvenire»23.
Questa funzione è «passata di fatto, anche se non di nome, ai socialisti, per la semplice ragione [.] che i partiti estremi, in quanto estremi e, cioè, negatori di tutto o parte l'assetto sociale attuale, sono i soli che, sia pure attraverso a forme e metodi non sempre accettabili, compiono una seria e decisiva opera di rinnovamento. Il liberalismo delle classi dominanti è cosa risibile, e può formalmente salvarsi solo col rispetto del metodo liberale e democratico»24.
Ciò nonostante, oggi il liberalismo si oppone ciecamente a questo fatto ineluttabile. Infatti esso, presumendo «la superiorità del regime capitalistico su ogni altro regime o sistema economico», cerca di porre «il movimento operaio in un cerchio chiuso»25 e tenta vanamente di distinguere fra il movimento operaio e il socialismo; ma «nella realtà v'è una precisa correlazione tra il fatto politico e il fatto sindacale; nella realtà ogni sano movimento operaio si accompagna ad un movimento politico socialista, che ne è un po' come l'alfiere e la guida», come avviene in Inghilterra .
Se non si segue l'esempio inglese, ammonisce Rosselli, si può verificare anche in Italia ciò che avviene in America e in Australia: «in quei paesi dove il moto operaio non si accompagna ad un movimento politico socialista, cioè ad un movimento che può utilmente correggere la visione ristretta e particolare che la pura organizzazione sindacale porta seco fatalmente, abbiamo lo scatenamento degli egoismi e degli appetiti, il parassitismo e il protezionismo su larga scala»27.
Quel tentativo, insomma, dimostra «l'inconsistenza di un liberalismo che rimane allo stato teorico, come sospeso nel vuoto dei concetti, e che si dibatte nella contraddizione fra sistema e metodo liberale [.]. Ecco il dramma del liberalismo italiano: generare la creatura e mozzarle le ali; dar la vita a tutte le correnti progressive e rinnovatrici per poi negare ad esse, preventivamente, la facoltà, il diritto, financo la possibilità di superare la realtà in cui e da cui sorgono: in concreto la realtà capitalistica, borghese; vedere nella storia un perpetuo divenire, una serie di equilibri successivi, una perpetua negazione dell'ieri e del domani, per poi isterilirsi in una dogmatica affermazione della perpetuità della realtà attuale»28.
Alla luce di queste considerazioni, che gli sembrano dati di fatto incontrovertibili, Rosselli invita Einaudi, che già tempo a dietro aveva mostrato rispetto per «il socialismo sentimento»29, cioè per quell'ideale «che ha fatto alzar la testa agli operai» , di essere conseguente con la sua cultura politica, riconoscendo nella «volontà di riacquistare anche in seno alla fabbrica, durante il lavoro, la dignità di uomini [.] troppo spesso negata dal regime capitalistico» l'obbiettivo della battaglia civile e, perciò, liberale delle masse lavoratrici.
Questo scopo, tuttavia, non deve fermarsi all'ambito meramente economico dello status di salariato. La meta deve, ambiziosamente, spostarsi anche sull'aspetto organizzativo, decisionale, del processo produttivo poiché «le masse lavoratrici sono del tutto estranee alla direzione della produzione in cui domina il potere autocratico in violenta antitesi con i valori democratici che [.] hanno trionfato nel campo politico» : il nuovo cammino da percorrere è «l'autogoverno dell'industria» .
2.2 La crisi del socialismo italiano.
Come si può evincere dalla sua biografia, l'intento dell'attività politica di Rosselli ha il proprio fulcro ideale intorno al rinnovamento del socialismo italiano. Fedele al motto mazziniano "pensiero e azione", alla parte 'pratica' accompagna una riflessione teorica feconda di suggestioni sempre tese a concepire i nuovi possibili orizzonti programmatici della sinistra italiana. In quella riflessione possono essere distinte quattro fasi.
La prima comprende gli scritti antecedenti al 1926, dove concentra la sua attenzione sulle deficienze della sinistra nei confronti dell'urgente risistemazione della quale la società italiana necessitava nel dopoguerra. Da questo bisogno nasce la proposta di trarre spunto dall'esempio del laburismo britannico per correggere l'inazione e la passività dei capi del socialismo, incatenati agli schematismi della tradizione marxista, nei confronti dei fermenti e delle trasformazioni radicali che quel periodo porta con sé.
La seconda, conseguente alla prima, estende quella critica in relazione all'incapacità della classe dirigente socialista a contrastare il fascismo. A questa fase appartiene l'attività editoriale de Il Quarto Stato durante la quale Rosselli, rinnovando l'auspicio di un rinnovamento profondo della sinistra in senso liberale, analizza dal punto di vista storico ed antropologico le circostanze che hanno condotto l'Italia ad affidarsi al fascismo e delinea i possibili scenari di una efficace lotta di opposizione al regime.
La terza, quella della puntualizzazione teorica del suo pensiero, si avrà attraverso la stesura di Socialismo liberale; la quarta (la fase 'rivoluzionaria'), nel periodo di Giustizia e Libertà.
2.2.1 Metodo liberale e ideale socialista a confronto.
2.2.1.1 La prima versione di Liberalismo socialista.
Liberalismo socialista, apparso su Critica sociale del 15 Luglio 1923, è il primo degli scritti 'teorici' ai quali è importante fare riferimento.
Tale articolo è tutto imperniato sulla giustificazione dell'idea, cara a Rosselli, che è nel socialismo «il logico sviluppo del liberalismo» e che i socialisti sono «gli eredi legittimi e necessari di quella funzione liberale che spettò [.] ai patrioti del Risorgimento»34.
Il fiorentino, sviluppando la problematicità della dimostrazione di tali affermazioni non si limita, però, a chiarirne le argomentazione intrinseche; piuttosto tenta di curare i malanni occorsi al socialismo italiano all'indomani dell'avvento del fascismo al potere.
Queste le parole con le quali rende conto del dibattito intellettuale intorno ai principi del liberalismo e del suo personale travaglio di socialista: «più volte si è raffigurato il liberale come il concreto e nobile rappresentante della teoria cavouriana del juste milieu, posto al centro tra le due forze antagonistiche (la fascista e la socialista), che peccherebbero ambedue per spirito unilaterale, fazioso, dogmatico, e quindi illiberale. Si è detto replicatamente che tanto i socialisti quanto i fascisti non sono che l'espressione di due tendenze estreme»35 che «porterebbero all'annullamento di ogni libertà» .
«Ora», continua, «è il caso di domandarsi: la sentenza di condanna della teoria e della pratica socialista alla stregua del pensiero liberale, trova in un passato non troppo remoto la sua giustificazione nella realtà dei fatti? Abbiamo oggi il diritto di appellarci contro codesta sentenza? Per quanto si riferisce all'illiberalismo dei fascisti, sarebbe ozioso insistervi [.]. Pei socialisti io ho l'impressione che nelle generiche affermazioni dei liberali o sedicenti liberali, un certo fondo di vero, in mezzo a molte falsità, tutto sommato, non manchi; o per lo meno mi sembra che costoro non abbiano oggi tutti i torti nell'assumere, nei nostri riguardi, cotesto atteggiamento. Tocca a noi, non tanto rettificare la nostra posizione profondamente mutata, quanto chiarirla, affermarla ancora più esplicitamente, senza timori di eresie, rompendo gli ultimi lacci, artificiosi che legano tuttora tanti fedelissimi militi dell'idea socialista alla lettera del pensiero marxista e a tutta la vecchia romantica fraseologia, ormai in contrasto stridente colla mutata realtà»37.
In effetti, questo passo di Liberalismo socialista ha un intento pubblicistico, esortativo. Infatti, rispondendo all'interrogativo se l'accusa di illiberalità verso il socialismo abbia o meno ragione e fondamento, puntualizza: «Un po' di falso e un po' di vero. Il falso sta in quel mito, che si è venuto ormai accreditando presso le classi medie, specie nei ceti piccolo-borghesi, di un fascismo diretta reazione all'irrompente bolscevismo nostrano [.]. Il vero sta nel fatto che, almeno fino allo scorso ottobre (data di nascita del Partito Unitario), in Italia non è mai esistito, dal 1900 in poi un Partito Socialista, che potesse dirsi veramente liberale e democratico»38.
Nonostante il gruppo dirigente del P.S.U. non solo non corrisponda a questo intento rosselliano ma anzi si ponga in polemica con lui39, l'espressione della fiducia di Rosselli nella possibilità che quel partito fosse "veramente liberale e democratico" permane e ciò gli dà occasione di esporre la sua teoria riguardo alla distinzione fra metodo liberale e sistema liberale.
Esistono, argomenta, «due concezioni antitetiche del liberalismo. Per l'una, esso sarebbe un sistema che comporta regole e norme determinate, che si richiama ad una specifica costituzione economico-sociale [.] che si riassume nell'ordinamento della società borghese. [.]Per l'altra, esso si risolverebbe unicamente in un metodo di pensiero e di azione, in uno stato d'animo, [.]metodo che non è, non può essere monopolio di questo o quel gruppo, di questo o quel Partito, e che sta a significare il rispetto per alcune fondamentali regole di giuoco, che stanno alla base della civiltà moderna e che si riassumono nel sistema rappresentativo, nel riconoscimento di un diritto all'opposizione e nella ripulsa dei mezzi violenti ed illegali»40.
Sono a questo punto chiare le profonde convinzioni ideali che conducono Rosselli a ritenere urgente la rifondazione riformista del socialismo italiano. Il nuovo partito, differentemente dai comunisti, deve rifiutare l'insurrezionalismo come mezzo ordinario di lotta politica e sposare la via liberale del conflittualismo democratico.
«Col dir ciò,» prosegue,«si badi bene, non mi muovo, no, nel beato regno dei sogni, perché, se la storia non è leggenda, esiste in un paese del globo (Inghilterra) un Partito Socialista Laburista che si appresta a conquistare il potere con metodo ed animo liberale, disposto sin d'ora a riconoscere, anche nel giorno non lontano del suo trionfo, il diritto all'esistenza legale di una o più opposizioni»41.
2.2.1.2 La seconda versione di Liberalismo socialista.
Liberalismo socialista apre un grande dibattito fra gli intellettuali di area socialista e quel successo spinge Rosselli a ripubblicarlo, ne La Rivoluzione liberale del 15 Luglio 1924, rivisto e ampliato, con lo stesso titolo, sotto forma di saggio.
In quella seconda versione l'autore chiarisce la distinzione fra il liberalismo-metodo ed il liberalismo-sistema e attacca frontalmente la borghesia italiana, accusandola di essere complice compiacente delle violenze della dittatura fascista, che pochissimo tempo prima aveva assassinato Giacomo Matteotti, alla memoria del quale il saggio è, appunto, dedicato.
Sotto le insegne del liberalismo e sotto l'aggettivo 'liberale', osserva Rosselli, si nascondono le più diverse ideologie e praticamente non esiste uomo politico che non dica di rifarsi a quella tradizione. Ma, analizzando storicamente l'evoluzione del concetto 'liberalismo', si può ravvisare che la tradizione liberale ha assunto motivi e risvolti dai contorni incerti. La Rivoluzione francese lo aveva inteso precisamente, come ideale di liberazione della società dall'oppressione dell'assolutismo, attraverso l'affermazione di una serie di diritti civili (di culto, di pensiero, di associazione, di stampa, etc.) e politici che trovavano fondamento nella volontà popolare, espressa attraverso il meccanismo rappresentativo; oggi, invece, vi è una grande varietà di posizioni sia riguardo ai limiti e le forme dell'esercizio di quei diritti, sia persino riguardo al loro semplice riconoscimento.
Di conseguenza, scrive, «non è possibile affermare senz'altro con sicurezza inoppugnabile quale sia il contenuto preciso del liberalismo e di conseguenza quale delle diverse correnti ne sia in un concreto momento storico la più legittima erede. [.]Su un punto mi pare che ci si possa mettere d'accordo: punto che almeno per me costituisce la premessa indispensabile per tutto il ragionamento successivo. E cioè non stare il liberalismo in un assieme statico di principi e di norme. Esso è da considerarsi invece in continuo divenire, in via di perpetuo rinnovamento e di perenne superamento delle posizioni già acquisite. Il contenuto concreto del liberalismo muta nel tempo; quel che è fondamentale è lo spirito, la funzione immortale, l'elemento dinamico e progressista insito in esso»42.
Il nostro crede di poter riassumere il conflitto fra le varie correnti che si rifanno al liberalismo «nella opposizione tra i seguaci del "sistema" e i seguaci del "metodo" [.].Da un lato stanno i seguaci del "sistema" inteso come una somma di dati principi economici, giuridici, sociali, sui quali si regge lo Stato moderno. [.]Il sistema si riassume in una formula: sistema capitalistico, borghese. [.]Dall'altro stanno i seguaci del "metodo" liberale avente come premessa fondamentale che la libera persuasione del maggior numero è il miglior mezzo per raggiungere la verità [.].Il metodo viene inteso come un complesso di norme che stanno alla base della vita dei popoli a civiltà europea, come un complesso di regole di giuoco che tutte le parti in lotta si impegnano a rispettare in quanto servono ad assicurare in modo definitivo la pacifica convivenza dei cittadini e delle classi, [.]una sorta di "minimo comune denominatore" di civiltà buono per tutti gli individui, gruppi, partiti [.]. Esso sta a rappresentare il veicolo per il quale è dato a tutte le forze di affermarsi nella vita sociale per le vie legali. Per quanto non sia suscettibile di una definizione rigida oggi può dirsi che si concreti nel principio della sovranità popolare, nel sistema rappresentativo, nel rispetto dei diritti delle minoranze, nell'affermazione di taluni diritti fondamentali acquisiti inalienabilmente alla coscienza moderna, nel rinnegamento della dittatura e della violenza»43.
Il liberalismo, quindi non deve essere ideologia d'élite, ma, come insegna l'esempio inglese, diffusa fra le masse «con una insistente opera di educazione» perché esiste uno stretto rapporto fra liberalismo e democrazia per il quale «la seconda non è che il logico sviluppo del primo, e il primo non sussiste sostanzialmente in uno Stato rappresentativo moderno senza la seconda»44.
Questo nesso fa sì che l'azione liberale non possa che essere socialista. E' tale poiché solo il socialismo, ponendo la rivoluzione politica come premessa per la rivoluzione sociale, può raccoglierne la pesante eredità: nelle sue articolazioni organizzative (partito e sindacato) rappresenta quella parte della società, che ne è la maggioranza numerica ma la minoranza politica, il proletariato, la quale necessita più pressantemente di un habitat liberale e libertario per esprimere la sua vitalità e conquistare la sua emancipazione.
Però, avverte Rosselli: «Se sostanzialmente il movimento socialista ci appare l'erede della funzione liberale, non si può affermare che dal lato formale esso ne sia sempre stato degno e consapevole. [.]Il problema consiste precisamente nel far sì che le classi lavoratrici siano pienamente consapevoli e degne del loro compito liberale, rispettose dei doveri che esso importa, e che una revisione delle dottrine e dei programmi, in fondo più formale che sostanziale, si compia»45.
Tale revisione comporta prima di tutto l'abiura alla violenza come mezzo ordinario di lotta politica, essendo ammesso l'uso della forza solo nei casi di legittima difesa; in secondo luogo, l'abbandono delle obsolete e, al contempo, utopistiche formule di orientamento marxista a favore di un atteggiamento marcatamente empirico.
«Le recenti esperienze,» argomenta facendo implicito riferimento alla rivoluzione sovietica, «tutte le esperienze di questi ultimi trent'anni hanno condannato senza speranza i primitivi programmi socialisti. Specie il socialismo collettivista, accentratore, il socialismo di Stato, ne è uscito disfatto. Si credette che a espropriazione improvvisamente avvenuta dopo la conquista rivoluzionaria del potere politico, [.]tutto sarebbe andato per il meglio. Produzione enormemente aumentata, il lavoro ridotto al minimo e reso gioioso, l'uomo libero alfine dalla schiavitù della materia e degli strumenti del suo lavoro. [.]Ormai nessuno crede più in coscienza a codeste favolette, e soprattutto nessuno crede più che un simile programma possa realizzarsi con codesti mezzi. Tutti vedono i pericoli enormi della burocrazia, della incompetenza, della invadenza statale, dello schiacciamento della libertà individuale, della assenza di interesse. Non parliamo poi del problema della felicità!. Anche per i socialisti le formule semplicistiche, le formule che danno la chiave dell'avvenire e che aprono tutti gli usci han fatto il loro tempo. Non è più possibile avere un programma preciso, preordinato. [.]Occorre gettar via il vecchio bagaglio dogmatico che pesa inutilmente sulle spalle e impaccia il cammino, e adeguarsi all'esperienza. Perché solo dall'esperienza liberamente attuata può scaturire l'indicazione per il domani»46.
Per Rosselli, il socialismo, che correttamente impostò la sua prima propaganda sull'aspetto economico e materiale dell'esistenza del proletariato, perché senza l'abbattimento della miseria non ha alcun senso parlare di valori morali, ora deve farsi carico anche della conquista dell'autodeterminazione spirituale dell'individuo, della libertà di coscienza, della dignità personale, da un lato, e della partecipazione volontaristica dei soggetti che compongono la massa al suo grande progetto di rivoluzione sociale, dall'altro.
«In breve», prosegue, «mi sembra che, sia in pratica che in teoria, dovrebbe e potrebbe essere di guida ai socialisti un ideale di autonomia e di libertà. Si deve procedere non dall'alto al basso, non dal centro alla periferia, ma all'inverso. Il socialismo in tutti i suoi aspetti non ha da essere frutto di imposizione, ma di conquista, anzi di autoconquista; deve essere una creazione autonoma delle classi operaie»47.
Concludendo, descrive quello che «deve essere lo stato d'animo e l'abito mentale di un socialista liberale» , la propria professione di fede: «Io non credo alla dimostrazione scientifica del socialismo; non credo di possedere la verità assoluta; non intendo inchinare la fronte a dogmi, non mi illudo di avere in tasca la chiave dell'avvenire. Sono socialista per un insieme di principi, di esperienze, per la convinzione tratta dallo studio dell'evoluzione dell'ambiente in cui vivo; sono socialista per coltura, per reazione, ma anche [.] per fede e per sentimento. [.]Si è detto che il liberale è in fondo uno scettico. Non è vero. E' piuttosto un relativista. Si teme da più parti che lo stato d'animo liberale conduca ad un indebolimento della teoria e soprattutto a minore fermezza della fede professata. Ma quanto più solida e radicata è quella fede che non teme la critica e il lavoro di erosione degli avversari, che anzi lo desidera, e che nel bagno diuturno nella realtà trova sempre nuove ragioni per affermarsi» !
2.2.1.3 Il bilancio marxista.
A cavallo del periodo trascorso fra le pubblicazioni delle due edizioni di Liberalismo socialista, Rosselli scrive altri articoli di notevole interesse e successo.
In La crisi intellettuale del partito socialista, apparso nel numero del 1-15 Novembre 1923 di Critica sociale, ribadisce che «sono almeno quindici anni che il movimento socialista in Italia è stato colpito da paralisi»50 nonostante il continuo aumento del numero dei suoi iscritti e del suo consenso elettorale. Riguardo ai motivi di questa stasi si dice «profondamente convinto che una delle cause principali della crisi è da ricercarsi nella diffusione (e particolarmente nel modo e nella direzione della diffusione) della dottrina marxista in Italia», cioè pensa che «l'errore più grave consistette nell'assumere le dottrine marxiste a pensiero ufficiale dei gruppi e dei partiti socialisti» .
Accertato il fatto che tutto il panorama contemporaneo delle dottrine politiche (liberali, nazionalisti e, in parte, i cattolici) ha mutuato il metodo di analisi storica marxista, dato che «nel marxismo è tutto compreso, rivoluzionarismo e riformismo, materialismo e idealismo, dittatura e democrazia, liberalismo e tirannia» e che, quindi, «si può essere marxisti senza essere socialisti», il nostro afferma che è «meglio, mille volte meglio, un sano empirismo all'inglese piuttosto che questo cieco e tortuoso dogmatismo»52.
Infatti, i socialisti italiani invece di battersi «sulle questioni concrete e veramente essenziali»53 che riguardano la vita quotidiana dei lavoratori, anche nei momenti più drammatici dell'ascesa fascista al potere, continuavano e continuanoinutilmente a discutere dei motivi della crisi della sinistra italiana, cercandone la risposta nei testi di Marx «a forza di citazioni, di interpretazioni, di sforzi esegetici» .
A ciò si aggiunga che la babele teorica dovuta alla presenza di varie correnti in seno al partito (revisionisti, riformisti, gradualisti, massimalisti, democratici), tutte protese, le une contro le altre, nell'opera di scoperta o riscoperta del 'vero' marxismo, ha creato una gravissima confusione e disaffezione fra i militanti e gli elettori, e così si ha il quadro completo delle difficoltà che il socialismo stava attraversando in Italia.
Contro tutto questo astrattismo che ha fatto allontanare i giovani dal socialismo, Rosselli contrappone nuovi orizzonti programmatici, liberali e democratici, che, facendo un chiaro e realista bilancio del pensiero marxista, superino nettamente l'obsolescenza delle vecchie formule. Il partito socialista «ha bisogno di un grado estremo di elasticità, di una grande libertà di atteggiamenti, anche se è necessario che mantenga una chiara e coerente linea di condotta»55.
L'articolo di Rosselli è seguito da una postilla di Rodolfo Mondolfo dal titolo Le attività del bilancio nel quale l'autore, pur comprendendo la genuinità delle intenzioni rinnovatrici del giovane fiorentino, esprime il suo dissenso in ordine all'abbandono delle tesi marxiste, pur nella distinzione fra l'azione politica socialista e quella comunista.
Nella risposta a tale appunto, Aggiunte e chiose al «Bilancio marxista», apparsa su Critica sociale del 1-15 Dicembre 1923, Carlo Rosselli chiarisce che la sua intenzione non è quella di revisionare il marxismo, bensì di andare oltre il marxismo stesso.
Innanzitutto si domanda se sia «proprio utile o necessario, che i socialisti nella loro propaganda continuino ad insistere tanto, come per il passato, sulla teoria della lotta di classe»56: se la lotta di classe è un fenomeno immanente alla natura economica delle relazioni sociali e, quindi, non vi è necessità di persuasione delle masse in tal senso, «sarebbe più saggio praticare cotesta lotta [.] senza quelle eccessive teorizzazioni e sbandieramenti propri del passato; come, ad esempio, mostrano di fare i labouristi inglesi, nonni del movimento operaio mondiale» . Ancora una volta l'Inghilterra funge da paradigma per Rosselli, che continua: «Inutilmente ricerchereste nel loro statuto, classicamente socialista dal lato finalistico, il menomo accenno alla lotta di classe. Ci pensano le organizzazioni economiche a praticarla, con un vigore non certo inferiore» .
Dalla riflessione riguardo alla opportunità tattica di concentrare gli sforzi propagandistici sulla lotta di classe, si apre la divaricazione tra l'aspirazione rosselliana ad un socialismo eticamente inteso e condiviso, da una parte, e l'impostazione classica del movimento operaio, dall'altra: «le nuove esigenze del moto in Italia sembrano indicare che non è più il caso, almeno nelle regioni socialmente più evolute, di calcare troppo la mano sul fenomeno lotta, quando [.] l'esigenza morale, l'armonica visione della società ideale futura hanno da passare in prima linea»59.
Rosselli ritiene che il materialismo storico abbia proiettato nelle coscienze un'immagine esasperatamente semplificatoria del moto sociale, che abbia innalzato uno steccato altrimenti inesistente fra proletariato e borghesia. Non la lotta contro la borghesia, perciò, deve essere l'obiettivo precipuo dei socialisti, bensì quella contro il regime fascista, «composto di complessi elementi economici, etici, morali, giuridici» non identificabili in una sola classe.
Questa battaglia per il rinnovamento integrale della morale degli italiani implica, perciò, che «l'esigenza liberale (che significa educazione, tolleranza, vittoria su se stessi prima che sugli avversari)»61, esigenza universale, prevalga sulle miopi visuali settarie. Egli non intende negare il valore del marxismo come strumento di analisi sociale e politica, bensì «l'utilità di un partito marxista che [.] imponga a tutti i suoi aderenti una determinata filosofia, una determinata visione della vita e delle lotte politiche» .
L'esperienza del laburismo inglese corrobora con un esempio storico concreto questa idea. Ecco il grande modello per il P.S.U.: «Nel Labour Party coesistono, oltre ai gruppi economici, tre società socialiste che si ispirano a metodi e principi diversissimi. Si va dall'evoluzionismo spenceriano al marxismo integrale. Obbiettivamente pare proprio un miracolo che cotesto blocco di forze disparate resista così bene da vent'anni alle tendenze disgregatrici. [.]Ammaestrati dalla triste esperienza continentale i laburisti conservano in seno al raggruppamento un così largo spirito liberale, e lasciano ai gruppi componenti una così ampia libertà di movimento e di critica, una così enorme, talvolta esagerata autonomia, che la necessità di scissione si dimostra grandemente improbabile. [.]Ogni gruppo, ogni frazione cerca di far trionfare le sue tendenze e le sue soluzioni, e nel tempo stesso svolge proficuamente la sua attività in un ambiente particolare tra ceti particolari»63.
2.2.2 Il paradigma inglese.
L'interesse di Rosselli per il sistema politico inglese è dovuto, oltre che all'affinità culturale che deriva dal proprio ambiente familiare, anche alla ricerca di un concreto punto di riferimento sia in relazione all'esempio che il laburismo può fornire alla sinistra nostrana, sia come modello di sviluppo complessivo della società che quel paese può indicare all'Italia.
Dal primo punto di vista, fa notare ai socialisti, così «abituati alle scissioni quotidiane»64, come le varie correnti presenti nel Labour Party, pur nelle rispettive distinzioni di accenti e di sensibilità, siano capaci di resistere ad ogni tendenza disgregatrice, presente tanto all'interno del partito stesso, quanto alimentata all'esterno di esso dagli avversari.
L'unità federativa dei laburisti, «che comprende nel suo seno liberali da un lato e comunisti dall'altro» , non ha mai professato una dottrina ufficiale e «il marxismo, al pari d'ogni altra ideologia aprioristica, non ha mai attecchito» : «Il materialismo storico, inteso e frainteso [.] come basso e volgare determinismo economico, è nettamente respinto» e la teoria della lotta di classe declina a favore di intenti riformistici interclassisti di marca segnatamente solidaristica.
Tali premesse inducono il fiorentino a prevedere il prossimo ingresso dei laburisti al governo, come partito di maggioranza, a seguito delle elezioni generali dell'Ottobre 1924, a discapito dell'egemonia che i liberali avevano esercitato fino ad allora. «Per la prima volta nella storia d'Europa», scrive, «assistiamo alla grandiosa e pacifica ascensione al potere della classe operaia. Esempio e monito ad un tempo pei socialisti continentali, che dimostra la possibilità, date certe condizioni di educazione e di ambiente, di un movimento socialista che giunga al potere attraverso il metodo liberale-democratico»68.
Per ciò che concerne i liberali, compressi fra l'incudine e il martello dal contemporaneo aumento dei consensi tanto dei laburisti quanto dei conservatori, conducente ad una chiara logica bipolare che non concede alcuno spazio al 'centro' nel quale si erano sempre collocati, ne preconizza la scissione in due tronconi. Una parte di essi sarebbero andati a rinfoltire la schiera moderata, creando un «fronte unico nel campo avversario»69 del Labour, altri si sarebbero alleati con la sinistra: «la storica funzione liberale intesa nel senso più largo della parola, rinvigorita dall'apporto grandioso del riformismo socialista del mondo operaio, si trasferirà dal classico Partito liberale al nuovo e battagliero Partito labourista» .
Questa previsione trae origine non solamente da una riflessione di ordine 'tattico', riguardo alla collocazione politica dei liberali, ma anche dalla conoscenza del dibattito inglese intorno al new Liberalism.
Rosselli ritiene che la confluenza dei liberali con i laburisti sia, insomma, la realizzazione pratica dell'idea secondo la quale le istanze del socialismo e del liberalismo possono e devono associarsi in una prospettiva che porta all'armonizzazione dell'interesse generale con i diritti individuali. A partire da John Stuart Mill, infatti, molti intellettuali britannici propongono il superamento dell'obsoleto modello culturale tramandato dal old liberalism, ormai inadeguato a governare la modernizzazione della società imposta dalle pressanti richieste avanzate dalla classe operaia, con un nuovo sistema politico in grado di recepire quelle richieste accostandole al bisogno di un quadro di riferimento istituzionale democratico, rispettoso della pluralità delle forze sociali.
Tra i tanti, Leonard T. Hobhouse, il cui pensiero era conosciuto da Rosselli72, era stato tra i primi a mettere in luce l'esigenza di superare la concezione formale dello 'Stato di diritto' così come proposta della tradizione liberale ottocentesca .
In Democracy and reaction sostiene, per esempio, che se il moderno liberalismo, nel propugnare i principi di libertà e di uguaglianza, si era avvicinato all'ideale socialista, anche il socialismo aveva fatto altrettanto: trovando le proprie fondamenta nel liberalismo, ne aveva rafforzato i principi . Liberalismo e socialismo tendono a convergere .
Questa idea è ripresa ed approfondita in Liberalism dove Hobhouse, polemizzando con la scuola di Manchester, che caldeggia la teoria dello 'Stato minimo', afferma che individualismo e socialismo sono capaci di commisurare la libertà sociale con l'eguaglianza dei diritti. Ciò implica un mutamento radicale dell'orientamento delle politiche pubbliche in senso liberal-democratico: le pari opportunità fra i cittadini si realizzano, innanzitutto, garantendo a tutti un lavoro e una retribuzione dignitosa, ma anche attraverso la partecipazione attiva di tutte le componenti sociali alla vita degli istituti della democrazia rappresentativa.
In questa ottica, è compito del Partito Laburista rafforzare la propria alleanza con il liberalismo e pervenire, quindi, al socialismo liberale («Liberal Socialism» ) poiché il diritto al lavoro ha la stessa importanza dei diritti individuali . La costruzione di un walfare State diffuso può essere coniugato con la difesa dei diritti individuali della tradizione liberale e degli istituti della democrazia rappresentativa: la giustizia deve fondarsi sull'armonia tra gli interessi personali e quelli generali e non, viceversa, sullo sviluppo di una classe a spesa delle altre.
Come nota Sbarberi, per Hobhouse, in sostanza, il liberalismo delinea in sé «uno statuto teorico complesso perché costruito su un sistema plurimo di libertà»78. L'assunto di base è che la libertà può essere configurata come «una costellazione in itinere, un nesso di significati che si dispiega nel tempo senza rigide modalità e contenuti definitivi» . Corollario a questo presupposto è l'idea per la quale «la libertà consiste non soltanto in un insieme di diritti costituzionalmente protetti e in un nucleo precostituito di beni, bensì anche in una ricerca permanente di possibilità inesplorate: nello "sviluppo" aperto delle attitudini e delle propensioni individuali, all'interno di comunità politiche solidali che rendano possibile "l'ampliamento" effettivo delle personalità» .
La libertà individuale -aggiunge Urbinati- assume così il connotato di diritto-dovere egualmente condiviso, e perciò collettivamente protetto ed alimentato, all'autonomia, così da parte di ciascuno nei confronti degli altri, come dello Stato. Lo Stato, infatti, non è, per Hobhouse, «il fine supremo o la ragion d'essere della società, come volevano gli hegeliani, ma nemmeno l'irriducibile nemico dal quale gli individui dovevano sempre e comunque guardarsi, come sostenevano i "vecchi" liberali inglesi»81. Di qui la liceità di un moderato intervento statale anche nella vita economica della società attraverso il controllo della libertà di godimento della proprietà privata e la supervisione dell'industria.
Pur riconoscendo che molte delle sue idee sono condivise dalla dottrina socialista, «Hobhouse preferisce indicare la propria concezione con l'espressione "liberalismo economico", per distinguerla tanto dal "socialismo astratto" quanto dall'"astratto individualismo"»82.
Le speranze che Hobhouse e Rosselli coltivano intorno all'ipotesi del rinnovamento in senso sociale del liberalismo sono spezzate dalla realtà delle vicende politiche britanniche del 1924. Nelle lettere alla madre del Settembre-Ottobre di quell'anno83, infatti, Rosselli esprime il suo scetticismo riguardo all'esistenza di una reale intenzione da parte dei liberali di perseguire la strada dell'accordo con i laburisti. «La fiducia di Carlo nella volontà riformistica del "new Liberalism" vacilla fortemente, e personalmente spera in un autonomo rafforzamento del partito laburista, tanto da pervenire a teorizzare, più che un "Liberalismo socialista", un "Socialismo liberale"» .
I suoi timori sono avvalorati dalla decisione dei liberali di affiancarsi al partito conservatore alla vigilia delle elezioni generali del 29 Ottobre. Nell'articolo dal titolo Le ragioni degli accordi tra liberali e conservatori spiega che l'origine di tale alleanza in funzione antilaburista è da ricercarsi nella debolezza ideologica del liberalismo inglese che, politicamente spiazzato dall'attivismo progressista e riformatore della sinistra, ha optato per l'abbandono dei suoi elementi libertari, ripiegando su posizioni moderate a connotazione classista (borghesi) e liberista85.
I risultati di quella tornata elettorale segnano la vittoria dei conservatori che conquistano la maggioranza assoluta dei seggi al parlamento, la quasi completa scomparsa dei liberali, il progresso sensibile del consenso a favore del Labour, che, però, a causa del sistema elettorale maggioritario, non si traduce in un apprezzabile aumento del numero dei parlamentari di quel partito86.
La storia delle vicende politiche d'oltre Manica è di monito per Rosselli. Nota in proposito Mastellone che «la vittoria dei conservatori in una prospettiva europea poteva anche essere intesa come una vittoria dei fascisti. I liberali inglesi, sui quali Rosselli aveva fatto affidamento quando aveva teorizzato un "liberalismo socialista", non avevano sostenuto i laburisti, anzi avevano collaborato con la destra»87. Comprende che il risultato di quel test elettorale è il preludio della radicalizzazione dello scontro fra le forze democratiche e coloro che, invece, vogliono distruggere la democrazia.
2.2.3 La lotta al fascismo.
La nascita de Il Quarto Stato - Rivista di cultura politica segna l'accelerazione dell'impegno di Rosselli in ordine al tentativo di rinnovare la sinistra italiana, ridestandola alla lotta contro il regime mussoliniano.
A tale scopo, memorabile per lo scalpore che provoca, è il carteggio con Claudio Treves. Esso nasce e si sviluppa attraverso tre distinti articoli, scritti nella primavera del 1926 rispettivamente per Il Quarto Stato e Critica Sociale, dotati di una verve dialettica inusuale per il tempo, allorquando, cioè, la libertà di pensiero e di stampa avevano subito le prime pesanti limitazioni da parte della dittatura fascista, e i giovani militanti socialisti non erano soliti criticare i dirigenti del partito con i toni veementemente polemici utilizzati dal giovane fiorentino.
Dimostrazione ne sia questo brano di Autocritica, il primo di quegli articoli: «E' nella sventura che si misurano gli uomini. E' nella sconfitta che il movimento socialista italiano darà la prova migliore della sua forza e della sua vitalità. Bisogna però che esso si imponga un coraggioso esame di coscienza, che esso addivenga alla più spietata delle autocritiche. Perché fummo battuti? Ecco la domanda fondamentale che dobbiamo porci e che esige una chiara risposta. Il sapersi rendere ragione della sconfitta è già un primo passo sulla via della rivincita. Chi nasconde il capo sotto l'ala e si trincera dietro il dadà della "reazione internazionale", o si limita semplicemente a considerare il fascismo come il figlio legittimo e necessario del regime capitalistico, come una tappa fatale lungo il calvario socialista, dà prova di poca forza morale e mostra di non aver nulla appreso dalla lezione di questi anni»88.
Rosselli crede di poter trovare una risposta a quel interrogativo nell'incapacità del socialismo italiano a superare il marxismo come ideologia di riferimento. Tale incapacità scaturisce dall'ignoranza dei dirigenti del P.S.I. riguardo allo stato socio-economico-politico della nazione e il grado di consapevolezza democratica del popolo italiano. Disamine superficiali ed erronee hanno spinto il socialismo nel baratro dell'astrattismo deterministico, ragione prima della sua fragilità congenita.
L'attenzione rosselliana si concentra, innanzitutto, sull'analisi della stratificazione sociale italiana e della relativa sovrastruttura politico-istituzionale: «un movimento socialista degno di questo nome ed improntato alla pura ideologia marxista (come invano tentò di esserlo il nostro) è possibile solo là dove la vita economica così industriale che agricola è grandemente sviluppata, là dove si sono superate le colonne d'Ercole del salario di sussistenza, là dove la rivoluzione borghese ha posto su solide basi nello Stato "nazionale" il regime rappresentativo e ha definitivamente affermate le libertà politiche. Ora in Italia difettavano in gran parte tali condizioni»89.
L'Italia, puntualizza, non era e non è affatto (nel momento in cui scrive) un paese ad economia a base industriale, come teorizzavano i marxisti, bensì agricola. La distorta prospettiva classista secondo la quale è necessario rivolgersi soprattutto ai ceti proletari del Nord (che il nostro chiama polemicamente «le aristocrazie operaie»90) per trovare avanguardie popolari sensibili al richiamo socialista, ha fatto dimenticare a Salvemini, ad Arturo Labriola e ad altri, pur validi, dirigenti della sinistra italiana l'arretratezza complessiva delle condizioni politiche nelle quali versa il complesso delle masse lavoratrici, dalle quali la dittatura fascista trova linfa vitale.
Tale arretratezza ha scaturigini storiche profondamente radicate. «L'Italia», osserva Rosselli, «è un paese nel quale non si ebbero mai le grandi lotte di religione che costituirono dovunque (sia pure nonostante e contro la volontà delle parti in lotta) il massimo lievito dei regimi liberali e la più sicura garanzia del principio di tolleranza e del rispetto di un minimo comune denominatore di civiltà; è un paese nel quale le libertà politiche conquistate durante il Risorgimento per opera di una ristretta élite borghese e patrizia, rimasero sempre patrimonio di pochi. Purtroppo in Italia la conquista di quello che a giusto titolo è considerato il sommo bene dei popoli a civiltà occidentale, non è legato a nessun moto di masse capace di adempiere a ruolo mitico ed ammonitore. La massa fu assente nelle battaglie per l'indipendenza e per le libertà politiche. La libertà italiana è figlia di transazioni, di adattamenti e di taciti accomodamenti. Il proletariato non ha conquistato a prezzo di forti sacrifici personali la "sua" libertà. [.]E siccome non si ama e non si difende se non ciò per cui si è lottato e sacrificato, così era fatale che la classe lavoratrice, che nei paesi evoluti è giustamente la più vigile e interessata custode del metodo democratico, dovesse da noi assistere quasi inerte alla negazione di valori supremi che apparivano troppo estranei alla sua coscienza»91.
Così il socialismo italiano, invece «di reagire a tali condizioni ambientali, di adeguare la sua teoria, la sua propaganda e la sua azione al clima storico del nostro paese, di porre prima salde le basi morali e politiche per un fruttuoso lavoro socialista»92, illusoriamente convinto dalle crescenti manifestazioni di consenso popolare di possedere le chiavi dell'emancipazione proletaria, perse la propria lucidità d'azione, ondivagando fra il «rivoluzionarismo verboso e astratto» e il «gretto riformismo» filo-giolittiano.
Autocritica e demolizione è il 'pezzo', pubblicato su Critica Sociale del 1-15 Aprile 1926, con il quale Claudio Treves (firmando con lo pseudonimo Rabano Mauro) risponde a Rosselli.
In quell'articolo Treves ritiene che l'autore di Autocritica si sia spinto fin troppo oltre nell'analisi delle responsabilità dei vertici del socialismo italiano. Gli sembra che il suo scopo non sia tanto quello di rinnovare le linee di azione del movimento operaio, bensì quello di demolirlo. Treves non è affatto convinto che vi siano fra le accuse di trascuratezza per i presupposti morali e politici del moto proletario validi capi di imputazione contro i dirigenti della sinistra italiana. E' semmai l'ignoranza delle nuove generazioni delle origini storiche e del patrimonio ideale di quella parte politica ad averne impedito il rinnovamento e soffocato lo spirito. A tale manchevolezza si aggiunga la grave colpa che ricade sulla borghesia liberale a causa della sua alleanza con il fascismo, e si ha il quadro completo delle ragioni endogene ed esogene della sconfitta del socialismo in Italia.
La controreplica di Rosselli è affidata ad Autocritica, non demolizione, edito sulle colonne de Il Quarto Stato il 1 Maggio 1926.
La premessa e lo scopo dello scritto è «chiarire in amichevole contraddittorio i punti di dissenso e [.] annotare quelli d'incontro»94 con Treves.
Innanzitutto, esordisce l'autore, bisogna respingere la convinzione assai diffusa secondo la quale i contestatori dei vertici del socialismo, «(i cosiddetti "demolitori"!) essendo giovani o giù di lì, non avendo vissuto tutta la storia del movimento, sotto l'influenza della tragica situazione in cui viviamo»95, siano affetti da quella tipica ingenerosità e superficialità di giudizio di coloro che non hanno quel bagaglio di esperienze che solo può fornire la consapevolezza che «la situazione attuale non è che la riproduzione in grande di situazioni storiche già avutesi per il passato» . Ciò è falso: «tra la situazione attuale e quella avutasi sul cadere del secolo scorso, corre una differenza infinitamente più profonda di quanto generalmente si supponga, se non altro perché oggi ci troviamo di fronte a una borghesia nuova e audace che col fascismo e nel fascismo assume una più chiara visione de' suoi interessi di classe, mentre allora le forze migliori e propulsive della appena nascente borghesia industriale accompagnavano con un alone di simpatia la lotta dei partiti popolari» .
«La verità», scrive Rosselli, «è che a molti [.] urta maledettamente il parlare franco, aperto, magari brutale che noi invochiamo intorno alle cause della sconfitta; essi evidentemente non hanno ancora compreso che al punto a cui siamo il grave non sta tanto nella sconfitta [.] quanto nel non sapersi o, peggio, nel non volersi rendere chiara ragione delle sue cause, perpetuando in tal modo le condizioni che la provocarono e acuendone le conseguenze»98.
Rabano Mauro commette il tragico errore di disgiungere la sconfitta della democrazia e delle istituzioni liberali, che il consolidarsi del regime comporta, a quella del moto proletario, fino a «negare il problema stesso, trasferendo tutto il peso e la responsabilità della sconfitta» sulla borghesia. Egli, componendo l'equazione capitale-democrazia, non si rende conto, cioè, che la «civiltà democratica è ormai patrimonio essenziale e quasi esclusivo del proletariato, condizione per esso di vita o di morte nell'attuale fase della vita sociale»99.
A prova di questa rivendicazione, Rosselli ricorda come venne «malamente e tardivamente impostata, così da annullarne sin dall'inizio i risultati, la lotta, per troppi anni dai socialisti non sentita, a favore del suffragio universale»100. «Il suffragio universale,» continua l'antifascista fiorentino, «che avrebbe dovuto considerarsi un aspetto essenziale dell'assai più vasto problema relativo al regime politico esistente in Italia, la premessa imprescindibile per l'avviamento a una reale democrazia, fu ridotto invece al rango di una misera riforma qualunque; e taluno, e non dei migliori, ebbe allora addirittura a proclamare che il suffragio universale non è neppure una riforma, non è un fine, ma un mezzo, un semplice mezzo neppure indispensabile per "agevolare" la conquista di quelle tali e tali riforme, di quella legislazione sociale che parve costituisse il "nucleo fondamentale dell'azione socialista" e potesse condurre alla progressiva erosione delle basi del regime. [.]Ora non è chi non veda tutta la tragica debolezza di una simile impostazione del massimo fra i problemi politici che si pongono a una democrazia moderna, in un paese dove le masse furono lontane sempre dalle grandi lotte politiche, in un paese in cui non si ebbero mai grandi conflitti costituzionali che pongono e ripropongono alla coscienza generale i problemi essenziali della vita e della sicurezza collettiva [.], in un paese dove v'era pure bisogno di fare acquistare alle masse attraverso una grande anche se pacifica rivoluzione, una coscienza politica» .
La querelle fra Rosselli e Treves occuperà ancora diversi altri articoli, non si esaurirà mai ed infatti continuerà anche durante l'esilio in Francia.
Per quanto attiene ancora alla seconda fase della riflessione rosselliana102, uno degli articoli maggiormente significativi è quello intitolato Attenti alla nomenclatura! (edito il 31 Luglio 1926 sempre su Il Quarto Stato) dove il nostro delinea per la prima volta la sua opzione per la modalità rivoluzionaria di opposizione al fascismo (tema poi sviluppato diffusamente nel periodo di Giustizia e Libertà).
L'uomo dalla finestra (questo è lo pseudonimo con il quale Carlo firma l'articolo), ribadendo l'incrollabilità della sua fiducia nella riscossa degli ideali democratici e delle istituzioni liberali, nonostante la sconfitta dei partiti che a quegli ideali ed a quelle istituzioni si ispirano, espone, con uno stile vividamente autobiografico, i motivi tattici e psicologici che lo inducono a preferire loro, nella contingenza della lotta antifascista, la strategia rivoluzionaria.
«Io sottoscritto», dichiara, infatti, «ho fede nell'ideale liberale ed ho fede nello stesso tempo negl'ideali della democrazia non solo politica, ma anche economica. Perciò sono contro ogni forma di imposizione violenta e di dittatura. Dove le istituzioni politiche sono liberali e democratiche, io sto per il metodo della propaganda liberale e delle trasformazioni pacifiche. Ove mancano le istituzioni liberali e democratiche, io sono costretto ad adottare il metodo rivoluzionario, cioè sono costretto a riconoscere che è necessario uno sforzo violento, dittatorio, per passare ad un regime di liberalismo e di democrazia politica. Ma subisco questa necessità, convinto che è una triste necessità. E desidero di ritornare al più presto dalla dittatura alla libertà e alla democrazia. Non glorifico la dittatura come forma politica ideale. E dove ci sono istituzioni liberali e democratiche le difendo con tutte le mie forze, anche se imperfette, perché esse mi servono da strumento per conquistare ulteriori condizioni politiche in cui si realizzi sempre meglio il mio ideale di libertà e di democrazia»103.
Capitolo 3. Socialismo liberale e la rivoluzione.
3.1 Socialismo liberale.
3.1.1 Le origini del libro: l'occasione letteraria e la motivazione politica.
«L'origine di questo libretto può spiegare le più evidenti lacune, la mancanza di note e di qualsiasi bibliografia. Esso è stato scritto nel più gran segreto, pochi mesi prima della mia evasione da Lipari, l'isola dove ero stato confinato dal fascismo. L'opera risente fatalmente dello stato di particolare tensione in cui fu elaborata. Tutte le astuzie furono adottate per sottrarla alle frequenti perquisizioni. (Rimase a lungo nascosta in un vecchio pianoforte). Più che un'opera di erudizione, questa vuole essere la franca confessione di una crisi intellettuale che so assai diffusa nella giovane generazione. Tale crisi è stata sempre, d'altronde, la crisi del marxismo»1.
Queste sono le prime righe della prefazione che Rosselli scrive per la versione francese di Socialismo liberale . A ben vedere, la parola confessione è quella che meglio può spiegare l'occasione letteraria di questa opera: il nostro ne redige le bozze (note manoscritte raccolte in fascicoli, poi diventati i capitoli del libro) al confino, fra il 1928 e il 1929, senza la certezza di poterle un giorno pubblicare e senza neanche conoscere chiaramente a quale pubblico avrebbe, eventualmente, inoltrato la proposta politica ivi contenuta. Non diversamente dalle note dal carcere di Gramsci, Socialismo liberale è un coraggioso esame di coscienza di un uomo sconfitto dal fascismo che prova pervicacemente, anche a pena di gravi ritorsioni da parte dei suoi arcigni controllori , a resistere intellettualmente all'otium forzoso che le circostanze gli impongono.
Marion ricorda così gli eventi che avevano indotto l'animo del marito a scrivere: «Carlo era stato mandato a Lipari dopo un anno di carcere passato a Como e a Savona. Era stato processato a Savona nel 1927 per aver organizzato ed eseguito l'espatrio del vecchio e amato capo del Partito Socialista, Filippo Turati. [.]Carlo e i suoi complici [.] si erano fatti una reputazione di temerarietà sia per il metodo della fuga di Turati, sia per la loro difesa davanti alla Corte. Carlo non avrebbe potuto fare di meno, non avrebbe potuto fare di più, per la causa della libertà italiana. La sua coscienza era in pace. Ma come poteva restare in pace con la prospettiva di cinque lunghi anni d'inazione davanti a sé? Siccome era, prima d'ogni altra cosa, un uomo d'azione, pochi giorni dopo il mio arrivo lo trovai che stava discutendo appassionatamente progetti di fuga con Emilio Lussu. Ma siccome la fuga esigeva tempo per essere organizzata [.], egli si volse ad un lavoro di pensiero, intuendo vagamente che l'occasione difficilmente si sarebbe ripresentata. Fu così che egli annotò le idee che lo avevano sempre accompagnato nell'iscriversi e più tardi nel lasciare il partito socialista»4.
Rosselli vuole esprimere organicamente il proprio messaggio ideologico. Da questo punto di vista Socialismo liberale nasconde una complessità che non si può semplicemente ricondurre alla situazione ambientale nella quale è stato pensato, e nemmeno gli sforzi esegetici più autorevoli sono riusciti a darne un giudizio definitivo.
Certamente il libro, non diversamente da molti altri scritti precedenti di Rosselli, ha il proprio filo conduttore nel tentativo di trovare un nuovo indirizzo ideologico per il socialismo italiano capace di superare il suo tradizionale orientamento marxista. Tale concordanza tematica spinge Salvemini, Garosci e Tranfaglia a ritenere che nella «franchezza assoluta» con la quale l'autore propone la propria «coraggiosa revisione delle premesse morali e intellettuali» del pensiero socialista non vi sia alcunché di 'originale' ma, semplicemente, la risistemazione espositiva di una linea teorica che già a partire dalla tesi sul sindacalismo aveva dimostrato i suoi contorni e i suoi limiti .
A questa corrente di giudizio 'classica', 'continuista', si contrappone l'opinione di Mastellone per la quale «il testo politico Socialismo liberale di Carlo Rosselli non è il semplice ripensamento di scritti precedenti, è una riflessione approfondita fatta tra il carcere e l'esilio» . Mastellone, in effetti, nel suo, già ampiamente citato, Carlo Rosselli e la «rivoluzione liberale del socialismo», analizzando la stratificazione delle diverse ipotesi di bozza della prefazione e del capitolo VI del libro, poi scartate, vuole dimostrare che Rosselli aveva in animo non solo di riproporre le proprie convinzioni politiche già consolidate, ma di approfondirle ed arricchirle di nuove suggestioni .
Bagnoli concorda, almeno parzialmente, con tale interpretazione: Rosselli, in Socialismo liberale, oltre a dare «ordine e completezza ai temi che aveva affrontato nel dibattito giornalistico tra il 1923 ed il 1926»10, sottolinea quattro aspetti del suo pensiero che fanno del libro un testo originale, tanto rispetto al resto della sua elaborazione dottrinale, quanto nei confronti delle altre opere a carattere politico ad esso contemporanee.
In primo luogo Bagnoli evidenzia come il fiorentino analizzi in modo nuovo il rapporto fra socialismo e giovani generazioni: il movimento operaio, «chiuso dentro il sistema ideologico del marxismo ed irretito nella prassi politica del giolittismo, [.] non seppe cogliere le esigenze del nuovo ceto intellettuale che si orientava verso altre idee, altri ideali».
Da questa prima considerazione si desume un secondo aspetto del ragionamento rosselliano: la sinistra ha perso il consenso dei giovani poiché non ha interiorizzato il «"problema di libertà"» che sta alla base del mancato sviluppo della cultura politica nazionale. «Aver avuto presente ciò, [.]avrebbe voluto dire avere coscienza della questione italiana in termini unitari» e «liberarsi dall'ancoraggio al marxismo». Bisogna rifondare il socialismo attraverso il liberalismo: esso «si rende conto di cosa significa libertà».
In terzo luogo Rosselli, seguendo Gobetti, definisce il fascismo come «"l'autobiografia di una nazione che rinuncia alla lotta politica, che ha il culto dell'umanità, che rifugge dall'eresia, che sogna il trionfo della felicità, della fiducia, dell'entusiasmo". Il fascismo [.] è la conferma della condizione storica di un paese che ha rinunciato a costruire la propria storia con il metodo liberale».
«Socialismo liberale -ecco la conclusione di Bagnoli- non è solo un a saggio teorico, di critica ideologica e di revisione storica; è anche un manifesto politico in cui il problema della rinascita democratica dell'Italia post-fascista è ben presente nel quadro delle responsabilità che, per Rosselli, competono ad un socialismo rifondato in termini liberali»11.
A mio parere, la lettura diretta di Socialismo liberale consiglia di dare sostanzialmente ragione a questo giudizio. Benché non sia infrequente imbattersi in passi che ricalcano fedelmente i concetti (e financo le parole) già espressi in scritti precedenti, tuttavia il saggio presenta, rispetto a questi ultimi, vari elementi di novità: è il frutto di una meditazione più matura e consapevole da parte dell'autore, che cerca, attraverso un notevole sforzo maieutico, di penetrare, più a fondo di quanto avesse mai fatto prima, le argomentazioni a sostegno delle proprie convinzioni. Parafrasando Gramsci si può forse dire che gli otto capitoli nei quali è strutturato il libro12 sono il frutto del processo di un "pensiero in sviluppo"; e in esso è possibile cogliere il leit-motiv che deve essere più importante delle singole affermazioni casuali e degli aforismi staccati
Come è stato detto per i Quaderni gramsciani , probabilmente anche per Rosselli si può dire che tutto ciò che egli è stato sino al 1929-1930, attraverso i modi della sua formazione e del suo sviluppo, rivive in Socialismo liberale, ed è, in questo rivivere, giudicato, approfondito e sviluppato.
3.1.2 La critica al marxismo.
Il motivo centrale di Socialismo liberale, già si è detto, è la ricerca di una dottrina del socialismo che superi la sua tradizionale impostazione marxista. Per fare ciò l'autore, primariamente, sviluppa la pars destruens della sua argomentazione: bisogna abbattere il totem marxista che imprigiona le spinte al rinnovamento.
Esiste una contrapposizione latente fra la giovane generazione socialista, che vive gli effetti della "crisi intellettuale" della dottrina tradizionale, e della quale lo stesso autore si fa interprete e testimone, e le forze della conservazione: «Sono in giuoco ormai i fondamenti primi della dottrina, e non solo le pratiche applicazioni. E' la filosofia, la morale, la stessa concezione politica marxista che ci lascia profondamente insoddisfatti e ci spinge per nuove strade verso più ampi orizzonti»15.
La svolta è epocale e la critica radicale: vuole confutare «l'orgoglioso proposito di Marx [.] di assicurare al socialismo una base scientifica, di trasformare il socialismo in una scienza, anzi nella scienza sociale per definizione»16. La concezione materialistica della storia che accompagna questo obiettivo è, secondo il nostro, l'elemento basilare della natura eminentemente meccanicistica e deterministica del pensiero marxista. La profonda convinzione che le forme organizzative e, addirittura, la stessa esistenza della sovrastruttura sociale siano funzione diretta ed univoca della struttura economica e delle sue dinamiche interne, ha portato Marx a ritenere che il socialismo sia «nei fatti [.] e si sarebbe avverato non per opera di una immaginaria volontà libera degli uomini, ma di quelle forze trascendenti e dominanti gli uomini e i loro rapporti che sono le forze produttive nel loro incessante svilupparsi e progredire» .
Il «bisogno economico»18 è la premessa del materialismo storico; la lotta di classe il suo corollario. Infatti, secondo l'interpretazione di Rosselli di quella teoria, per soddisfare il bisogno economico «gli uomini sono costretti a ricorrere a metodi e rapporti di produzione che sono indipendenti dalla loro volontà. [.]Tutti i fenomeni della vita sociale, politica, spirituale, hanno un carattere derivato, relativo, storico, in quanto sono un prodotto del modo e dei rapporti di produzione. Il processo storico è la risultante di una immanente legge dialettica [.]; si svolge cioè in virtù e attraverso un perenne contrasto [.] tra le forze espansive e le forze simbolizzate dai preesistenti rapporti sociali. Il passaggio da una fase produttiva all'altra si avvera per una ferrea intrinseca necessità ad opera di leggi storiche, correlative ai vari sistemi produttivi. Espressione di questo contrasto tra forze di produzione e forme cristallizzate di vita sociale è la lotta di classe. Tutta la storia si risolve in una indefinita serie di lotte di classi. Questa lotta è sempre terminata col trionfo delle esigenze della produzione, cioè con la vittoria politica della classe che queste esigenze, anche inconsapevolmente, impersona» .
Nel sistema capitalistico di produzione la lotta di classe tra proletariato e borghesia è generata dalla «contraddizione intima insuperabile tra il carattere sempre più collettivo del sistema produttivo e quello individuale e monopolistico del sistema di appropriazione dei mezzi di produzione e di scambio. [.]Questa contraddizione [.] condurrà necessariamente alla negazione del regime borghese (categoria del valore che genera quella del plusvalore, che a sua volta genera l'accentramento dei capitali, l'immiserimento progressivo dei proletari, la scomparsa dei ceti medi, la sovraproduzione, la crisi)»20.
Il contrasto fra le due grandi classi «terminerà necessariamente [.] con la vittoria del proletariato che si fa portatore delle esigenze espansive delle forze di produzione. Il proletariato conquisterà violentemente il potere politico e abolirà il modo borghese di appropriazione [.] socializzando i mezzi di produzione e di scambio. Lo Stato e tutte le differenze di classe scompariranno»21.
Rosselli, uomo d'azione, indomito mazziniano, non riesce -non può- apprezzare affatto la dottrina di Marx, l'ineluttabilità 'matematica', stringente, delle sue asserzioni. Non è concepibile, infatti, per lui, sostituire l'eroismo degli atti volontaristici con il freddo calcolo delle leggi economiche. Volontarismo, ecco la parola, il concetto che separa la sua concezione antropologica da quella del socialismo scientifico. Spiega: «il problema centrale del marxismo, come dottrina del moto proletario, sta nel ruolo che esso assegna all'elemento umano, al fattore volontà. [.]Nel sistema marxista abbiamo a che fare con una umanità sui generis, composta da uomini per definizione non liberi, operanti sotto la spinta del bisogno, costretti a ricorrere a metodi produttivi indipendenti dal loro volere e ad accedere a rapporti sociali imperativi. Essi hanno un solo titolo per essere considerati fattore efficiente del processo storico: l'essere parte integrante del meccanismo produttivo. Gli altri aspetti sono derivati e secondari, funzione dello sviluppo delle forze produttive. [.]Psicologicamente parlando, l'uomo di Marx non è che l'homo oeconomicus di Bentham. [.]Le reazioni che questo homo oeconomicus offre non sono reazioni spontanee ed autonome, ma determinate dal modificarsi dei rapporti produttivi e quindi dei rapporti sociali. E' appunto partendo da questa costante psicologica che Marx assume come pacifico che i proletari si rivolteranno non appena si saranno loro rivelati lo stato di soggezione in cui versano e le cause di questa soggezione. Ma è chiaro che la causa determinante di questa rivoluzione interiore non risiede in loro, ma nel meccanismo esteriore della produzione capitalistica»22.
La rigidità del modello teorico grazie alla quale l'«iroso topo di biblioteca»23 disegna la dinamica dei fenomeni sociali non ammette alcun tipo di variante volontarista poiché anche una sola di queste 'deviazioni' condurrebbero a considerazioni di natura etica o morale assolutamente incompatibili con l'esattezza del proprio schema. «Se Marx avesse assegnato una influenza autonoma e determinante alla volontà umana,» afferma, infatti, Rosselli, «non si spiegherebbe il suo scherno per tutti coloro che appoggiavano le rivendicazioni proletarie sul terreno della morale e del diritto. Se la volontà deve intervenire, tutti gli stimoli che concorrono a volgerla nel senso auspicato debbono essere potentemente incoraggiati. Invece egli considera come profondamente errata e pericolosa una propaganda socialista facente appello a un principio di giustizia. In Marx è sempre presente la preoccupazione di tradire, nell'impeto della polemica, il fondo storicistico del suo pensiero. [.]Le leggi immanenti della produzione capitalistica si impongono ai capitalisti come "leggi coercitive esterne". La loro volontà è fuori giuoco. E' bene anzi che essi non tentino di ribellarsi al ruolo che loro impone la dialettica storica. Perderebbero il loro tempo e ritarderebbero i futuri svolgimenti. Il proletariato, dal suo canto, non può accusare il capitalismo in linea morale e giuridica. Morale e diritto sono categorie storiche, puri riflessi delle correlative strutture economiche» .
La mancanza di fondamenti giusnaturalisti (in senso lato) conduce il marxismo a risultati paradossali: «I capitalisti hanno le carte in regola con la morale e il diritto propri dell'era capitalistica. Se sfruttano i proletari [.] non fanno che obbedire alle "leggi immanenti" di scambio in regime capitalistico. [.]I borghesi, scrive sempre Marx, hanno perfettamente ragione di sostenere che l'odierna ripartizione è "giusta", perché in realtà "essa è l'unica 'giusta' ripartizione sulla base dell'odierna forma di produzione". Non a torto si definì il Capitale la più intransigente apologia del Capitalismo»25!
Ma come superare l'obiezione secondo la quale la teoria della lotta di classe costituisce il lato volontaristico del pensiero di Marx? Secondo il fiorentino «è d'uopo distinguere tra la formulazione generale della teoria della lotta di classe -in nulla contraddicente alla linea deterministica del suo pensiero- e la applicazione particolare che egli ne ha fatto al caso della lotta tra proletariato e borghesia. In linea generale Marx si limita ad affermare che la lotta di classe è il risultato necessario del contrasto esistente nelle cose stesse. [.]Nella applicazione della teoria generale al caso particolare della lotta tra proletariato e borghesia, non si può invece negare che Marx abbia abbandonato talvolta, specie negli scritti di propaganda, la posizione deterministica [.]. Ma ciò, oltre che essere dovuto all'intimo contrasto tra la sua natura di scienziato e di agitatore, era in funzione del dubbio che egli nutriva intorno alle conseguenze della lotta che appena cominciava a disegnarsi. Mentre per il passato egli poteva sicuramente affermare che il contrasto era sempre terminato col trionfo della classe che [.] esplicava una funzione rivoluzionaria, per l'avvenire il suo senso storico gli vietava una ipoteca troppo assoluta. Cosicché a lato della ipotesi normale egli affacciava anche l'ipotesi che la lotta potesse risolversi con l'esaurimento dei due contendenti, magari per difetto di consapevolezza storica nel proletariato. Con questo dubbio si concorreva a legittimare lo sforzo per la propaganda, l'organizzazione e l'azione insurrezionale; e in questo dubbio [.] sta invero l'unico momento volontaristico del sistema» .
3.1.3 Dal revisionismo al fascismo.
Dopo aver esposto i motivi del proprio j'accuse contro il marxismo, l'attenzione di Rosselli si sposta sull'analisi dello sviluppo storico di quella esperienza ideologica.
Ritiene che la storia del marxismo possa essere suddivisa in tre fasi: «la fase religiosa, la fase critica e la fase attuale di netto superamento. Nella prima che si può arrestare intorno al 1900, il sistema marxista, nella sua interezza, ricevette la quasi unanime ed entusiastica adesione della élite socialista continentale. [.]Il marxismo trionfava non tanto per gli intrinseci contributi recati alla conoscenza del mondo capitalistico, quanto per la sicurezza che riusciva a instillare nei militanti della natura razionale delle loro fede e per il suo appello a quel metodo positivo allora tanto in onore» .
La seconda fase, della critica revisionista, nasce e si sviluppa come interfaccia teorica dell'attività pratica delle organizzazioni sindacali: «La prassi riformista [.] del movimento operaio socialista, si è affermata in tutti i paesi quasi in sordina, più per forza maggiore e per la lezione delle cose, che per consapevole elezione; e sovente contro i disegni dei teorici. [.]Nel sistema marxista la sfera di azione utile assegnata al sindacato è ristrettissima e vale solo per i suoi riflessi politici. In tutta Europa, esclusa l'Inghilterra [.], si verificò sin dagli inizi un contrasto tra partiti e sindacati, a spese apparentemente del moto sindacale che si volle subordinare al partito, ma in realtà a tutto danno dei partiti che si videro costretti a conciliare l'inconciliabile: cioè il momento pratico col teoretico, il semplicismo messianico del loro programma finalistico con le concrete rivendicazioni sindacali»28.
E' grande la distanza che intercorre fra la concezione antropologica, l'impostazione etica, gli scopi dei due mondi del moto socialista: «In sostanza il movimento sindacale non ha mai aderito al programma e, più che al programma, allo spirito e alla forma mentis marxistica. Di tutte le tesi marxistiche non ha salvato -coi dovuti temperamenti- che il principio della lotta di classe e della autoemancipazione proletaria. [.]Per il resto ha rinnegato implicitamente tutte le tesi marxiste affermando la possibilità e la desiderabilità di una trasformazione graduale della società borghese con le armi del voto, della contrattazione, dell'agitazione, cioè col ricorso al metodo democratico. Pur facendo leva sulla forza del numero e sul peso degli interessi, si è guardato bene dall'irridere, come vuole il marxismo, la vecchia piattaforma giusnaturalistica e moralistica; e non invano ha fatto appello agli innati diritti della personalità e a un principio superiore di giustizia. Lungi dal legittimare in linea storica il potere e la funzione borghese, e dall'inchinarsi di fronte alla necessità, sia pur transeunte, delle leggi di scambio della forza lavoro in regime capitalistico, ne ha contestato la validità etica e ne ha iniziata la erosione in sede contrattuale. Alla visione drammatica e pessimistica del processo sociale ha sostituito una visione ottimista, costruttiva, ripugnante dai semplicismi e dalle contraddizioni lineari in cui si compiaceva il marxismo»29.
Visioni diverse, metodi d'azione diversi: «Al posto dei piccoli clan rivoluzionari, vegetanti nell'ombra in attesa della crisi finale, sono subentrate le possenti organizzazioni sindacali muoventesi alla luce del sole [.]. Dal partito politico [i lavoratori] non attendono più il comando per l'insurrezione, ma pretendono invece la organica azione in Parlamento e nei corpi pubblici per la difesa di una atmosfera di piena libertà e il conseguimento di una legislazione protettrice del lavoro»30.
Date le sue origini, «il revisionismo, più che sforzo sistematico di critica e di integrazione del marxismo ad opera di una corrente solidale di scrittori, deve considerarsi come la protesta, variamente atteggiata e motivata, della nuova generazione socialista contro il piatto conformismo dei marxisti puri incapaci di adattare la teoria alla nuova prassi operaia e di concepire un socialismo non strettamente legato alla posizione materialista in filosofia» . In sostanza, secondo Rosselli, ciò che accomuna gli esponenti del revisionismo è l'intento di infrangere le barriere che la tradizione aveva posto alla libertà dell'agire umano, è lo «sforzo di far posto, nel sistema marxista, alla volontà e all'ottimismo del moto operaio» .
Nelle intenzioni dei revisionisti, questo sforzo si sarebbe dovuto compiere in armonia con i canoni 'classici':«Si trattava solo di correggere alcune unilateralità, di combattere atteggiamenti troppo assoluti in tema di tattica [.]. Nessuno pensava di attentare ai fondamenti del sistema cui tutti professavano ossequio. [.]La revisione voleva mantenersi interna al sistema e procedere cautamente con l'aiuto di innumeri citazioni marxiste, per sostituire al Marx tutto angoli e spigoli della tradizione ortodossa, un Marx più complesso ed umano. [.]Col risalire dal sistema all'autore [.], coll'insistere abilmente sulle esperienze e influenze giovanili, e coll'interpretare poi, alla luce di questi più complessi elementi, i secchi teoremi marxisti, non riuscì difficile ai revisionisti dimostrare il semplicismo e l'unilateralità della interpretazione sino allora corrente. [.]Ma.chi gladio ferit, gladio perit. Il marxismo è una costruzione dogmatica, non sopporta il bacillo critico. Anche il revisionismo, nonostante tutte le cautele [.] non poté sottrarsi al fato di tutte eresie: che cominciano appunto con riserve di carattere marginale per finire con la totale sovversione»33.
A prova massima di ciò Rosselli cita la teoria del rovesciamento della praxis di Mondolfo: «Lo scopo di Mondolfo è quello di estrarre dal marxismo una filosofia del socialismo che si concili pienamente con una visione attivistica del processo storico, senza cadere negli eccessi del volontarismo estremo. Il rapporto tra l'uomo e il suo ambiente storico-sociale, egli dice in sostanza, non è un rapporto tra due cose esterne l'una all'altra, ma è un rapporto di azione-reazione, rapporto dialettico, all'interno di un'unica realtà. Il soggetto conosce l'oggetto in quanto lo produce; il soggetto è l'uomo sociale che, spinto dai suoi bisogni, da una perpetua insoddisfazione della realtà in cui vive, si sforza di mutare le forme e i rapporti sociali dapprima esistenti. E' in questo sforzo [.] che egli acquista coscienza della realtà e della sua insufficienza. [.]Il concreto processo storico consiste nello svolgersi della attività umana in una continua lotta interiore, in cui l'avverarsi continuo di contraddizioni da superare costituisce la condizione e l'essenza stessa della storia. [.]L'umanità lotta dapprima contro le condizioni naturali e poi contro le condizioni sociali da essa stessa create che divengono col tempo impedimento allo sviluppo ulteriore»34.
Il corso degli eventi umani, quindi, è regolato dallo svolgersi della lotta di classe fra le forze di espansione, rappresentate dalle forze di produzione, e le forze della conservazione, cioè le classi interessate al mantenimento delle forme e dei rapporti sociali esistenti. «Lo sviluppo storico», quindi, «risulta [.] dalla confluenza e dal contrasto insieme di due elementi: le condizioni reali e la volontà umana. Nella storia non c'è posto [.] per azioni e creazioni arbitrarie: l'azione ha contro di sé le sue condizioni e i suoi limiti. Lo stesso scoccare dell'ora delle rivoluzioni è segnato da una intrinseca necessità, la quale, allo stesso modo che le rende inevitabili quando siano mature, le rende impossibili quando manchi la pienezza delle loro condizioni. Questo concetto di necessità storica -conclude Mondolfo- è il concetto stesso di rovesciamento della praxis, ed è il nucleo essenziale del materialismo storico»35.
A questo punto il nostro muove la sua critica: questa teoria non è conciliabile con quella di Marx poiché nel pensiero di quest'ultimo i termini dello sviluppo storico non sono costituiti dal binomio mondolfiano 'condizioni reali-volontà umana' bensì da quello 'sviluppo tecnico-rapporti sociali'. Mondolfo, rendendosi conto di questa incongruenza, è costretto, per avvalorare le sue tesi, a «sforzare fino all'inverosimile le formule marxiste, sostituendo alle espressioni "forze produttive", "sistema di produzione" -espressioni inequivocabili in Marx- gli "uomini" nella totalità del loro essere» .
Al di là del contributo che le teorie di questo o di quell'esponente può fornire per la comprensione del revisionismo, si impone la necessità di trarre le somme dell'esperienza di quella corrente. «Che rimaneva in piedi, dopo l'ondata critica, del sistema marxista? L'unità del sistema risultava spezzata. Il materialismo storico era trasformato in una eclettica quanto generica teoria storiografica che abbracciava tutto e non stringeva nulla. Il revisionismo rigettava il determinismo, dichiarava gli uomini, nella totalità del loro essere -e non quali meri elementi del processo produttivo- al centro del processo storico; sostitutiva al rapporto di dipendenza tra economia e ideologia [.] un legame di complessa interdipendenza, pur riconoscendo, specie per le epoche trascorse, la estrema importanza del fattore economico; rigettava la teoria del valore [.] in sede di stretta economia pur difendendone l'assunto in sede etica e giuridica»37.
Coloro che volevano rivisitare il pensiero di Marx per riaffermarne la superiorità, sono andati ben oltre i propositi originari: «La conclusione logica cui conduce il revisionismo è la rottura tra socialismo e marxismo. Il revisionismo ha difatti confutato o tacitamente abbandonato tutte le tesi marxiste che più strettamente si collegavano alla posizione socialista; mentre ha valorizzato le tesi più propriamente filosofiche o sociologiche (materialismo storico, lotta delle classi) che, per il valore sempre più universale e obbiettivo che vanno assumendo, non possono essere monopolio di nessuna parte politica. Dalla interpretazione che del marxismo danno i revisionisti, discendono logicamente due conseguenze: 1) che si può essere marxisti senza essere socialisti; 2) che si illudono quei socialisti che ancora credono di ritrovare nel marxismo il principio informatore, la guida, del concreto movimento socialista»38.
Date queste premesse, il fiorentino trae le conseguenze ultime della sua disamina: «In verità al marxismo dei revisionisti ripugna ogni preciso elemento finalistico; o meglio, dalla loro posizione teoretica non discende alcuna conseguenza pro o contro il socialismo. [.]Per una conclusione socialista si richiede l'intervento di dati empirici (catastrofismo marxista) o di un elemento di fede. [.]Io reputo sterile il tentativo di collegare troppo strettamente le posizioni filosofiche con quelle pratiche. Ma se questo collegamento si vuole fare per la teoria del materialismo storico, con la interpretazione revisionista non è nel socialismo che si sbocca, ma in pieno liberalismo. [.]Col revisionismo viene [.] meno quello che era il carattere distintivo del sistema marxista: cioè la dimostrazione obbiettiva e rigorosa di una soluzione socialista. Dal marxismo si passa al revisionismo, e dal revisionismo al liberalismo. Queste tappe sono fatali. Già Bernstein, trent'anni fa, lasciò intendere che questa sarebbe stata la conclusione. Il moto socialista è tutto, egli disse, e il fine è nulla. O il fine in tanto vale in quanto alimenta il moto. La sua formula era quella di un socialista liberale. Parve scandalo allora. Si avvia oggi ad essere la posizione caratteristica di tutta la nuova generazione socialista»39.
Questa, per sommi capi, è stata la storia del marxismo in Europa e della sua evoluzione (o involuzione) revisionista. In questa storia si inserisce, di riflesso e tardivamente, l'esperienza socialista italiana.
Dopo le prime entusiastiche adesioni da parte di un gran numero di intellettuali, il marxismo, date le condizioni economiche e sociali del paese oggettivamente non favorevoli alla sua applicazione («immensa plebe rurale, legata ancora alla gleba e al prete, con vastissime oasi artigiane e rare avanguardie proletarie e capitaliste»40), subisce, già dagli inizi del '900, tutta una serie di adattamenti e di rimaneggiamenti che conducono il movimento operaio a oscillare (consapevolmente o meno) fra l'insurrezione rivoluzionaria (assassino di Umberto I, agitazioni e scioperi del 1900-1907) ed il ministerialismo filo-giolittiano.
Crisi drammatica, sostiene Rosselli: il P.S.I., ancora formalmente legato alla lettera dell'insegnamento di Marx, non sa accompagnare la propria trasformazione in partito di governo con un adeguato rinnovamento degli indirizzi ideologico-programmatici. E' il caos intellettuale ed organizzativo: i congressi non sono più il luogo deputato all'elaborazione politica ma, assai meno nobilmente, l'occasione propizia per i vari stadi del compromesso fra l'ala rinnovatrice (i riformisti-revisionisti), e i tradizionalisti più o meno ortodossi (rivoluzionari e massimalisti). Entrambe le fazioni, in nome dell'unità dell'azione proletaria, non riescono ad evitare la condizione da separati in casa: la prima, per paura di disorientare la 'base', non osa dire chiaramente che era finita l'era marxista; la seconda, con un'azione nella medesima direzione ma di verso opposto, tenta di accattivarsi il consenso degli iscritti al partito offrendo varianti programmatiche sempre più estremiste e battagliere.
Il popolo socialista, e specialmente i giovani, percepisce il grave stato di incertezza nel quale versa il movimento, ma il proprio accorato tentativo di rinnovamento rimane inascoltato: «Dopo il 1908 la crisi intellettuale e morale aveva assunto un carattere così allarmante da richiamare l'attenzione di alcuni fra i migliori, come [.]Turati, che avvertiva essere le forze del partito scemate d'importanza e di numero, la vita dei circoli anemica, le idee incerte, il fervore dei propagandisti sbollito e generale il senso di rilassamento. [.]La gioventù -intendo la intelligencija- corse tutte le esperienze, fuor che quella socialista che, nella serra calda giolittiana, appariva intellettualmente conclusa e priva di passione. [.]Il socialismo non interessava più. [.]I giovani hanno bisogno di credere alla nobiltà, alla purezza, alla chiarezza degli ideali professati. [.]La nuova generazione tutta idealista, volontarista, pragmatista, non capiva il linguaggio materialistico, positivistico, scientificistico dei vecchi. I quali, anziché sforzarsi di penetrare le ragioni intime di questa reazione, si chiusero in una incomprensione cieca e settaria, e irrisero i nuovi atteggiamenti, negando a priori un socialismo non positivistico e definendo semplicisticamente i filosofi servi della borghesia»41.
I non possumus con i quali vengono respinte tutte le novità non sono però, secondo Rosselli, soltanto l'espressione dell'ostilità di una conventicola di partito verso un'altra. Da quel momento in poi le scomuniche dei vecchi discepoli dell'ortodossia socialista significano il proprio distacco dal mondo che cambia, che evolve. Rigettare le istanze giovanili equivale a non voler prendere atto del fatto che esiste un vuoto politico, morale, ideologico, esistenziale che può essere colmato soltanto attraverso il perseguimento di una fase più progredita della costruzione della coscienza democratica delle masse.
In tale spazio, in tale passività, si inserisce il fascismo: «L'unico tentativo pratico di rinnovamento avutosi all'interno del partito innanzi la guerra è dovuto al Mussolini. Avventuriero nel mondo della cultura non meno che in quello della politica, in lui difettava un pensiero saldo e coerente e una onesta preoccupazione intellettuale; alla sua frenetica volontà d'azione e di comando una cosa sola premeva: l'affermazione della sua persona. Le idee, i valori, le fedi [.] valevano in quanto potevano farsi strumenti della sua ambizione. Ma, dotato di un intuito non comune, egli -quasi unico- sentì come la vecchia posizione socialista non soddisfacesse il bisogno dei giovani e si dette a tutt'uomo a rinfrescarla facendo larga parte all'idealismo da un lato e al volontarismo pragmatista e bergsoniano dall'altro. Malgrado la sua intrinseca immoralità e la estrema superficialità della sua posizione rivoluzionaria egli riuscì a trascinarsi dietro gran parte della gioventù socialista e a impadronirsi clamorosamente del partito. [.]Si affermava la urgente necessità di un programma d'azione che sostituisse alle lotte per le riforme prevalentemente economiche che interessavano solo ristrette categorie di lavoratori, la lotta per una serie di grandi riforme politiche di interesse generale (riforma tributaria, doganale, comunale, militare) [.] capaci di creare nel popolo quella coscienza politica che è la premessa indispensabile per il nascere di una moderna democrazia»42.
A questo punto, gli sembra chiaro che «occorre [.] una rude scossa intellettuale che sottragga i socialisti italiani al loro passivismo ideologico, costringendoli a pensare autonomamente e a conquistare con duro personale travaglio di ricerca, di dubbi e di contrasti i nuovi valori da sostituire alla fede cieca nelle virtù taumaturgiche degli specifici marxisto-materialisti»43.
Ed aggiunge: «E' forse venuta l'ora di mettere l'accento sul momento della libertà»44, di esporre, cioè, la pars construens del proprio credo.
3.1.4 Il nuovo umanesimo socialista.
Quando intraprende la stesura delle bozze, Rosselli non ha una idea precisa riguardo al titolo da attribuire al suo lavoro: scrive i capitoli secondo una successone diversa da quella presente nella pubblicazione, e differisce tale decisione al momento della correzione del manoscritto. E' palese che la scelta del titolo informerà di sé l'intero testo ed egli non sa se insistere sui contenuti critici o, piuttosto, fare risaltare la parte propositiva. Opta per la seconda possibilità anche se ciò potrebbe costargli anatemi e scomuniche per eresia (che, infatti, non tarderanno a venire).
Il suo scopo non è quello di rinnovare la dottrina marxista, bensì quello di superarla45. Intitolando il suo scritto Socialismo liberale, vuole spostare la furia delle polemiche dalla sua demolizione del marxismo alle conseguenze logiche di quella critica.
Quasi incidentalmente il nostro, già nella premessa, edifica le fondamenta di quel proposito: «Nella parte ricostruttiva del libro mi sono proposto di offrire, sia pure di scorcio, il quadro di una rinnovata posizione socialista che io amo chiamare socialista liberale. Dal punto di vista storico questa formula sembra racchiudere una contraddizione, poi che il socialismo sorse come reazione al liberalismo -soprattutto economico- che contraddistingueva il pensiero borghese ai primi dell'ottocento. Ma dall'ottocento ad oggi molto cammino si è fatto e molte esperienze si sono accumulate. Le due posizioni antagonistiche sono andate lentamente avvicinandosi. Il liberalismo si è investito progressivamente del problema sociale e non sembra più necessariamente legato ai principi dell'economia classica, manchesteriana. Il socialismo si va spogliando, sia pure faticosamente, del suo utopismo ed è venuto acquistando una sensibilità nuova per i problemi di libertà e di autonomia. E' il liberalismo che si fa socialista, o è il socialismo che si fa liberale? Le due cose assieme. Sono due versioni altissime ma unilaterali della vita che tendono a compenetrarsi e a completarsi. Il razionalismo greco e il messianesimo d'Israele. L'uno domina l'amore per la libertà, il rispetto delle autonomie, una concezione armoniosa e distaccata della vita. L'altro una giustizia tutta terrena, il mito dell'eguaglianza, un tormento spirituale che vieta ogni indulgenza»46.
La premessa fondamentale di questa posizione è la profonda convinzione che la rifondazione del socialismo possa essere attuata soltanto attraverso il rinnovamento totale della scala dei valori sociali, sul piano etico, e l'autodeterminazione delle coscienze, su quello morale. «Dileggiando tutte le categorie dell'etica,» scrive Rosselli, «sconoscendo i problemi della coscienza, rinviando i problemi [della] educazione all'indomani della rivoluzione (cioè della trasformazione ambientale), negando financo un principio di libertà, il marxismo precludeva alle masse ogni slancio idealistico, ogni sforzo di perfezionamento interiore, ogni capacità di intuire in un ordine più elevato il vaticinato paradiso. [.]La filosofia marxista -proclama De Man- non è che il risultato dello stato sociale proletario, l'indice della sua inferiorità e della sua soggezione allo spirito del capitalismo. L'etica marxista -in realtà inesistente, ché di etica ve n'è una sola, senza aggettivi: l'etica di Socrate, di Cristo e di Kant- non è che l'etica liberale (utilitaristica) fondata sull'homo oeconomicus. La religione mascherata del cinismo e del materialismo proletario non è che un capitalismo di segno contrario. I marxisti non hanno mai capito che il rafforzamento del movente economico, cui conduce fatalmente la loro dottrina, se dapprima ha risposto pienamente al suo ufficio, oggi impedisce la costruzione di una civiltà nuova e porta il movimento alla corruzione»47.
L'obiettivo risulta, a questo punto, delineato: il rinvigorimento del moto proletario passa attraverso il concepimento di un nuovo umanesimo socialista che, prendendo realisticamente atto delle passioni, dei bisogni, della psicologia operaie, collochi l'uomo al centro del mondo che lo circonda, metro di tutte le cose. Bisogna avere, cioè, il coraggio di scommettere sulla possibilità che il proletariato tragga dalle proprie energie e dai propri limiti la forza di compiere la propria emancipazione politica e la propria redenzione esistenziale: «Il socialismo deve correggere, pena la paralisi, la sua piattaforma nazionale, materiale, determinista, economicistica. Deve tornare alle origini e ridiscendere nel cuore delle masse e abbeverarsi di nuovo a quella che è la linfa vitale del movimento. Gradualista o rivoluzionario che sia -ha bisogno di una integrazione etica, di una impostazione volontaristica. Ha parlato sinora quasi esclusivamente di interessi, di diritti, di benessere materiale. Deve ora parlare più spesso di idealità, di doveri, di sacrifici. Si è troppo divinizzato il proletariato, facendone il rappresentante di tutte le più pure virtù; e troppo semplicisticamente si sono fatte risalire tutte le sue deficienze e miserie alla malvagia organizzazione sociale. L'uomo allo "stato di natura" di Rousseau è diventato, nel secolo XIX, il "popolo" di Mazzini e il "proletariato" di Marx. Il "proletariato" è assurto al rango di categoria filosofica; la Storia è diventata un epico poema in cui l'eroe proletario abbatte il mostro borghese; i proletari sono apparsi tutti naturalmente buoni e giusti, corrotti solo dall'ambiente e dalle ingiustizie sociali. Ragionando per astrazione si è perso il contatto con l'umanità concreta, coi viventi proletari. Accanto alla organizzazione sociale -senza dubbio grandemente responsabile- si è dimenticato che la imperfezione, limitatezza, debolezza del proletariato, prima e indipendentemente da ogni stato sociale o divisione di classe, deriva dalla sua qualità di uomo. L'homo homini lupus ha radici ben più profonde di quel che non supponga l'ingenua psicologia marxista ignorante tutti i problemi di coscienza e di educazione morale. Illusione che lo si possa vincere sul solo piano esteriore, con riforme puramente ambientali»48.
La concezione antropologica rosselliana rifugge ogni giudizio estremo: l'uomo allo stato di natura vive la condizione del bellum ominium contra omnes ma, attraverso una costante opera di educazione morale, è in grado di raggiungere le più alte vette della convivenza civile. L'idealità socialista è la dottrina che ricerca più tenacemente la civiltà poiché vuole conciliare la libertà individuale con l'interesse collettivo. «Il socialismo, colto nel suo aspetto essenziale,» questa la definizione di Rosselli, «è l'attuazione progressiva dell'idea di libertà e di giustizia tra gli uomini: idea innata che giace, più o meno sepolta dalle incrostazioni dei secoli, al fondo d'ogni essere umano; sforzo progressivo di assicurare a tutti gli umani una eguale possibilità di vivere la vita che solo è degna di questo nome, sottraendoli alla schiavitù della materia e dei materiali bisogni che oggi ancora domina il maggior numero; possibilità di svolgere liberamente la loro personalità, in una continua lotta di perfezionamento contro gli istinti primitivi e bestiali e contro le corruzioni di una civiltà troppo preda del demonio del successo e del denaro» .
Il socialismo ha, quindi, il compito di tradurre l'insieme dei diritti naturali dei quali ogni individuo è dotato in strutture politiche adeguate alla libertà di esercizio di quegli stessi diritti. Il movimento è apparentemente circolare: dall'individuo alla società e, nuovamente, all'individuo. Apparentemente poiché è l'individuo il motore di quel movimento: «la società in quanto organizzazione, è mezzo a fine, è strumento al servizio degli uomini, e non di entità metafisiche, siano esse la Patria, o il Comunismo. Non esistono fini della società che non siano, al tempo stesso, fini dell'individuo, in quanto personalità morale; anzi questi fini non hanno vita se non quando siano profondamente vissuti nell'intimo delle coscienze. La giustizia, la morale, il diritto, la libertà non si realizzano se non per quel tanto che si realizzano nelle singole individualità»50.
Ecco il problema del rapporto mezzo-fine: «se in sede politica -o tecnica- il problema della distinzione tra mezzo e fine è essenziale, e anzi il successo di ogni movimento dipende dalla esatta scelta dei mezzi, in sede morale la distinzione non ha ragione di essere posta, dappoiché il mezzo si confonde col fine. Il mezzo non solo deve essere conveniente al fine (problema tecnico), ma esserne penetrato. Questo principio, che è l'abc dell'idealismo, fu svolto con somma maestria dal Lassalle e, oggi, dal De Man. Esso porta di conseguenza a riconoscere che il principio della lotta di classe -nel quale, secondo molti socialisti moderni, starebbe tutto il moto socialista- non è di per sé sufficiente a dare una intuizione al fine; specie quando predicato in forma troppo assoluta. La universalità del fine, ecco ciò che assicura del valore etico. Ora la rigida contrapposizione di classe può da sola dare ai proletari l'intuizione del valore universale, etico, del socialismo? E' per lo meno dubbio. [.]Il De Man va così oltre nella sua dimostrazione, da negare addirittura l'importanza del fine ultimo, in sé considerato; o da riconoscergliela solo per quel tanto che esso fine riesce a vivere attualmente. [.]Proprio così. De Man ha detto bene e ha perfezionato, innalzandola, la famosa formula di Bernstein: il moto è tutto, il fine è nulla. Sì. Il moto socialista è tutto, in quanto però le volizioni, i motivi che vi presiedono siano tutti penetrati del fine socialista. Il fine vive così nelle nostre azioni presenti. Ciò equivale a dire che il socialismo non è un ideale statico e astratto, che potrà un giorno compiutamente realizzarsi. E' un ideale limite irraggiungibile che si realizza per quel tanto che riesce a permeare la nostra vita. Il socialismo, più che uno stato esteriore da realizzare, è, per il singolo, un programma di vita da attuare» .
Analizzato il primo termine della forma sincretica 'socialismo-liberale', è necessario esaminare il secondo. «Nella sua più semplice espressione il liberalismo può definirsi», secondo Rosselli, «come quella teoria politica che, partendo dal presupposto della libertà dello spirito umano, dichiara la libertà supremo fine, supremo mezzo, suprema regola della umana convivenza. Fine, in quanto si propone di conseguire un regime di vita associata che assicuri a tutti gli uomini la possibilità di un pieno svolgimento della loro personalità. Mezzo, in quanto reputa che questa libertà non possa essere elargita od imposta, ma debba conquistarsi con duro personale travaglio nel perpetuo fluire delle generazioni. Esso concepisce la libertà non come un dato di natura, ma come divenire, sviluppo. Non si nasce, ma si diventa liberi. E ci si conserva liberi solo mantenendo attiva e vigilante la coscienza della propria autonomia e costantemente esercitando le proprie libertà»52.
Le due metà del concetto combaciano, così, perfettamente. Il confronto delle definizioni conduce alla conclusione che «il socialismo non è che lo sviluppo logico, sino alle sue estreme conseguenze, del principio di libertà. Il socialismo, inteso nel suo significato più sostanziale e giudicato dai risultati -movimento cioè di concreta emancipazione del proletariato- è liberalismo in azione, è libertà che si fa per la povera gente»53. Perciò «il movimento socialista è [.] il concreto erede del liberalismo, il portatore di questa dinamica idea di libertà che si attua nel moto drammatico della storia. Liberalismo e socialismo, ben lungi dall'opporsi, secondo [quanto] voleva una vieta polemica, sono legati da un intimo rapporto di connessione. Il liberalismo è la forza ideale ispiratrice, il socialismo la forza pratica realizzatrice» .
La parte costruttiva del libro si completa con l'accostamento della sintesi socialismo-liberalismo al concetto di metodo democratico: «Si è detto che la posizione liberale è contrassegnata dalla fede nella libertà non solo come fine, ma anche come mezzo. La libertà non saprebbe conseguirsi attraverso la tirannia o la dittatura, e neppure per elargizione dall'alto. La libertà è conquista, autoconquista, che si conserva solo col continuo esercizio delle proprie facoltà, delle proprie autonomie. Per il liberalismo, e quindi per il socialismo, è fondamentale l'osservanza del metodo liberale o democratico di lotta politica; di quel metodo che, per la sua intima essenza, è tutto penetrato dal principio di libertà. Esso può riassumersi con una sola parola: autogoverno. Il metodo liberale vuole che i popoli e le classi, al pari degli individui, si amministrino da sé, con le loro forze, senza interventi coercitivi o paternalistici. La sua grande virtù pedagogica consiste appunto nell'assicurare un clima che sospinga tutti gli uomini ad esercitare le loro più alte facoltà, nell'approntare istituti che li inducano a partecipare attivamente alla vita sociale. [.]Per quanto non sia suscettibile di definizione rigida, si può dire che si concreti nel principio della sovranità popolare, nel sistema rappresentativo, nel rispetto dei diritti delle minoranze (in pratica nel diritto all'opposizione), nel solenne riconoscimento di taluni diritti fondamentali della persona definitivamente acquisiti alla coscienza moderna (libertà di pensiero, di riunione, di stampa, di organizzazione, di voto, ecc.), nel rinnegamento esplicito del ricorso alla violenza»55.
3.1.5 Le critiche a Socialismo liberale.
Nonostante lo scarsissimo numero di copie vendute (appena 856 in due anni), Socialismo liberale aprì un vasto dibattito che porta molte critiche al suo autore.
Fra gli anarchici, Luigi Fabbri, «pur concordando con molte argomentazioni di Rosselli», giudicò «il suo un socialismo non già "libertario", ma ancora "liberale", perché troppo sensibile all'esigenza del governo e dello Stato» .
Più circostanziati i giudizi di Saragat e Nenni. «Saragat riconobbe il rigore del discorso di Rosselli, che dal carattere deterministico del marxismo deduceva la sua inconciliabilità con il principio della libertà fondato sull'autonomia; contestava tuttavia la validità della premessa. L'errore di Rosselli per Saragat consisteva nel concepire l'autonomia non già unicamente e semplicemente come autodeterminazione, ma come arbitrio» .
«Nenni respinse l'accusa rivolta al marxismo di ignorare la libertà; al contrario invece sosteneva che con la sua azione, volta ad abolire tutti i condizionamenti economici e sociali mediante la lotta di classe, ne perseguiva la realizzazione integrale. Ugualmente respinse l'affermazione che esso irridesse i sacri principi e i valori dello spirito, quando soltanto ne denunciava la mistificazione intesa a coprire gli interessi delle classi dominanti»58.
Ma le critiche più feroci provennero da Treves e da Togliatti.
Treves fu aspro: «della revisione [del marxismo] il Rosselli non si contenta, chiede il ripudio totale [.]. Ora, come potrebbe avvenire cotale ripudio del marxismo di fronte al fascismo [.]? [.]La lotta presente si qualifica storicamente tra marxismo e fascismo. Potrebbe il marxismo cedere, svanire, scomparire? Sarebbe come dire che tutta l'Internazionale Socialista Operaia col suo popolo di 12 milioni di organizzati dovrebbe abbandonare il campo. [.]Al di là delle fantasie dei giovani che scoprono ad ogni generazione una novità nascosta da quaranta anni in tutti i musei per scagliarla contro le esigenze e le forme della lotta attuale, sta la categoricità di essa, in questo tempo nostro, scolpita in caratteri di bronzo, i cui profili non si cancellano per secondare le mutevoli mode della intelligentia universitaria»59. Secondo il direttore de La Libertà la pretesa del fiorentino di giudicare il percorso dei socialisti marxisti non è «né socialista né liberale» .
Togliatti si spinse ben oltre nella sua critica. Per l'esponente comunista «il leader di Giustizia e Libertà è un "ideologo reazionario che nessuna cosa lega alla classe operaia", "un dilettante dappoco privo di ogni formazione teorica seria", "un ricco, legato oggettivamente e personalmente a sfere dirigenti capitalistiche". "Il suo scritto -mascherato di tutti gli orpelli di un gergo filosofico- è un magro libello antisocialista e niente di più". Vi si coglie una "enorme, insopportabile prosopopea, la pretesa [.] di fondare qualcosa di nuovo e di profondo: una concezione della storia, una dottrina sociale, una dottrina politica, una interpretazione della storia moderna d'Italia e della politica attuale italiana": temi affrontati con una "superficialità sconsolante", ed è questa la cifra dell'autore, "intellettuale dilettante, piccolo borghese presuntuoso, che alla disciplina scientifica sostituisce il gioco vano delle idee generali masticate a vuoto". Conseguente l'esito: un libro da porre "tra i prodotti più scadenti della letteratura politica italiana degli ultimi anni". Da un lato "ricorda gli scritti più banali del più banale tra i revisionismi", dall'altro "si collega in modo diretto alla letteratura politica fascista". Rosselli "non solo tenta di rivedere, ma pretende di liquidare il marxismo". "Ma cosa è questa critica del marxismo se non una critica fascista? Da che cosa hanno preso le mosse i fascisti, agli inizi della loro lotta violenta contro il movimento socialista, se non da una polemica di questo genere? Che cosa si legge oggi negli articoli che la stampa fascista dedica alla propaganda controrivoluzionaria tra le masse, se non una continua ripetizione, sino alla nausea, di questi argomenti?"»61.
Rosselli non rispose a Togliatti (probabilmente per non allontanare ulteriormente G.L. dai comunisti), ma replicò piccato a Treves e, indirettamente, a tutti i critici di sponda socialista.
Scrisse, infatti: «Caro Rabano, La tua recensione mi dimostra che non erravo nel libro quando rimproveravo il vostro illiberalismo ideologico. E' bastato che io elevassi -dall'interno della posizione socialista- delle critiche certo gravi, sull'ultima fase del movimento socialista italiano, perché tu mi gettassi alle ortiche. "Nè socialista, né liberale" tu mi proclami, Rabano. Tu solo, voi soli, Rabano, siete socialisti e liberali e infallibili. Se un uomo della generazione che non è la vostra tenta di fare in piena indipendenza i conti col passato in vista di un avvenire per il quale attivamente si adopera, voi lo bandite come eretico e quasi nemico. [.]Il poco buono è vecchio; e il nuovo è sciocco. Con la vostra chiave marxista o pseudomarxista che apre tutte le serrature -fuorché quella di casa- vi tenete per certi che nulla vi sia più da dire e da rivedere dopo ciò che avete detto e riveduto voi innanzi il '900. [.]Guerra, dopoguerra, fascismo, antifascismo -esperienze immani, terremoti psicologici e sociali che per sé soli impongono febbre di ricerca e di critica- sono per voi acqua sul marmo. E' così, Rabano, che perdeste i giovani. E' così che vi riuscirà difficile riconquistarli»62.
3.2 Rosselli rivoluzionario.
Socialismo liberale si conclude con una proposta destinata a segnare la storia dell'antifascismo italiano: poiché il partito socialista italiano ha dimostrato deficienze troppo gravi sia in ordine alle proprie prospettive come forza di governo, sia nella lotta al fascismo, «sarebbe augurabile il sorgere di una nuova formazione politica» che, non «più legata formalmente al passato, potrebbe più liberamente elaborare [.] un programma rinnovatore»63. Quella formazione sarà Giustizia e Libertà.
Essa si prefissa due obiettivi interdipendenti: l'abbattimento della dittatura di Mussolini nel contingente e, nell'ottica postfascista, la creazione in Italia di un nuovo sistema democratico64. Quel movimento, cioè, attraverso «un programma di agitazione rivoluzionaria» , si propone di modernizzare l'Italia secondo i principi ed il metodo della libertà. «Presupposto fondamentale del programma è che la crisi italiana non consiste in una semplice crisi di forme politiche (democrazia-dittatura): è crisi di istituzioni e di ordinamenti sociali e investe tutta quanta la vita italiana. Di questa crisi il fascismo è certo il fenomeno più appariscente; ma esso, più che causa, è effetto. Per eliminare il fascismo non basta abbattere la dittatura: bisogna eliminarne le cause. Alcune di queste sono remote, profonde, prodotto della storia e del carattere italiano e potranno eliminarsi solo attraverso un'opera di educazione civile degli italiani in un ambiente di libertà e di autonomia. Altre invece sono attuali e ben visibili; contro di esse è possibile e doveroso reagire» .
La cifra innovatrice del programma di G.L. è tutta contenuta nella differenza che intercorre fra il concetto di 'rivoluzione' e quello di 'colpo di Stato'67: «la rivoluzione antifascista, la rivoluzione che "Giustizia e Libertà" intende determinare in Italia con una agitazione incessante [.] non potrà consistere in un semplice mutamento di personale di governo [.]. La rivoluzione, prima solenne responso del popolo libero, dovrà essere creatrice, dovrà conseguire di slancio tutti i suoi più importanti obbiettivi: repubblica, riforma agraria, riforma industriale e bancaria. Questi obbiettivi non sono qualcosa di staccato e di diverso dalla rivoluzione: sono la rivoluzione stessa che si attua. Senza quegli obbiettivi la rivoluzione non potrebbe scoppiare; e senza il raggiungimento di quegli obbiettivi la rivoluzione mancherebbe al suo scopo» .
La connotazione movimentista di G.L., il suo elemento distintivo rispetto alle formazioni politiche che componevano la Concentrazione antifascista, sembra a Rosselli la più adatta a perseguire il fine rivoluzionario. Una struttura organizzativa agile, infatti, oltre a favorire la rapidità e, quindi, l'efficacia dell'azione insurrezionalista, presenta il pregio di non essere afflitta dalla necessità di conformarsi alla sedimentazione ideologica presente nei partiti di massa.
Il pragmatismo che accompagna il rifiuto di ogni schematismo a priori le consente di porsi come centro di discussione e di raccolta di tutto l'antifascismo italiano: «Il movimento "Giustizia e Libertà" è sorto al di fuori dei partiti. Non per una pregiudiziale contro di essi, ma perché oggi non è concepibile condurre la nostra battaglia su una piattaforma di partito. Se di partiti ce ne fosse uno solo, potremmo anche batterci in suo nome. Ma di posizioni di partito ce ne sono per lo meno cinque. Appena i dispersi elementi di un partito tentano di organizzarsi e di battersi sulla base del loro programma, sorge naturale e legittima l'ambizione negli altri di fare altrettanto. Si insiste così nei metodi del passato. Si perpetua la nostra impotenza. Con una opposizione divisa in mille gruppi e sottogruppi, con una opposizione che non riesca a darsi una feroce unità nella lotta, il fascismo durerà cento anni. "Giustizia e Libertà" è sorta appunto per impedire il rinnovarsi delle querele e delle divisioni intestine. "Giustizia e Libertà" vuole imporre ed imporrà la unità di tutti gli antifascisti ansiosi di agire e concordi sul trinomio: repubblica, democrazia, libertà»69.
Le vecchie forze, che già non hanno saputo opporsi alla conquista del potere da parte del fascismo, palesano, adesso che la contingenza impone una «disciplina rivoluzionaria» , ancora di più i propri limiti: «Nessuno si offenderà se noi diciamo che i partiti tradizionali conservano ancora alcuni caratteri che contrastano con le necessità della battaglia antifascista. Uomini degnissimi che per trent'anni parteciparono alle lotte parlamentari nel clima dell'Italia prefascista, molto difficilmente potrebbero di punto in bianco trasformarsi in capi di un movimento rivoluzionario. [.]Pensare che la fine del fascismo venga dalla metamorfosi e dall'azione dei partiti politici, è un assurdo» .
Coloro che non compresero, ieri, che il problema della lotta al fascismo si esprime nei termini dell'accessione delle masse alla libertà integrale, cioè della dimensione etica del libero esercizio della moralità, non sono affatto in grado di fare acquisire tale lotta alla coscienza collettiva. Oggi, chi si propone l'obiettivo di abbattere la dittatura deve guidare il popolo sulla strada della rivoluzione, intendendo tale compito come risultato di un'esigenza diffusa di rinnovamento interiore: «le rivoluzioni, né si improvvisano né cadono dal cielo. Perché una rivoluzione degna di questo nome avvenga, non basta che si verifichi il crollo dell'armatura esterna di un regime; questa è una condizione necessaria, ma tutt'altro che sufficiente; occorre che il crollo appaia e sia il risultato desiderato, voluto, disperatamente voluto, da una grande corrente storica rivoluzionaria affermatasi con anni e decenni di lotte e sacrifici, appunto perché la rivoluzione è, prima di tutto, un grande fatto spirituale. In ogni rivoluzione, è evidente, c'è sempre una parte che va fatta al caso, agli errori dei propri avversari, ai loro dissensi, alla situazione politica ed economica generale, al verificarsi di incidenti dai quali scoccherà la scintilla [.]. Ma ciò che si organizza (e non si improvvisa mai), ciò che si può volere, che sta in noi di condurre, è la lotta rivoluzionaria. Ecco il fattore potente, volontario, indispensabile di ogni rivoluzione. [.]Occorre che la convinzione della bellezza e della necessità della lotta, che inizialmente non può essere che di pochi, si diffonda in vasti strati della popolazione, sino a far apparire come dannosa o impossibile ogni altra soluzione. [.]Ora i popoli come gli individui -e i popoli più lentamente degli individui- si educano lentamente alla lotta rivoluzionaria. L'iniziazione è dura. Rivoluzionari non si nasce, si diventa»72.
Come già ricordato, l'attività insurrezionalista di G.L., forse perché le popolazioni non sono politicamente mature per recepirne il messaggio, forse perché l'azione del movimento si svolge secondo canoni 'mazziniani'73, non riesce a far fiorire il seme della rivolta presso gli italiani. Questo insuccesso porta il fiorentino e gli altri dirigenti a riconsiderare il ruolo dell'organizzazione: G.L. entra formalmente a far parte della Concentrazione antifascista nel 1932 .
Scioltasi la Concentrazione nel Maggio del 1934, morto Rosselli, alla fase 'politica' segue la decadenza75. Nonostante il forte seguito di cui godono le formazioni partigiane gielliste, il tentativo di sviluppare quell'esperienza politica e, in generale, il rossellismo attraverso il Partito d'Azione non trova, nel dopoguerra, alcuno sbocco. L'incapacità del partito di radicarsi nell'Italia democratica (insuccesso dovuto, in buona parte, alla scarsa futuribilità immediata del suo programma, e in parte all'eterogeneità delle origini politiche delle personalità che lo componevano), segna l'inizio dell'oblio, ancora oggi non definitivamente superato, del pensiero di Rosselli e del liberalsocialismo, in generale. Il PdA fu presbite: proposte quali federalismo e presidenzialismo (solo per citarne due fra le tante, modernissime), oltre ad esercitare scarso fascino presso l'opinione pubblica italiana contemporanea, risposero debolmente alle necessità impellenti del tessuto socio-politico nazionale.
Capitolo 4. Conclusione: per una rifondazione etica della politica.
4.1 Sul concetto di socialismo liberale.
Prima di affrontare nello specifico l'analisi del pensiero di Rosselli, è opportuno circoscriverne l'ambito, cioè collocare concettualmente e storicamente la sua dottrina a cominciare dalla denominazione che lui stesso ne ha dato: la dottrina 'socialista liberale'.
Il termine "socialista liberale" è entrato a far parte del lessico politico già a partire dalla prima metà del diciannovesimo secolo. Usato senza sostanziali differenze con le espressioni "liberalsocialismo" e "liberalismo socialista", aveva, per lo più, la connotazione ottativa di 'sintesi fra liberalismo e socialismo'. Da questo punto di vista pensatori come Stuart Mill, Bernstein, Hobhouse, Merlino, Calogero, Malatesta, Capitini, sono stati tutti, esplicitamente o meno, 'socialisti liberali'.
E' chiaro che la grande eterogeneità delle convinzioni politiche di costoro non può essere annullata dall'applicazione di alcuna formula generale. La definizione del 'socialismo liberale', come di ogni altra dottrina politica, non può fissare definitivamente il suo contenuto; piuttosto, deve evidenziarne il nucleo fondamentale le cui varianti non sono mere interpretazioni bensì gli elementi costitutivi.
Al fine di non lasciare tale termine nel limbo dell'indeterminatezza teorica propria di molti lemmi del lessico politico, bisogna percorrere altre strade, altre modalità di esplicazione. Un buon compromesso fra certezza del significato e adesione dello stesso alla pratica dell'uso della parola potrebbe consistere nel ricercare la denotazione minima comune alle varie accezioni del termine, prescindendo, cioè, dalla diversità delle connotazioni che sottende.
Seguendo questo metodo, espressioni quali liberalsocialismo, socialismo liberale, liberalismo socialista «denotano tutte una medesima posizione etico-politica, un genere ideologico-dottrinale che funge da quadro di riferimento generale, il cui nucleo fondamentale -l'elemento comune- è dato dalla combinazione dei principi base di un liberalismo-non-liberista con i principi base di un socialismo-non-marxista. Qualunque sia il punto di partenza -dal liberalismo verso il socialismo, dal socialismo verso il liberalismo- e qualunque sia il composto lessicale che scaturisce dalla possibilità di molteplice combinazione della diade, il significato generale dei termini e delle espressioni comunque non cambia. Entro questi limiti (di vaga sinonimia), un nome vale l'altro quanto a capacità denotativa del genere ideologico-dottrinale»1.
Perciò, pur non costituendo una corrente politica dai caratteri omogenei, il contenuto della dottrina socialista liberale può essere determinato a posteriori, sulla base della concordanza delle opinioni di quei pensatori che mossero le loro critiche in egual misura al socialismo e al liberalismo. «La dottrina liberalsocialista nasce da un'analisi serrata [.] della crisi in cui versano socialismo marxista e liberalismo liberista. Gli obbiettivi delle due correnti sono comuni -il progresso generale della società umana- ma attaccati da lati differenti: l'una pone l'accento sulla solidarietà sociale, sulla responsabilità e sui doveri che ha il forte nei confronti del debole, le sue parole d'ordine sono cooperazione e organizzazione. L'altra ritiene che la completa esplicazione della libertà di ciascuno non può non condurre all'avanzamento di tutta la società. Ma il socialismo marxista trascura le conquiste fondamentali della democrazia liberale, a cominciare da tutti i diritti individuali di libertà, nell'errata convinzione che essi siano retaggio del capitalismo liberale e in definitiva d'una civiltà da abbattere; il liberalismo liberista, da parte sua, favorisce la permanenza e l'accrescersi delle situazioni di privilegio e di disuguaglianza presenti nell'ordine capitalistico. L'errore fondamentale, sostengono i liberalsocialisti, è quello di ritenere che le due correnti siano contrastanti e inconciliabili tra loro, mentre in realtà la loro integrazione è non solo possibile ma anche auspicabile»2.
Benché la dottrina socialista liberale riesca a contraddistinguersi in antitesi al liberismo e al marxismo, vale a dire nella sua parte negativa, la sua compagine non si dimostra altrettanto compatta sul piano positivo. E' pur vero che pressoché tutti i liberalsocialisti propongono l'instaurazione di un sistema economico misto ma, al di là di questa notazione, la ricerca dei modi di integrazione fra socialismo e liberalismo, l'aspirazione alla sintesi, si sviluppa nella babele di accenti e di suggestioni teoriche.
Al di sotto della molteplicità delle prescrizioni, però, esiste una tendenza comune che, pur con ampi margini di approssimazione, bisogna evidenziare. «Per quanto riguarda la definizione dell'ideale, se lo si isola per ragioni analitiche dal contesto dottrinale, la questione è sufficientemente chiara (e, comunque, non controversa). Il socialismo liberale (o liberalsocialismo) si risolve, in estrema sintesi, nell'affermazione del principio dell'uguale libertà, ossia nel postulare "l'emancipazione dei non liberi e l'eguagliamento dei non uguali" al fine di rendere effettivo (effettivamente praticabile) per tutti gli individui l'esercizio (il godimento) dei diritti di libertà» .
Secondo Sbarberi questo principio si configura come «utopia della libertà eguale»: «l'esigenza di libertà intesa come esercizio di un diritto condiviso», ovvero come «aequa libertas: l'eguale diritto di ogni cittadino a partecipare alla formazione delle decisioni politiche e a rivestire le cariche pubbliche sulla base dei meriti acquisiti e non dei privilegi di nascita o di ricchezza»4.
In termini generali la formula sincretica del socialismo liberale, in Rosselli, è il tentativo di coniugare in una sintesi armonica le ragioni della libertà individuale con quelle della giustizia sociale. La sua utopia della libertà eguale, insomma, si muove nel campo della ricerca di una formula politica capace di risolvere dialetticamente il condizionamento reciproco che intercorre fra il piano individuale dell'esistenza e dell'agire umano e quello collettivo. E' un eretico sia del liberalismo che del socialismo, un'anima inquieta, critica verso ogni dogmatismo, per la quale «il socialismo non è che lo sviluppo logico, sino alle estreme conseguenze, del principio di libertà. Il socialismo, inteso nel suo significato più sostanziale e giudicato dai risultati -movimento cioè di concreta emancipazione del proletariato- è liberalismo in azione, è libertà che si fa per la povera gente» .
4.2 Individuo e società.
Esistono due strade attraverso le quali è possibile, dal punto di vista concettuale, giungere al liberalsocialismo: o ci si sposta dal liberalismo verso il socialismo, o viceversa. Nel caso di Rosselli mi sembra chiaro che sia stata la prima via ad essere percorsa.
Questa asserzione trova dimostrazione nella constatazione che nei suoi scritti (soprattutto quelli giovanili) si afferma esplicitamente l'idea secondo la quale il socialismo sarebbe la filiazione storica e logica del liberalismo: l'antesignano ha aperto all'uomo le porte della libertà personale, il successore traduce al plurale questa libertà.
Tale interpretazione genealogica nasconde un potente postulato. Ritenere la libertà della persona premessa filosofica alle libertà sociali significa, per il nostro, porre priorità alle esigenze individuali rispetto a quelle della collettività. Specialmente nelle pagine di Socialismo liberale, tutto il ragionamento rosselliano è permeato da un forte individualismo metodologico: è l'individuo-persona il punto di riferimento costante, la pietra di paragone, del suo progetto di società, ed è per questo motivo che il nostro avversa ogni concezione organicista dello Stato.
La propria insistenza sull'idea secondo la quale è la dimensione spirituale, la spinta psicologica, a dare forma e sostanza ai fenomeni collettivi (primo fra tutti la rivoluzione), indica palesemente che la comprensione del pensiero politico di Rosselli passa attraverso la conoscenza della sua concezione antropologica.
L'uomo è combattuto da un'intima contraddizione: da una parte è un essere finito, fallace, facilmente propenso ad affidarsi entusiasticamente alla servitù volontaria, al sussiego verso false rappresentazioni della realtà ; dall'altra ha forte ed orgoglioso il sentimento del sé, della propria specificità, la consapevolezza che è nelle sue mani la leva delle decisioni della propria esistenza. Il fiorentino prospetta la possibilità che sia l'io a produrre la propria negazione però è fiducioso nella capacità dell'uomo di superare, con l'uso della ragione, questo ostacolo.
Una visione ottimista o pessimista? Ottimisticamente relativa, direi. Benché esista la possibilità che i germi della decadenza abbiano il sopravvento sulle energie positive, l'essere umano è in grado di sviluppare un tale grado di autocoscienza da permettergli di sconfiggerli efficacemente. A patto che lo voglia.
Ecco la componente volontaristica: il diritto assoluto, innato, giusnaturalistico, all'autodeterminazione morale si attiva soltanto grazie ad un atto volitivo, al desiderio di realizzazione della propria piena personalità. La ricerca e il perseguimento dei propri fini, della felicità, dipendono direttamente dalla capacità raziocinante di perfezionamento spirituale, di trasformare la precarietà dell'esistenza nell'ambizione all'indipendenza.
Di per sé considerato, tuttavia, il diritto assoluto all'autodeterminazione morale vive solo in astratto. La sua assolutezza è quotidianamente frustrata dall'esistenza dell'altrui diritto: la libertà del suo esercizio da parte del singolo si scontra con altre pari libertà; ed un diritto la cui possibilità di godimento è incerta non è un vero diritto.
Il problema della realizzazione della personalità diviene, così, un problema politico, anzi, il problema politico per eccellenza: il problema dell'eguale libertà. Il dilemma si dipana in due direzioni: come garantire a ciascuno pari opportunità di crescita personale; come commisurare l'interesse individuale a quello collettivo.
A partire dai tentativi della famiglia dei pensatori liberali, la risoluzione di questo problema ha comportato l'enucleazione di «una duplice concezione dell'idea di progresso» che fa distinguere due tendenze contrapposte: «coloro che non vedono alcuna contraddizione tra il progresso economico-scientifico e il progresso politico-sociale e quanti ritengono invece che questi due processi possano collidere. I primi puntano sulla forza espansiva degli interessi privati del cittadino-proprietario e sulla capacità di autoemancipazione della società civile, fiduciosi che gli interessi si armonizzino spontaneamente [.]. I secondi sono invece convinti che il perfezionamento "morale" della specie, inteso come idea regolativa del futuro, sia legato a scelte preliminari: la conquista e il consolidamento delle libertà individuali e il processo di democratizzazione dello stato, che ruota intorno alla figura del cittadino-sovrano. In altri termini: il primo gruppo [.] crede nella tendenziale autosufficienza della società civile e nella capacità del soggetto individuale di orientare da solo il proprio sviluppo complessivo; il secondo fa appello all'autogoverno di una società politica di cittadini liberi ed uguali e punta sull'intervento dello stato per appianare gli squilibri che ostacolano la scelta spontanea dei soggetti. L'idea di progresso, nella prima accezione, rinvia a una nozione di libertà come non impedimento e come non costrizione all'agire» ; nella seconda, invece, al tema della «libertà [.] non solo come non impedimento e come non costrizione ad agire, ma anche come possibilità reale di autodeterminazione» . Questa seconda concezione di libertà è stata la premessa per la costituzionalizzazione dei diritti sociali, cioè per «il riconoscimento attivo delle diversità fra individui o tra gruppi attraverso la rimozione delle disuguaglianze e la protezione diversificata delle differenze» .
L'idea di libertà di Rosselli appartiene alla seconda concezione. Condizione necessaria, ma non sufficiente, per ottenere l'eguale possibilità di autodeterminazione è la formazione di politiche pubbliche che affranchino l'individuo dalla schiavitù del bisogno materiale11.
4.3 Dalla libertà alla giustizia.
Al concetto di eguaglianza è sotteso quello di giustizia. «La giustizia è un fine sociale, come l'uguaglianza o la libertà o la democrazia o il benessere. Ma vi è una differenza importante tra il concetto di giustizia e gli altri appena citati. "Uguaglianza", "libertà", ecc., sono termini descrittivi. Sebbene astratti e teorici, essi possono essere definiti in modo tale da rendere le affermazioni in cui compaiono verificabili, in genere, mediante riferimento all'evidenza empirica [.]. La giustizia, d'altro canto, è un concetto normativo [.]. La giustizia è stata equiparata alla legalità, all'imparzialità, all'egalitarismo, [.] ecc.. Ora, se queste definizioni fossero accettabili, si potrebbe partire da premesse fattuali per giungere a conclusioni normative. [.]Evidentemente, queste definizioni non sono accettabili. Evidentemente, non possiamo andare dall'"essere" al "dover essere", dai fatti ai valori. [.]La cosa migliore è considerare la giustizia come nozione etica fondamentale e non definita»12.
In sostanza è necessario riempire questo spazio con ciò che Rosselli intende per giustizia; bisogna, cioè, determinare quale valore primo, non giustificabile né deducibile, stia alla base dell'idea rosselliana di politica. Quel valore può essere racchiuso nella prescrizione: dovere al rispetto per la propria e altrui autonomia.
Si è visto che, secondo il nostro, gli individui uti singuli, benché dotati del diritto all'autodeterminazione morale, sono reciprocamente condizionati nell'esercizio di quel diritto. Per usufruirne in maniera soddisfacente è d'uopo oltrepassare le frontiere del singolare ed arrivare al politico. Valicando quel limite, Rosselli propone la trasfigurazione del concetto di autodeterminazione in termini di autonomia: la libertà relativa all'autodeterminazione diviene libertà relativa all'autonomia. La relatività della libertà (che ne determina, però, anche la certezza dell'ambito di azione) è regolata dal principio di giustizia che si configura, quindi, come etica dell'autonomia13: la seconda condizione per l'ottenimento dell'eguale libertà .
La giustizia, perciò, è lo stato etico della libertà morale. Ma poiché la giustizia è il principio informatore del socialismo e la libertà del liberalismo, la successione dal primo al secondo ha il valore di estensione logica, di completamento politicamente necessario.
Si confrontino le definizioni di liberalismo e socialismo date da Rosselli15.
Liberalismo: «quella teoria politica che, partendo dal presupposto della libertà dello spirito umano, dichiara la libertà supremo fine, supremo mezzo, suprema regola della umana convivenza. Fine, in quanto si propone di conseguire un regime di vita associata che assicuri a tutti gli uomini la possibilità di un pieno svolgimento della loro personalità. Mezzo, in quanto reputa che questa libertà non possa essere elargita od imposta, ma debba conquistarsi con duro personale travaglio nel perpetuo fluire delle generazioni. Esso concepisce la libertà non come un dato di natura, ma come divenire, sviluppo. Non si nasce, ma si diventa liberi. E ci si conserva liberi solo mantenendo attiva e vigilante la coscienza della propria autonomia e costantemente esercitando le proprie libertà» .
Socialismo: «l'attuazione progressiva dell'idea di libertà e di giustizia tra gli uomini: idea innata che giace, più o meno sepolta dalle incrostazioni dei secoli, al fondo di ogni essere umano; sforzo progressivo di assicurare a tutti gli umani una eguale possibilità di vivere la vita che solo è degna di questo nome, sottraendoli dalla schiavitù della materia e dei materiali bisogni che oggi ancora domina il maggior numero; possibilità di svolgere liberamente la loro personalità, in una continua lotta di perfezionamento contro gli istinti primitivi e bestiali e contro le corruzioni di una civiltà troppo preda del demonio del successo e del denaro» .
La stretta connessione dei due termini, che preconizza la desiderabilità e la possibilità concreta della sintesi socialista liberale, conduce Rosselli ad esplicitare l'idea che sta alla base del concetto di eguale libertà: «Tra una libertà media estesa all'universale, e una libertà sconfinata assicurata ai pochi a spese dei molti, meglio, cento volte meglio, una libertà media»18.
4.4 La democrazia.
La 'democrazia' è l'ambito di attuazione della libertà media.
E' facile constatare che Rosselli tende a confondere il termine 'democrazia' con quello di 'metodo liberale' o 'liberalismo' tout court. Credo che la ragione di ciò sia da ricercarsi nel fatto che egli non si pone affatto il compito di delineare i tratti di una democrazia sostanziale, ma semplicemente quello di individuare le forme istituzionali più adatte all'esercizio della libertà.
Benché proprio Rosselli ponga la distinzione fra 'liberalismo-metodo' e 'socialismo-ideale', non è lecito estendere tale confusione oltre il binomio liberalismo-democrazia. A causa della incerta sinonimia con la quale utilizza l'aggettivo 'liberale' per il concetto 'metodo liberale', e poiché questo metodo è quello che, a suo parere, meglio incarna la democrazia (come sistema), Rosselli certamente identifica estesamente il liberalismo con il metodo democratico. Tuttavia, non è affatto vero che tra liberalismo e socialismo intercorra lo stesso rapporto che passa fra metodo e ideale. Liberalismo e socialismo sono entrambi ideali, due immagini del mondo, «due visioni altissime ma unilaterali della vita che tendono a compenetrarsi e a completarsi»19.
Il dualismo terminologico sta altrove: nell'eclettismo bifronte della trasfigurazione del liberalismo, come dottrina del metodo democratico, nella democrazia in toto, cioè nel suo sistema di valori fondativi. Nel medesimo ordine di idee si pone l'opinione di Mura: «Rosselli considera il liberalismo non semplicemente come un metodo, che peraltro fonde (e confonde) con quello democratico, ma un fine, un valore intrinseco, rispetto al quale il socialismo è (soltanto) un valore strumentale (un fine intermedio). Il che significa che il liberalismo giustifica il socialismo, ma non viceversa; che il socialismo ha valore in quanto realizza gli ideali del liberalismo, solo in quanto gli obiettivi che persegue sono funzionali rispetto alla piena ed integrale realizzazione dell'ideale di libertà» .
Sovranità popolare, suffragio universale, rappresentatività degli organi politici, costituzionalizzazione dei diritti sociali sono, così, estrinsecazioni di un quadro procedurale atto a regolare strumentalmente l'eventualità, molto probabile, che si verifichi uno scontro fra uguali libertà. Tuttavia, questa possibilità non ha una connotazione negativa, tutt'altro. Lo scontro non è il risvolto patologico della politica, bensì quello ordinario di determinazione dei suoi fini intermedi. E' dal conflittualismo democratico fra individui e gruppi di individui che deriva la chiarificazione degli indirizzi sociali e la selezione delle classi dirigenti; ed è solo grazie al conflittualismo democratico che si mantiene attiva e vigilante l'aspirazione all'autonomia, la passione libertaria21.
La democrazia è l'habitat di civiltà giuridica che le forze sociali hanno contrattualmente costruito al fine di livellare le disparità di opportunità esistenti, innanzi tutto, e di poter perseguire, poi, pacificamente, gradualmente, il proprio sviluppo indipendente.
Bisogna sottolineare che, nonostante il suo carattere procedurale, la democrazia non è affatto uno strumento eticamente neutro: secondo Rosselli, l'etica dei mezzi è strettamente interconnessa a quella dei fini. La dinamica politica, cioè, non deve perseguire il fine a prescindere dalla moralità del metodo, ma deve sempre controllare la rispondenza del secondo alla dimensione deontologica del primo. La concezione etica della politica di Rosselli ha una sua dimensione 'esterna'.
«L'idea che la politica deve rispettare le leggi della morale non ha mai avuto grande fortuna. Soprattutto in Italia, dove è stata spesso irrisa in nome del realismo politico. Lo stesso Benedetto Croce ha sostenuto che l'onestà politica, nella sua accezione comune, è un ideale degli imbecilli e che l'unica onestà degna di questo nome "non è altro che la capacità politica", ossia la scelte congruente dei mezzi ai fini perseguiti: l'unica virtù che Machiavelli richiede al principe. Ma chi ha tratto le conseguenze più radicali del rapporto istituito da Machiavelli tra etica e politica è indubbiamente Gramsci. Se Lenin nel 1920 aveva sostenuto che l'etica marxista "dipende in tutto e per tutto dagli interessi e dalla lotta di classe del proletariato", nelle Noterelle sulla politica del Machiavelli Gramsci sposta il discorso direttamente sul partito. Gli atti che i militanti comunisti sono tenuti a compiere non vengono più suggeriti immediatamente dagli interessi complessivi della classe operaia, ma dal consolidamento dell'organismo politico che se ne fa garante. Il vero ideale dell'io che cattura la coscienza morale del singolo è infatti il partito. E tutto ciò che "serve a incrementare" o a "contrastare" il suo potere decide dell'utilità-virtuosità o dell'inutilità-scelleratezza di un'azione. A tal punto che il partito dovrebbe prendere il posto, nelle varie coscienze, dell'imperativo categorico kantiano e della divinità cristiana, ovvero delle due etiche che collidono nella maniera più netta con il punto di vista dell'autosufficienza della politica» .
Rosselli, invece, fa propria «la tesi di Weber sul rapporto inclusivo tra etica della convinzione ed etica della responsabilità se i fini sono eticamente condivisibili, essi devono orientare anche la selezione dei mezzi. "Se in sede politica o tecnica -osserva Rosselli- il problema della distinzione fra mezzo e fine è essenziale, e anzi il successo di ogni movimento dipende dalla esatta scelta dei mezzi, in sede morale la distinzione non ha ragione di essere posta, poiché il mezzo si confonde con il fine. Il mezzo non solo deve essere conveniente al fine (problema tecnico), ma esserne penetrato"» 23.
Differentemente anche da Gobetti, per il quale il conflitto democratico si svolge secondo i canoni della lotta di classe ed è il mezzo attraverso il quale si formano le élites, il fiorentino non solo rifugge dal concetto di lotta di classe, ma anche quando considera il problema della formazione delle élites lo fa incidentalmente allo scopo del raggiungimento della democrazia integrale. Il suo punto di riferimento non è la classe, bensì il gruppo di pressione, l'aggregazione cetuale: dal punto di vista della prassi politica teorizza, insomma, più la poliarchia che la democrazia. Benché egli non utilizzi mai il termine 'poliarchia', la sua costante attenzione riguardo alla formazione di corpi intermedi fra istituzioni e cittadino (primo fra tutti il sindacato) mostra l'intenzione di mantenersi equidistante tanto dalla concezione organicista dello Stato quanto dall'atomismo sociale. La lotta per il consenso non si svolge, in via principale, fra individui e gruppi di individui che vogliono assurgere al ruolo di classe dirigente, ma piuttosto fra associazioni organiche che competono fra loro in base alla capacità di sapere tradurre in un programma politico coerente i bisogni dei cittadini.
Appendice.
Si riporta il testo integrale di Schema di programma pubblicato per la prima volta in Quaderni di Giustizia e Libertà del Gennaio 1932, ora in Carlo Rosselli, Scritti dall'esilio, v.I, a cura di Costanzo Casucci, Einaudi, Torino 1988, pp. 301-306.
Schema di programma.
Il fascismo non può essere abbattuto che da un movimento rivoluzionario che imposti e risolva decisamente, in funzione di libertà, i problemi politici e sociali fondamentali della vita italiana.
Il movimento «Giustizia e Libertà», per il suo stesso modo di costituzione e per la sostanza del suo programma, è la espressione concreta delle forze che si battono sul terreno rivoluzionario contro il fascismo.
Nell'ordine politico «Giustizia e Libertà» mira alla conquista della libertà, cioè di uno Stato repubblicano che realizzi le forme della più larga democrazia, basandosi essenzialmente sulle classi lavoratrici e sulle loro organizzazioni autonome; nell'ordine sociale «Giustizia e Libertà» vuole affermato un principio di giustizia che renda effettiva quella democrazia, affrontando in modo radicale il problema della terra e dell'industria e quello dei rapporti interni di fabbrica.
La rivoluzione antifascista non sarà un semplice mutamento di forme politiche superficiali, né un ritorno al passato, ma una profonda trasformazione economico-politica. Al governo sorto dalla rivoluzione e ai comitati locali rivoluzionari spetterà il compito di porre le basi del nuovo Stato.
Un'assemblea costituente, eletta a suffragio universale e convocata entro breve termine, consacrerà l'opera della rivoluzione e fisserà l'ordinamento definitivo della Repubblica.
Le basi del nuovo regime.
La monarchia sarà dichiarata decaduta e sarà proclamata la repubblica.
La libertà di associazione, di organizzazione professionale, di stampa, di riunione, di emigrazione ecc. saranno ristabilite.
Soppresse la milizia e la polizia fascista, sarà costituita una guardia repubblicana per la difesa della rivoluzione.
I maggiori responsabili e i favoreggiatori, finanziatori e profittatori del fascismo, cominciando dal re, saranno processati; i beni dei condannati saranno confiscati perché formino un fondo per indennizzare le vittime politiche.
Le aziende giornalistiche fasciste saranno confiscate e messe a disposizione dei comitati rivoluzionari.
Le corporazioni e i sindacati fascisti saranno sciolti.
La riforma agraria.
La rivoluzione antifascista affronterà il problema agrario sulla base del principio: «la terra a chi la lavora», tutelando nello stesso tempo gli interessi della produzione.
Si distingueranno le aziende in cui senza dannose conseguenze economiche, è possibile l'immediato conferimento della proprietà ai lavoratori, da quelle che esigono l'impiego di molte braccia, di ingenti capitali e di superiore direzione tecnica nelle quali il frazionamento delle unità fondiarie disorganizzerebbe e ridurrebbe la produzione. Conseguentemente:
a)I mezzadri, i piccoli fittavoli, i partecipanti, gli enfiteuti e in generale tutti coloro che coltivano la terra col loro lavoro personale e con quello della loro famiglia, acquisteranno la proprietà della terra che coltivano, rimanendo obbligati verso i vecchi proprietari ad una moderata indennità rateale garantita dallo Stato, che rappresenterà il titolo legittimo di acquisto e che, in caso di confisca della proprietà, andrà allo Stato. Sarà stabilità una quota massima di indennità. Laddove sia richiesto dagli interessi della produzione, saranno costituiti dei consorzi o delle cooperative per la gestione dei servizi comuni, sotto la direzione o il controllo di tecnici.
b)Le aziende agrarie, per le quali l'attribuzione individuale della terra riuscirebbe antieconomica, diventeranno proprietà comune e indivisibile dei coltivatori, salvo al vecchio proprietario ed al fittabile per il capitale da lui impiegato, il diritto all'indennità di cui al paragrafo precedente. Le nuove aziende saranno gestite in cooperative od altra forma collettiva secondo le necessità economiche locali.
c)I lavoratori che non abbiano trovato occupazione permanente come proprietari o comproprietari di aziende agricole personali o collettive, avranno diritto di preferenza nell'assegnazione delle terre pubbliche e di bonifica.
d)Lo Stato organizzerà il credito agrario in modo da assicurare il successo della riforma agraria.
Provvedimenti speciali regoleranno i debiti ipotecari.
Riforma industriale e bancaria.
La rivoluzione antifascista affronterà il problema della crisi dell'industria, che non è solo economica, ma di uomini e di classi. Essa non potrà risolversi se non con una riorganizzazione generale dell'industria e con la trasformazione dei rapporti interni di fabbrica.
Un organo permanente per la direzione e il controllo della vita economica nazionale traccerà un piano di ricostruzione economica e fisserà, in accordo con i pubblici poteri, le direttive fondamentali della produzione.
La riforma dell'industria sarà basata sulla socializzazione con gestione autonoma, sul controllo operaio e la democrazia di fabbrica, da applicarsi secondo i criteri che seguono:
Le industrie e le aziende che presentano i caratteri di un servizio pubblico essenziale (idroelettrica, dei fertilizzanti, grandi banche private di credito) o che fruiscono di un monopolio naturale (mineraria), o hanno vissuto sinora estorcendo alla collettività enormi protezioni doganali o sovvenzioni (siderurgica, saccarifera, costruzioni navali) saranno socializzate.
La gestione delle aziende socializzate non sarà assunta dallo Stato ma da organismi autonomi non burocratici, diretti da tecnici con la partecipazione di rappresentanti degli operai e impiegati dell'azienda, dei consumatori e degli enti pubblici interessati. Il capitale azionario delle industrie socializzate, salvo quello confiscato ai responsabili del fascismo, sarà trasformato a titolo di moderata indennità, in obbligazioni da estinguersi in una generazione.
Per evitare, nel periodo del trapasso, lo sconvolgimento della produzione nelle industrie socializzate e la gravissima disoccupazione che ne seguirebbe, sarà fatto obbligo ai tecnici di conservare le loro funzioni, salvo la revisione successiva.
Il controllo operaio, introdotto in tutte le grandi e medie aziende, così pubbliche come private, dovrà assicurare alle classi lavoratrici una effettiva compartecipazione alla gestione delle aziende. Esso sarà organizzato in modo da affermare la libertà operaia nella fabbrica, da sviluppare le capacità industriali della classe operaia, e da opporsi, nell'interesse della produzione, alle tendenze di burocrazia e di centralizzazione.
Politica sindacale e cooperativa.
Le proprietà del partito e delle organizzazioni fasciste saranno confiscate per essere trasferite alle organizzazioni operaie e contadine.
I contratti collettivi saranno immediatamente riveduti.
L'indennità di disoccupazione dovrà essere sufficiente alla vita e versata durante l'intero periodo di disoccupazione a tutti i disoccupati.
Sarà promossa l'organizzazione e la difesa degli interessi dei lavoratori a domicilio (apprendisti, garzoni, lavoratori casalinghi ecc.) con la fissazione dei minimi di salario e di contratti-tipo.
Il movimento cooperativo riceverà, in tutti i suoi rami, il massimo appoggio. Si promuoverà il collegamento tra cooperative di produzione industriali e agricole e le cooperative di consumo, riorganizzando i mercati con la soppressione degli intermediari parassitari.
Politica finanziaria e doganale.
Sarà introdotta la nominatività dei titoli e ristabilita, con aliquote progressive, la imposta di successione.
Provvedimenti radicali saranno presi per l'abolizione del dazio sul grano e dei dazi sui generi di consumo popolare.
Le tariffe doganali saranno rivedute nel senso di una progressiva generale riduzione.
Politica delle abitazioni.
Immediata riduzione degli affitti. Municipalizzazione delle aree e delle costruzioni edilizie. Politica che favorisca il passaggio della attuale proprietà edilizia ai Municipi o agli inquilini contro il pagamento di una moderata indennità.
Politica estera e coloniale - Minoranze allogene.
La repubblica Italiana farà una decisa politica di pace e di disarmo; ridurrà grandemente le spese militari e coloniali; propugnerà l'organizzazione unitaria dell'Europa e una politica di libero scambio. Riconoscerà l'autonomia culturale e amministrativa delle minoranze allogene. Adotterà una politica di intesa e di libertà verso gli abitanti delle colonie.
Giustizia e riforma carceraria.
Indipendenza e inamovibilità della magistratura, previo allontanamento degli elementi indegni ad opera di una commissione indipendente dal potere esecutivo.
Radicale riforma del regime carcerario.
Politica scolastica.
Scuola gratuita, aperta in tutti i suoi gradi al popolo e aderente alle forme rinnovate della vita sociale. L'insegnamento e la cultura riceveranno il massimo impulso e saranno considerati come essenziali alla vita e al progresso della repubblica.
Politica ecclesiastica.
Separazione completa dello Stato dalla Chiesa, previa confisca dei beni dell'alto clero e delle congregazioni religiose. Incondizionata libertà di coscienza e di culto.
Il Trattato di Conciliazione, la Convenzione finanziaria e il Concordato saranno dichiarati nulli. Ai titoli di rendita (1 miliardo) consegnati al Vaticano sarà tolta ogni validità.
Autonomie.
L'organizzazione del nuovo Stato dovrà basarsi sulle più ampie autonomie. Le funzioni del governo centrale dovranno limitarsi alle sole materie che interessano la vita nazionale.
Il principio di autonomia è uno dei principi direttivi del movimento rivoluzionario «Giustizia e Libertà».
[In calce:]
Il presente schema è opera esclusiva del movimento «Giustizia e Libertà». Come tale non vincola gli organismi alleati, i quali hanno programmi politici propri, non in contraddizione, ma indipendenti da questo.
Bibliografia.
Le opere di Carlo Rosselli sono ab initio frammentarie e disperse: a parte Socialismo liberale, pressoché tutto il resto della sua produzione è costituito da brevi articoli o saggi, scritti per diverse pubblicazioni periodiche, che vertono ora su uno ora su un altro aspetto del suo interesse per la politica. Oltre a questa difficoltà, si deve aggiungere il fatto che non esiste una raccolta completa di quelle opere e che nessun saggio critico su Rosselli da me consultato si è distinto per organicità della trattazione.
La bibliografia di questa tesi è, quindi, costituita da libri di provenienza e tematiche eterogenee. Tale eterogeneità mi ha costretto (e ciò vale soprattutto per le biografie) a considerare molte informazioni e considerazioni ivi contenute con il beneficio del dubbio: là dove sembravano sufficientemente univoche, le si è considerate certe; là dove la presenza di forti discrepanze consigliava prudenza, si è preferito dar conto di quei distinguo.
Opere di Carlo Rosselli:
Socialismo liberale, a cura di Aldo Garosci, Edizioni U, Roma-Firenze-Milano 1945.
Oggi in Spagna domani in Italia, con prefazione di Gaetano Salvemini e introduzione di Aldo Garosci, Einaudi, Torino 1967.
Socialismo liberale, a cura di John Rosselli, Einaudi, Torino 1979.
Scritti politici, a cura di Zeffiro Ciuffoletti e Paolo Bagnoli, Guida, Napoli 1988.
Scritti dall'esilio, voll. I-II, a cura di Costanzo Casucci, Einaudi, Torino 1988-1992.
Opere scelte, v.I, a cura di John Rosselli, Einaudi, Torino 1973.
La guerra che torna in Aga Rossi, Elena (a cura di), Il movimento repubblicano. Giustizia e Libertà e il Partito d'Azione, Cappelli, Bologna 1969, pp. 111-118.
Politica e affetti familiari. Lettere dei Rosselli ai Ferrero (1917-1943), a cura di Marina Calloni e Lorella Cedroni, Feltrinelli, Milano 1997.
I Rosselli. Epistolario familiare 1914-1937, a cura di Zeffiro Ciuffoletti, Mondadori, Milano 1997.
La pubblicistica:
Abbagnano, Nicola, Storia della filosofia, v.III, UTET, Torino 1966.
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Il rapporto dei Rosselli con Mazzini non si esaurì in questa frequentazione. Bisogna ricordare, infatti, che Mazzini poté contare non solo sull'aiuto economico ma anche sull'ospitalità dei Rosselli: quando morì, a Pisa nel 1872, si trovava presso l'abitazione di Pellegrino Rosselli, un prozio di Carlo.
In tal senso Giuseppe Fiori, Casa Rosselli. Vita di Carlo e Nello, Amelia, Marion e Maria, Einaudi, Torino 1999, p. 4.
Probabilmente questa motivazione addotta dalla stessa Amelia Pincherle Moravia nel suo Memoriale (mai pubblicato ma ampiamente riportato nel già citato Casa Rosselli di Giuseppe Fiori) nascose il suo più grave dolore per una presunta relazione extraconiugale del consorte.
Fiori fa opportunamente notare che nel pur corposo numero di pagine che costituisce il carteggio familiare dei Rosselli i cenni al padre sono pressoché assenti (ivi, p. 10).
In quel testo l'autrice, secondo quanto riportato da Giuseppe Fiori nella sua biografia collettiva dei Rosselli, critica, in maniera scabrosamente realistica, l'ipocrisia della doppia morale, pubblica e privata, che sta alla base di molti tabù (specialmente quelli legati alla sessualità) dei quali si nutre la cultura dell'opinione pubblica borghese del tempo.
La biografia dei Rosselli è contraddistinta da vari 'incontri' con eminenti figure del mondo intellettuale dell'epoca che influiscono grandemente soprattutto sul loro sviluppo culturale. Tuttavia l'incontro con la madre è il primo e più importante: in Amelia Pincherle Moravia essi non trovano semplicemente un'educatrice quanto, piuttosto, un saldo punto di riferimento spirituale.
Questa immaginifica espressione è di Carlo Rosselli (si veda infra nota 14) ma è significativamente riproposta in Paolo Bagnoli, Carlo Rosselli tra pensiero e azione, Passigli, Firenze 1985, p. 14.
E' quanto evidenzia Aldo Garosci, Vita di Carlo Rosselli, v.I, Vallecchi, Firenze 1973, p. 8. La prima edizione di questa opera è del 1946 e costituisce la più importante biografia di Rosselli.
Scrive Amelia Pincherle Moravia nel Memoriale: «Fu a Macugnaga che, fin dai primi giorni, mi cominciavano ad arrivare lunghe interminabili lettere di Carlo nelle quali esponeva, con mia grande meraviglia, tutte le sue idee e congetture riguardo al contegno dell'Austria, alle problematiche possibilità della Serbia di opporsi a un eventuale ultimatum, all'attitudine che avrebbe assunto la Germania, agli eventuali obblighi dell'Italia quale alleata. Quelle lettere erano per me una rivelazione» (passo in Giuseppe Fiori, op. cit., p. 17).
Gabriele Pincherle, senatore e consigliere di Stato, vicino a Salandra e a Sonnino, interventista acceso, rappresenta per Carlo un punto di riferimento non tanto per il suo pensiero politico, ma soprattutto per l'esempio di liberalità spirituale che gli dà. Così scrive Rosselli dal confino di Lipari in occasione della morte dello zio: «Ora mi avvedo quanto gli volevo bene e quale altissimo posto occupa nel mio cuore. Dire per me e per Nello lo zio Gabriele è dire la quintessenza d'ogni virtù schietta e disinteressata, dell'onestà sino all'eccesso, della modestia sino al ridicolo, della bontà vera profonda attiva, era e sarà per noi sempre lo stesso. La sua bella figura ci accompagna e ci aiuta a discernere nelle tenebre il vero dal falso, il buono dal malvagio e dolcemente ci ammonisce di non tradire quella religione del dovere che lo ebbe milite silenzioso ma perfetto, in ogni ora della sua via» (lettera di Carlo Rosselli alla madre del 3 Novembre 1928 in Nicola Tranfaglia, Carlo Rosselli dall'interventismo a «Giustizia e Libertà», Laterza, Bari 1968, p. 15; corsivo mio). Guglielmo Ferrero, invece, è uno storico di idee politiche radicali: interventista anch'egli, collaboratore de Il Secolo di Milano, introduce, nel 1922, il nostro negli ambienti culturali torinesi.
«Ebrei ma prima di tutto italiani. Anch'io perciò, nata e cresciuta in quell'ambiente profondamente italiano e liberale, non serbavo della mia religione che la pura essenza di essa, dentro al cuore. Elementi religiosi unicamente di carattere morale: e fu questo l'unico insegnamento religioso da me dato ai miei figlioli. Ricordo che il primo anno in cui mi trasferii a Firenze coi bimbi ebbi subito occasione di fare affermazione di questa italianità che non ammetteva due patrie» (Amelia Pincherle Moravia, Memoriale in Nicola Tranfaglia, Carlo Rosselli dall'interventismo a «Giustizia e Libertà», cit., p. 13).
«E Carlo chiede a se stesso -e domanda, ansioso che gli rispondano di sì, ai più intimi familiari e amici- se non sia suo dovere l'andare al più presto possibile, volontario, per prendere il posto del fratello caduto» (Alessandro Levi, op. cit., p. 12).
Carlo Rosselli, Inchiesta sui giovani (Guerra e fascismo) in La Libertà del 15 Maggio 1924 ora in Nicola Tranfaglia, Carlo Rosselli dall'interventismo a «Giustizia e Libertà», cit., pp. 22-23; corsivo nel testo.
Il 1919 è un anno di grandi riforme in materia elettorale: il diritto di voto è esteso a tutti i cittadini maschi maggiorenni e i seggi della Camera dei deputati vengono assegnati secondo il sistema proporzionale. L'effetto di tali innovazioni è la vittoria dei nuovi partiti di massa: il partito socialista ottiene 156 deputati, il partito popolare 100.
«Per quanto vedesse nella tesi del giovane "vita, ingegno e capacità di lavoro", o forse, appunto per questo, Salvemini "tempestò il manoscritto di critiche feroci ad ogni pagina". Ad ogni "io penso", "io credo", "io non dubito" che Carlo aveva scritto, Salvemini opponeva la necessità del metodo storico e della critica» (Aldo Garosci, Vita di Carlo Rosselli, v.I, cit., p. 29).
Gaetano Salvemini, Saggi sul Risorgimento e altri scritti, Einaudi, Torino 1946, p. 32. Per Salvemini, insomma, non esiste discontinuità fra l'elaborazione politica del giovane Rosselli e Socialismo liberale, la sua opera maggiore, pubblicata nove anni dopo Il sindacalismo. Tale giudizio non è unanimemente condiviso: si veda infra nota 29 e § 3.1.1.
Giovanni Spadolini, Carlo e Nello Rosselli, le radici mazziniane del loro pensiero, Passigli, Firenze 1990, pp. 10-11.
Questa interpretazione del rapporto Salvemini-Rosselli è dovuta principalmente a Nicola Tranfaglia (nel suo, già ampiamente citato, Carlo Rosselli dall'interventismo a «Giustizia e libertà»); tuttavia è necessario segnalare il giudizio dissenziente di Roberto Vivarelli. Infatti, proprio in polemica con Tranfaglia, scrive: «Occorre preliminarmente liberarsi da un pregiudizio corrente, ma a mio parere scarsamente fondato, e cioè che l'insegnamento di Salvemini abbia avuto una parte preponderante nella formazione intellettuale di Carlo Rosselli. Che i fatti stiano altrimenti mi sembra facilmente dimostrabile sulla base di un pur sommario esame di quel periodo della vita di Rosselli, il quale culmina in quella che, intellettualmente, rimane la sua opera più significativa, Socialismo liberale. C'è innanzi tutto da sottolineare l'indipendenza di Rosselli. Si è giustamente detto, infatti, che nel complesso "il punto di partenza o meglio ancora la base del pensiero di Rosselli fino al 1930" resta la tesi di laurea del 1921. Si tratta, come è noto, proprio del lavoro che, nei primi tempi del loro incontro, Rosselli dette a leggere a Salvemini, e che fu da questi sottoposto ad una critica spietata. Ma ciò significa che i temi generali del pensiero di Rosselli e anche quella sua idea fondamentale, la conciliazione di socialismo e liberalismo, erano probabilmente presenti già prima che Rosselli incontrasse Salvemini, e si erano comunque determinati, al di fuori della sua influenza». E continua: «Naturalmente dal 1921 al 1929-1930 la strada è lunga; ma sia che, sulla base degli scritti di essa si ripercorra intero il filo, lungo le più significative tappe della sua complessiva evoluzione intellettuale, sia che si considerino più specialmente i diversi temi affrontati in Socialismo liberale e il loro successivo modo di precisarsi, a me pare che il procedere di Carlo Rosselli sia del tutto disgiunto dall'effettiva acquisizione di un insegnamento salveminiano. Non solo infatti assai scarsi sono in questi scritti i riferimenti esterni a Salvemini; ma soprattutto non mi pare che Salvemini sia presente nelle motivazioni interne del discorso di Rosselli. [.]Bisogna aggiungere che, in larga misura, l'evoluzione intellettuale di Rosselli procede non solo indipendente, ma addirittura estranea del tutto all'insegnamento di Salvemini. [.]Dove soprattutto questa estraneità mi sembra emergere con piena chiarezza è proprio nelle pagine di Socialismo liberale» (citazioni da Roberto Vivarelli, Carlo Rosselli e Gaetano Salvemini in AA.VV., Giustizia e Libertà nella lotta antifascista e nella storia d'Italia, La Nuova Italia, Firenze 1978, pp. 70-71; corsivo nel testo; virgolettato tratto da Nicola Tranfaglia, Carlo Rosselli dall'interventismo a «Giustizia e Libertà», cit., p. 67).
Andrea [Andrea Caffi], Appunti su Mazzini in Quaderni di Giustizia e Libertà del 29 Marzo 1935 ora in Santi Fedele, E verrà un'altra Italia. Politica e cultura nei «Quaderni di Giustizia e Libertà», Franco Angeli, Milano 1992, p. 17-23.
Curzio [Carlo Rosselli], Discussione sul Risorgimento in Quaderni di Giustizia e Libertà del 26 Aprile 1935 ora in Scritti dall'esilio, v.II, a cura di Costanzo Casucci, Einaudi, Torino 1992, p. 152.
E' quanto ricavo dalla lettura di Piero Gobetti, La rivoluzione liberale, Einaudi, Torino 1995 (prima edizione 1924); tesi peraltro presente in parte nella corposa pubblicistica sul pensiero gobettiano. Per un approfondimento del concetto di 'rivoluzione' in Rosselli, infra § 3.2.
Sul valore che Liberalismo socialista riveste per la conoscenza del pensiero di Rosselli e sul dibattito riguardante il new Liberalism, infra 2.2.1 e § 2.2.2.
Riguardo a quella decisione, Tranfaglia cita nella sua biografia un passo di una lettera del 1924 di Rosselli a Gobetti dal quale è possibile evincerne le motivazioni: «Puoi bene immaginare [.] quali giornate abbia passato. E quali possono essere i miei sentimenti attuali e i miei propositi per l'avvenire. Ormai la battaglia va impostata in pieno e le opposizioni, magari gradatamente, debbono avere il coraggio di porre il problema della successione. Occorre però dare la sensazione al paese che la soluzione non sarà unicamente a vantaggio delle sinistre e soprattutto dei socialisti. Ho l'impressione che senza l'organizzazione di un forte partito di centro (Amendola) non si uscirà dalla crisi. Le forze plutocratiche hanno tutto da guadagnare dalla situazione attuale, e tutto da perdere colla caduta di Mussolini. Credo che tra poco entrerò nel Partito [Socialista] Unitario, probabilmente in un gruppo con altri amici, tra i quali Salvemini e Jahier. Forse anche Torraca. E' un tentativo che si deve fare tanto più che è venuta l'ora per tutti di assumere il proprio posto di battaglia in seno ai partiti. Solo così, forse, eviteremo il calderone di domani. E solo così sarà possibile, con l'ingresso di nuove forze d'accordo su un minimo comune denominatore, esercitare nell'ambito dei rispettivi partiti quel lavoro positivo di chiarificazione che faciliterà grandemente la soluzione di domani» (Nicola Tranfaglia, Carlo Rosselli dall'interventismo a «Giustizia e Libertà», cit., pp. 177-178). A pag. 178 Tranfaglia commenta: «La lettera è importante per comprendere lo stato d'animo di Rosselli che ondeggia ancora una volta tra la giusta intuizione che l'opposizione aventiniana deve adottare una strategia più decisa e risoluta e la paura che il "paese" (in realtà quella parte dell'opinione pubblica moderata che il giovane conosce) tema soprattutto l'avvento del "bolscevismo" e, pur di scongiurare una simile prospettiva, s'adatti ad accettare la permanenza di Mussolini al potere. Il lato debole del ragionamento, che segue la linea politica elaborata da Turati, consiste nell'illusione che una borghesia disposta a tollerare il fascismo per non rischiare una soluzione di sinistra potesse poi costituire il solido pilastro di una coalizione centrista antifascista e che tale coalizione fosse in grado di rovesciare il regime».
Con un decreto ministeriale del 30 Dicembre 1924, il duce sopprime la libertà di stampa. Gli effetti 'secondari' di tale atto legislativo non tarderanno a farsi sentire a Firenze: il pomeriggio del giorno successivo una squadra nera farà irruzione nella sede del circolo devastandone la mobilia e incenerendo nella piazza adiacente i libri lì custoditi. Descriverà Calamandrei: «I passanti restavano a guardare incuriositi, e un carrozzone della nettezza pubblica, provvidamente inviato in anticipo dal solerte sindaco del tempo, attendeva in disparte che fosse terminato l'auto-da-fé, per farne scomparire i resti inceneriti» (Piero Calamandrei, op. cit., p. 58).
In una lettera, del 15 Settembre 1924, Rosselli, commentando la notizia del ritrovamento del cadavere di Matteotti, descrive lo stato d'animo che lo spinge all'azione: «Non si può andare assolutamente avanti così. Ogni mese che passa senza una soluzione definitiva reca un nuovo colpo alle speranze di tramonto pacifico e costituzionale e di un aurora di civiltà. Eppure bisogna tener duro anche a costo di dover continuare a logorarsi tutta la vita. Almeno per me è un imperativo morale». In un'altra, successiva al discorso del 4 Ottobre in un passaggio del quale il capo del fascismo aveva affermato esplicitamente l'intenzione di rimanere al potere anche contro la volontà del Parlamento, delinea le motivazioni che lo spingono all'illegalità: «Il discorso di Mussolini è stato di una gravità eccezionale. Smentito o non smentito, il passo famoso sta ormai a significare che egli intende impostare la lotta sul terreno insurrezionale. Come fa l'opposizione a continuare a persistere nella lotta nel campo legale, quando il Premier dichiara di non riconoscere la validità dei metodi legali? Diventa puerile ed è un fare il gioco dell'avversario il non prendere atto dell'avvenuto mutamento» (citazioni in Nicola Tranfaglia, Carlo Rosselli dall'interventismo a «Giustizia e Libertà», cit., pp. 180 e 184).
In un brano dal chiarissimo accento mazziniano di una lettera a Salvemini del 12 Gennaio 1925, Rosselli scrive: «Di fronte al progressivo consolidarsi del fascismo la nostra sistematica opposizione corrisponde ad un relegamento fuori dalla storia; forse non avrà apparentemente nessuna positiva efficacia; ma io sento che abbiamo da assolvere una grande funzione dando esempi di carattere e di forza morale alla generazione che viene dopo di noi e sulla quale e per la quale dobbiamo lavorare» (in Lettere di Carlo e Nello Rosselli a Gaetano Salvemini (1925), a cura di Nicola Tranfaglia, in Annali della fondazione Einaudi, I, 1957, p. 350 passo citato anche in Giuseppe Fiori, op. cit., p. 47).
Non mollare si avvale della collaborazione dell'associazione clandestina di ex-combattenti l'Italia Libera, capeggiata da Dino Vannucci.
Così recitava un passaggio del telegramma (citato dallo stesso Rosselli in una lettera alla madre del 2 Maggio 1926 ora in I Rosselli. Epistolario familiare 1914-1937, a cura di Zeffiro Ciuffoletti, Mondatori, Milano 1997, p. 294), dell'allora ministro dell'economia Giuseppe Belluzzo al Rettore dell'Università di Genova Ortu Carboni, con il quale si chiedeva l'allontanamento dall'insegnamento del prof. Rosselli.
Sempre Carlo alla madre: «Caput, finalmente! Il direttore [Ortu Carboni] ha risposto al ministro con una lettera circostanziata di mia difesa che è un monumento di dignità e fermezza. Gli ha inoltre chiesto se potevo almeno dare gli esami, ma, malgrado una seconda missiva, non ha finora ottenuto risposta. Inutile ti dica che al punto cui sono giunte le cose preferirei mille volte di non dare né esami, né lauree; sarebbe una sfacchinata a vuoto» (ivi, p. 298). Riguardo alla carriera accademica di Rosselli c'è da ricordare che nel 1926 tenta, senza vincere, il concorso per la cattedra di Economia Politica presso l'Università di Cagliari.
Si ricordano Ernesto Rossi, Lelio Basso, Guido Mazzali, Nino e Alessandro Levi, Tullio Ascarelli, Mario Ferrara, Mario Vinciguerra, Adelchi Baratono, Ludovico Limentani, Arturo Labriola, Rodolfo Mondolfo, Gino Luzzatto, Santino Caramella, Tommaso Fiore, Max Ascoli, Alberto Pincherle, Andrea Caffi, Riccardo Bauer, Rodolfo Morandi, Giuseppe Saragat.
Carlo Rosselli, Autocritica in Il Quarto Stato del 27 Marzo 1926 ora in Paolo Bagnoli, Carlo Rosselli tra pensiero e azione, cit., p. 76.
Carlo Rosselli, Autocritica in Il Quarto Stato del 27 Marzo 1926 ora in Aldo Garosci, Vita di Carlo Rosselli, v.I, cit., p. 63. Per un approfondimento dei temi trattati in quell'articolo, infra § 2.2.3.
L'attentato di Zamboni a Mussolini del 31 Ottobre 1926 spinge il regime a promulgare nuove misure repressive fra le quali l'istituzione del tribunale speciale per l'assegnazione al confino degli oppositori, lo scioglimento dei partiti non fascisti superstiti, la chiusura dei giornali non allineati (fra i quali Il Quarto Stato e Critica Sociale). Bisogna ricordare che il Partito Socialista Unitario era stato sciolto già alla fine dell'anno precedente allorché la scoperta di un altro attentato a Mussolini, progettato da Tito Zaniboni, massone iscritto al P.S.U., ma probabilmente orchestrato ad arte dalla spia fascista Carlo Quaglia, aveva dato il pretesto alla polizia per chiuderne le sedi.
Giuseppe Fiori, op. cit., p. 81. Virgolettati tratti da Giovanni Cattanei, Ivo Chiesa e Luigi Squarzina (a cura di), Il processo di Savona, Edizioni del Teatro Stabile di Genova, n. 10, Marzo 1965, rispettivamente per ogni virgolettato, pp. 97, 105, 158.
Il parere è di Alessandro Levi citato in Giovanni Cattanei, Ivo Chiesa e Luigi Squarzina (a cura di), op. cit., p. 97, ora anche in Giuseppe Fiori; op. cit., p. 83.
Le biografie di quasi tutti gli esuli raccontano di lunghe lontananze dai propri cari e anche quella di Rosselli non sfugge a questa regola, tanto che anche per lui l'opportunità di trascorrere un periodo in famiglia può essere definito come un 'lusso'. Amelia Pincherle Moravia pone, a riguardo della condizione di esule e di combattente del figlio, un quesito bruciante: «Fino a quale punto un uomo, un marito, deve sacrificare la famiglia per l'ideale?» (Amelia Pincherle Moravia, Memoriale in Giuseppe Fiori, op. cit., ultima di copertina).
Il più importante libro del leader socialdemocratico belga Henry De Man, Au de là du marxisme (1927; stampato per la prima volta a Jena in lingua originale nel 1926 con il titolo Zur Psychologie des Socialismus; tradotto in italiano da Alessandro Schiavi nel 1929 con il titolo Il superamento del marxismo), è, secondo Tranfaglia (Nicola Tranfaglia, Sul socialismo liberale di Carlo Rosselli in AA.VV., I dilemmi del liberalsocialismo, a cura di Michelangelo Bovero, Virgilio Mura e Franco Sbarberi, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994, pp. 85-104) il testo di riferimento dal quale Rosselli trae maggiormente ispirazione per il suo Socialismo liberale (per un approfondimento di questo e altri aspetti di Socialismo liberale, infra cap. 3).
Politica e affetti familiari. Lettere dei Rosselli ai Ferrero (1917-1943), a cura di Marina Calloni e Lorella Cedroni, Feltrinelli, Milano 1997, p. 54.
Secondo Mastellone, «in questo periodo Carlo non si lascia abbattere dallo scoramento, anzi si può notare, dal punto di vista psicologico, che egli comincia a sentire la "missione del leader politico"» (Salvo Mastellone, Carlo Rosselli e la «rivoluzione liberale del socialismo», L. S. Olschki, Firenze 1999, p. 74).
La storia di G.L. è caratterizzata dall'incontro dialettico fra Rosselli e Lussu. Dai ricordi del pensatore sardo emerge con chiarezza l'impressione suscitatagli da Rosselli e, soprattutto, il senso di apertura culturale che ne caratterizzava la figura: «Io venivo da una ristretta ma profonda esperienza pratica di masse rurali povere, ed egli da un'esperienza generale più vasta, nazionale ed europea, prevalentemente culturale. Cioè, egli proveniva da quel mondo che si usa chiamare ancora, dopo Saint-Simon, di intellettuali. Lo stesso mondo di Turati, di Treves, di Gobetti, di Jaurès, di Léon Blum, di Saragat e credo anche di Togliatti [.]. Egli proveniva da un ambiente estremamente civile e moderno (basta conoscerne la madre per capirlo) che era la continuazione di generazioni precedenti, anch'esse ugualmente civili e moderne ai loro tempi. Una mente quindi critica del passato, curiosa dell'avvenire, fatta per essere in movimento perpetuo. [.]Io non ho mai pensato a chiedere dei suoi antenati [.]. Ma mi pare certo che debbano essere stati prevalentemente intellettuali e artisti [.]. La mia formazione, ambientale e atavica, era di altra natura. I miei avi, probabilmente per parecchi millenni, debbon essere stati tutti montanari, pastori di greggi, cacciatori e predoni». (Emilio Lussu, Alcuni ricordi di Carlo Rosselli in Il Ponte, a. III, n. 6, Giugno 1947 in Manlio Brigaglia, Emilio Lussu e Carlo Rosselli: il socialismo «diverso» di «Giustizia e Libertà» in Emilio Lussu, Lettere a Carlo Rosselli e altri scritti di "Giustizia e Libertà", a cura di Manlio Brigaglia, Ed. Libreria Dessì, Sassari 1979, p. 10).
Paolo Vittorelli, Dal movimento Giustizia e Libertà di Carlo Rosselli alle formazioni partigiane GL in AA.VV., Le formazioni di Giustizia e Libertà nella Resistenza, F.I.A.P., Roma 1995, p. 49.
Un passaggio di un'intervista per L'Italia del popolo del 30 Settembre 1929 chiarisce i suoi intenti: «Io ho sempre fatto professione di volontarismo, se non altro per reagire al pernicioso abito mentale che contraddistingueva molti socialisti dei tempi aurei e pacifici. Non si può credere a quali deformazioni possa condurre la teoria del materialismo storico male intesa e digerita. La preoccupazione di inserirsi nella Storia con la esse maiuscola, di fissare con la perfetta esattezza lo stato civile del proprio tempo, di navigare lungo la rotta indicata dalla bussola marxista, diventa tale da ridurre alle volte anche i migliori all'impotenza. Mentalità professionale da osservatori, e non uomini di azione che si propongono di collaborare attivamente al processo storico. L'uomo di azione deve, specie in certi momenti, rinunziar a farsi storico di sé stesso e della sua azione. Col dir ciò [.] non intendo far mia la formula dell'azione per l'azione. Odio anzi l'azione cieca, l'azione bruta, l'azione non assistita dalla ragione e non illuminata dalla luce morale. Non vorrei davvero che per reagire al cerebralismo e all'accademicismo si cadesse nell'eccesso contrario. La formula mazziniana "pensiero ed azione" deve essere il contrassegno di ogni oppositore degno di questo nome. Anche nei più rozzi e nei più incolti deve presentarsi sempre una chiara consapevolezza dei motivi e dei fini dell'azione. L'oppositore che dopo sette anni di fascismo non vede altro che il problema meccanico del rovesciamento della dittatura, è dubbio se costituisce per noi un alleato o un possibile nemico. Quindi sete di azione. Ma che sia azione accompagnata da una perfetta chiarezza ideologica» (Carlo Rosselli, Pensiero e azione per la riconquista della libertà in L'Italia del popolo del 30 Settembre 1929 ora in Scritti dall'esilio, v.I., a cura di Costanzo Casucci, Einaudi, Torino 1988, pp. 4-5).
Costanzo Casucci, Introduzione a Carlo Rosselli, Scritti dall'esilio, v.I, cit., p. IX. Riguardo al nome da dare al movimento, Fiori ricorda il riassunto che Lussu aveva fatto del dibattito fra l'ala liberaldemocratica e quella socialisteggiante: mentre la prima preferiva "Libertà e Giustizia", la seconda proponeva la denominazione che poi fu (Giuseppe Fiori, op. cit., pp. 111-112).
A chiarimento del significato che quelle azioni vogliono avere, il nostro scrive: «La rivoluzione non è colpo di Stato. La rivoluzione è grandioso sommovimento di popolo, è profonda trasformazione sociale; e richiede, col lavoro paziente di organizzazione e la seminagione in profondità, una catena ininterrotta di sacrifici. Facciamo che il '32 sia l'anno della rivoluzione italiana. E se non lo sarà, non per questo cesserà la battaglia. Fino ad ora sappiamo di poter dire che la battaglia proseguirà inesorabile, fino alla vittoria, dovessimo lavorare per i figli dei nostri figli» (Carlo Rosselli, Continuare, insistere in La Libertà del 31 Dicembre 1931 ora in Scritti dall'esilio, v.I, cit., p. 34).
Giuseppe Fiori così sintetizza il programma di G.L.: «Riforma agraria: "la terra a chi la lavora", con moderato indennizzo agli espropriati. Riforma industriale: socializzazione e gestione autonoma delle industrie siderurgica, saccarifera, delle costruzioni navali, mineraria, idroelettrica e dei fertilizzanti; restano fuori soltanto la manifatturiera e la meccanica; ovunque controllo operaio e democrazia di fabbrica. Riforma tributaria: è da introdursi la nominatività dei titoli e da ristabilirsi, con aliquote progressive, l'imposta di successione. Riforma urbanistica: municipalizzazione delle aree e delle costruzioni edilizie. Riforma istituzionale: imperativa la separazione completa di Stato e Chiesa: incondizionata libertà di culto, annullati i patti lateranensi. E poi: "L'organizzazione del nuovo Stato dovrà basarsi sulle più ampie autonomie. Le funzioni del governo centrale dovranno limitarsi alle sole materie che interessano la vita nazionale. Il principio dell'autonomia è uno dei principi direttivi del movimento rivoluzionario Giustizia e Libertà". (Nonostante Lussu, federalismo e regionalismo sono forma taciute)» (Giuseppe Fiori, op. cit., p. 142. I virgolettati di questo passo di Fiori sono tratti da Chiarimenti al programma in Quaderni di Giustizia e Libertà del Gennaio 1932 ora in Carlo Rosselli, Scritti dall'esilio, v.I, cit., pp. 35-49).
Scrive infatti: «A meno di un capovolgimento totale, la guerra viene, la guerra verrà. Verrà perché è fatale che le stesse cause abbiano a produrre gli stessi effetti, perché milioni di giovani sono allevati nel delirio a volerla, perché i fascismi, padroni di mezzo continente, vi saranno trascinati come alla prova suprema o alla risorsa estrema, perché la miseria e la fame furono sempre, come Proudhon ci ha insegnato, il più possente motivo di guerra, perché la lotta fra fascismo e antifascismo si avvia al giudizio di Dio, perché la vecchia Europa -ecco il punto- che credevamo seppellita con dieci milioni di morti sui campi di battaglia, risorge» (Carlo Rosselli, La guerra che torna in Quaderni di Giustizia e Libertà del Novembre 1933 ora in Elena Aga Rossi (a cura di), Il movimento repubblicano. Giustizia e Libertà e il Partito d'Azione, Cappelli, Bologna 1969, pp. 112-113).
Aldo Garosci, Introduzione alla seconda edizione di Carlo Rosselli, Oggi in Spagna domani in Italia, Einaudi, Torino 1967 (prima edizione 1938), pp. XII-XIII.
Carlo Rosselli, Il dovere dei rivoluzionari in Quaderni di Giustizia e Libertà del Luglio 1936 ora in Oggi in Spagna domani in Italia, cit., p. 19.
Franco Baldini, Il cono d'ombra. Chi armò la mano degli assassini dei fratelli Rosselli, SugarCo, Milano 1990.
Carlo Rosselli, Il sindacalismo (tesi di laurea del Luglio 1921), Archivio Rosselli, Firenze ora parzialmente pubblicata, con il titolo Il sindacalismo rivoluzionario, in Scritti politici, a cura di Zeffiro Ciuffoletti e Paolo Bagnoli, Guida, Napoli 1988, p. 43.
L'influenza di Georges Sorel nella riflessione socialista ed anche marxista occidentale del Novecento è oggi unanimemente riconosciuta; come, per esempio, nota Massimo L. Salvadori, il sindacalista-rivoluzionario francese dette spunto anche a numerose note gramsciane: Nel corso della crisi italiana del primo dopoguerra, Gramsci aveva elaborato una concezione antiautoritaria, antigiacobina, del partito, valorizzando, sotto la suggestione del pensiero del teorico del sindacalismo rivoluzionario Georges Sorel, l'idea della funzione creativa della democrazia operaia espressa dai Consigli di fabbrica (Massimo L. Salvadori, Il pensiero comunista nel Novecento in Il pensiero politico, v.III, t.I, a cura di Gianfranco Pasquino, UTET, Torino 1999, p. 298). Anche Bruno Bongiovanni ne sottolinea l'importanza e ne analizza i complessi rapporti con il marxismo (Bruno Bongiovanni, Il socialismo nell'Ottocento in Il pensiero politico, v.III, t.I, cit., pp. 238 e segg.). Come evidenzia, peraltro, Nicola Abbagnano, Sorel in Riflessioni sulla violenza, pur accettando da Marx il principio della lotta di classe e la negazione totale della società capitalista, se ne discosta facendo risalire questo principio da un'antropologia e una concezione della storia basata sulla filosofia dell'azione. Secondo Sorel, la realtà umana e storica è divenire incessante, movimento, azione: come tale, è libertà. Ma la libertà non si realizza se non nell'atto di un contrasto radicale, violento e totale, con l'esistente. La libertà dell'azione implica il concepimento di un mondo fantastico che si contrappone radicalmente a quello reale. Questo mondo fantastico, divenendo direttiva dell'azione delle masse, si configura come mito sociale. Al mito, espressione della volontà, si contrappone l'utopia, che, invece, è un prodotto eminentemente intellettualistico. Il mito prepara gli animi alla distruzione dell'esistente ed è inconfutabile perché si identifica nelle convinzioni di un gruppo, espresse in termini di divenire; l'utopia, che analizza i modi possibili per riformare la società, è, invece, confutabile. Sorel intende portare il socialismo dal piano dell'utopia a quello del mito, liberando lo stesso marxismo dai suoi elementi utopistici e riconducendolo al principio puro e semplice della lotta di classe aperta, totale, violenta. Il sindacalismo, perciò, a suo avviso, attraverso il mito dello sciopero generale, è l'unica forma di socialismo capace di superare le degenerazioni delle altre correnti, prive di valore spirituale. Può ben darsi che il mito non si realizzi mai, ma questo non inficia il suo potenziale sovversivo e, quindi, educativo delle masse. Tutto ciò, sempre secondo Sorel, implica la giustificazione della violenza. Non di quella minuta, sporadica e priva di grandezza, ma della violenza come guerra della classe operaia contro le altre classi. Essa nel suo vero concetto esclude la forza della società e dello Stato borghese: il socialismo non tende ad impadronirsi della forza ma a distruggerla e a creare una società di uomini liberi. Di qui il carattere morale della violenza, la quale non distrugge la morale ma la trasforma e la porta sul piano dell'entusiasmo e dell'eroismo (Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, v.III, UTET, Torino 1966, pp. 442-444).
Carlo Rosselli, Il sindacalismo in Nicola Tranfaglia, Carlo Rosselli dall'interventismo a «Giustizia e Libertà», cit., p. 58.
Metodi di lotta riguardo all'accettazione o meno dei quali era scaturita la prima crisi del socialismo italiano all'inizio del ventesimo secolo e dei quali si ha ancora eco, al tempo della stesura della tesi, negli scritti di Arturo Labriola.
C'è da dire che a tale critica non segue una pars construens: il rapporto fra intellettuali e masse rimane sullo sfondo del ragionamento rosselliano senza trovare in quelle pagine una sintesi chiara.
Carlo Rosselli, Il sindacalismo con il titolo Il sindacalismo rivoluzionario in Scritti politici, cit., pp. 50-51.
Preferenza che, a onor del vero, sembra più una scelta residuale dal rifiuto dell'idea rivoluzionaria piuttosto che frutto di una chiara e completa adesione al riformismo.
A proposito dei modelli europei ai quali, nella sua ottica, il riformismo socialista deve ispirarsi, è importante far notare che, a conclusione del suo lavoro, Rosselli auspica, rifacendosi a Bernstein, un'alleanza fra proletariato e borghesia avanzata. Volendo confutare l'immagine della borghesia come blocco reazionario compatto (e in ciò vi è, forse, una accentazione autobiografica), vede nell'avvicinamento delle masse operaie con la piccola borghesia (consumatori e piccoli produttori) una delle vie possibili per il superamento del settarismo del marxismo ortodosso.
Carlo Rosselli, Lineamenti della crisi sociale in Critica sociale del 15 Dicembre 1921 ora in Salvo Mastellone, op. cit., p. 135; corsivi nel testo.
Citazioni da Carlo Rosselli, Per la storia della logica. Economia liberale e movimento operaio in La Rivoluzione liberale del 15 Marzo 1923 ora in Opere scelte, v.I, a cura di John Rosselli, Einaudi, Torino 1973, p. 30.
Ivi, p. 34; corsivo nel testo. L'espressione "produttori" in questo caso fa riferimento agli operai: coloro che materialmente producono.
Citazioni da Carlo Rosselli, Contraddizioni liberiste in La rivoluzione liberale del 24 Aprile 1923 ora in Opere scelte, v.I, cit., pp. 38-39; corsivo nel testo.
Carlo Rosselli, Luigi Einaudi e il movimento operaio in Critica sociale del 15-31 Maggio 1924, ivi, cit., p. 44.
Ivi, p. 46. Rosselli ribadisce questo concetto, facendo riferimento alla dialettica fra Labour Party e Trade Unions, nell'articolo dal titolo Monopolio e unità sindacale in Riforma sociale del Settembre-Ottobre 1924, ivi, pp. 232-259.
Ibidem; corsivo nel testo. Questa idea trae spunto, nuovamente, dall'esempio britannico che è oggetto della riflessione rosselliana nell'articolo Il movimento operaio in La rivoluzione liberale del 25 Marzo 1924, ivi, pp.65-76.
Citazioni da Carlo Rosselli, Liberalismo socialista in Critica sociale del 1-15 Luglio 1923 ora in Salvo Mastellone, op. cit., p. 137.
A riprova di ciò basti ricordare, ad esempio, la polemica fra Rosselli e Treves riguardo alla linea programmatica ed ideologica che quel partito avrebbe dovuto seguire, la quale ebbe toni molto accesi.
Carlo Rosselli, Liberalismo socialista in La Rivoluzione liberale del 15 Luglio 1924 ora in Scritti politici, cit., pp. 74-75.
Carlo Rosselli, La crisi intellettuale del partito socialista in Critica sociale del 1-15 Novembre 1923, ivi, p. 61.
Carlo Rosselli, Aggiunte e chiose al «Bilancio marxista» in Critica sociale del 1-15 Dicembre 1923 ora in Opere scelte, v.I, cit., p. 100.
Carlo Rosselli, Il partito del Lavoro in Inghilterra in La Libertà del 15 Febbraio 1924 ora in Salvo Mastellone, op. cit., p. 145.
Come G.D.H. Cole, i coniugi Webb, R.H. Tawney, J.R. MacDonald, T.H. Green, J.A. Hobson, B. Russell, G. Lowes Dickinson.
Non c'è uniformità di giudizio fra gli studiosi intorno a quanto ha pesato la conoscenza degli scritti di John Stuart Mill e dello stesso Hobhouse nella costruzione della identità culturale di Rosselli. Riguardo al primo, Giovanna Angelini afferma che «negli scritti rosselliani i riferimenti a Mill, oltre ad essere sporadici (e del tutto assenti nella prima tesi di laurea), non rivelano una conoscenza approfondita del suo pensiero politico. [.]Rosselli pare ignorare che Stuart Mill aveva posto le basi di un "nuovo liberalismo"» (Giovanna Angelini, L'altro socialismo, Franco Angeli, Milano 1999, p. 113), ed è corroborata in questo giudizio anche dall'opinione di Bobbio (Norberto Bobbio, Introduzione. Tradizione ed eredità del liberalsocialismo in AA.VV., I dilemmi del liberalsocialismo, cit., p. 50). Poiché le obiezioni di Angelini sembrano non prive di una certa capacità persuasiva, mi asterrò in queste pagine dal trattare delle interrelazioni fra il pensiero dell'uomo politico fiorentino e quello del filosofo ed economista inglese. Riguardo al secondo, invece, anche se Tranfaglia fa notare che Rosselli non cita mai Hobhouse (Nicola Tranfaglia, Sul socialismo liberale di Carlo Rosselli, cit., p. 88), opinione questa, peraltro, confutata da Sbarberi (Franco Sbarberi, L'utopia della libertà uguale, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 59 e segg.), ritengo chiara l'esistenza nel pensiero dell'italiano di una forte ascendenza del sociologo inglese, e per la vicinanza complessiva dell'insieme dei temi trattati da entrambi, e per la profonda somiglianza nel tipo di linguaggio e di terminologia che condividono.
Leonard Tralawney Hobhouse è forse, tra i tanti riferimenti culturali di Rosselli, quello che presenta più di ogni altro le caratteristiche del 'pensatore' puramente speculativo: sociologo e scrittore politico; educato a Oxford, vi insegnò fino al 1897. Dopo una breve parentesi come segretario della Free Trade Union, dal 1907 la sua vita si svolse tutta nell'ambito accademico.
Testo originale: «the true Socialism is avowedly based on the political victories which Liberalism won and serves to complete rather than to destroy the liberal ideas» (L.T. Hobhouse in Salvo Mastellone, op. cit., p. 29).
Ibidem; corsivo nel testo. Questa è, probabilmente, la prima volta che il termine 'socialismo liberale' ha l'accezione odierna.
Testo originale: «the right to work and the right to a living wage are just as valid as the rights of persons» (ivi, p. 30; corsivi nel testo).
Nadia Urbinati, Il liberalismo socialista nella tradizione inglese in AA.VV., I dilemmi del liberalsocialismo, cit., p. 228. Secondo l'interpretazione di Urbinati del pensiero dell'inglese, quindi, lo Stato è la cornice legalitaria fondamentale dell'esercizio della libertà: «per Hobhouse la libertà non è il residuo che rimane laddove l'autorità statale tace, perché non è una proprietà dell'Io-sostanza, ma è una relazione. Per questo, la libertà presuppone non l'individuo semplicemente, ma l'interazione fra individui e ha bisogno di essere regolata, ovvero limitata. La libertà non è dove tace la legge, ma dove c'è la legge. Il diritto, l'espressione giuridica vera e propria della limitazione, è la garanzia della libertà e nell'estensione e moltiplicazione dei diritti è il segno della progressività di una società. [.]Se [.] la prima condizione perché tutti siano liberi (perché ci sia universale libertà) è che ci sia per tutti un grado e una forma di limitazione (universale limitazione), allora si può concludere che l'attributo essenziale della libertà è la genuina eguaglianza. Dove non c'è uguale libertà non c'è libertà, ma solo privilegio. L'espressione che egli ideò, e che è diventata la parola d'ordine del liberalsocialismo novecentesco è equal liberty, libertà uguale» (ivi, pp. 229-230; corsivi nel testo).
Virgilio Mura, op. cit., pp. 22-23. Nella nota 35 di p. 23 Mura sottolinea il giudizio di Hobhouse sul socialismo non-liberale, e sul marxismo in particolare, niente affatto dissimile da quello di Rosselli: «Hobhouse afferma che esistono due tipi di socialismo che non hanno nulla a che vedere con il liberalismo. Il primo è il socialismo meccanicistico (il marxismo), fondato su una falsa interpretazione della storia e della conoscenza, in quanto assume come punti fermi della propria analisi il fattore economico, l'equazione valore-lavoro e la lotta di classe, e propugna un sistema sviluppato di controllo dell'industria da parte del governo. E' un socialismo utopistico, perché i suoi obiettivi sono idee artificiali e non fatti reali, che non concede nulla alla libertà. Il secondo tipo di socialismo è quello burocratico-paternalistico-verticistico [.] che nutre, in genere, disprezzo per un'umanità che va guidata dall'alto con le tecniche della manipolazione».
Carlo Rosselli, Le ragioni degli accordi tra liberali e conservatori in La Giustizia del 17 Ottobre 1924, ivi, pp. 159-162. In un successivo articolo il nostro completa l'esposizione della sua interpretazione di quei fatti: «I liberali sono ormai sulla difensiva e le presenti elezioni potranno segnare l'inizio della loro decadenza, lunga forse, nobile certo. Non si può dimenticare che è una grande tradizione che lentamente scompare, che è un grande e storico Partito che viene travolto da quelle forze che esso stesso aveva sprigionato colla sua azione riformatrice. La specifica funzione progressista che il Partito Liberale aveva compiuto per tutto il secolo XIX nel campo politico va passando inevitabilmente al Partito Labourista che si propone di assolvere una analoga e grandiosa funzione specie sul terreno economico. A loro spese i liberali dovranno accorgersi che la funzione liberale intesa nel suo senso più profondo, non è legata necessariamente a nessun gruppo, nessun Partito, nessun ceto. La tragedia dei liberali sta nell'essere stati spogliati degli elementi fondamentali che soli possono compiere oggi una seria opera di rinnovamento e di progresso. Quel movimento operaio che per quasi tutto il secolo passato gravitò attorno al movimento liberale, sempre più se ne va distaccando, attratto dal socialismo moderato e gradualista del Labour Party» (c.r. [Carlo Rosselli], Laburisti e liberali faccia a faccia in La Giustizia del 20 Ottobre 1924, ivi, p. 163).
Le riflessioni di Rosselli sui risultati di quelle elezioni sono contenute in Carlo Rosselli, I fattori della vittoria conservatrice in La Giustizia del 1 Novembre 1924, ivi, pp. 171-173.
Carlo Rosselli, Autocritica in Il Quarto Stato del 3 Aprile 1926 ora in Opere scelte, v.I, cit., p. 129.
Carlo Rosselli, Autocritica, non demolizione in Il Quarto Stato del 1 Maggio 1926 ora in Scritti politici, cit., p. 104.
L'uomo dalla finestra [Carlo Rosselli], Attenti alla nomenclatura! in Il Quarto Stato del 31 Luglio 1926 ora in Salvo Mastellone, op. cit., p. 183; corsivo nel testo. Rosselli, insomma, intende il concetto di dittatura secondo l'accezione antica del termine e del concetto: magistratura speciale pro tempore per la salvezza dell'indipendenza delle libertà collettive e dello Stato dalle minacce esterne.
Carlo Rosselli, Socialismo liberale, a cura di Aldo Garosci, Edizioni U, Roma-Firenze-Milano 1945, p. 5; corsivo mio.
Rosselli stende le bozze in lingua italiana ma il libro viene pubblicato per la prima volta in francese con il titolo Socialisme libéral (Librairie Valois, Paris 1930, traduzione di Stefan Priacel). La prima edizione 'ufficiale' di Socialismo liberale (non considerando, quindi, 520 copie clandestine del saggio, diffuse dopo la Liberazione e stampate dalle Edizioni di «Giustizia e Libertà»), del 1945, deriva dalla traduzione italiana di Leone Bortone della versione transalpina. Il manoscritto originale, ritrovato solo nel dopoguerra, è pubblicato (integrato nei passi presenti soltanto nella stampa del 1945) all'interno di Carlo Rosselli, Opere scelte, v.I, a cura di John Rosselli, Einaudi, Torino 1973, pp. 349-487 (le citazioni di Socialismo liberale presenti in questa tesi sono tratte, per lo più, da tale edizione, richiamata in nota con la sigla SL). Socialismo liberale sarà poi ristampato come saggio a sé stante, sempre dalla Einaudi e sempre a cura del figlio di Rosselli, con una introduzione di Norberto Bobbio, nel 1979 e nel 1997.
Riguardo alla difficoltà delle condizioni materiali che accompagnano i coniugi Rosselli durante la stesura delle bozze del libro, ecco la testimonianza di Marion: «I regolamenti del confino non permettevano di scrivere su argomenti politici. Eravamo sempre ansiosi che i fascisti, facendo la ronda serale, o anche in qualche visita di giorno, non trasformassero la visita in perquisizione. Il solito ripostiglio del manoscritto era l'interno di un pianoforte molto malandato e stonato che Carlo aveva avuto la fortuna di noleggiare. Era l'unico strumento nell'isola e la sera Carlo suonava le sinfonie di Beethoven e gli studi di Chopin. Quando una preoccupazione maggiore del solito s'impossessava di noi, il manoscritto migrava per un certo periodo nelle conigliere del giardino. Quando il libro fu finito, [.] fui io a trafugarlo fuori di Lipari e poi fuori d'Italia» (Marion Rosselli, Lettera della moglie in Carlo Rosselli, Socialismo liberale, Edizioni U, Roma-Firenze-Milano 1945, p. 4).
Secondo Garosci, infatti, «Socialismo liberale è un libro polemico, che non si intende nella sua struttura se lo si stacca totalmente dalla biografia di Carlo Rosselli, e specialmente da quella fase della sua vita nella quale egli esercitò la sua azione e la sua critica nei confronti della corrente moderata del socialismo tradizionale. Prima della crisi Matteotti, prima del confino, i temi che formano la trama "italiana" del Socialismo liberale di Rosselli erano già stati da lui ampiamente spiegati e sostenuti» (Aldo Garosci, Nota dell'editore in Carlo Rosselli, Socialismo liberale, Edizioni U, Roma-Firenze-Milano 1945, p. 144). Per Tranfaglia, «a livello ideologico generale, la critica che muove Rosselli al pensiero di Marx non contiene elementi di novità, né rispetto a quanto il revisionismo europeo aveva messo in luce tra la fine dell'Ottocento e i primi vent'anni del Novecento, né rispetto a quel che lo stesso Rosselli aveva scritto, sia pure per accenni e in forma più giornalistica e meno sistematica, negli articoli del 1923-1924» (Nicola Tranfaglia, Carlo Rosselli dal processo di Savona alla fondazione di G.L. (1927-1929) in Rassegna di storia contemporanea, Gennaio-Marzo 1972, XXIV, n. 106, p. 18). Del giudizio di Salvemini già si è detto supra § 1.4.
Mastellone propone (pp. 197-257) la lettura di alcuni appunti di Carlo conservati nel fondo Rosselli (Biblioteca Nazionale di Firenze). Tra essi: I miei conti col marxismo (ipotesi di prefazione del libro già pubblicata in Opere scelte, v.I, cit., pp. 486-487) e Socialismo liberale (bozza del capitolo VI, dal cui titolo deriva quello dell'intero scritto). Inoltre, Mastellone commenta brevemente altre quattro bozze di prefazione (pp. 5-8).
Paolo Bagnoli, Rosselli, Gobetti e la rivoluzione democratica, La Nuova Italia, Firenze 1996, p. 17.
Intitolati, rispettivamente: Il sistema marxista, Dal marxismo al revisionismo, Marxismo e revisionismo in Italia, Conclusione del revisionismo, Il superamento del marxismo, Socialismo liberale, La lotta per la libertà, Per un nuovo socialismo.
Citazioni da Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, v.III, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, pp. 1841-1842.
Valentino Gerratana, Prefazione a Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, v.I, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. XXIII.
Ivi, pp. 354-355. E' ben vero che l'esposizione rosselliana del pensiero di Marx si fa apprezzare per la chiarezza, tuttavia bisogna sottolineare che a tale lucidità oratoria non corrisponde altrettanta puntualità nella notazione bibliografica. Per avvalorare le sue tesi, infatti, Rosselli non cita (se non assai concisamente) alcun passo degli scritti di Marx ma si limita, genericamente, ad indicare, a prova del suo discorso, la prefazione del 1859 alla Critica dell'economia politica, la prefazione e l'ultimo capitolo del volume I del Capitale, e accenna anche al Manifesto dei comunisti (ivi, p. 355). Rosselli è chiaro ma non produce prove sufficienti. Le successive argomentazioni non aiutano: «Si potrebbero citare innumeri brani di Marx a conforto di questa interpretazione deterministica. Ma più che le parole vale lo spirito generale che pervade l'opera sua, la impostazione di tutti i problemi che egli ebbe ad affrontare. [.]Certo il determinismo marxista ha un valore tutto convenzionale e relativo. Quando Marx dichiara le forze materiali di produzione fattore determinante del processo storico, egli si arresta consapevolmente ad un anello della catena deterministica. Ma non è che ignori le maglie antecedenti: Marx ha insistito più volte sull'influsso dei fattori naturali e ambientali, e, in special modo, sulla razza. Solo che assume questi dati come costanti. Ciò che lo interessa sono le variazioni dei fenomeni sociali all'interno di questo ambiente che assume come fisso, e la legge di queste variazioni. [.]E' ben noto quale enorme influenza esercitò su di lui e su tutti gli scrittori del periodo l'esperienza della rivoluzione industriale, in cui veramente la macchina e il sistema di fabbrica si rivelarono come i demiurghi. Ma è anche ben noto come Marx non azzardò mai la dimostrazione della sua tesi storiografica generale, la quale è frutto di una arbitraria estensione analogica delle conclusioni cui era pervenuto nella possente analisi dei primordi del sistema capitalistico» (ivi, pp. 356-357). Secondo il nostro, dunque, il determinismo di Marx non può essere validamente argomentato poiché esso si basa su una tesi storiografica non verificata. Tuttavia Rosselli non porta alcuna prova a sostegno del proprio ragionamento che risulta, quindi, a sua volta, non dimostrato.
Ivi, p. 357. Per il fiorentino il contrasto fra scientificità del socialismo e volontarismo è insanabile: «E' chiaro che l'introduzione del fattore "volontà umana" nel processo storico, significa escludere a priori ogni valore scientifico a una previsione sociologica. Infatti o si ammette una sfera di volontà, per quanto condizionata, nella vita dello spirito, nel modo d'essere della coscienza, o non la sia ammette. Se la si ammette cade il concetto di necessità storica, e sorge l'alternativa. Si introduce cioè quell'elemento di dubbio che nel sistema marxista difetta totalmente. O non si ammette questa sfera di libertà, cioè si ritiene che la volontà umana, date le circostanze, debba dirigersi in un senso determinato e allora la volontà umana, nel suo manifestarsi, viene ricacciata al rango di effetto e non più di concausa. In ambo i casi il tentativo di conciliare il sistema marxista con una interpretazione non deterministica, cade» (ivi, p. 358).
Rosselli cita Marx sempre per nome e solo questa volta (ivi, p. 365) si lascia 'scappare' tale espressione caratteristicamente polemica.
Ivi, pp. 368-369. Bisogna notare che Rosselli, benché sia solito usare il termine élite nell'accezione moschiana di "classe dirigente", è assolutamente avverso all'idea che il movimento operaio possa essere guidato da un'"avanguardia proletaria" e il concetto di "intellettuale organico" gli è del tutto estraneo. Nonostante ciò nel suo pensiero non manca una certa accentazione elitistica. Infatti, cercando di individuare le energie che costruiranno la società socialista, delinea, quasi incidentalmente, e non senza una qual certa intenzionalità autobiografica, i tratti fondamentali di una vera e propria élite borghese illuminata, composta da «alcune frazioni» di essa che «esercitano ancora una utile, diciamo anzi, indispensabile funzione progressista». Egli intende, cioè, l'insieme di quelle personalità che, «indipendentemente dal privilegio della nascita, realizzano nella vita nuovi valori nella sfera dell'intelligenza pura e del lavoro di direzione: gli intellettuali, gli scienziati, la parte più sana e più attiva della borghesia industriale ed agraria, e quelle figure formidabili del mondo moderno che sono gli imprenditori, i grandi capitani di industria, i politici dell'economia; coloro che, in quanto regime economico, avranno il compito di coordinare i vari fattori produttivi e di mantenere inesausto il ritmo del progresso economico» (ivi, p 439).
Ibidem. E' interessante notare che Rosselli ascrive il leninismo alla corrente revisionista: «Lo stesso leninismo, pure tanto rispettoso della lettera marxista, non ha fatto che sviluppare in modo autonomo e originale tutti gli aspetti volontaristici del sistema, vale a dire la dottrina relativa ai periodi di transizione e alla funzione della dittatura e del terrore» (ibidem).
Ivi, pp. 370-372. Le "innumeri citazioni" cui questo passo fa riferimento, spiega Rosselli, sono estrapolazioni dalle Tesi su Feuerbach, scritto giovanile di Marx, considerato il testo fondamentale dell'esegesi revisionista.
Ibidem. Da queste righe di Socialismo liberale si può evincere che Rosselli conosce bene Sulle orme di Marx di Mondolfo. Un'ulteriore prova di ciò è fornita dagli appunti che scrive su quel libro, ora pubblicati in Salvo Mastellone, op. cit., pp. 235-237. Da quelle pagine si comprende che il concetto mondolfiano di "rovesciamento della praxis" lo colpisce molto, nella dimensione di non risolvere o di non dire nulla di nuovo nel tentativo di superamento dei due limiti posti dal materialismo fatalista (marxista) e dal volontarismo idealista (dei socialisti rivoluzionari). Mondolfo dice che per agire la volontà ha bisogno di un momento critico antecedente al suo esercizio, momento che si esercita sulla base dei risultati pratici dell'attività precedente che costituisce ciò che la volontà vuole dialetticamente superare. Ma Croce aveva detto lo stesso quando, definendo l'atto volitivo, aveva scritto che «la volizione non nasce già nel vuoto, ma in una situazione determinata con dati storici e ineliminabili, sopra un accadimento o un complesso di accadimenti; i quali, poiché sono accaduti, sono necessari. Ciò importa che la volizione è sempre necessitata e sempre libera» (ivi, pp. 236-237). Conclude Rosselli: la posizione di Mondolfo e quella idealista sono identiche. Se è così, il marxismo, inteso da questo punto di vista, sfocia nel liberalismo. Ma così non è: infatti, a parte il tentativo di Mondolfo di rivisitare, con la sintesi concettuale del rovesciamento della praxis, il rapporto di dipendenza tra teoria e prassi all'interno del sistema marxista, i marxisti rimangono in un ottica di subordinazione di questa a quella. Adottando la terminologia filosofica greca, la praxis non sarebbe tale ma, piuttosto, sarebbe poiein (necessaria e deterministica); invece, l'intento di Marx è proprio quello di definire la praxis distinguendola dal poiein in quanto libera e non necessaria. Mondolfo, inoltre, rilancia anche il concetto della Umwälzenden Praxis (la visione unitaria dell'umanità come di un'attività che si sviluppa in una continua lotta interiore) propria, secondo Marx, degli Umwälzenderen: coloro i quali raggiungono una vera interpretazione del mondo in quanto dimostrano la volontà di cambiarlo. Rosselli contesta questa lettura delle possibilità ristrette di esercizio e di definizione del campo di azione della volontà da parte dell'uomo: non solo i rivoluzionari (gli Umwälzenderen) raggiungono una corretta interpretazione della realtà, dal momento che anche altre forze contribuiscono alla svolgimento dialettico del reale. Di qui il rifiuto, per consentire una concezione allargata del volontarismo soprattutto nel campo dell'azione politica, di conferire il diritto al cambiamento, attraverso lo strumento teorico della lotta di classe, alla sola classe proletaria.
Ivi, pp. 401-402. Rosselli, in Socialismo liberale, propone una rassegna dei nomi più importanti del revisionismo italiano contemporaneo (senza distinguere, peraltro, fra riformisti e sindacalisti rivoluzionari): la sua 'lista' include oltre a Mondolfo, Antonio Labriola, Arturo Labriola, Bissolati, Bonomi, Cabrini, Turati, Salvemini, Graziadei, Enrico Leone. Curiosamente, a quella schiera apparterrebbe, secondo il nostro, anche Benedetto Croce. Spiega, commentando gli effetti sulle giovani generazioni dell'introduzione del pensiero marxista in Italia: «Benedetto Croce, nella Storia d'Italia [.] ha reso un alto omaggio al marxismo che venne in quegli anni [il primo decennio del '900] a riempire il vuoto che vaneggiava nel pensiero e negli ideali degli italiani, contribuendo possentemente alla rinascita morale e culturale del paese. A quarant'anni di distanza, evoluto verso il conservatorismo illuminato, egli non esita a confessare che pur non accettando oggi il marxismo, è lieto di esserci passato attraverso e che, se non vi fosse passato, avvertirebbe una lacuna nella mente. Si comprende quindi agevolmente come tutta la nuova generazione si convertisse d'emblée al marxismo. Ma mentre in lui l'esperienza marxista ebbe soprattutto un valore critico e si risolse in una lezione di realismo storico, per gli altri, militanti entusiasti, assurse al rango di filosofia ultima, definitiva, al servizio di un programma di partito» (ivi, p. 383). Per Rosselli, Croce è, dunque, un esempio di marxista non socialista, nel senso che ha tratto da quella dottrina molti strumenti di analisi politica, ma ne ha rifiutato le conclusioni.
Ivi, pp. 404-405. Più avanti Rosselli approfondisce questi concetti in una ulteriore spiegazione della opposizione 'scientificità marxista-eticità liberale': «Essi [i socialisti marxisti] non si rendono conto che le forme veramente progredite del capitalismo tecnicizzato e razionalizzato non sono ormai molto lontane dalle forme che assumerebbe un socialismo applicato all'industria. Le differenze non stanno più (come in Marx) nella sfera della produzione, ma in quella della distribuzione e della morale. La razionalizzazione capitalista contiene in sé molti elementi di quella socialista; le distanze, grandissime nello spirito e nelle intenzioni, si attenuano assai nei pratici risultati. Oggi è possibile concepire che il passaggio dall'una all'altra si compia con processo graduale e pacifico: con un processo che, salvando i pregi ormai assicurati dall'una, li rafforzi progressivamente coi pregi dell'altra. Ma perché il processo si compia occorre che i socialisti abbandonino la vecchia posizione aprioristicamente critica e prendano seria nota della nuova realtà capitalistica. [.]La riforma sociale ideale cui si riferiscono i socialisti marxisti scaturì per contraccolpo critico e sentimentale dalle analisi delle deficienze e delle miserie morali e materiali di una fase superata del capitalismo nei paesi più progrediti. Nella misura in cui il capitalismo ha risolto i problemi e le contraddizioni segnalate da Marx, o ha realizzato i postulati della scuola socialista, la critica marxista è superata. [.]Il marxista si trova infatti costretto a spostare la sua requisitoria sul piano dei fattori morali, a rivendicare, contro la spaventosa uniformità e la disciplina livellatrice di una produzione standardizzata, i valori qualitativi, i fattori morali, i diritti all'autonomia e all'intelligenza degli operai; a farsi, in una parola, liberale, a resuscitare le vecchie formule del socialismo utopista e della rivolta libertaria. L'ironia della storia non ha mai fine.!» (ivi, pp. 414-416; corsivo nel testo).
Ivi, pp. 394-396. Spostando la sua attenzione dal campo più strettamente politico a quello culturale, Rosselli scrive: «Il discorso sulla necessità di un rinnovamento ideologico e di un maggiore liberalismo all'interno del movimento, si allarga a tutto quanto il problema della cultura. I socialisti in genere, e quelli italiani in particolare, sono terribilmente in ritardo in fatto di cultura; in ritardo -intendo- sulle posizioni in cui trovasi il meglio della nuova generazione. Ciò deriva in parte dalla pesantezza dei movimenti di massa, assai conservatori in fatto di ideologia e di cultura; ma in parte, in somma parte -almeno in Italia- dall'attaccamento feticistico alle posizioni del materialismo positivista che contrassegnava la élite socialista trent'anni fa. [.]Si trasportò in sede culturale lo stesso abito dogmatico che si portava in politica, e si pretese d'essere giunti in filosofia a verità assolute, definitive, senza possibilità di ritorni e di contraddizioni. La dialettica, tanto celebrata nel moto sociale, si negò nel mondo delle idee, o vi si rimbalzò in una forma meccanica. Il socialista doveva essere e non poteva che essere, positivista! L'idealismo e lo spiritualismo erano degenerazioni "borghesi"! Ebbene, bisogna che i socialisti, vecchi e nuovi, si convincano che alcune posizioni dello spirito umano, per contraddittorie che siano, sono insuperabili, eterne come il pensiero, connaturate alla nostra intelligenza, e sfuggono a ogni e qualsiasi rapporto di classe. Non è vero che il socialismo stia in una relazione necessaria con le filosofie materialiste e positiviste. [.]I socialisti troppo audacemente trasportano in sede culturale e spirituale la terminologia politica e le divisioni di classe. Altro frutto del determinismo marxista, altro grossolanissimo errore. La cultura non è né borghese né proletaria; solo la non cultura è tale, o taluni aspetti estrinseci e secondari della vita culturale. Si possono avere dei riflessi di classe sull'arte, ma non un'arte di classe. La cultura di un'epoca, di una nazione, è un patrimonio di valori che trascende il fenomeno economico della classe, per affermarsi come universale. [.]Il lungo discorso comporta una precisa conclusione. Questa: il movimento politico socialista deve adottare, per quanto si attiene all'indirizzo filosofico e culturale, un principio di larga intelligente tolleranza; se per il singolo è comprensibile, anzi doveroso, ogni sforzo per collegare teoria e pratica, pensiero e azione, lo stesso proposito, riferito al movimento nel suo complesso, è un fatale errore. Guai a legare un moto dallo svolgimento secolare e dalla molteplicità insopprimibile dei motivi, a un dato credo filosofico. Guai a voler fissare, come altra volta si fece, una filosofia "ufficiale" del socialismo» (ivi, pp. 473-475; corsivi nel testo).
Ivi, pp. 396-397; corsivo nel testo. Questo il parere del fiorentino riguardo all'incapacità dei socialisti a comprendere la dimensione storica del fenomeno fascista e le origini "irrazionali" della sua prorompente vitalità: «L'atteggiamento di troppi socialisti eminenti di fronte al fenomeno fascista nascente, fu o buddistico o stoico. Essi allargarono le braccia desolatamente e si disposero al martirio, convinti che poco o nulla vi fosse da opporre all'avanzarsi del fato che avevano analizzato in tutti i suoi elementi componenti. Essi avevano già razionalmente giustificata la loro sconfitta, quando gli altri non si illudevano neppure di vincere. E' tanto facile rassegnarsi alla sconfitta quando essa pare venire dalla "forza delle cose", dalla "immaturità [dello] sviluppo capitalistico", dalla "fase di necessaria crescenza borghese", ecc. ecc. E quando queste formule reggono poco, allora serve egregiamente l'hegelianesimo di basso rango con la sua razionalizzazione del reale, di tutta la realtà, anche di quella realtà che, contraddicendo alla legge intima dello sviluppo storico, dovrebbe espellersi dalla.realtà. [.]Soprattutto grave è la costante sottovalutazione che i marxisti fanno delle ideologie e dei cosiddetti fattori "irrazionali" (le passioni). [.]I primi nuclei fascisti non si può dire che si muovessero per esclusivo interesse o suggestione di classe, e neppure erano composti da soli borghesi. Erano gruppi di spostati, di allucinati, di idealisti (di criminali anche), in preda a un delirio patriottardo e romantico. Solo più tardi essi diventeranno strumento della reazione agrario-plutocratica. I materialisti storici (o presunti tali), [.]accostumati a considerare le idee come travestimenti degli interessi e dei rapporti di classi, non si resero conto della forza autonoma e potentissima che la passione, bella o brutta che fosse, destava negli animi dei loro rivali. Non intesero che nell'urto non è tanto il grado di consapevolezza critica che conta, quanto la spontaneità, la forza viva, la interna persuasione, lo spirito attivo di lotta e di sacrificio. Così avvenne che mentre da un lato si potenziava sino all'inverosimile la forza esplosiva del movimento fascista, dall'altro prevaleva nei dirigenti una mera capacità critica. Tra i lottatori e gli storici la partita non fu dubbia: vinsero i primi» (ivi, pp. 409-410).
Scrive, infatti: «L'esperienza secolare del moto proletario non si cancella. Il figlio si emancipa, ma non può rinnegare il proprio padre. I socialisti moderni sono figli di Marx, anche se oggi si rifiutano di ricevere la sua eredità senza un larghissimo beneficio d'inventario. [.]Il problema vero per i socialisti non consiste [.] nel rinnegare Marx, ma nell'emanciparsene. Accettare ciò che è vitale: respingere, apertamente, definitivamente, quanto nel marxismo v'ha di erroneo, di utopistico, di contingente» (ivi, pp. 419-420; corsivo nel testo).
Ivi, pp. 351-352. Rosselli non è stato il primo a tentare di conciliare "il razionalismo greco e il messianesimo d'Israele", a cercare una sintesi per la controversa endiadi liberalismo-socialismo (per un approfondimento, infra § 4.1). Per il momento, al fine di tratteggiare le linee essenziali della questione, può essere sufficiente avere notizia della stroncatura che Benedetto Croce fa riguardo a tale tentativo. Il filosofo napoletano imposta la sua critica affrontando l'analisi dei concetti di libertà e di giustizia posti alla base, rispettivamente, del liberalismo e del socialismo. I due termini, a suo avviso, non possono essere superati dialetticamente da un terzo: l'antitesi è insanabile. Di qui il conio della definizione di "ircocervo" dato da Croce (Benedetto Croce, Nuove pagine sparse, v.II, Laterza, Bari 1966 prima edizione 1949 , p. 254) al socialismo liberale di Rosselli: è un vero e proprio errore logico l'atto di giustapporre questi concetti «così come si suol presentarli e raccomandarli uniti, quasi si pongano sulla tavola e si offrano, l'una accanto all'altra, due noci» (Benedetto Croce, Libertà e Giustizia in La mia filosofia, a cura di Giuseppe Galasso, Adelphi, Milano 1993, p. 95). Croce, in definitiva, confutando sul piano logico la possibilità di superare l'opposizione dei due concetti e di fonderli in un'unica formula, reimposta il problema ammettendo la superiorità dell'idea di libertà: «ha in sé la virtù, e con essa il dovere, di proporsi e risolvere i problemi morali che sorgono sempre nuovi nel corso della storia, tutti i problemi, quali che essi siano: salvo, beninteso, quell'unico di rendere gli uomini felici e beati, che non è un problema ma una fisima, e si può lasciar in pastura dei discettanti sulla giustizia da introdurre nel mondo e sull'eguaglianza a cui ridurlo per farlo star buono» (ivi, p. 110). Queste considerazioni avvalorerebbero l'immagine di un Croce aspramente critico nei confronti della teoria rosselliana del socialismo liberale e, quindi, dell'impossibilità di un accostamento, seppur remoto, del nostro al pensiero del filosofo napoletano. Tuttavia Tranfaglia rileva che in Croce «Rosselli trova spunto o conferma di motivi centrali del suo libro: l'inesistenza di un effettivo conflitto tra socialismo e liberalismo nell'organizzazione economica della società; la non necessaria connessione tra liberismo e liberalismo, già affermata da Rosselli nel 1924 in polemica con Luigi Einaudi; e di qui [.] un'affermazione di particolare importanza ai fini della tesi rosselliana [.]: "Ben si potrà, con la più sincera e vivida coscienza liberale, sostenere provvedimenti e ordinamenti che i teorici dell'astratta economia classificano come socialisti e, con paradosso di espressione, parlare finanche (come ricordo si fa in una bella elogia e apologia inglese del liberalismo, quella dello Hobhouse) di un 'socialismo liberale'. Una seria opposizione di principio al socialismo è soltanto quella che si oppone all'etica e politica autoritaria, che è l'etica e politica liberale"» (Nicola Tranfaglia, Sul socialismo liberale di Carlo Rosselli, cit., p. 87. I virgolettati citati da Tranfaglia sono tratti da Benedetto Croce, Liberismo e liberalismo in Etica e politica, Laterza, Bari 1956, p. 327).
SL, pp. 423 e 425. Riguardo all'urgenza di una impostazione etica e morale del socialismo in termini libertari, sempre in polemica con i socialisti tradizionalisti, questo è il parere di Rosselli a proposito della situazione italiana: «Qual è la posizione dei socialisti di fronte al problema della libertà? La dottrina marxista cui in maggioranza ancora aderiscono permette loro di giungere ad una visione integrale della questione italiana, con quella assolutezza ideologica ed etica che è premessa indispensabile per un serio moto rinnovatore? Non direi. Il socialismo marxista ignora la libertà. Esso assegna alla libertà un valore tutto relativo e storico. [.]Per esso il problema, fondamentalissimo, della libertà morale dell'uomo, non esiste neppure o è tutto e solo in relazione alla soggezione degli uomini al meccanismo economico. [.]Errore e illusione, o per lo meno grandissima unilateralità. Come sempre accade alle tesi innovatrici, il marxismo ha posto in risalto un dato, sia pure essenziale, del problema; ma per affermare quello ha sacrificato tutti gli altri. Vi sono dei valori essenziali nella vita così degli uomini come della società che non dipendono da una semplice trasformazione ambientale, che si pongono sempre e dovunque ci si innalzi sopra la vita animale, e che richiedono, per essere compresi, l'educazione e gli sforzi di una lunga serie di generazioni: anzi si può dire che essi costituiscono il presupposto indispensabile per quella stessa trasformazione ambientale dai socialisti auspicata. Se gli uomini non hanno radicato né il senso della dignità né quello della responsabilità, se non sentono la fierezza della loro autonomia, se non si sono emancipati nel loro mondo interiore, non si fa il socialismo. [.]L'impotenza del socialismo marxista di fronte ai problemi di libertà e di moralità, si rileva anche la sua relativa incapacità a penetrare il fenomeno fascista. [.]Il fascismo va innestato sul sottosuolo italico, e allora si vede che esso esprime vizi profondi, debolezze latenti, miserie ahimè del nostro popolo, di tutto il nostro popolo. Non bisogna credere che Mussolini abbia trionfato solo per la forza bruta. La forza bruta, da sola, non trionfa mai. Ha trionfato perché ha toccato sapientemente certi tasti ai quali la psicologia media degli italiani era straordinariamente sensibile. Il fascismo è stato in un certo senso l'autobiografia di una nazione che rinuncia alla lotta politica, che ha il culto dell'umanità, che rifugge dall'eresia, che sogna il trionfo della facilità, della fiducia, dell'entusiasmo. Lottare contro il fascismo non significa dunque solo lottare contro una feroce e cieca reazione di classe, ma lottare contro un certo tipo di mentalità, di sensibilità, di tradizione italiana che sono proprie, purtroppo, inconsapevolmente proprie, di larghe correnti di popolo. Perciò la lotta è difficile e non può consistere in un semplice problema di meccanico rovesciamento del regime. E' innanzitutto problema di educazione morale e politica nostra e altrui, dei nostri avversari soprattutto, in ogni caso di tutti gli italiani, indipendentemente da ogni divisione di classe» (ivi, pp. 460-462).
Ivi, pp. 430-432. Diversi appunti di Rosselli (ora pubblicati in Salvo Mastellone, op. cit., pp. 215-221) riguardo a Zur Psychologie des Sozialismus di De Man dimostrano la grande attenzione che egli riserva al leader della socialdemocrazia belga (probabilmenteha il primo contatto con quel libro attraverso le recensioni di Croce e di De Ruggiero, apparse su La Critica rispettivamente nel 1928 e nel 1929; anche Gramsci, nel primo e nel quarto dei Quaderni dal carcere, si interessa a quell'opera). Proprio sulla base di quegli appunti, Tranfaglia arriva a sostenere che Socialismo liberale può essere considerato «una sorta di adattamento dell'opera di De Man [.]. "Ecco un libro, anzi, ecco il libro, il mio libro -confessa Rosselli all'inizio delle sue note di lettura su Zur Psychologie des Sozialismus- il libro che avevo tante volte sognato di scrivere, tante volte cominciato, sempre abbandonato. E' la confessione coraggiosa, onesta, acutissima di un marxista disincantato, o meglio di un socialista convinto e praticante che vede volatilizzarsi il verbo marxista alla luce dei fatti e delle dure esperienze"» (Nicola Tranfaglia, Sul socialismo liberale di Carlo Rosselli, cit., pp. 88-89). «Le successive annotazioni», continua Tranfaglia, «confermano l'importanza e la centralità per Rosselli dell'incontro con De Man. Certo non si può dire che tutte le tesi di Socialismo liberale siano state tratte dall'opera del teorico belga. [.]Ma è in De Man [.] che Rosselli trova sottolineata con vigore anzitutto la necessità della liquidazione del marxismo per un'ideologia che rivaluti un socialismo etico e libertario, un riformismo che non perda di vista i fini generali del movimento. Proprio commentando la quarta parte del libro di De Man [.], Rosselli osserva nelle sue note di lettura: "E' la parte più originale del libro e la più personale" e, riportando la seguente frase testuale ('Gli antagonismi rivoluzionari non sono reali che per quel tanto che si applicano a dei fini etici e giuridici: è per questo che il senso storico essenziale di ogni rivoluzione è il rovesciamento dell'ordine giuridico in base a un nuovo principio etico') commenta significativamente: "Siamo di fronte al più completo rovesciamento della posizione marxista! Considerare cioè come reale solo il rovesciamento etico o giuridico. E' questo del resto l'unico modo di salvare il riformismo, il gradualismo dalla degenerazione e dalla sciatteria. Approfondire". E' in De Man che il fiorentino legge "delle pagine quadrate e vibranti sul valore della democrazia, che, ben diversamente dal marxismo, non va considerato come mezzo, ma come una condizione psichica senza la quale il socialismo non può realizzarsi, addirittura come la sostanza stessa delle sue idee" [.]. Ma soprattutto De Man offre all'ex allievo di Salvemini una dimostrazione assai suggestiva sul piano psicologico delle ragioni della diffusione del marxismo tra le masse operaie e del fatto che del marxismo le masse hanno sempre colto gli aspetti fatalistici, deterministici piuttosto che la dialettica o gli aspetti libertari di esso, o almeno di una parte di esso. [.]A Rosselli non "pare molto felice il tentativo di De man di 'far ricorso ai dettami della psicologia freudiana' per spiegare un simile processo [.]. Ma, Freud o non Freud, Rosselli accetta del ragionamento di De Man le conclusioni ultime. E quando questi osserva [.] che 'l'uomo non può colmare la sua nostalgia più profonda, la vittoria sul tempo, che se trasforma i suoi fini futuri in movimenti attuali e incorpora così un frammento dell'avvenire nel presente', Rosselli commenta: "Acutissimo e fondamentale. E' il perfezionamento della formula di Bernstein. Non il moto è tutto, ma le relazioni, gli stimoli che vi presiedono. Ritorno all'io, e ai motivi intimi e profondi"» (ivi, pp. 89-90).
Costanzo Casucci, op. cit., p. XIII. Casucci riassume il giudizio di Fabbri espresso in Catilina [Luigi Fabbri], Recensione a Socialisme libéral in Studi Sociali. Rivista di libero esame del 16 Agosto 1931.
Ivi, p. XIV. Casucci riporta il giudizio di Saragat espresso in Giuseppe Saragat, Rosselli e il 'Socialismo liberale' in Avanti! (L'Avvenire del lavoratore) del 10 Gennaio 1931.
Ivi, p. XIV. Il riferimento questa volta è a Noi [Pietro Nenni], Il socialismo e la lotta per la libertà in Avanti! (L'Avvenire del lavoratore) del 17 Gennaio 1931.
Rabano Mauro [Claudio Treves], Recensione a Socialismo liberale in La Libertà del 15 Gennaio 1931 ora in Scritti dall'esilio, v.I, cit., pp. 297-298.
Giuseppe Fiori, op. cit., pp. 124-125; corsivo nel testo. I virgolettati sono tratti da Ercoli [Palmiro Togliatti], Sul movimento di «Giustizia e Libertà» in Lo Stato Operaio, a. V, n. 9, Settembre 1931.
Carlo Rosselli, A Proposito di Socialismo liberale in La libertà del 22 Gennaio 1931 ora in Scritti dall'esilio, v.I, cit., pp. 23-24. E' uno dei tanti episodi di polemica con Treves di cui si è detto supra cap. 2.
Le proposte di G.L. riguardo all'assetto politico-istituzionale italiano sono contenute in Schema di programma (per la lettura integrale di quello scritto, infra appendice). Benché sia stato pubblicato solo nel 1932, non appartenga, cioè, alla fase 'gestuale' del movimento, non è inopportuno considerare Schema di programma come il manifesto politico di G.L. poiché rispetto alla sua prima, embrionale, formulazione ([Primo programma di «Giustizia e Libertà»] in Giustizia e Libertà n. 1 del Novembre 1929 ora in Carlo Rosselli, Scritti dall'esilio, v.I, cit., p. 293.), si distingue per completezza, pur nella continuità di contenuti.
«La rivoluzione è il tentativo accompagnato dall'uso della violenza di rovesciare le autorità politiche esistenti e di sostituirle al fine di effettuare profondi mutamenti nei rapporti politici, nell'ordinamento giuridico-costituzionale e nella sfera socio-economica. [.]La rivoluzione si distingue dal colpo di Stato perché questo si configura soltanto come il tentativo di sostituire le autorità politiche esistenti all'interno del quadro istituzionale, senza nulla o quasi mutare dei meccanismi politici e socio-economici. Inoltre [.] il colpo di Stato è tipicamente effettuato da pochi uomini già facenti parte dell'élite ed è quindi di tipo essenzialmente verticistico. La presa del potere da parte dei rivoluzionari può, peraltro, avvenire per mezzo di un colpo di Stato [.], ma la rivoluzione non si compie che in seguito ai profondi mutamenti introdotti nei sistemi politico, sociale ed economico» (Gianfranco Pasquino, voce Rivoluzione del Dizionario di politica, a cura di Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino, UTET, Torino 1983, pp. 1001-1002).
Chiarimenti al programma, cit., p. 36. Le intenzioni di G.L. si chiariscono meglio nelle righe subito successive, in polemica verso i comunisti: «Sorge a questo punto il problema dell'assetto post-rivoluzionario. [.]Bisogna essere molto chiari a riguardo, tanto più che proprio qui sorge il fondamentale dissenso tra "Giustizia e Libertà" e i comunisti. A rivoluzione compiuta "Giustizia e Libertà" intende che siano ristabilite immediatamente le libertà per tutti indistintamente i cittadini e che una costituente venga al più presto convocata per legalizzare l'opera della rivoluzione e fissare il definitivo ordinamento del paese. A rivoluzione compiuta i comunisti, se riuscissero a impadronirsi del potere, non solo non ristabilirebbero le libertà fondamentali, ma dichiarano sino da ora che instaureranno la dittatura delle avanguardie del proletariato e non rispetteranno la volontà della maggioranza del paese, se questa dovesse risultare a loro contraria. La differenza, come è chiaro, è decisiva. E' il significato stesso della rivoluzione che viene sovvertito. "G.L." ricorre alla rivoluzione per abbattere la dittatura fascista e conquistare un regime di vera democrazia in cui la libertà sia posta al riparo da ogni attentato e da ogni usurpazione. Il Partito comunista ricorre alla rivoluzione per sostituire alla dittatura fascista la sua dittatura. "G.L." è democratica e non riconosce che un solo sovrano: il popolo. Il Partito comunista è antidemocratico e riconosce un ben diverso sovrano: esso partito» (ivi, pp. 36-37).
Il nostro movimento e i partiti in Giustizia e Libertà n. 10 del Settembre 1930, ivi, p. 13. A chiarimento dell'opzione repubblicana contenuta nel programma di G.L., Rosselli esprime, in altri scritti, il proprio favore per «uno Stato federativo orientato nel senso della libertà, cioè di una società socialista federalista liberale» (Carlo Rosselli, Discussione sul federalismo e l'autonomia in Giustizia e Libertà del 27 Dicembre 1935 ora in Scritti dall'esilio, v.II, cit., p. 264): «In luogo di uno Stato centralizzato e di rapporti di soggezione», dalla rivoluzione deve scaturire «una società federazione di gruppi quanto più spontanei, liberi e ricchi di contenuto» (citazioni da Carlo Rosselli, Socialismo e fascismo in Giustizia e Libertà del 1 Febbraio 1935, ivi, p. 106). In queste affermazioni si intende limpidamente la forte ascendenza delle idee di Proudhon e di Cattaneo. Soprattutto dalla lettura delle opere di quest'ultimo Rosselli trae ispirazione per il suo pensiero in tema di relazioni internazionali. Infatti, dinnanzi al dilagare dei fascismi in tutta Europa, che metteva in crisi la dimensione nazionale degli Stati, egli propone l'unità politica del continente attraverso la costituzione di un nuovo soggetto statale di tipo federale, capace di garantire, in futuro, a tutte le forze popolari l'habitat democratico di cui necessitano, anche su larga scala, per mantenersi libere e prospere (Carlo Rosselli, Europeismo o fascismo in Giustizia e Libertà del 17 Maggio 1935, ivi, pp. 165-171).
Carlo Rosselli, I presupposti della lotta rivoluzionaria in La Libertà del 6 Ottobre 1932, ivi, p. 168; corsivi nel testo.
A questo mutamento di prospettiva corrisponde una, seppur parziale, revisione del pensiero rosselliano riguardo ai metodi di conduzione della rivoluzione: la convinzione che la guerra al fascismo vada impostata «come problema di popolo, e non più come problema di una setta di iniziati» (SL, p. 459) cede il passo alla fiducia nell'azione di «nuclei ristretti, di minoranze attive e battagliere che si danno come compito essenziale quello di educare i quadri per la lotta rivoluzionaria» (Carlo Rosselli, G.L. e le masse [Luglio 1934] ora in Scritti dall'esilio, v.II, cit., p. 26). Il nostro, cioè, allargando la prospettiva del movimento e rivendicandone l'ascendenza gobettiana, preconizza la formazione della classe politica post-fascista. Premettendo, infatti, che «la grande importanza riconosciuta al problema della formazione di élites dirigenti non deriva, come taluno potrebbe supporre, da uno spirito aristocratico del movimento, ma da una profonda ripugnanza per la vecchia concezione di massa del movimento socialista, per tutti gli aspetti numerici, indifferenziati, totalitari della vita moderna», assegna a G.L. il ruolo di «organo politico della rivoluzione, [.]anticipatore in nuce del nuovo Stato» (citazioni da Carlo Rosselli, Un nuovo movimento italiano [fine 1933-inizio 1934], ivi, rispettivamente pp. 272 e 273). Questa chiara accessione all'élitismo non tradisce, comunque, la fedeltà ad un processo di trasformazione politica e sociale alimentato dal basso e al carattere movimentista di G.L.: «La rivoluzione non è la conquista delle leve di comando ad opera di una piccola minoranza. La rivoluzione è fermento, è sovversione dal basso, crisi sociale, ad un tempo economica, politica, morale. Il partito rivoluzionario non deve concepirsi come piccolo Stato ma piuttosto come una società microcosmica, con tutta la pluralità, intensità e ricchezza di motivi proprii di una società libera e attiva. Quindi movimento e non partito; [.] e soprattutto rinuncia alla pretesa di identificare il gruppo, il movimento, il partito con la classe operaia tutta quanta» (Carlo Rosselli, Tesi su lo Stato e il partito in Giustizia e Libertà del 5 Giugno 1936, ivi, p. 368). Il pensiero di Rosselli riguardo a questi temi e, in generale, sulla rivoluzione avrebbe dovuto trovare il proprio compiuto svolgimento in un libro, dal titolo La révolution, del quale stese il capitolo introduttivo (ora pubblicato, con il titolo La révolution. Un inédit de Carlo Rosselli, ivi, pp. 557-562).
Nella divisione cronologica dell'attività di G.L., Tranfaglia, alle prime due fasi, 'gestuale' e 'politica', attraverso l'analisi di documenti in massima parte inediti, fa seguire una terza fase (1934-1937) nella quale Rosselli avrebbe cercato l'accordo con i comunisti al fine di costituire un partito unico dell'antifascismo (Nicola Tranfaglia, Sul socialismo liberale di Carlo Rosselli, cit., pp. 99-104).
Virgilio Mura, op. cit., p. 35. Il virgolettato è tratto da Noberto Bobbio, Il liberalsocialismo dalla lotta antifascista alla resistenza in Il Ponte, XLII, n. I, 1986, p. 147.
Si pensi al giudizio di Rosselli relativo alle ragioni che indussero gli italiani ad abbracciare il fascismo.
E' importante notare che, secondo Rosselli, l'intervento statale in economia si deve fermare al momento distributivo e non può interferire in alcun modo nel processo di produzione della ricchezza.
Dal punto di vista deontologico, il principio di giustizia si compone di due momenti: prima, come volontà al rispetto della propria autonomia; poi, come volontà al rispetto di quella altrui. Il volontarismo è l'agente catalizzatore del processo di realizzazione dell'eticità politica. Così come la volizione è fondamentale nell'attuazione della moralità, allo stesso modo la sua assenza comporta l'impossibilità di transitare dall'essere al dover essere. Volontà morale e volontà etica sono due stadi distinti, che peraltro si incontrano, della costruzione consapevole, raziocinante, dell'edificio sociale.
Virgilio Mura, op. cit., p. 31; corsivo nel testo. A chiarimento del problema terminologico sopra accennato, Michelangelo Bovero puntualizza «che non è infrequente incontrare», «nelle pagine dei [.] liberalsocialisti», «usi imprecisi, [.]equivoci e a volte francamente inaccettabili dei termini liberalismo, socialismo e simili»: «si possono riscontrare [.] alcuni ricorrenti slittamenti di significato [.]. Due, soprattutto: a) spesso i significati di liberalismo e di socialismo scivolano l'uno sull'altro fin quasi a sovrapporsi; b) spesso ciascuno di essi viene a confondersi con il significato di democrazia. [.]Un'altra confusione ricorrente ha radice nella ben nota ambiguità del concetto di libertà come tale, la cui gamma di significati politici va dalla libertà propriamente liberale, o libertà negativa come non impedimento e non costrizione, alla libertà propriamente democratica, o libertà positiva come autodeterminazione e autonomia. A volte l'indistinzione terminologica provoca confusioni nella definizione del concetto di liberalismo e nella determinazione delle sue forme possibili. [.]Esemplare il caso di Rosselli: come spiega Bobbio nell'introduzione a Socialismo liberale, secondo Rosselli il solo modo per ricongiungere in una sintesi coerente liberalismo e socialismo è quello di considerare il primo come un metodo, e il secondo come un fine ideale; senonché,"per metodo liberale Rosselli intende quello che oggi si dice correntemente metodo democratico". Ma se le cose stanno così, l'asserita compatibilità tra liberalismo e socialismo, come di un metodo con un fine e quindi la possibilità di un socialismo liberale, o di un liberalsocialismo, è frutto di un equivoco terminologico. E in realtà, ciò che si afferma è la possibilità e la desiderabilità della socialdemocrazia, o della via democratica al socialismo. Persino Bobbio sembra alimentare l'equivoco in più di un passaggio di questa introduzione: per esempio, là dove afferma che "la superiorità del metodo democratico, e quindi del liberalismo, dipende dall'essere fondato su quella visione antagonistica della storia [.]". Vero è che Bobbio si affretta ad aggiungere che il socialismo liberale di Rosselli "non coincide in tutto e per tutto con la socialdemocrazia". Ma il fatto stesso che si tratti di una non coincidenza imperfetta, pare suggerisca implicitamente che il problema permane: è semplicemente spostato, e semmai più complesso, in quanto riguarda i diversi modi possibili di concepire la relazione tra liberalismo, socialismo e democrazia» (citazioni da Michelangelo Bovero, Liberalismo, socialismo, democrazia. Definizioni minime e relazioni possibili in AA.VV., I dilemmi del liberalsocialismo, cit., pp. 308-309; corsivi nel testo).
Franco Sbarberi, op. cit., pp. 55-56 (nei virgolettati Sbarberi cita rispettivamente: Benedetto Croce, L'onestà politica in Etica e politica, Laterza, Bari 1982, p. 132; Lenin, I compiti delle associazioni giovanili in Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1968, p. 1492; Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, v.III, Einaudi, Torino 1975, p. 1561).
Franco Sbarberi, op. cit., p. 57-58; corsivo nel testo (il virgolettato, già citato supra cap. 3, è tratto da SL, p. 425). Così Sbarberi riassume quella tesi weberiana: «Weber [.] crede nell'esistenza di due etiche: un'etica della convinzione personale e un'etica della responsabilità, che debbono sostenersi a vicenda. Per Weber, sul terreno della politica esistono "due peccati mortali: mancanza di una 'causa giustificatrice' e mancanza di responsabilità". Soltanto se sono "congiunte", etica della convinzione ed etica della responsabilità "formano il vero uomo, quello che può avere la 'vocazione della politica'". Chi aspira unicamente al potere "può esercitare una forte influenza, ma opera di fatto nel vuoto e nell'assurdo", perché è sorretto da "uno scetticismo estremamente meschino e superficiale riguardo al significato dell'azione umana, non avente nulla in comune con la coscienza del tragico di cui è in realtà intessuta ogni attività, e soprattutto quella politica"» (ivi, p. 56; i virgolettati sono tratti da Max Weber, La politica come professione in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1948, pp. 102-109 e 121).
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