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La nuova interpretazione della sensibilità e la discrepanza, che suscita sgomento, tra arte e verità
Domandiamo: quale nuova interpretazione e classificazione del sensibile e del non sensibile risulta dal rovesciamento del platonismo?? In quale misura il sensibile è l'autentica realtà?? Quale trasformazione avviene insieme con il rovesciamento?? Quale trasformazione sta alla base del rovesciamento?? Dobbiamo domandare in quest'ultima forma poiché non accade che prima si compia il rovesciamento e poi, dalla nuova posizione che ne risulta, si domandi: che cos'è successo?? Piuttosto, il rovesciamento ha già la sua forza motrice e la direzione del suo movimento dal nuovo domandare e dalla sua esperienza fondamentale in cui il vero ente, il reale o la realtà, dev'essere determinato in modo nuovo.
Non siamo impreparati a queste questioni, posto che abbiamo seguito lo svolgimento, ad esse mirato, dell'intero corso.
Prima di ogni altra cosa, l'esplicita ed esclusiva organizzazione di tutte le questioni in vista dell'arte doveva visibilmente mettere a fuoco la nuova realtà. In particolare, l'esposizione dell'estetica fisiologica di Nietzsche è stata impostata in modo che basta ora concepire in modo più radicale quanto detto là, per seguire l'interpretazione nietzscheana del sensibile nella sua direzione fondamentale, cioè per vedere come Nietz 414f54e sche, una volta aboliti contemporaneamente il mondo apparente e il mondo vero del platonismo, guadagni stabilità per il suo pensiero.
Come realtà fondamentale dell'arte, Nietzsche individua l'ebbrezza. In antitesi a Wagner, Nietzsche intende questo sentimento dello sviluppo della forza, della pienezza e del mutuo potenziamento di tutte le facoltà come l'essere-al-di-là-di-sé e quindi come il giungere-a-sé nella somma trasparenza dell'essere, non come il cieco dissolversi nel delirio. Al tempo stesso, però, vi è qui per Nietzsche l'emergere del fondo abissale della vita, dei contrasti che sono in essa, non però come qualcosa di moralmente cattivo e da negare, ma come qualcosa di affermato. L'elemento fisiologico, sensibile-corporale, ha in sé questo al-di-là-di-sé. Questa intima costituzione del sensibile è stata chiarita mettendo in risalto il riferimento dell'ebbrezza alla bellezza, e del creare e fruire alla forma. Sono propri di quest'ultima la stabilità, l'ordine, la visione d'insieme, il confine, la legge. Il sensibile è in sé orientato alla visione d'insieme, all'ordine, a ciò che è dominabile e fissato. Basta ora cogliere nei suoi riferimenti fondamentali quello che qui si annuncia riguardo all'essenza del sensibile per vedere come per Nietzsche il sensibile costituisca l'autentica realtà.
Il vivente è aperto nei confronti di altre forze, ma in modo tale che, opponendovisi, contemporaneamente le aggiusta secondo la forma e il ritmo, così da valutarle in relazione alla possibilità di incorporarle o di escluderle. In questo angolo visuale tutto quello che capita di incontrare viene interpretato in vista del poter vivere del vivente. Questo angolo visuale e il corrispondente campo visivo delimitano già ciò che il vivente si trova o meno di fronte. La lucertola, per esempio, sente il più leggero fruscio d'erba, non sente il colpo di pistola sparato nella sua vicinanza più prossima. Di conseguenza viene attuata nel vivente un'interpretazione del suo ambiente e quindi di tutto quanto accade; non accidentalmente, ma come processo fondamentale della vita stessa: il carattere prospettico è la condizione fondamentale di ogni vita.
Il vivente ha questo carattere della previsione che scruta, la quale traccia intorno all'essere vivente una linea d'orizzonte entro cui gli può in generale apparire qualcosa. Nell'organico c'è ora una moltitudine di impulsi e di forze ciascuno dei quali ha la sua prospettiva. La moltitudine delle prospettive differenzia l'organico dall'in-organico; eppure anche quest'ultimo ha la sua prospettiva, soltanto che in esso (nell'attrazione e nella ripulsione) i rapporto di potenza sono fissati in modo univoco. La rappresentazione meccanicistica della natura inanimata è soltanto un'ipotesi fatta a fini di calcolo; essa non si accorge che anche qui valgono rapporti di forze e quindi relazioni di prospettive. Ogni punto di forza è in sé prospettico. Di qui risulta chiaro che non c'è un mondo inorganico. Tutto il reale è vivente, è in sé prospettico e si afferma nella sua prospettiva contro altri. In base a ciò comprendiamo l'annotazione di Nietzsche risalente al 1886-87: "domanda fondamentale: il prospettico fa parte dell'essenza?? O non sarà soltanto una forma di considerazione, una relazione tra diversi esseri?? Le diverse forme stanno in relazione in modo che questa relazione è legata all'ottica della percezione?? Questa sarebbe possibile se tutto l'essere fosse essenzialmente qualcosa di percipiente". Non ci sarebbe bisogno di lunghe prove per mostrare che questa concezione dell'ente è esattamente quella di Leibniz, soltanto che Nietzsche elimina la metafisica teologica di quest'ultimo, cioè il platonismo. Tutto ciò che è, è in sé prospettico-percipiente, cioè nel significato ora definito: sensibile.
Il sensibile non è più l'apparente, non è più ciò che si è offuscato, è l'unica realtà, il vero. E che ne è della parvenza?? Fa parte anch'essa dell'essenza del reale. Lo si può vedere facilmente dal carattere prospettico della realtà. Nell'unità di un essere organico vi è una pluralità di impulsi e di facoltà in lotta fra loro, ciascuno dei quali ha la sua prospettiva. Con una tale moltitudine va perduta l'univocità della prospettiva unica. È data la multivalenza di ciò che si mostra in più prospettive e quindi l'indeterminato, ciò che pare ora così ora altrimenti, e che di conseguenza fa sembrare ora una cosa ora un'altra. Questa sembianza è però una parvenza nel senso della semplice parvenza soltanto quando ciò che si mostra in una prospettiva si consolida e viene fissato come unicamente determinante a scapito di altre prospettive che incalzano vicedendevolmente.
In questo modo risultano per l'essere vivente, in quello che egli incontra, cose e oggetti fissi, cose stabili con proprietà permanenti, sulle quali esso si regola. L'intero ambito di ciò che è così fissato e stabile è, secondo il vecchio concetto platonico, la regione dell'essere, del vero. Questo essere, visto prospetticamente, non è che la sembianza fissata in modo unilaterale come l'unica determinante, dunque a maggior ragione una semplice parvenza; l'essere, il vero, è semplice parvenza, errore.
"Nel mondo organico comincia l'errore. Cose, sostanze, proprietà, attiv-ità, tutto ciò non va trasferito nel mondo inorganico! Sono gli errori specifici in forza dei quali vivono gli organismi".
Nel mondo organico, in quello della vita fisiologica, in cui anche l'uomo rientra, incomincia l'errore. Questo non vuol dire che gli esseri viventi, a differenza dell'inorganico, possano sbagliarsi, bensì: ciò che appare nell'orizzonte prospettico determinante di un essere vivente come il suo mondo fisso, questo ente è, nel suo essere, soltanto sembianza, semplice parvenza. La logica umana serve a uguagliare, a rendere stabile e controllabile ciò che ci si trova di fronte. L'essere, il vero, che essa fissa, è solo parvenza; ma una parvenza, un'illusorietà, che sono essenzialmente costitutive dell'essere vivente come tale, del suo imporsi e fissarsi nel continuo mutamento. Poiché il reale è in sé prospettico, l'illusorietà stessa fa parte della realtà. La verità, cioè il vero ente, ciò che è stabile, fissato, è, in quanto fissazione di una rispettiva prospettiva, sempre e soltanto un'illusorietà giunta a dominare, cioè un errore. Per questo Nietzsche dice: "la verità è la specie di errore senza la quale una determinata specie di esseri viventi non potrebbe vivere. Ciò che decide è da ultimo il valore per la vita".
La verità, cioè il vero come ciò che è stabile, è una specie di parvenza che si giustifica come condizione necessaria dell'affermazione della vita. Ma riflettendo più a fondo diviene chiaro che ogni sembianza e illusorietà è possibile soltanto se in generale si mostra e appare qualcosa. Ciò che un tale apparire rende preventivamente possibile è il prospettico stesso. Questo è l'autentico apparire, il farsi vedere. Quando Nietzsche adopera la parola parvenza, il più delle volte questa è plurivoca. E Nietzsche lo sa.
Nietzsche non è venuto a capo del fatale destino che sta in questa parola, cioè nella cosa stessa. Afferma: "la parvenza, come la intendo io, è l'unica effettiva realtà delle cose". Questo non vuol dire: la realtà è qualcosa di illusorio, bensì: l'essere reale è in sé prospettico, è un portare alla luce, un far apparire, è in sé un apparire; la realtà è parvenza.
La realtà, l'essere, è la parvenza nel senso del far apparire prospettico. Ora, però, è al tempo stesso propria di questa realtà la pluralità di prospettive e quindi la possibilità della sembianza e della sua fissazione, cioè la verità come una specie di parvenza nel senso della semplice parvenza. Se la verità viene presa come parvenza, cioè come semplice parvenza, come errore, questo significa allora: la verità è la parvenza fissata che fa necessariamente parte dell'apparire prospettico, la sembianza. Nietzsche equipara poi spesso questa sembianza alla menzogna. A volte Nietzsche definisce addirittura quell'apparire, la prospetticità, come parvenza nel senso dell'illusione e della finzione, e la contrappone alla verità come essere, la quale in fondo è pure errore.
Ora, abbiamo già visto che il creare, come formare e configurare, e i sentimenti estetici di piacere in riferimento alle forme hanno anch'essi il loro fondamento nell'essenza della vita. Dunque anche l'arte, anzi proprio l'arte, dev'essere intimamente connessa con l'apparire e il far apparire prospettico. L'arte in senso vero e proprio è l'arte in grande stile, essa vuole portare al potere la vita stessa che cresce, non arrestarla, ma lasciarla libera di svilupparsi, trasformarla:
La vita è in sé prospettica. Cresce e si potenza con l'altezza e l'elevazione del mondo messo in luce in una prospettiva, con il potenziamento dell'apparire, cioè del far splendere ciò in cui la vita cambia. L'arte fa apparire la realtà, che è in sé un apparire, nel modo più profondo e più alto nell'illuminazione della trasformazione. Se la metafisicità non significa nient'altro che l'essenza della realtà, e se questa però sta nell'apparire, comprendiamo allora l'affermazione con la quale si chiude il capito sull'arte nella Volontà di potenza: "l'arte come l'autentico compito della vita, l'arte come la sua attività metafisica". L'arte è la più autentica e più profonda volontà di parvenza, cioè volontà di splendere di ciò che cambia, in cui si fa visibile la somma legge dell'esistenza. La verità, invece, è la sembianza di volta in volta fissata che fa stare ferma la vita su una determinata prospettiva e la conserva. In quanto è un tale fissare, la verità è una stasi, e quindi inibizione e distruzione della vita.
È impossibile vivere con la verità se la vita è sempre potenziamento della vita. La volontà di potenza, cioè la sembianza fissata, è già un sintomo della degenerazione. Ora è chiaro che cosa significa la quinta tesi capitale sull'arte, quella conclusiva: l'arte vale più della verità.
Arte e verità sono modi dell'apparire prospettico. Il valore del reale si misura però a seconda di come esso soddisfi l'essenza della realtà, di come attui l'apparire e potenzi la realtà. L'arte come trasformazione potenzia la vita più di quanto non faccia la verità come fissazione di una sembianza.
Ora vediamo anche in quale misura il rapporto di arte e verità debba essere per Nietzsche, e per la sua filosofia in quanto platonismo rovesciato, una discrepanza. V'è discrepanza soltanto là dove i termini che si dividono devono divergere partendo dall'unità del coappartenere e passando per essa. L'unità del coappartenere è data da una realtà, dall'apparire prospettico. Ne fanno parte
la sembianza
e il balenare come trasformazione
Affinché il reale (il vivente) possa essere reale, deve da una parte fissarsi in un determinato orizzonte, dunque restare nella sembianza della verità.
Affinché però questo reale possa rimanere reale, deve d'altra parte trasformarsi andando al di là di sé, deve elevarsi nel folgorare di ciò che nell'arte è creato, cioè deve andare contro la verità.
Arte e verità, facendo parte in modo ugualmente essenziale dell'essenza della realtà, divergono e si contrappongono reciprocamente.
Ora, però, poiché per Nietzsche la parvenza, anche in quanto prospettica, mantiene ancora il carattere dell'irrealtà, dell'illusione, della finzione, egli deve dire: "la volontà di parvenza, di illusione, di finzione, di divenire e di cambiamento è più profonda, più metafisica (cioè più corrispondente all'essenza dell'essere) della volontà di verità, di realtà, di essere".
Ciò viene espresso in modo ancora più deciso nella Volontà di potenza, dove la parvenza è equiparata alla menzogna: "noi abbiamo bisogno della menzogna per arrivare a vincere questa realtà, questa verità, cioè per vivere .. Che la menzogna sia necessaria per vivere, anche ciò fa parte a sua volta di questo carattere terribile e problematico dell'esistenza".
Verità e arte sono ugualmente necessarie per la realtà. In quanto ugualmente necessarie, esse stanno divise. Ma questo rapporto diviene tale da suscitare sgomento soltanto se prima pensiamo che il creare, cioè l'attività metafisica in quanto arte, assume un'altra necessarietà non appena è riconosciuta la realtà di fatto del più grande evento, la morte del dio morale. Adesso per Nietzsche l'esistenza può essere sopportata ormai soltanto nel creare. Ormai solo la traduzione della realtà nella potenza della sua legge e delle sue possibilità somme garantisce l'essere. Ma il creare, in quanto arte, è volontà di parvenza, sta diviso dalla verità.
L'arte in quanto volontà di parvenza è la forma suprema della volontà di potenza. Ma quest'ultima, in quanto carattere fondamentale dell'ente, in quanto essenza della realtà, è in sé quell'essere che vuole se stesso volendo essere il divenire. Nietzsche tenta così di pensare insieme, nella volontà di potenza, l'unità dell'antica antitesi di
essere
e divenire
L'essere in quanto stabilità deve far essere il divenire un divenire. Con ciò è indicata l'origine del pensiero dell'eterno ritorno.
Nel 1886, nel pieno del lavoro alla progettata opera capitale, apparve in una nuova edizione il primo scritto di Nietzsche, La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872). Recava il titolo mutato La nascita della tragedia. Ovvero: grecità e pessimismo. Nuova edizione con il tentativo di un'autocritica. Il compito con il quale quel libro si era cimentato per la prima volta era rimasto per Nietzsche lo stesso. Egli lo fissa in una sentenza che da allora in poi è stata spesso citata, ma altrettanto spesso anche fraintesa. La retta interpretazione risulta dall'insieme del presente corso universitario. Questa sentenza, rettamente intesa, può servire da contrassegno per caratterizzare l'impostazione e la direzione del domandare del corso. Nietzsche scrive: "e tuttavia non voglio del tutto nascondere quanto esso mi appaia oggi spiacevole, quanto estraneo mi si presenti dopo 16 anni (ai miei occhi divenuti più vecchi, cento volte più viziati, ma nient'affatto più freddi, e che non sono divenuti più estranei neppure a quel compito cui osò accostarsi per la prima volta quel libro temerario) cioè a vedere la scienza con l'ottica dell'artista e l'arte invece con quella della vita".
Mezzo secolo è passato sull'Europa da quando fu stesa questa sentenza. In questi ultimi decenni essa è stata ripetutamente fraintesa, proprio da parte di coloro che si affannavano a contrapporsi allo sradicamento e alla devastazone crescienti della scienza. Se ne estrapolava il seguente senso: le scienze non devono più essere trattate in modo arido e noioso, non devono essere lasciate invecchiare nella polvere del tempo lontane dalla vita, ma devono essere configurate in modo artistico, stimolante, gradevole, con gusto. Tutto ciò perché la scienza configurata in modo artistico dev'essere riferita alla vita, deve rimanere vicina alla vita e divenire per essa immediatamente utilizzabile.
Soprattutto alla generazione che studiò nelle università tedesche tra il 1909 ed il 1914 tale sentenza di Nietzsche fu propinata in siffatta interpretazione. Già in questo fraintendimento ci fu d'aiuto. Ma allora non c'era nessuno in grado di poterci dare la lettura corretta; infatti, a tal fine è necessario ridomandare la domanda fondamentale della filosofia occidentale, la domanda dell'essere (sviluppata come domandare effettivo).
Per comprendere la sentenza menzionata: vedere la scienza con l'ottica dell'artista e l'arte invece con quella della vita bisogna richiamare l'attenzione su 4 punti che, dopo quanto finora discusso, non ci possono più essere incogniti:
scienza vuol dire qui il sapere come tale, il rapporto con la verità
il doppio rinvio all'ottica dell'artista e a quella della vita indica che il carattere prospettico dell'essere diventa essenziale
l'equiparazione di artista e arte esprime in modo diretto il fatto che l'arte richiede di essere concepita nella prospettiva dell'artista, del creare, del grande stile
vita non vuol dire qui né l'essere soltanto animale e vegetale e neppure quell'affaccendamento incalzante e immediatamente percepibile di ogni giorno, ma vita è la denominazione dell'essere nella nuova interpretazione secondo la quale esso è un divenire. La vita non è intesa né in senso biologico né pratico, ma metafisico. L'equiparazione di essere e vita non è nemmeno un'espansione eccessiva del biologico, per quanto spesso possa sembrare così, ma è un'interpretazione mutata del biologico partendo da un essere concepito ad un livello più alto; tutto ciò, certo, rimane insoluto nel vecchio schema: essere e divenire.
La sentenza di Nietzsche vuole dire: partendo dall'essenza dell'essere l'arte dev'essere concepita come l'accadere fondamentale dell'ente, come l'autentico elemento creativo. Ma l'arte così concepita fornisce l'orizzonte entro il quale si può stimare come stiano le cose in merito alla verità, e in quale rapporto stiano arte e verità. Il detto non parla né di una commistione dell'elemento artistico con l'attività scientifica, o addirittura di un indebolimento estetico del sapere, né vuol dire che l'arte debba correre dietro alla scienza e servirla, dato che è invece l'arte, il grande stile, a dover diventare l'autentica legislazione per l'essere dell'ente.
La sentenza di Nietzsche esige il sapere dell'evento del nichilismo, sapere che per Nietzsche include allo stesso tempo la volontà del suo superamento, e precisamente in base a ragioni e domande originarie.
Vedere la scienza con l'ottica dell'artista significa: stimarla secondo la sua forza creatrice, non in base all'utilità immediata e nemmeno in base ad un vuoto significato esterno.
Ma il creare stesso dev'essere valutato secondo l'originarietà con la quale si cala nell'essere, non come semplice prestazione del singolo né come diletto per molti. Il saper stimare, cioè il saper agire secondo la misura dell'essere, è esso stesso il creare sommo perché è il predisporre la disponibilità per gli dèi, è il sì all'essere. Il superuomo è l'uomo che fonda l'essere in modo nuovo (nel rigore del sapere e nel grande stile del creare).
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