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La cooperazione militare italo-cecoslovacca in Slovacchia nel 1919

politica



La cooperazione militare italo-cecoslovacca in Slovacchia nel 1919




L'occupazione della Slovacchia meridionale

Il governo cecoslovacco ritenne necessario procedere nel più breve tempo possibile all'occupazione militare dei territori che rivendicava alla Conferenza della pace, sia per opporre dei fatti compiuti alle ragioni dei contendenti, sia per permettere un passaggio di poteri ordinato e controllato dal vecchio regime al nuovo ordinamento. Nelle piccole porzioni di territorio ai confini boemi, moravi e slesiani l'occupazione era avvenuta prevalentemente mediante le poco numerose e disorganizzate truppe di cui disponeva in patria l'autorità cecoslovacca, ma, per eliminare l'influenza ungherese dal territorio slovacco, era necessario un vero e proprio esercito di cui al momento la Cecoslovacchia non disponeva. Agli ordini dei comandi boemi c'erano un numero molto limitato di uomini, provenienti dalle disciolte unità austroungariche, e di volontari del tutto privi di preparazione militare.



La maggior parte delle forze cecoslovacche erano ancora all'estero, in Russia, in Francia e in Italia, dove avevano combattuto al fianco degli eserciti dell'Intesa. Benes sollecitò il rientro in patria dei legionari poiché solo con il loro impiego sarebbe stato possibile affermare il controllo cecoslovacco su un territorio così vasto come quello conteso con i magiari. Il trasferimento delle truppe non avvenne così rapidamente come era stato auspicato da Benes a causa degli ostacoli logistici e l'organizzazione per l'invio dei battaglioni dall'Italia poté cominciare solo il 14 novembre[1].

Il comando dell'esercito cecoslovacco era stato da sempre oggetto di controversie a causa dell'articolazione dell'esercito nelle tre formazioni ognuna delle quali era, per motivi di coordinazione, subordinata ai comandi dello Stato in cui si trovava.

Secondo gli ultimi accordi intercorsi tra il Consiglio Nazionale cecoslovacco, Francia e Gran Bretagna prima della fine del conflitto, l'esercito cecoslovacco era stato dichiarato unico cobelligerante ed era stato sottoposto all'autorità militare del Comando Supremo interalleato, mentre la sua subordinazione politica al Consiglio Nazionale era stata riconosciuta dalla costituzione dei primi reparti in Francia nel 1917.

Nel momento in cui le truppe dislocate nei Paesi dell'Intesa stavano per essere riunite in patria si pose il problema di designare un comando supremo unico. Benes aveva espresso la sua volontà di affidare il compito ad un generale francese che, dal momento in cui si fosse trovato nei Paesi cecoslovacchi, sarebbe stato subordinato alla massima autorità militare cecoslovacca e al ministero della Difesa nazionale, a sua volta sottoposto al Comando Supremo interalleato [2].

Alla vigilia della partenza del Corpo d'armata cecoslovacco d'Italia gli accordi intercorsi tra il governo boemo e i comandi italiani non definirono precisamente la posizione del generale Piccione. Egli aspirava senz'altro alla nomina di Comandante dell'esercito cecoslovacco, poiché era alla guida delle truppe più numerose e meglio organizzate tra quelle a disposizione della nuova Repubblica [3].

L'impegno profuso per attrezzare il Corpo d'armata e trasferirlo in Boemia dalle autorità italiane, che si assunsero anche l'onere di trasportare la divisione cecoslovacca di Francia, convinse il presidente Masaryk dell'ottima disposizione italiana del momento nei confronti del nuovo Stato. Egli prospettò a Benes il problema di armonizzare il comando dei legionari italiani con quello dei legionari francesi, poiché si rendeva conto che i Comandi italiani, che si erano meritati la riconoscenza cecoslovacca per aver creato un intero esercito, non avrebbero di certo accettato la subordinazione ad un generale francese. La soluzione prevista fu quella di continuare a mantenere distinti il comando delle truppe cecoslovacche da quello delle truppe di Francia[4]. Entrambe le autorità sarebbero state direttamente responsabili nei confronti del ministero della Difesa nazionale. Secondo questo schema le due nazioni si sarebbero trovate in una posizione paritaria all'interno dell'esercito cecoslovacco. Le prime fasi della collaborazione militare italo-cecoslovacca si svolsero secondo i dettami di Masaryk.

Il generale Piccione si trasferì in Boemia in occasione del rientro in Cecoslovacchia del presidente Masaryk. Questi, che tornava in patria per la prima volta dal 1914, era arrivato in Italia alla metà di dicembre ed era partito alla volta di Praga accompagnato dal comando del Corpo d'armata cecoslovacco d'Italia.

Gli ufficiali italiani, anche quelli giunti nella capitale boema con il presidente della Repubblica, che ritenevano di recarsi in Cecoslovacchia per organizzare l'esercito boemo, vennero a conoscenza del loro compito specifico, consistente nell'occupazione della Slovacchia, soltanto una volta arrivati in Cecoslovacchia [5]. La 6a e la 7a divisione del Corpo d'armata proveniente dall'Italia erano state dislocate rispettivamente a Zilina e Poprad, nella Slovacchia orientale, ed a Hodonin, sulla Morava .

Il generale Piccione si insediò nel comando delle forze armate cecoslovacche in Slovacchia il 25 dicembre 1919 costituendo il proprio quartier generale a Kromeriz. In quel momento egli era l'ufficiale di maggior grado presente in Cecoslovacchia ed aveva ai suoi ordini, oltre alle due divisioni di legionari, le truppe affidate al generale Schöbl. Queste formazioni avevano già intrapreso azioni militari in Slovacchia, ma la loro esiguità numerica e la loro impreparazione militare non avevano permesso il raggiungimento di risultati stabili. Esse erano inoltre particolarmente indisciplinate al punto che al ministero della Difesa nazionale erano giunte le lamentele della popolazione circa i saccheggi compiuti dal sedicente esercito[7].

Vista la situazione precaria dell'apparato militare in Cecoslovacchia, era apparsa a Piccione piuttosto pretestuosa l'argomentazione utilizzata da Benes per convincere il generale a limitare al minimo il numero degli ufficiali italiani nel comando del Corpo d'armata, dando la preferenza ai cecoslovacchi. Il ministro degli Esteri boemo aveva infatti motivato la richiesta prospettando il rifiuto degli ufficiali cechi (provenienti dall'esercito austroungarico) dell'armata "ben organizzata" esistente in Boemia di accettare ordini da stranieri[8]. In effetti, tale argomentazione altro non era che un pretesto per limitare al minimo indispensabile l'influenza dei comandi italiani nel nuovo esercito, visto che in realtà l'esercito austroungarico era allo sbando e in Boemia agivano solo poche forze ancora non ben inquadrate . Piccione aveva risposto al ministero degli Esteri cecoslovacco che, se i comandi di grado inferiore fossero stati affidati ai cechi, lo stesso presidente del Consiglio Orlando avrebbe gradito vedere mantenuti ufficiali cecoslovacchi al comando dei battaglioni . Se fossero stati gli ufficiali italiani a ricoprire le cariche più elevate dell'esercito cecoslovacco, si s 121b11b arebbe potuto sperare sia in un successo per il prestigio italiano, sia nell'imposizione di una maggiore influenza italiana in Boemia.

Il 23 dicembre Piccione riceveva da Benes le istruzioni generali circa l'occupazione della Slovacchia. Il ministro indicava come finalità del Corpo d'armata cecoslovacco il portare sotto il controllo dell'autorità cecoslovacca il territorio delimitato dalla linea d'armistizio definita dallo stesso Benes in accordo con il generale Foch. Tale linea congiungeva Bratislava, o Ville de Wilson, come fu definita per un breve periodo la capitale slovacca, a Rimavska Sobota seguendo il corso del Danubio e poi quello dell'Ipel; da lì, in linea retta, proseguiva sino alla confluenza del fiume Ung con il Laborcz, e lungo il corso dell'Ung sino al passo di Uszok, nei Carpazi[10].

Il 27 dicembre Piccione emanava il primo ordine di operazione con il quale definiva la strategia che intendeva adottare. Considerata la vastità del fronte egli riteneva opportuno attendere l'arrivo di tutte le truppe facenti parte del Corpo d'armata e poi procedere all'occupazione dei centri urbani di maggiore importanza strategica. La settima divisione aveva come obiettivo prioritario assumere il controllo di Bratislava; le truppe di Schöbl dovevano approfittare dell'impegno degli ungheresi nel difendere la città per prendere possesso della ferrovia Zilina-Kosice che assicurava le comunicazioni tra la parte occidentale e quella orientale della Slovacchia. Questi primi obiettivi furono raggiunti nel giro di pochi giorni, nonostante i combattimenti che i reggimenti della settima divisione dovettero ingaggiare con bande irregolari di ungheresi[11].

L'arrivo a Bratislava, abbandonata dai magiari il 1° gennaio 1919, che si erano ritirati sulla sponda opposta del Danubio, riservò però una sorpresa agli ufficiali italiani. Essi pensavano che nella capitale slovacca sarebbero stati accolti come liberatori, invece la popolazione rimase indifferente. La ragione fu chiara ai militari, quando si resero conto che la città era abitata in prevalenza da ungheresi e tedeschi, e gli slovacchi erano soltanto un minoranza[12]. L'ignoranza degli ufficiali italiani circa i sentimenti della popolazione della regione nella quale operavano dimostra come essi inizialmente non fossero a conoscenza della sua reale composizione etnica. Essi credettero di svolgere un incarico senz'altro gradito agli abitanti della regione, poiché ad essi veniva restituita la libertà grazie anche all'intervento italiano. Da questi elementi emergeva che la propaganda boema era stata efficace nel presentare alle diplomazie occidentali un quadro della situazione slovacca molto più semplicistico di quanto realmente non fosse.

Le restanti operazioni della settima divisione e quelle della sesta divisione vennero ultimate il 16 gennaio senza altri contatti con il nemico. Raggiunte le posizioni previste dalla linea d'armistizio si posero i primi problemi causati dalla mancanza di sufficienti collegamenti in senso parallelo alla frontiera. La difficoltà si sarebbe potuta superare occupando la riva meridionale dell'Ipel, dato che la ferrovia, le strade nonché le linee telegrafiche e telefoniche correvano sulla riva sinistra del fiume. Il governo cecoslovacco sfruttò così il pretesto offertogli dalle esigenze dei comandi militari per ordinare al generale Piccione l'occupazione di una striscia di territorio oltre la linea d'armistizio. L'operazione venne eseguita rapidamente e senza incontrare una decisa resistenza magiara. Il governo ungherese, però, denunciò la violazione dell'armistizio al Consiglio interalleato di Parigi. La notizia dell'arbitraria azione cecoslovacca preoccupò la diplomazia italiana che non voleva che i propri ufficiali si compromettessero con un'azione illecita[13]. Il generale Piccione rassicurò i rappresentanti italiani a Versailles poiché specificò che l'atto di sopraffazione dei diritti ungheresi sanciti dall'Intesa era stato compiuto solo da truppe ceche; egli prospettò però il problema politico che sarebbe sorto se il governo cecoslovacco avesse dato ordini simili agli ufficiali italiani: la posizione di subordinazione gerarchica di Piccione al ministero della Difesa nazionale avrebbe reso molto difficile il rifiuto di ubbidire . Oltretutto, negare la collaborazione italiana avrebbe senz'altro provocato un'ulteriore incrinatura nei rapporti italo-cechi, oltre a quelle che contemporaneamente si stavano manifestando alla Conferenza della Pace in seguito al mancato sostegno italiano ad alcune delle aspirazioni cecoslovacche.

La reazione ungherese all'attraversamento delle frontiere provvisorie fu molto aggressiva e riuscì a respingere le truppe ceche prima ancora che queste fossero raggiunte dall'ordine, proveniente da Versailles, di ristabilire la situazione prevista dagli accordi tra Benes e Foch[15].

Il tentativo della Cecoslovacchia di espandere la zona ad essa destinata metteva in evidenza la tendenza ceca ad ottenere il massimo dei risultati possibili in termini di vantaggi territoriali e strategici senza curarsi delle garanzie poste a tutela delle altre nazioni[16]. Questa situazione è paradossale se confrontata con quella che si verificherà pochi mesi dopo, dal momento in cui saranno stipulati i trattati di pace. Da allora la Cecoslovacchia difenderà strenuamente quegli strumenti giuridici che costituivano la garanzia per l'assetto conquistato.

Il giorno 11 febbraio venne firmata una convenzione tra i portavoce della settima divisione e i rappresentanti magiari in base alla quale si consideravano cessate le ostilità lungo l'intera linea di demarcazione tra Slovacchia e Ungheria[17]. Dal momento in cui si interruppero le operazioni militari, la missione italiana in Slovacchia dovette affrontare altri problemi legati all'insofferenza della popolazione magiara nei confronti del nuovo governo e ai rapporti dei comandi italiani con il governo cecoslovacco e con i sopraggiunti comandi francesi.



Malcontento ceco nei confronti dei militari italiani in Slovacchia


Dalla fine di gennaio emersero con sempre maggior evidenza le difficoltà che il nuovo potere della Repubblica avrebbe dovuto superare per affermarsi nella zona. La popolazione, in prevalenza magiara, cominciò a manifestare l'insofferenza per l'esercito ceco, che considerava un nemico e un oppressore. La presenza dei militari italiani aveva inizialmente rassicurato gli abitanti della parte meridionale della Slovacchia i quali ritennero che l'esercito fosse stato inviato dall'Intesa per ristabilire l'ordine sulla linea d'armistizio. Quando, però, si resero conto che la presenza italiana era di ausilio non alle forze interalleate ma a quelle nazionali ceche compresero che si stava realizzando l'annessione allo Stato cecoslovacco prima che la Conferenza della pace avesse preso una decisione definitiva sulla questione.

La resistenza all'occupazione cecoslovacca si fece sempre più attiva, sia all'interno dei confini stabiliti, dove la popolazione organizzava manifestazioni di protesta e si rifiutava di giurare fedeltà alla Repubblica, sia all'esterno, dove aveva ottenuto l'aiuto del governo di Budapest, che sosteneva la reazione contro i boemi eccitando il nazionalismo magiaro con la diffusione di volantini e proclami, l'introduzione clandestina in Slovacchia di giornali, l'intensificazione di contatti segreti con i rivoltosi

A provocare la decisa opposizione della popolazione della Slovacchia contribuivano le autorità locali, che cercavano di imporre il nuovo regime in modo brutale, senza alcun rispetto per i diritti dei magiari e della consistente minoranza ebrea. Inoltre, se i leaders cecoslovacchi avevano fondato la loro azione politica sull'intesa con il popolo slovacco, i funzionari di grado inferiore, che erano stati inviati dalle province ceche a colmare i vuoti nell'organico lasciati dagli impiegati ungheresi del regime austroungarico, piuttosto che favorire lo sviluppo di un sentimento nazionale "cecoslovacco" tra gli slovacchi, li vessavano con misure snazionalizzanti simili a quelle adottate per i magiari.

Quando i militari italiani si rifiutavano di imporre alla popolazione il rispetto per regole contrarie ai principi di libertà e democrazie dettate dalle autorità locali, suscitavano l'ostilità dei nazionalisti cechi. Le proteste degli zupan di alcune città occupate dai legionari sollecitarono il ministro con i pieni poteri per la Slovacchia Srobar ad indirizzare a Piccione una lettera in cui riferiva episodi nei quali, agli occhi dei funzionari cecoslovacchi, gli ufficiali italiani si erano dimostrati troppo accondiscendenti con i magiari e con gli ebrei. Al margine della lettera il generale commentò gli avvenimenti narrati mostrando di approvare il comportamento dei suoi sottoposti, che aveva invece indignato i cecoslovacchi o mettendo in evidenza l'inesattezza delle notizie che Srobar gli riferiva.

Al generale Boriani, uno dei bersagli del ministro slovacco, si rimproverava di aver vietato discorsi pubblici, cortei e imbandierazioni - misura che, se ritenuta odiosa dagli esponenti della nazionalità trionfante, era finalizzata a non creare ulteriori provocazioni alla popolazione magiara - o di aver dato l'ordine di restituire ai loro proprietari i beni requisiti "amministrativamente". Quest'ultima misura era stata presa in esecuzione di un ordine dello stesso generale Piccione . Il colonnello Nascimbene , come Boriani, si era reso colpevole di aver ricevuto deputazioni di ebrei. Questi atti non erano dovuti, secondo "l'universale opinione" riportata da Srobar, alla scarsa comprensione del proprio ruolo da parte degli ufficiali italiani, bensì, più gravemente, avevano un "fondo politico". I loro atti, che i nazionalisti cecoslovacchi interpretavano come intromissioni indebite nella politica e nella amministrazione slovacca, sarebbero stati finalizzati a favorire l'elemento magiaro, aizzandone la resistenza contro i poteri della Repubblica cecoslovacca.

Anche da parte italiana cominciavano a sollevarsi critiche nei confronti del sistema di governo adottato dalle autorità civili in Slovacchia. Gli ufficiali comandanti di divisione illustrarono a Piccione la situazione che si trovavano a fronteggiare, anche a causa delle prepotenze compiute dai funzionari dello Stato. Secondo il generale Rossi, solo la presenza italiana frenava l'esplosione del rancore della popolazione nei confronti del modo di procedere alla sottomissione della regione, che stava facendo seguito alla conquista militare . L'impressione che le operazioni militari condotte fossero appunto conquiste, e non un intervento per liberare terre occupate da un nemico, si era formata in considerazione della netta prevalenza dell'elemento magiaro in territori tradizionalmente ungheresi. L'occupazione delle zone di frontiera della Slovacchia aveva assunto, agli occhi degli ufficiali italiani, un carattere, contrario al principio di nazionalità, che essi non riuscivano a condividere

I militari furono testimoni della politica discriminatoria attuata dalle autorità locali nei confronti degli ebrei, contro i quali si organizzavano manifestazioni, e contro i magiari, angariati da violazioni dei diritti civili provenienti da organi di incerta autorità. La popolazione di Bratislava, infatti, aveva sviluppato un argomento di natura giuridica per motivare il proprio rifiuto alla sottomissione. Si evidenziava che sino ad allora non vi era stato alcun trattato internazionalmente riconosciuto che avesse cambiato la cittadinanza degli abitanti della Slovacchia. Ci si chiedeva, dunque, quale fosse la fonte dell'autorità ceca in quelle terre. La definizione di una linea di armistizio favorevole a Praga non bastava per giustificare la privazione dei diritti di libertà personale, né l'imposizione di giuramenti di fedeltà ad una popolazione che ancora non era stata dichiarata suddita dello Stato, così come non era ritenuta legittima la confisca di beni di proprietà privata senza una legge emanata da un governo riconosciuto dal diritto pubblico internazionale . Nell'ottica del colonnello Barreca, questa situazione recava un danno diretto ai comandi militari quando l'autorità civile dava disposizioni contrarie ai diritti della popolazioni attribuendole alle autorità militari, che venivano investite da un sentimento di sfiducia da parte del pubblico. L'Italia era così ritenuta l'ultima responsabile di atti brutali e illegittimi

La ragione di questa intolleranza e durezza dell'elemento ceco era da ricercarsi nell'impreparazione e nell'immaturità che si accompagnavano alla creazione di un nuovo Stato ed al passaggio da una condizione di sottomissione all'indipendenza politica. Quel sentimento nazionale, che era stato sino ad allora represso, esplodeva e provocava gli eccessi di fanatismo che stavano caratterizzando la prima fase della vita della Cecoslovacchia . Questa forma di nazionalismo esasperato stava condizionando l'agire delle autorità boeme che erano state reclutate tra i più convinti sostenitori dell'indipendenza cecoslovacca e, dunque, particolarmente combattive nel voler affermare la supremazia slava sull'elemento magiaro. Il picco di fanatismo etnico che si raggiunse, portò ad individuare nei magiari il nemico per eccellenza, il capro espiatorio per secoli di subordinazione ad un governo straniero. In quel momento si stava realizzando la trasformazione ceca da elemento dominato a dominatore, ed in una tale fase non era difficile immaginare che il comportamento dei cecoslovacchi più fanatici nei confronti di chi, sino a qualche mese prima, aveva mantenuto i "fratelli di sangue" slovacchi in una condizione di soggezione avrebbe potuto assumere i caratteri di una sorta di vendetta. Così, se nei distretti tedeschi di Boemia e Moravia, dove l'elemento slavo era stato subordinato al germanesimo, i cechi imponevano il loro controllo, in Slovacchia, dove l'etnia slava era stata sottomessa agli ungheresi, i cecoslovacchi vessavano i magiari col pretesto di dover prevenire le rivolte contro il potere che si stava costituendo. Una differenza notevole tra i due scenari era che, mentre i cechi avevano mantenuto intatta la propria peculiarità nazionale rispetto ai tedeschi, gli slovacchi avevano subito un processo di omologazione ai magiari. Una congrua parte di loro subiva perciò lo stesso trattamento poco rispettoso utilizzato nei confronti del nemico, poiché erano considerati "magiarizzanti".

Dato che l'atteggiamento delle autorità civili era spesso condiviso dai militari cechi, già nei primi giorni di febbraio si giungeva a prospettare da parte italiana l'allontanamento dei legionari dalle terre popolate dai magiari come misura per allentare la tensione razziale in Slovacchia. Sarebbe però stato necessario sostituire le truppe del Corpo d'armata cecoslovacco d'Italia con truppe dell'Intesa che, amministrando i territori con moderazione, non avrebbero incontrato difficoltà a mantenere l'ordine anche con forze esigue . Sono molto significative le valutazioni che gli ufficiali italiani fornivano nei loro resoconti al generale Piccione circa il modo di procedere delle autorità civili e militari cecoslovacche per affermare i nuovi poteri nella Slovacchia; esse infatti concordano nel descrivere una situazione di fanatismo diffuso rivolto contro le etnie non slave, che dava adito a comportamenti deprecabili anche contro i soggetti più deboli, come donne e bambini. Il fenomeno, che scandalizzava gli ufficiali italiani, era riscontrato in tutte le località più importanti occupate dai legionari (Bratislava, Nytra, Lučenec, Hodonin), dunque lungo l'intero arco della frontiera meridionale della Slovacchia. Questo conferma che il clima di odio razziale era diffuso su tutto il territorio conteso e non si limitava a manifestazioni episodiche.

Come si è detto, le discriminazioni coinvolgevano spesso, oltre a magiari ed ebrei, anche gli slovacchi, non per ragioni razziali ma perché una consistente parte di loro era accusata di aver solidarizzato con l'elemento ungherese. Ad esempio, il colonnello Gambi era venuto a conoscenza di una concentrazione di forze magiare che si erano raccolte presso Fülek: le truppe, pronte per un'offensiva su Lučenec, annoveravano tra le loro file molti slovacchi che erano pronti a battersi contro l'esercito nazionale . Alcune misure riferite dagli italiani, come la chiusura delle scuole slovacche al pari di quelle magiare, apparivano come un tentativo di snazionalizzazione ai danni di quella che sarebbe dovuta essere, secondo la teoria "cecoslovacca", una delle due nazionalità dominanti. Questi episodi confermano che l'insofferenza degli slovacchi verso il governo di Praga fu motivata dall'atteggiamento di conquista che i cechi adottarono anche nei confronti del popolo "fratello".

I soprusi e le angherie ai danni della popolazione non ceca che gli ufficiali italiani narravano non erano compiuti di solito dalla popolazione, dalla quale sarebbe stato più logico aspettarsi reazioni estreme e incontrollate, bensì dai funzionari dell'amministrazione dello Stato e dai militari, cioè dai rappresentanti dei poteri costituiti. Il fanatismo etnico aveva comunque eccitato anche gli animi della popolazione che si accaniva contro il "nemico" quando le autorità definivano individuavano uno. Era inoltre diffusa la delusione degli slovacchi circa il nuovo regime, che non stava attuando nella regione le migliorie auspicate. Così, il risentimento del popolo a volte finiva per sfogarsi contro i capri espiatori che erano indicati dalla visione nazionalistica alla quale induceva la politica delle autorità . L'immagine della Cecoslovacchia come la nazione democratica che si era distinta nelle lotte per l'affermazione delle libertà nazionali, veniva messa in crisi dalla sua politica delle razze.

Gli ufficiali italiani avevano effettivamente contatti con esponenti magiari della popolazione locale, come veniva loro rimproverato dai cechi, anche perché gli ungheresi ricoprivano ancora molti incarichi pubblici. Non sembra, però, che questi rapporti possano aver falsato la prospettiva critica degli italiani, che narrano episodi circostanziati di arresti ingiustificati, tentativi di stupro, violenze arbitrarie, requisizioni immotivate, manifestazioni di stampo razzista.

La tensione sociale si manifestava anche con scioperi che si intensificarono in febbraio e che, a detta delle autorità locali, avevano un carattere prettamente politico: i cechi, così come alcuni ufficiali italiani ritenevano che le agitazioni fossero provocate dalla propaganda dei partiti ungheresi e del partito indipendentista slovacco, "propaggine del partito magiaro" . Questi movimenti si intensificavano quando il presidio militare di una località diminuiva l'entità delle sue forze e facevano temere che le agitazioni fossero organizzate per creare disordine in concomitanza con attacchi militari da parte dei magiari

La complessità della situazione che gli ufficiali italiani dovevano fronteggiare venne fatta presente al presidente della Repubblica da Piccione, che espose a Masaryk le sue critiche per la persecuzione politica compiuta dai funzionari civili inviati dal governo in Slovacchia. Egli si lamentò inoltre dell'ostilità che circondava i militari italiani, accusati pubblicamente di magiarofilia per il solo fatto di non approvare i metodi brutali di controllo adottati dai cechi. Il generale si dichiarava poi impossibilitato ad arginare il pericolo rivoluzionario che minacciava la Slovacchia, a causa dell'esiguità delle truppe legionarie in rapporto al travagliato scenario slovacco . In seguito a questo incontro Masaryk invitò Srobar a vigilare affinché la popolazione magiara non avesse motivi di rivolgere lamentele all'Intesa poiché ciò avrebbe potuto fornire argomentazioni valide a chi, tra le delegazioni alla Conferenza della pace, non approvava la cessione di territori etnicamente magiari alla Cecoslovacchia

L'atteggiamento di sfiducia delle autorità locali verso gli ufficiali italiani si diffuse anche nelle file dell'esercito. I rapporti tra militari cechi ed italiani furono compromessi dalla mancanza di adesione dei secondi alla causa ceca, che i boemi avvertivano. Questi erano convinti che gli italiani con i loro inviti alla moderazione e alla tolleranza ostacolassero il successo delle operazioni boeme per imporre sulla provincia slovacca il controllo del  nuovo Stato. Per spiegare il contegno italiano era anche utilizzata l'argomentazione solita della naturale intesa italo-ungherese fondata sulla comune inimicizia nei confronti della Jugoslavia e quindi, fatalmente, della Cecoslovacchia . I cecoslovacchi lamentavano che i comandi italiani impedissero loro di compiere requisizioni ed altri atti, ritenuti dai secondi di tipo persecutorio, ma che i primi consideravano alla stregua di rappresaglie contro la popolazione disubbidiente agli ordini delle autorità

Si moltiplicarono così episodi di indisciplina nell'esercito, a causa della manifesta antipatia boema verso gli italiani. Il generale Rossi pensò di rintracciare la ragione di questo stato di cose nell'influenza esercitata sui militari cechi dalle milizie, definite rivoluzionarie o territoriali, agli ordini dell'ambiguo Schöbl. Il comandante della 6a divisione espose a Piccione la sua idea, formulata in seguito ad indagini da lui svolte, secondo la quale Schöbl, per neutralizzare il prestigio italiano in Slovacchia poiché ambiva ad assumere il massimo grado nell'esercito cecoslovacco, aveva amplificato le voci sulla magiarofilia italiana facendole pubblicare sui giornali come se fossero state notizie provenienti dall'Ungheria. Queste azioni avrebbero dovuto esercitare un'efficace influenza per porre anche il governo boemo contro l'Italia

Nel già complesso scenario slovacco la collaborazione tra la 6a divisione e le truppe territoriali aveva prodotto quest'ulteriore tensione che si concretizzava nelle accuse reciproche che i comandanti delle due formazioni si lanciavano. A ciò si aggiunga la rivalità esistente tra le truppe di Schöbl e quelle legionarie che godevano di un miglior trattamento economico e che avrebbero avuto maggiori possibilità di carriera grazie all'istruzione militare ricevuta in Italia e grazie ai riconoscimenti ottenuti nella guerra condotta al fianco dell'Intesa

L'ostilità e la mancanza di rispetto nei confronti degli ufficiali italiani toccarono l'apice con alcuni episodi che coinvolsero i colonnelli Nascimbene e Barreca. Il primo era stato vittima alla fine di gennaio 1919 di una sorta di ammutinamento da parte di un gruppo di ufficiali cechi a lui sottoposti, che lo avevano disarmato ed avevano fatto affiggere contro i suoi ordini il decreto di introduzione della legge marziale a Lučenec . Un altro increscioso incidente occorso a Nascimbene era stato l'equivoco provocato da una telefonata, con la quale gli era stato comunicato l'ordine di trasferire un battaglione da Svolen a Lučenec. Egli aveva eseguito l'ordine che non era stato emesso dai comandi ma da un sabotatore

Il colonnello Barreca era stato invece vittima di un'aggressione durante un comizio indetto per proclamare lo sciopero generale a Bratislava. Durante la manifestazione si verificarono tumulti, anche in seguito all'intervento di truppe indisciplinate; quando il comandante era intervenuto per tentare di sedare gli animi, fu colpito con il calcio di un fucile . Questi episodi avevano reso molto critica la posizione dei due colonnelli e Piccione aveva preferito allontanare Nascimbene per aver lasciato sviluppare una situazione di vera e propria anarchia militare, e Barreca per l'ostilità da cui era circondato.

L'allargamento della campagna denigratoria rese necessaria la richiesta da parte del generale Piccione di un intervento del governo cecoslovacco. Il ministro Srobar diramò una lettera tra gli ufficiali cechi con lo scopo di dissipare i sospetti circa la parzialità dei militari italiani e, nello stesso tempo comunicò a questi ultimi la riconoscenza del Paese per la loro opera . Negli stessi giorni, però, un altro membro del governo, il ministro della Giustizia Soukup, in un'intervista ad un giornale ebbe a dichiarare pubblicamente che "i comandanti italiani [simpatizzavano] coi magiari". Con la dichiarazione del ministro, che fu seguita dalla smentita ufficiale, la campagna denigratoria raggiunse il suo culmine. I massimi fautori della politica cecoslovacca, Masaryk e Benes, si scambiavano, nello stesso periodo, impressioni che dimostravano quanto fosse ormai diffusa, anche tra le supreme autorità dello Stato che pubblicamente dichiaravano la loro mortificazione per le accuse mosse dai cechi contro gli ufficiali italiani, la sensazione che in futuro sarebbe stato sempre più difficile conciliare gli interessi cecoslovacchi con quelli italiani, vista la propensione dell'Italia all'intesa con l'Ungheria

Il 5 marzo Piccione si vide costretto a sollevare presso il Comando Supremo ed il governo italiano la questione dell'opportunità di mantenere la Missione italiana in Boemia, avendo ormai avuto sentore che l'allontanamento dei militari italiani non sarebbe stato sgradito al governo di Praga, se fosse avvenuto senza sollevare scandali internazionali e senza che gli italiani rendessero pubbliche le ragioni di contrasto, poiché i cecoslovacchi erano  consapevoli che tali ragioni non avrebbero deposto a favore delle loro aspirazioni territoriali . Il generale comunicò il disagio e il desiderio di rimpatriare degli ufficiali italiani della 6a divisione, quella più esasperata dal dover dividere le proprie competenze con le truppe territoriali, e interpellò le autorità italiane per conoscere l'importanza che attribuivano alla missione. "Poiché se la convenienza nell'interesse del nostro Paese non è assoluta, intenderei imporre al Governo C. S. nel modo più deciso e risoluto, dichiarazioni ufficiali ed espliciti provvedimenti e garanzie che salvaguardino completamente nostra dignità e mettano fine una buona volta ad uno stato di cose impossibile, oppure il ritiro mio e della intera missione italiana. Qualora invece si ritenesse conveniente che nostra permanenza qui fosse prolungata il maggior tempo possibile, eviterei tale passo decisivo e pure esigendo volta a volta smentite e dichiarazioni, a tutela della nostra dignità, farei tutto il possibile per attenuare i dissidi e far pazientare gli ufficiali; ma avverto che in tal caso potrebbe anche avvenire che le cose giungessero a tal punto da essere nostro ritiro richiesto dallo stesso Governo czeco od imposto da qualche spiacevole incidente" . La risposta che Piccione attendeva era strettamente collegata con lo stadio delle discussioni alla Conferenza della Pace, poiché in quel momento le finalità italiane dell'amicizia boema consistevano nell'auspicato appoggio sulle questioni adriatiche.

Nel frattempo Piccione aveva ribadito ai militari italiani la necessità di un contegno estraneo alla politica e molto controllato nelle relazioni ufficiali, ma soprattutto in quelle mondane . Queste raccomandazioni si rendevano necessarie in considerazione del fatto che nella campagna di accuse contro gli ufficiali italiani delle legioni, erano state utilizzate dichiarazioni che i comandanti si sarebbero fatte scappare in occasioni mondane . D'altronde, gli italiani accusavano i cechi di esprimersi con troppa simpatia nei confronti degli jugoslavi, sino al punto di dichiarare che "qualora Fiume non fosse divenuta jugoslava, sarebbe stata Czeca"

La propaganda filojugoslava ebbe, a detta degli osservatori dell'epoca, un'importanza notevole nell'orientare l'opinione pubblica ceca in senso ostile agli italiani. I rappresentanti italiani a Praga si accorsero di quanto avrebbe potuto significare l'esercitare un'influenza sulle redazioni dei giornali affinché non pubblicassero qualsiasi notizia, anche se estremamente inverosimile, di provenienza jugoslava. In Boemia i giornali italiani erano rarissimi mentre l'orientamento francese era ben noto alla popolazione grazie alla pubblicazione di numerosi giornali in francese. Tornava ad emergere l'incapacità italiana di gestire una situazione che pure si era presentata con premesse favorevoli e che avrebbe potuto fruttare notevoli vantaggi in termini di prestigio e di influenza.



Concorrenza italo-francese in Cecoslovacchia


La complessa situazione in cui si dibatteva la missione militare italiana si complicò ulteriormente con l'arrivo di una analoga missione francese, diretta dal generale Maurice Pellé. La Francia era stata un'alleata privilegiata della nazione cecoslovacca sino dagli anni del conflitto ed aveva saputo predisporre la collaborazione per il periodo successivo con lo Stato boemo mediante la stipulazione di accordi e alleanze. La maggiore disponibilità francese a prendere in considerazione la futura Repubblica come alleata politica, militare ed economica aveva indotto le personalità boeme a propendere decisamente verso la partnership francese anziché verso quella con l'Italia . Sonnino, infatti, aveva scelto di condurre una politica estera molto cauta verso gli Stati slavi che aveva posto l'Italia, sino all'autunno del '18 in corsa con la Francia per guadagnarsi l'amicizia cecoslovacca, in una posizione di secondo piano. La diffidenza con la quale le autorità italiane avevano accolto le richieste cecoslovacche alla Conferenza della pace, ritenute pregiudizievoli per gli interessi dell'Italia, non aveva fatto altro che allontanare ulteriormente i due Stati. Naturalmente neppure la Cecoslovacchia aveva assunto un atteggiamento favorevole nei confronti di quelle rivendicazioni italiane che andavano a scapito di una nazione slava amica, la Jugoslavia. Dopo l'armistizio l'idillio franco-cecoslovacco si era intensificato e Benes aveva ritenuto opportuno orientare la sua azione diplomatica al fine di affidare l'organizzazione dell'esercito cecoslovacco alla Francia. Egli riteneva che la grande influenza che la Francia avrebbe avuto nell'Europa postbellica e alla Conferenza della pace si sarebbe potuta esercitare a favore dello Stato cecoslovacco. Le sue simpatie, inoltre, erano giustificate dalla valutazione estremamente positiva che il ministro cecoslovacco dava all'efficienza militare francese

La collaborazione militare italo-boema si era resa necessaria per via dell'opera, compiuta dall'Italia, di inquadramento e organizzazione del Corpo d'armata cecoslovacco che era comandato da ufficiali italiani e che avrebbe costituito il primo nucleo dell'esercito boemo.

Benes affermava che le formazioni ceche all'estero avevano accettato di essere poste sotto il comando francese . La convenzione che regolava i rapporti italo-cechi relativamente alle legioni boeme costituite in Italia prevedeva, però, che esse operassero alle dipendenze del Comando Supremo italiano e le trattative che avevano preceduto il 21 aprile 1918, data della stipulazione dell'atto, avevano mirato ad escludere che si potesse verificare che le truppe cecoslovacche d'Italia fossero poste agli ordini di un comando straniero . Quando, nel novembre 1918, il generale Piccione aveva organizzato la missione militare italiana in Boemia, aveva ribadito che la condizione per la cooperazione italiana era l'assicurazione dell'indipendenza del Corpo d'armata cecoslovacco d'Italia dai comandi stranieri. Si ammetteva solo la possibilità che fosse sottoposto ad ufficiali cechi, scelti, però, fra quelli che avevano optato per la causa ceca prima della firma dell'armistizio . Benes, però, per mezzo del suo emissario, il maggiore Fierlinger, pregò caldamente il generale Piccione di desistere dalla richiesta di inserire nella convenzione la clausola che escludeva la subordinazione della legione proveniente dall'Italia ad un comando straniero. Piccione, sebbene successivamente avrebbe manifestato lo stupore per la disposizione sfavorevole di Benes a mettere l'impegno per iscritto, non insistette e ritenne bastevoli gli accordi verbali . Dal momento in cui la missione italiana aveva intrapreso la sua opera in Cecoslovacchia, il governo boemo aveva compiuto ben pochi passi per facilitarla e per rinsaldare la sua autorità morale nel momento in cui era esplosa l'ostilità ceca verso gli ufficiale italiani. Nel gennaio 1919 non solo Benes ma anche Masaryk, pur rimanendo quest'ultimo su posizioni di maggiore equilibrio rispetto al contegno da tenere nei confronti dell'Italia, cominciò ad accarezzare l'idea di una ulteriore sanzione dell'alleanza con la Francia che avrebbe dato alla Cecoslovacchia maggior peso politico nei confronti dell'Occidente ed anche degli Stati vicini . Benes, sostenuto dai suoi colleghi nel favorire l'influenza francese in Cecoslovacchia, ottenne così di stipulare due convenzioni con Foch e Clemenceau. La prima, in data 26 gennaio, costituiva una missione militare francese presso la Repubblica cecoslovacca per collaborare con il ministro della Difesa nazionale all'organizzazione e all'istruzione dell'esercito cecoslovacco. In virtù di tale accordo, il capo della missione avrebbe esercitato le funzioni di Capo di Stato Maggiore dell'esercito e di supplente del Comandante in Capo . Con la seconda, siglata il 18 febbraio 1919, l'esercito cecoslovacco veniva posto sotto il comando supremo del maresciallo Foch che avrebbe esercitato il suo potere sulle truppe boeme nello stesso modo in cui lo esercitava sulle altre armate alleate del fronte occidentale. Di queste convenzioni non venne fatta parola né ai diplomatici né ai militari italiani; questi trattati non tenevano in nessuna considerazione la posizione del generale Piccione. Effettivamente, la mancanza di accordi scritti, per volontà di Benes, a garanzia delle attribuzioni del generale italiano rendevano debole la sua condizione; sebbene gli ambienti politici e militari italiani avessero creduto che all'opera a favore dello Stato boemo, svolta al comando del Corpo d'armata cecoslovacco d'Italia, sarebbe seguita la sua nomina a Comandante Supremo dell'esercito cecoslovacco, gli unici riconoscimenti del generale consistevano nella situazione di fatto, che lo trovava al comando di tutte le forze militari legionarie e territoriali in Slovacchia.

Il Comando Italiano apprese dai giornali la notizia dell'arrivo della Missione francese a Praga, avvenuto il 13 febbraio, nonostante Piccione avesse incontrato il ministro della Difesa Nazionale solo tre giorni prima. Il silenzio di Klofač, che stupì il generale, sarebbe stata la prima delle numerose manifestazioni di ambiguità di questi e di Benes. L'avvenimento mise subito in allarme la diplomazia italiana ma, dalle prime informazioni ottenute a Praga, si ebbe conferma che la missione francese avrebbe lasciato integre le attribuzioni del generale Piccione

La Missione francese intraprese un'attiva opera di penetrazione nell'opinione pubblica cecoslovacca con comunicazioni frequenti e comode fra la capitale boema e Parigi. La situazione differente della Missione francese e di quella italiana venne illustrata da un ufficiale italiano, Negrelli, che in un rapporto descrisse le impressioni che aveva riportato da un viaggio a Praga. Il Comando Supremo, al quale Negrelli aveva inviato la relazione, ritenne opportuno diffonderlo tra  i ministeri competenti poiché trattava alcuni argomenti che le autorità militari e civili considerarono molto importanti.

Il rapporto sottolineava quali fossero le gravi carenze manifestate dalle missione italiana rispetto a quella francese e quanto condizionassero l'atteggiamento generale boemo nei confronti dell'Italia. Negrelli evidenziava, innanzi tutto, come la Francia avesse affermato il suo prestigio attraverso la cura dell'immagine: a Praga, ad esempio, gli ufficiali francesi erano numerosi e abbigliati in modo da suscitare rispetto mentre quelli italiani erano solo tre e vestiti modestamente. Negrelli metteva anche a confronto le sedi delle Ambasciate dei due Stati e sottolineava che la scelta italiana era stata piuttosto infelice.

Dei tre ufficiali italiani a Praga, due non parlavano neppure tedesco; solo il tenente Dadone conosceva il ceco ed aveva stretto rapporti amichevoli con molti uomini di governo. Egli, inoltre, era l'unico a svolgere la propaganda filoitaliana, grazie ai suoi contatti con la redazione del giornale ceco "Narodny Listy" (Il Giornale Nazionale), organo della democrazia costituzionale, ma con fondi e mezzi assolutamente inadeguati.

Si evidenziava, inoltre, l'impegno spiegato dai francesi nella stampa: nella capitale ceca "La République Tchecoslovaque" e "Le rapport quotidien" erano diffusissimi e riportavano notizie pubblicate in Francia, Germania, Cecoslovacchia ma non in Italia; in particolare, il primo si informava spesso a idee filojugoslave. Neppure i giornali cecosclovacchi e tedeschi utilizzavano i comunicati ufficiali delle agenzie stampa italiane.

Negrelli, mettendo in evidenza il deficit di propaganda sulle vicende belliche e sulle personalità italiane, avanzava la proposta di fornire a Dadone materiale sufficiente per pubblicizzare l'Italia e la sua attività a sostegno della nazione boema, di costituire un ufficio stampa che diffondesse le notizie diramate dall'Agenzia Stefani, di pubblicare un giornale ceco-italiano che illustrasse il punto di vista italiano sulle questioni più importanti. In questo modo si sarebbe evitato il fenomeno della pubblicazione di notizie tendenziose, di cui alcune assolutamente prive di fondamento, che circolavano sulla stampa europea e danneggiavano l'immagine dell'Italia all'estero poiché gettavano discredito sulla vita politica italiana, facendola apparire inconsistente

Il rapporto di Negrelli fotografava una situazione che metteva in piena evidenza le carenze delle autorità italiane nel gestire la missione italiana in Boemia. La scarsa cura per tutti gli aspetti propagandistici, che avrebbero valorizzato l'immagine e il prestigio dell'Italia, produssero la svalutazione sia della nazione italiana, che del suo impegno a favore della Cecoslovacchia. I ministeri interessati non sfruttarono adeguatamente le occasioni che la cooperazione militare e il sostegno economico forniti offrivano per rinsaldare la posizione dell'Italia a Praga.

Così, mentre gli ufficiali italiani erano impegnati in frequenti scontri sulla frontiera meridionale della Slovacchia per assicurare alla Repubblica boema il possesso di territori magiari e non avevano abbastanza uomini per essere rappresentati nel presidio della capitale, e mentre in Italia gli ex prigionieri di nazionalità cecoslovacca venivano equipaggiati ed inquadrati in battaglioni per rientrare in patria come forze armate organizzate, i legionari francesi, invece, erano di servizio nella capitale boema, montavano la guardia al palazzo presidenziale  ed il generale Pellé si era insediato nel ministero della Difesa Nazionale dal quale avrebbe avuto una notevole influenza sulle decisioni del ministro Klofač.

Questa situazione era palese agli ufficiali italiani in Slovacchia che cominciarono a temere per il prestigio della propria missione, già minacciato dalle accuse di filomagiarismo sollevate dai boemi. Nel colloquio del 2 marzo 1919 tra l'ambasciatore italiano a Parigi Bonin Longare e Benes, il primo aveva interrogato il ministro ceco sulla nuova situazione che si stava delineando per l'arrivo in Boemia di Pellé, la presenza del quale minacciava di diminuire l'autorità e le funzioni di Piccione. Benes aveva però assicurato che nel negoziare personalmente le due missioni aveva posto cura nel fare in modo che esse rimanessero indipendenti l'una dall'altra, ossia Pellé avrebbe comandato i legionari provenienti dalla Francia e Piccione quelli provenienti dall'Italia. Il ministro ceco sottolineò in quell'occasione che Pellé non era stato nominato generalissimo, come la Francia auspicava, proprio per rispettare l'indipendenza garantita a Piccione

Il contegno tenuto dal ministro degli Esteri ceco in questa occasione si rivelerà fonte di grande delusione per gli italiani, poiché le assicurazioni che Benes non aveva avuto scrupoli a fornire, erano smentite dalle convenzioni già stipulate con la Francia. Con gli elementi che erano noti, comunque, cioè sapendo che il generale francese era stato nominato Capo di Stato Maggiore, era difficile per il generale Piccione non vedere minacciata la sua posizione, perlomeno da un punto di vista nominale poiché il Comandante di tutte le truppe cecoslovacche avrebbe avuto la giurisdizione anche su quelle provenienti dall'Italia e operanti in Slovacchia.

I dubbi sulla possibilità che i due comandi procedessero nella loro attività senza sovrapposizioni si diffusero sempre di più negli ambienti italiani, sia in patria che in Boemia e l'impressione che la posizione di Piccione fosse sempre meno chiara era condivisa da chi, come l'ufficiale italiano di stanza a Praga, il tenente Ugo Dadone, osservava attentamente l'evoluzione della vicenda

Anche il presidente del Consiglio italiano Orlando richiamava l'attenzione di Sonnino sugli avvertimenti di Piccione, il quale denunciava il rischio che l'esercito cecoslovacco, creato con ampio contributo italiano, finisse alle dipendenze del comando francese

Si delineava la sensazione che la crescente influenza francese avrebbe surclassato le posizioni italiane, nonostante il notevole investimento compiuto dall'Italia per equipaggiare e trasferire i legionari, anche quelli provenienti dalla Francia. A questo impegno, non affiancato però da una valida opera diplomatica e propagandistica, non corrispondevano gli stessi successi ottenuti dalla Francia, non solo nel campo militare, nel quale gli ufficiali francesi avevano monopolizzato le funzioni direttive e ispettive, ma anche in campo economico. Le spese per l'invio delle truppe ceche, infatti, avrebbero dovuto essere compensate in parte con l'invio di beni di produzione boema: nel marzo del 1919 la Repubblica cecoslovacca non aveva ancora incominciato a saldare il suo debito con l'Italia, ma si diffondeva la notizia che la Francia fosse riuscita ad accaparrarsi una gran parte della disponibilità boema di zucchero . Le comunicazioni dirette che la Francia aveva prontamente creato con la Repubblica cecoslovacca permisero inoltre un rapido incremento dei commerci.

Quando, il 5 marzo, Piccione chiese al governo e al Comando Supremo italiano direttive sulla permanenza della Missione italiana in Boemia, al malcontento degli ufficiali per l'ostilità che li circondava si aggiungeva il timore per la minaccia francese all'indipendenza del Corpo d'armata ed al prestigio italiano in Cecoslovacchia.

La comunicazione di Piccione venne trasmessa al ministero degli Esteri dall'ambasciatore italiano a Praga Lago, il quale proponeva alcune misure da richiedere al governo cecoslovacco nel caso in cui i ministri italiani avessero reputato opportuno tentare di affermare l'influenza militare italiana nella Repubblica boema. Egli riteneva che, se la missione avesse dovuto proseguire, sarebbe stato necessario richiedere garanzie circa il prestigio degli ufficiali italiani attraverso l'affidamento del comando dei nuovi battaglioni che continuavano a rimpatriare dall'Italia, in secondo luogo mediante la riunione sotto il comando del generale Piccione di tutte le truppe istruite in Italia, definendo così la precisa delimitazione delle attribuzioni delle due Missioni presenti in Cecoslovacchia, la francese e l'italiana.

Per ottenere la soddisfazione di queste richieste, Lago suggeriva di sfruttare la pressione che si poteva esercitare sul governo boemo per l'imminenza della discussione sui confini della nuova Repubblica e la partenza di circa 60.000 soldati boemi dall'Italia . Le trattative in corso a Versailles e le concessioni italiane alla Cecoslovacchia tornavano, come già era accaduto in gennaio, ad essere intese come strumento per ottenere la collaborazione boema all'affermazione italiana in Europa orientale. Queste circostanze ribadivano l'intreccio tra gli avvenimenti militari in Slovacchia e le relazioni politiche tra i due Stati nonché l'importanza di questi rapporti per ottenere la soddisfazione dei rispettivi maggiori interessi.

Lago, l'11 marzo, riteneva ancora realistico prospettare la nomina di Piccione a comandante di tutte le truppe mobilitate, compresi i legionari francesi; tuttavia egli aveva compreso che si sarebbe affermata, a scapito dell'Italia, la predominanza della Francia poiché questa aveva avuto la capacità di imporsi nei centri organizzativi del nuovo Stato ed agiva per obiettivi generali, lontana dalle cause di attrito e sospetto che minavano l'immagine dei comandi italiani. L'ambasciatore manifestava la consapevolezza che l'influenza italiana in Boemia era strettamente legata alla situazione contingente, dovuta al controllo italiano sul Corpo d'armata cecoslovacco ed alla necessità del suo immediato impiego in Slovacchia, e che essa sarebbe probabilmente terminata con la conclusione della pace, mentre quella francese aveva posto le basi per un rapporto duraturo con la Repubblica boema.

Le illusioni circa l'elevazione di Piccione al grado più elevato della gerarchia militare nell'esercito cecoslovacco si infransero quando Pellé cominciò ad esercitare le sue funzioni di Capo di Stato Maggiore, sottointendendo nei suoi atti la subordinazione del generale italiano. Nei giorni successivi, infatti, si verificò una serie di episodi che avrebbero chiarito agli italiani la consistenza dei rapporti boemo-francesi. Dopo che Piccione era stato inviato dal ministero della Difesa Nazionale a conferire con il generale Pellé per ottenere rinforzi in Slovacchia - il che già dimostrava l'autorità del comando francese su tutte le truppe che non si trovavano già nella regione - gli fu richiesto espressamente da pari grado francese l'ordine di operazione degli spostamenti previsti: Piccione ritenne giusto la sua indipendenza rispondendo che egli avrebbe inviato l'ordine al ministero della Difesa Nazionale al quale era subordinato

In seguito a queste prime interferenze del generale francese nell'attività di Piccione, questi ribadì alle autorità italiane la necessità che il governo si facesse carico di trattare la questione delle attribuzioni della Missione italiana a livello politico. L'ambasciatore Lago suggerì al ministro degli Esteri di adottare Parigi come sede della discussione con il governo boemo e non Praga, dove l'influenza francese avrebbe facilmente orientato i risultati della contesa. Si riteneva inoltre utile trattare direttamente con Benes, il quale aveva definito i termini della collaborazione con i comandi francese e italiano e si era recentemente espresso garantendo che le due Missioni sarebbero rimaste indipendenti


La crisi che stava per esplodere si presentava in una fase delicata della contesa tra Ungheria e Cecoslovacchia per i territori meridionali della Slovacchia. L'Ungheria, dal 19 marzo 1919, fu governata da un Consiglio governativo rivoluzionario che aveva proclamato la Repubblica dei Consigli. Il trionfo del bolscevismo nello Stato magiaro fu facilitato, oltre che dal disordine e dalla povertà che imperavano nella società postbellica ungherese, anche dal programma di politica estera di Béla Kun, capo de facto del nuovo regime

Il caos in cui versava l'Ungheria induceva il governo boemo ad approntare un piano di attacco per sfruttare il momento di disorganizzazione dei magiari per tentare di espandere i confini slovacchi e comprendere al loro interno alcuni tratti delle ferrovie che mettevano in comunicazione la parte occidentale con quella orientale della Slovacchia. La frontiera provvisoria stabilita nel novembre dell'anno precedente in seguito agli accordi tra Benes e Foch tagliava infatti, in alcuni punti, le strade ferrate. La nuova situazione politica dell'Ungheria diede ulteriori argomenti al ministro degli Esteri cecoslovacco per convincere l'Intesa della necessità di ripristinare comunicazioni senza ostacoli con l'unico Paese che, in quel momento, non sembrava minacciato dal pericolo di rivoluzioni: la Romania. I contatti fra le due nazioni si sarebbero potuti rivelare fondamentali per coordinare un'eventuale azione armata contro l'Ungheria. Queste motivazioni convinsero le autorità francesi, che erano le più favorevoli all'idea di domare la rivoluzione di Béla Kun con un intervento militare alleato

La Commissione per gli affari cecoslovacchi aveva accordato allo Stato boemo le modifiche del confine richieste e, anche se ancora la Conferenza non le aveva esaminate e approvate, le autorità cecoslovacche avevano già predisposto l'occupazione dei nuovi territori. Il 20 marzo giunse al generale Piccione, incaricato di organizzare l'avanzata, l'ordine di operazione n. 9000 che ingiungeva di cedere il comando del settore orientale della Slovacchia al generale francese Hennoque. Tale area era stata sino ad allora affidata al controllo della 6a divisione del generale Rossi, sottoposto all'autorità di Piccione, che si sarebbe perciò dovuta ritirare ad ovest del fiume Ondava. Veniva sottratto, inoltre, al controllo del generale Piccione il Comando territoriale diretto dal colonnello Schöbl, che passava agli ordini del ministero della Difesa Nazionale

L'istituzione del Comando territoriale era avvenuta alla metà del gennaio 1919, quando Klofač aveva sciolto il Gruppo Schöbl ed aveva posto il colonnello alle sue dirette dipendenze a capo della nuova istituzione. Lo sdoppiamento dei comandi aveva dato origine ad attriti, in particolar modo tra Schöbl e Rossi, il quale aveva allocato il comando della 6a divisione nella stessa sede del Comando territoriale, Kosice. I due organi non avevano inoltre attribuzioni precise e ben distinte, perciò il rischio che ordini contraddittori emanati dai due comandi ostacolassero le attività era molto alto. Per risolvere i problemi causati da questa situazione, il generale Piccione aveva ottenuto, pochissimi giorni prima che gli fosse recapitato l'ordine n.9000, di porre sotto il suo controllo anche il Comando territoriale , un riconoscimento subito ritirato, come si è visto. Un ulteriore affronto all'autorità di Piccione fu compiuto con l'attribuzione al generale Hennoque di una nuova divisione, la 3a, dopo che al generale italiano erano stati promessi rinforzi, consistenti in una brigata, a causa delle "nuove condizioni politiche createsi" . Anche in questo caso, la promessa delle autorità boeme al Comando italiano non avrebbe avuto seguito.

L'emarginazione dell'Italia dall'esercito cecoslovacco stava prendendo una forma sempre più manifesta, anche se le autorità boeme non avevano ancora optato per la rottura con l'Italia ed erano perciò costrette a barcamenarsi in dichiarazioni vaghe e contraddittorie per rispondere alle proteste italiane. Se il presidente Masaryk era ancora del parere di favorire l'Italia alla Conferenza della pace, inducendo gli jugoslavi ad accettare rinunce territoriali, e sperava che i rapporti italo-boemi potessero essere migliorati grazie all'intermediazione di una personalità forte e dotata di autorità quale era Stefánik , Benes e Kramář non usavano più molto tatto nelle relazioni con l'Italia che, oltretutto, si stava rivelando uno dei maggiori avversari della politica estera cecoslovacca. I rappresentanti italiani a Parigi e in Boemia, perplessi circa i metodi utilizzati dalle autorità ceche nell'imporre il controllo sulle popolazioni magiare e sulla consistente parte di slovacchi che rifiutavano l'annessione alla Repubblica cecoslovacca, manifestavano la loro contrarietà ad ulteriori ampliamenti del territorio cecoslovacco a scapito dell'Ungheria, con il risultato di amplificare tra i boemi la sensazione circa la slealtà degli italiani. Questo convincimento spingeva i responsabili della politica boema ad avvicinarsi sempre di più alla Francia, trasferendole le funzioni inizialmente affidate agli italiani. L'ordine n. 9000 esautorava Piccione dal comando delle forze armate cecoslovacche in Slovacchia e non era stato in alcun modo preannunciato dal ministro Klofač, nonostante egli avesse ripetutamente incontrato il comandante italiano nei giorni immediatamente precedenti . Questi non poté non interpretare questi silenzi come uno stratagemma, peraltro poco accorto, dato che il contrasto tra le due Missioni si sarebbe inevitabilmente manifestato nel momento in cui le convenzioni boemo-francesi avessero cominciato a trovare attuazione . Il generale Piccione reagì energicamente alla lesione dei suoi poteri ponendo una sorta di ultimatum al ministero della Difesa Nazionale: se l'ordine non fosse stato prontamente ritirato avrebbe richiesto al governo italiano l'immediato ritiro della Missione; contemporaneamente egli interessò l'ambasciatore italiano a Praga affinché facesse carico della questione alla delegazione a Versailles

La presa di posizione energica venne assunta da Piccione in completa autonomia poiché gli ordini inviati da Klofač implicavano un'esecuzione immediata e dunque egli aveva preferito evitare di dare al Comando francese ed al ministero cecoslovacco il vantaggio del fatto compiuto. Per questa ragione la sua reazione non venne preventivamente concordata né col Comando Supremo né con il governo italiano . La risposta che il generale italiano ricevette dal ministero della Difesa fu ambigua e portava a pretesto della decisione assunta ragioni militari: la lunghezza del tratto di frontiera da proteggere necessitava di ulteriori forze per essere presidiata più efficacemente. Questa notazione era stata fatta al ministro solo tre giorni prima per spiegare la necessità di rinforzi ma non chiariva assolutamente i motivi per i quali le nuove forze erano poste sotto un altro comando. Klofač invitava poi il comandante del Corpo d'armata cecoslovacco d'Italia a rivolgersi a Foch, in qualità di generalissimo dell'Intesa, per ottenere chiarimenti circa i rapporti tra la Missione italiana e quella francese . Piccione fu costretto a reiterare la richiesta di una risposta chiara ed esplicita.

Nel frattempo anche la diplomazia si era messa in azione e, sollecitato da Piccione, Lago aveva ottenuto un incontro con il presidente Masaryk. Solo allora, il 20 marzo, gli italiani vennero finalmente a conoscenza della seconda convenzione stipulata dalla Cecoslovacchia con la Francia il 18 febbraio. Tale documento, che Masaryk dichiarò di aver ignorato egli stesso sino alla sera precedente, definiva la fonte della subordinazione di Piccione a Pellé. Con esso, infatti, si venne a conoscenza della nomina del generale Foch a Comandante Supremo dell'esercito cecoslovacco; la posizione di Foch era quindi superiore a quella di Piccione e la delega di poteri compiuta da Foch in favore di Pellé subordinava Piccione al capo della Missione francese. Il presidente Masaryk mostrò di condividere l'idea che il generale italiano sarebbe dovuto rimanere al suo posto di comandante delle forze cecoslovacche in Slovacchia. Egli avanzò poi, però, la proposta che al generale Hennoque fosse affidato il comando delle operazioni nella Rutenia subcarpatica. Lago manifestò subito il disappunto che tale compromesso avrebbe causato in Piccione, il quale aveva già organizzato le operazioni e le aveva affidate al generale Rossi: anche questa soluzione avrebbe minato il prestigio del generale italiano

L'episodio mise in evidenza la condotta scorretta di alcune autorità boeme, in particolare di Benes, che era l'ispiratore dell'intera operazione politica, e di Klofač. Le autorità italiane cominciarono ad avere così un quadro più completo dei legami che si erano creati tra la Francia e la Cecoslovacchia e della posizione delicata in cui si trovava Piccione.

La composizione del contrasto tra i comandi italiano e francese non era quindi da realizzarsi fra le diplomazie delle due nazioni, come aveva inizialmente proposto l'ambasciatore italiano a Parigi, Bonin, bensì con il governo cecoslovacco che aveva stipulato accordi contraddittori e tali da non poter essere rescissi senza ledere il prestigio di una o dell'altra Potenza

Oltre alle recriminazioni che gli italiani indirizzarono a Benes per non aver neppure notificato la conclusione delle convenzioni che avrebbero portato conseguenze dirette all'Italia, il ministro degli Esteri cecoslovacco era accusato di essere venuto meno agli impegni presi con Piccione. Egli però respingeva le accuse di slealtà poichè non si riteneva giuridicamente responsabile nei confronti del generale italiano dal momento che fra i due non era stato formulato alcun patto.

L'analisi della questione, che il Comando Supremo italiano intraprese, mise effettivamente in evidenza che le speranze del generale italiano di essere nominato a ricoprire una funzione di grado elevato nell'esercito cecoslovacco si fondavano solo su accordi verbali. Dalle notizie e dagli incartamenti che la diplomazia italiana raccolse per poter obiettare alle dichiarazione di Benes emerse infatti che Piccione, fidandosi della parola del ministro ceco, aveva rinunciato ad inserire nei documenti che istituivano la Missione militare le assicurazioni circa la sua indipendenza. Il ministro ora spiegava che le sue affermazioni erano state male interpretate dal generale, al quale egli non aveva dato alcuna garanzia . Quest'ultimo però portava, a riprova degli accordi verbali, la lettera di Benes del 27 novembre ed un ordine di operazione sulla Slovacchia del 23 dicembre in cui si ribadiva che il Corpo d'armata cecoslovacco d'Italia e il suo comando sarebbero stati subordinati al ministero della Difesa Nazionale per la durata del loro incarico . Gli italiani erano poi scandalizzati dal modo in cui il ministro boemo contraddiceva le sue stesse dichiarazioni rilasciata all'ambasciatore italiano a Parigi Bonin in occasione dell'incontro del 2 marzo 1919, con le quali aveva promesso di vigilare sull'indipendenza dei due Comandi presenti in Cecoslovacchia . Nonostante queste circostanze, la posizione di Piccione si stava rivelando insostenibile a causa dell'ufficialità e della completezza degli accordi boemo-francesi, attraverso i quali il Comando francese aveva sottoposto al suo controllo i gangli dell'apparato militare cecoslovacco. L'influenza imposta dalla Francia non solo sulla Repubblica boema, ma anche in altri Paesi dell'Europa danubiana, come la Romania e la Polonia, giunse a fare ritenere ai delegati americani alla Conferenza della pace che essa stesse costituendo una catena di nazioni alleate non solo per contenere il germanesimo e il bolscevismo, come i rappresentanti francesi sostenevano, ma anche per realizzare degli obiettivi di tipo imperialistico sulle aree circostanti. Il maggiore spessore che la nuova alleanza avrebbe in tal modo ottenuto avrebbe assicurato una forza militare più consistente in caso di necessità

Anche i fautori della politica estera italiana colsero la vastità del progetto che la Potenza rivale era in via di realizzare osservando i successi della diplomazia militare francese. Lago sottolineava, in un rapporto del 4 maggio 1919, che imporre l'influenza francese in ambito militare (anche attraverso una facile e opportuna confusione ingenerata tra il concetto di comando unico interalleato, affidato ad un generale francese, e quello di alto comando francese) fosse risultato più agevole poiché il sostegno militare era facilmente accettato dai Paesi in questione, dominati dalle preoccupazioni di emergenze militari e minacce rivoluzionarie



La crisi italo-cecoslovacca


L'Italia si trovava dunque in una posizione sicuramente più debole di quella francese, anche a causa del disinteresse che il governo italiano aveva manifestato astenendosi dal partecipare alle negoziazioni sulla missione in Boemia e non conoscendo esattamente i termini nei quali essa si era realizzata. La politica estera italiana aveva profondamente deluso Benes, che in quel momento era la figura più autorevole tra i rappresentanti boemi. Nonostante le ultime ritrosie di Masaryk, non certo di voler giungere alla rottura con uno dei due Stati che avevano inviato missioni in Cecoslovacchia, egli non aveva remore ad incrinare i rapporti con l'Italia. La situazione che egli stesso aveva d'altronde creato conduceva a questo risultato, poiché era molto difficile che una delle due nazioni potesse accettare la grave lesione al prestigio che sarebbe conseguita da una composizione del contrasto esistente. Masaryk aveva auspicato, come ultima opportunità per cercare di sbloccare la situazione, l'intervento di Stefánik. Il generale cecoslovacco appariva particolarmente qualificato per condurre le trattative con l'Italia grazie alla profonda ammirazione che gli italiani nutrivano per lui e alla simpatia e gratitudine con le quali egli ricambiava. La possibilità che la situazione dei comandi in Slovacchia potesse essere modificata dal rientro in patria dell'eroe slovacco era stata ventilata anche da Lago.

In effetti la questione rientrava appieno nelle competenze del ministro della Guerra ed egli, quando giunse a Parigi di ritorno dalla Siberia, intervenne nella questione. Il contrasto italo-boemo fu l'occasione per l'esplosione del conflitto tra Benes e Stefánik, sostenitori di due differenti modi di condurre la politica: il primo era il fautore di un indirizzo spregiudicato e a volte addirittura opportunista; il secondo aveva manifestato, già in occasione della proclamazione del governo provvisorio, la sua contrarietà per gli atti non supportati da un fondamento di legittimità o che non fossero assolutamente corretti dal punto di vista giuridico. Non appena riprese la sua attività diplomatica ristabilì i contatti con i rappresentanti politici italiani che lo misero a conoscenza dell'atteggiamento assunto dal governo cecoslovacco nei confronti dell'Italia. Secondo le notizie che Benes inviava a Masaryk, Stefánik fu molto duro nel criticare l'operato del ministro degli Esteri; le stesse dichiarazioni di quest'ultimo erano espresse in toni così drammatici da indurre a credere che, oltre alle ragioni politiche, tra i due ci fossero anche motivi personali di risentimento. Stefánik aveva probabilmente provato un senso di frustrazione per essere stato escluso, per i molti mesi della sua permanenza in Russia, dall'opera di costruzione dello Stato, non era rimasto soddisfatto della carica che gli era stata assegnata dai colleghi ed era stato profondamente deluso dal modo in cui si era realizzata l'unione delle province boeme con la Slovacchia.

Il suo ideale "cecoslovacco" si sarebbe concretizzato con l'attribuzione alla Slovacchia di una posizione di completa autonomia e parità con la nazione ceca ma si scontrava con la consapevolezza che i cechi avrebbero tentato di porre la sua provincia natale in una condizione di sottomissione. Stefánik riteneva che i capi politici della nuova Repubblica non comprendessero a fondo i problemi della Slovacchia[82].

La condizione fisica dello slovacco, compromessa sin dal 1915 in seguito ad un grave incidente aereo sul fronte serbo e aggravatasi a causa dello stress e del clima rigido sopportato nel viaggio in Siberia, probabilmente influiva sul suo stato d'animo rendendolo suscettibile e meno accomodante nei confronti degli atti, da lui ritenuti scorretti, di Benes[83]. Questi, d'altro canto, avvertiva il dissidio con Stefánik come un attacco alla proprie scelte politiche se non, addirittura, alla propria posizione e si manifestò intollerante verso il punto di vista sostenuto dal ministro della Guerra .

Il contrasto tra i due assunse toni critici proprio sulla questione dei rapporti con l'Italia: Stefánik, mostrando di essere rimasto fedele alle sue tesi filoitaliane, considerò un errore l'apertura di Benes alla Francia che, in base ai termini nei quali era avvenuta, compromettevano le relazioni amichevoli con l'Italia. Egli rimproverava inoltre al ministro degli Esteri di avere, ancora una volta[85], abusato del suo potere, invadendo una sfera di competenze, quelle militari, che lo stesso Benes aveva affidato a lui. Benes, a sua volta, accusava lo slovacco di non discernere le ragioni politiche dal suo attaccamento affettivo all'Italia che lo aveva reso "del tutto incatenato agli italiani" e che lo induceva a condurre una "politica italiana", rendendolo inviso anche agli ambienti francesi nei quali, durante la guerra, aveva riscosso grandissimo successo .

Nel cercare un componimento del dissidio tra la Missione italiana e quella francese, il Comando Supremo italiano ritenne utile interessare della questione Stefánik. Nell'incontro fra Diaz e Stefánik emerse che quest'ultimo non era stato messo a conoscenza delle convenzioni stipulate da Benes con il governo francese e che ne aveva appreso l'esistenza solo pochi giorni prima. Stefánik rilevava la contraddizione tra tali accordi e quelli precedentemente conclusi con l'Italia. Sebbene avesse già manifestato la sua contrarietà per l'atto compiuto da Benes egli assicurò ai comandi italiani che l'errore del ministro degli Esteri non era stato intenzionale e garantì che si sarebbe direttamente interessato a trovare una soluzione[87]. Da quel momento Stefánik tornò ad essere il riferimento dell'Italia nei rapporti con il governo cecoslovacco.

Nel frattempo l'esplosione della crisi non aveva fermato i mutamenti ordinati da Klofač con l'ordine d'operazione n. 9000. Dopo la sospensione dell'ordine, imposta dalla ferma reazione di Piccione, il ministro della Difesa Nazionale aveva emanato un ulteriore atto che alla lettera aboliva il n. 9000 ma, in sostanza, lo ripristinava poiché confermava molte delle direttive emanate il 20 marzo. Piccione poté constatare ancora una volta la insincera attitudine di Klofač che, dando agli italiani soddisfazione formale, sperava di superare l'impasse.

Nel nuovo ordine, ad esempio, non si faceva più riferimento a settori occidentali e orientali ma si ordinava ugualmente alla 6a divisione di ritirarsi verso ovest[88]. Il generale Piccione, però, non era assolutamente disposto a cedere sulla sostanza in cambio di una forma che salvava le apparenze e lo comunicò al ministro cecoslovacco. Da quel momento attese ben quindici giorni prima di ricevere altre notizie dal ministero della Difesa Nazionale e il suo disappunto aumentò a causa dei metodi diplomatici piuttosto goffi di Klofač . Solo l'8 aprile giunse al Comando delle forze cecoslovacche in Slovacchia una nuova comunicazione che ripristinava l'ordine n. 9000 anche nella suddivisione in settori, ai quali però si davano denominazioni differenti: il settore occidentale, che per il momento si lasciava sotto il comando di Piccione, era definito Slovacchia, accontentando il generale nella sua pretesa di rimanere al comando di "tutte le forze in Slovacchia", mentre il settore orientale, sebbene denominato Rutenia o Ungheria Rutena, comprendeva la porzione ad est del fiume Bodrog della regione storicamente conosciuta come Slovacchia. Questi sotterfugi, utilizzati dalle autorità boeme per cercare di evitare per il momento una rottura totale con l'Italia, non producevano altro risultato se non quello di indisporre ulteriormente gli ufficiali italiani, che si sentivano presi in giro dalle soluzioni fantasiose proposte da Klofač e di aumentare il discredito della nuova classe politica cecoslovacca presso le autorità italiane.

A ciò si aggiungevano i chiari segnali che manifestavano una discordanza nelle opinioni dei membri del governo sul contegno da tenere nei confronti della Missione italiana. Poche ore dopo che il telegramma contenente l'inconsistente soluzione proposta da Klofač era pervenuto al generale Piccione, giunsero a Bratislava il ministro per la Slovacchia Srobár e l'Ispettore Generale per le truppe territoriali Scheiner con l'incarico di comunicare al generale italiano la risoluzione del Consiglio dei Ministri del 7 aprile che confermava a Piccione il comando dell'intera Slovacchia[90]. I due uomini di governo ignoravano la misura adottata da Klofač, e dunque fornivano un'altra testimonianza del metodo utilizzato dai ministri cechi più intraprendenti, che compivano atti politicamente e diplomaticamente rilevanti senza consultare né informare i colleghi, con il rischio di provocare equivoci ed imbarazzi.

La decisione del Consiglio dei Ministri rendeva manifesto, inoltre, il favore di alcuni leaders politici per l'Italia. La minaccia di una prematura partenza della Missione militare aveva fatto emergere una corrente del tutto inaspettata di simpatia per l'Italia. La campagna diffamatoria nei confronti degli ufficiali italiani si era ridimensionata durante il mese di marzo; i protagonisti italiani della vicenda furono soddisfatti nel constatare che l'attitudine moderata tenuta dagli ufficiali nei confronti della popolazione era stata molto apprezzata anche da parte degli ambienti politici, specialmente quelli slovacchi[91].

L'ambiguo atteggiamento della parte influente delle autorità ceche convinse gli italiani della loro scarsa sincerità e diffuse nell'opinione pubblica l'idea che la Cecoslovacchia aveva cercato di ingannare l'Italia sfruttandola per quanto possibile e tradendo la sua fiducia. In effetti avvalorava questo sospetto il fatto che in quei giorni di profondo dissidio i cecoslovacchi inoltrassero richieste di materiale bellico attraverso il rappresentante militare presso la legazione boema di Roma Seba[92] ed attraverso Klofač, al quale lo stesso Piccione non nascondeva che il governo sarebbe stato difficilmente favorevole a soddisfarle, dato l'ostile contegno boemo nei confronti della Missione italiana .

Un altro esempio del comportamento scorretto che indispose le autorità italiane fu la constatazione che i comandanti italiani non venivano sostituiti con cecoslovacchi nonostante i rappresentanti boemi imponessero di non inviare, dal campo di concentramento presso Gallarate, più di un ufficiale per accompagnare ogni battaglione, dato il copioso numero di ufficiali cecoslovacchi per i quali era necessario trovare un impiego[94].

I responsabili italiani, perciò, anche su indicazione di personaggi che avevano sostenuto la causa boema per tutta la durata della guerra e che si erano prodigati per favorire le relazioni italo-boeme nel periodo postbellico, come Enrico Scodnik, valutarono opportuno ridimensionare la "generosità" dimostrata sino ad allora e sfruttare gli aiuti che l'Italia stava continuando a fornire alla Repubblica boema come armi di ricatto. Scodnik suggeriva pertanto di ritardare l'invio di nuovi battaglioni formati da ex prigionieri cecoslovacchi in patria poiché essi rappresentavano una "pedina di cui [...] approfittare"[95]. Il generale Diaz approvò tale ottica e decise di rallentare il trasferimento dei battaglioni cechi dall'Italia e l'invio di armamenti . Alla decisione di tenere una condotta più rigida si era giunti valutando l'opportunismo delle autorità ceche, dovuto alla necessità di rinsaldare in ogni modo possibile la posizione della nuova Repubblica; ogni dimostrazione di forza rischiava però di risultare per i boemi una provocazione e di rendere ancora più critici i rapporti italo-boemi. L'evolversi della vicenda mise in luce il fatto che nel 1919 l'Italia aveva ben poche armi economiche o politiche che avrebbero potuto indurre la Cecoslovacchia a mettere a repentaglio il legame con la Francia o i buoni rapporti con la Jugoslavia. Piccione, nella risposta al telegramma di Klofač dell'8 aprile, dopo aver sottolineato che le contraddizioni contenute nelle varie comunicazioni erano state rilevate anche dai ministri Srobár e Scheiner, aveva ribadito di aver rimesso la questione al suo governo . La risposta da Versailles, dove si trovavano Orlando e Sonnino, si fece attendere per oltre due settimane, nonostante le sollecitazioni da parte del generale.

Piccione, nelle sue comunicazioni con Lago[98] e con le autorità cecoslovacche, sottolineava, infatti, il silenzio da parte del governo . La sensazione che i militari in Slovacchia fossero "trascurati" dal governo italiano si diffuse anche tra gli ufficiali e fu rilevata dagli stessi rappresentanti italiani a Praga Lago e Vecchierelli, l'addetto militare, il cui invio era stato sollecitato dall'ambasciatore italiano a Praga per contrastare l'influenza della Missione francese nella capitale. Vecchierelli, rendendo noto al Comando Supremo italiano l'affronto che si perpetrava ai danni del prestigio italiano e di quello personale di Piccione, rilevava che anche nelle comunicazioni ufficiali, nonostante gli stratagemmi di parole di Klofač, si trascurava la forma e si indirizzavano le comunicazioni per il generale italiano al "Comando delle forze cecoslovacche nel settore occidentale della Slovacchia" piuttosto che al "Comando Supremo delle forze cecoslovacche in Slovacchia". E' particolarmente significativo che l'addetto militare si unisse all'ambasciatore nel rinnovare le rimostranze per non aver ricevuto alcuna risposta dalla delegazione italiana a Parigi in seguito ai loro numerosi telegrammi, rilevando che tale atteggiamento avrebbe potuto dare l'impressione che il governo si disinteressasse della questione . Questa impressione poteva produrre conseguenze negative nei confronti delle autorità cecoslovacche, del comando della Missione militare francese nonché degli ufficiali italiani. Le direttive lacunose davano infatti l'idea che al governo italiano mancasse un preciso indirizzo politico da perseguire e che tentasse piuttosto di adattare la propria politica alle situazioni che scaturivano dalla Conferenza della pace. Questo modo di condurre la vicenda indeboliva la posizione italiana dal punto di vista sia del prestigio sia dell'efficacia poichè poneva l'Italia nella condizione di dover recuperare le posizioni perdute. Questo quadro si delineava in maniera ancora più netta se rapportato alla Francia, la cui politica estera era ben definita e con obiettivi vasti e complementari. Tale situazione creava, inoltre, alle autorità ceche lo spazio per agire in contrasto con gli accordi presi, senza subire immediate ripercussioni, dato che il comando italiano continuava a rispettare gli ordini provenienti dal ministero della Difesa nazionale e la sostituzione degli ufficiali italiani con quelli francesi era ormai un fatto compiuto. Gli stessi ufficiali italiani rilevavano gli scarsi frutti politici che la missione stava producendo e la poca efficacia dell'azione del governo per salvaguardare il loro prestigio, cosicché venivano meno le motivazioni interiori che permettevano loro di sopportare ancora un altro periodo di guerra.

Durante il corso delle trattative a Versailles le indicazioni del Consiglio Superiore a Piccione si limitarono ad escludere che il generale trattasse direttamente con il governo cecoslovacco la questione delle sue attribuzioni, per evitare che si creassero equivoci e si giungesse a situazioni contraddittorie rispetto a quelle che la delegazione italiana a Versailles cercava di perseguire[102]. Il 10 aprile 1919 il generale prese l'ultima iniziativa personale presentando al ministro Srobár una memoria in cui esponeva, in maniera inequivocabile, le richieste italiane che consistevano nel ripristino della giurisdizione militare affidata a Piccione sino al 19 marzo, cioè sino al momento in cui l'ordine di operazione n. 9000 non aveva ancora cominciato a realizzare la transizione dei comandi dagli italiani ai francesi. Il generale Diaz approvò la misura di Piccione ma da quel momento pretese che il comandante in Slovacchia si limitasse a dichiarare di attendere istruzioni dalle autorità superiori . Durante la prima metà di aprile, mentre erano in corso le trattative tra la delegazione italiana e quella cecoslovacca a Versailles, i ministri italiani competenti furono invitati ad attuare quelle misure che erano state sollecitate da chi aveva rilevato le maggiori carenze dell'azione italiana in Boemia, come aveva fatto Negrelli nel suo rapporto e come continuava a fare Scodnik, tramite la Lega italo-cecoslovacca, i quali sottolineavano la scarsa capacità di penetrazione della politica estera italiana. Si consigliava, innanzitutto, la conclusione di accordi commerciali, che permettessero un incremento degli scambi e dei traffici, con le adeguate garanzie economiche per l'Italia; era inoltre necessario istituire collegamenti ferroviari frequenti per unire Roma e Milano a Praga. Per confrontare l'attività dispiegata dal governo francese in Cecoslovacchia con quella dell'Italia basti dire che le comunicazioni fra Parigi e la capitale boema erano state ripristinate poco dopo l'armistizio, mentre la Presidenza del Consiglio dei Ministri di Roma comunicava alla Lega italo-cecoslovacca: ambedue erano stati istituiti i treni merci e passeggeri per la Boemia con frequenza regolare dal 19 giugno 1919 , quando la crisi si era ormai risolta a sfavore dell'Italia e si cercava di recuperare un rapporto ormai compromesso. La propaganda italiana in Cecoslovacchia avrebbe potuto avere un peso ancora maggiore in quanto, oltre a dimostrare la simpatia dell'Italia per la nuova Repubblica, avrebbe contrastato le notizie provenienti dalle agenzie di stampa jugoslave, decisamente orientate in senso anti-italiano, ma gli interventi del governo furono troppo tardivi per influenzare le sorti della Missione militare, poiché le sovvenzioni per pubblicare un giornale italiano a Praga giunsero all'ambasciatore Lago dal Comando Supremo solo nel luglio 1919 . Sino ad allora il favore per le posizioni italiane sui giornali boemi era stato cercato solo da Dadone che, tramite i suoi contatti, aveva cercato di indurre le redazioni a selezionare con più accuratezza le notizie sull'Italia provenienti da fonti non imparziali. Nella prima metà di aprile, quando prese forma l'accordo italo-boemo per risolvere la situazione incresciosa della Missione militare, l'Italia aveva ancora pochissimi strumenti per influenzare l'opinione pubblica nonché l'atteggiamento delle autorità della Repubblica ceca: in particolare per quanto riguardava i rifornimenti di materiale bellico, Sonnino aveva ribadito il divieto di soddisfare le continue richieste provenienti da Praga proprio allo scopo di orientare i cecoslovacchi ad accettare le condizioni italiane. Tali misure energiche suscitavano nelle rappresentanze boeme una reazione contraria all'Italia che poteva così essere additata come la Potenza che ostacolava la stabilizzazione del nuovo Stato facendo una politica favorevole ai nemici della Cecoslovacchia.

Il clima delle trattative a Versailles era dunque avvelenato dalle reciproche recriminazioni e la posizione italiana risentiva naturalmente della crisi sempre più acuta che si apriva in relazione alla questione adriatica e che costrinse poi l'Italia ad abbandonare la conferenza solo pochi giorni dopo l'accordo con la Cecoslovacchia. Il leader della delegazione boema Benes non aveva, peraltro, nessuna intenzione di agire in modo poco riguardoso verso la Francia; perciò, nell'ipotesi che gli italiani lo ponessero di fronte ad una scelta tra le due Missioni con le conseguenze che ciò avrebbe prodotto nei rapporti con i rispettivi governi, egli non prendeva assolutamente in considerazione la possibilità di allontanare il generale Pellé. Benes riteneva, piuttosto, che la soluzione delle poco chiare attribuzione dei Comandi presenti in Slovacchia andasse risolto prima che i francesi ponessero a loro volta la questione circa la minaccia al prestigio di Pellé creata dalle rivendicazioni italiane[107], mostrandosi così ben più accorto nel non urtare la suscettibilità francese. Un primo progetto di composizione degli interessi dei due Stati venne proposto dal ministro degli Esteri boemo a Masaryk e non si allontanava molto dalla soluzione che fu poi realizzata. Egli sperava di poter accontentare provvisoriamente gli italiani restituendo il comando delle truppe in Slovacchia a Piccione. Se gli ufficiali francesi avessero tollerato questa situazione di indeterminatezza che salvaguardava il prestigio italiano per uno o due mesi, si sarebbe potuto nel frattempo indurre Piccione a negoziare una nuova intesa che determinasse in maniera chiara la posizione italiana, subordinandola a Pellé. A quel punto, se la Missione italiana non avesse accettato, avrebbe dovuto lasciare il Paese e, in prospettiva, sarebbe stato necessario utilizzare il periodo di attesa per preparare gli ufficiali boemi ad assolvere i compiti allora affidati a comandi italiani .



Il contributo di Stefánik a sostegno dell'Italia


Se l'accordo, che fu siglato il 18 aprile, prevedeva maggiore autonomia per la Missione italiana, nonostante non mutasse la sostanza, che consisteva nel suo allontanamento, fu merito di Stefánik, che si interpose nella trattativa mitigando l'intransigenza di Benes, tanto che questi ritenne che il generale slovacco, per via del suo favore nei confronti dell'Italia, fosse strumentalizzato dagli italiani. Al contrario di Benes, non solo Stefánik ma neppure Masaryk riteneva prudente giungere ad una rottura con l'Italia, perlomeno fino alla firma dei preliminari di pace. Anche le autorità italiane si videro costrette a smorzare i toni della polemica quando si resero conto che, nonostante gli accordi fra Piccione e i responsabili boemi fossero anteriori a quelli franco-boemi, non c'era alcuna testimonianza a garanzia della posizione della Missione italiana mentre la Francia aveva siglato con Benes delle condizioni così impegnative da riuscire, attraverso quelle a prendere possesso di tutti gli organismi militari cecoslovacchi. Si dovette, pertanto, accettare la nomina di Foch come comandante supremo e il ruolo di Pellé come suo rappresentante, che necessariamente lo poneva in un grado gerarchico superiore rispetto a quello di Piccione; si riteneva, però, essenziale che fosse riconosciuto al capo del Corpo d'armata cecoslovacco d'Italia il comando di tutte le truppe operanti in Slovacchia[109]. Gli ufficiali francesi avevano poi, a detta di Stefánik, incominciato a reclamare la completa esecuzione degli accordi siglati con Benes e quest'ultimo era deciso a soddisfarli.

L'intesa alla quale giunsero le rappresentanze a Versailles era tale da far apparire che il ritiro della Missione militare italiana fosse avvenuto senza rottura. Il 18 aprile Orlando e Sonnino si accordarono con Stefánik sul testo di una comunicazione che sarebbe stata diffusa da Benes con la quale si dava completa soddisfazione alle richieste italiane circa l'indipendenza di Piccione nella giurisdizione militare del territorio ad est della Moravia. La postilla al termine del documento preannunciava il ritiro della Missione italiana poiché essa aveva ormai raggiunto i compiti che si era prefissa: assumere il comando delle truppe cecoslovacche per garantire così l'ordine in Slovacchia e organizzare il rientro in patria e l'inserimento nel nuovo esercito dei battaglioni che l'Italia aveva formato con gli ex prigionieri asburgici di nazionalità cecoslovacca[111]. Il testo della comunicazione era infatti stato approvato da Praga subordinatamente alla decisione del rimpatrio a breve scadenza della missione del generale Piccione. La Nota creava il presupposto per realizzare l'escamotage approntato dalle autorità italiane con il sostegno di Stefánik per salvare il prestigio italiano che consisteva, piuttosto che nell'aut-aut previsto da Benes, nel provocare il ritiro degli ufficiali italiani attraverso una decisione del governo di Roma: l'opera della Missione italiana sarebbe stata ritenuta conclusa, dato che la Repubblica cecoslovacca aveva ormai costituito i propri organi i quali avrebbero provveduto alla formazione del nuovo esercito , pertanto sarebbe stato richiesto il rientro in patria di Piccione e degli ufficiali italiani in Slovacchia. Il rimpatrio, che sarebbe stato preannunciato il 23 aprile 1919 , avrebbe avuto luogo nei giorni successivi al 24 maggio, anniversario della consegna della bandiera all'esercito cecoslovacco d'Italia, che aveva suggellato un momento idilliaco dei rapporti tra l'Italia e la nazione cecoslovacca. In occasione del ritiro della Missione Stefánik si proponeva di organizzare dimostrazioni di simpatia e riconoscenza per gli italiani.

La situazione che l'intesa del 18 aprile creava era  sintetizzata da un appunto a matita sul telegramma con il quale la delegazione italiana per la pace veniva informata della comunicazione di Piccione che notificava l'attuazione degli accordi da parte del governo cecoslovacco: "Vuol dire che la commedia è incominciata!" .

La Missione militare, che avrebbe potuto sancire l'amicizia dell'Italia con lo Stato più avanzato politicamente ed economicamente dell'Europa centro-orientale e che poneva le basi per la futura collaborazione commerciale e diplomatica, terminava dunque con un mese di "commedia". Il governo italiano non poteva più illudersi sull'utilità della collaborazione con la Cecoslovacchia, che non aveva prodotto alcun frutto, ma anzi aveva confermato ulteriormente l'isolamento italiano. La rivalità italo-francese, che aveva trovato in Slovacchia un'ulteriore sede per manifestarsi, non si risolse a livello locale ma costrinse i Comandi militari, che erano stati inizialmente i principali attori della vicenda, a rivolgersi alle rispettive rappresentanze politiche, in quel momento riunite a Versailles, dove affrontavano le questioni relative alla riorganizzazione dell'Europa sconvolta dalla guerra. La vicenda della Missione militare in Boemia si legò così alle problematiche più urgenti e delicate che coinvolgevano la delegazione italiana. Negli auspici delle autorità italiane, la cooperazione militare con la Cecoslovacchia, così come tutti i contributi dati dall'Italia alla formazione dello Stato boemo, avrebbe dovuto meritare la riconoscenza di Benes e dei suoi connazionali, ma così non fu.


Le conseguenze della crisi italo-boema furono avvertite in modo grave anche dalle autorità cecoslovacche. Il dissidio fra Benes e Stefánik circa il contegno da tenere con l'Italia volse verso una rottura totale. Il ministro degli Esteri boemo, non assegnando più alcun valore all'amicizia con il governo di Roma, anche in considerazione del sempre minor prestigio che in campo internazionale era riconosciuto all'Italia a causa delle controversie con la Jugoslavia, non si era fatto scrupolo di venir meno agli impegni verbali presi con il generale Piccione ed era stato accusato in pubblico dal ministro della Guerra di essere stato disonesto; questo episodio aveva provocato l'interruzione dei rapporti tra Stefánik e Benes. Quest'ultimo attribuiva la colpa dell'accaduto a Stefánik, al suo stato d'animo particolarmente depresso e irascibile ed alla sua insoddisfazione personale che lo aveva portato a sostenere il punto di vista italiano come occasione di riscatto nei confronti del ministro degli Esteri. Prima del rientro in patria del generale slovacco Benes aveva immaginato per lo slovacco un futuro nel campo che gli era più congeniale, quello della diplomazia, con il che manifestava comunque di pensare ad una futura subordinazione di Stefánik alla sua posizione di ministro degli Esteri, mentre Masaryk lo riteneva anche idoneo per risolvere alcuni problemi legati alla situazione della Slovacchia. Al rientro in Europa del generale, però, Benes riteneva che le sue condizioni di salute, con le ripercussioni che producevano sul morale, stessero segnando la fine della sua carriera politica. Dopo la rottura personale aveva poi escluso che Stefánik potesse essere posto alle sue dipendenze in qualità di diplomatico, nonostante Masaryk, che aveva aderito alle visioni del ministro degli Esteri sullo slovacco e intendeva chiedergli di rinunciare al ministero della Guerra, continuasse a ritenere che la migliore sistemazione per lui sarebbe stata l'Ambasciata a Roma[115]. Emergeva comunque la difficoltà di immaginare la futura collaborazione con il generale che non avrebbe accettato di essere nuovamente relegato in un ruolo di second'ordine e che avendo partecipato con grandissimi meriti alla lotta per l'indipendenza nazionale, era considerato un eroe dall'opinione pubblica delle sue terre: in uno scontro tra Benes e Stefánik non c'erano ampi margini di sicurezza di trionfo per il primo.

Stefánik, che era amareggiato anche sul piano personale per gli ostacoli politici che gli venivano prospettati circa il matrimonio con l'italiana Giuliana Benzoni, reagì alla situazione legando sempre di più la sua immagine a quella di paladino dell'Italia. Prima di lasciare Parigi entrò nuovamente in polemica con Ernest Denis poiché difese le rivendicazioni italiane in Dalmazia e, una volta recatosi a Roma, dove fece tappa prima di intraprendere il suo viaggio di ritorno verso la patria, compì un atto che indispose non solo i suoi connazionali, schierati ormai apertamente su posizioni favorevoli alla Jugoslavia, ma anche altre delegazioni di Parigi: egli fu l'unica personalità straniera che il 29 aprile si recò alla stazione di Roma per accogliere Orlando che rientrava dopo aver abbandonato la Conferenza della pace. Trumbić giunse a dichiarare di considerare il gesto di Stefánik come un atto ostile nei confronti della Jugoslavia e Benes dovette spiegare che Stefánik non aveva agito in rappresentanza della Repubblica cecoslovacca[116].

Il 4 maggio 1919 Stefánik intraprese il suo ultimo volo a bordo di un aereo militare italiano, "per non toccare il suolo austriaco", che lo avrebbe portato da Padova a Bratislava in vista della quale, , ebbe un incidente che risultò fatale a lui ed ai suoi tre accompagnatori italiani. La natura dell'incidente fu solo in parte chiarita, ma è stata oggetto di molte analisi dato che le controverse notizie sull'accadimento hanno dato adito a varie ipotesi, molte delle quali non sono mai state smentite né confermate con certezza[117]. La nazionalità italiana di tre delle vittime e l'appartenenza all'aviazione italiana dell'apparecchio non furono sufficenti a stimolare ricerche approfondite: lo Stato Maggiore italiano si accontentò delle due possibili spiegazioni per l'incidente segnalate dal capitano Zapelloni, incaricato delle indagini a riguardo nei giorni immediatamente successivi, ossia quella di uno svenimento di Stefánik, che apparve verosimile per via dei gravi problemi di salute accusati dal generale, e quella della rottura di un filo dell'apparecchio radio che avrebbe inceppato il timone di profondità. Il generale Segre, comandante del Corpo di occupazione in Austria, optò per la diffusione della prima versione "pel buon nome dei nostri apparecchi" .

Non risulta che, in seguito alla diffusione di voci che prospettavano  altre cause dell'incidente, le autorità militari italiane abbiano ritenuto necessario riaprire le indagini per appurare le cause della morte dei tre militari italiani. Tra le tante eventualità che potrebbero aver fatto precipitare l'aereo, quella che trova maggiori conferme dagli studi di Ďurica è l'assassinio politico di matrice boema: a sostegno di questa possibilità egli espone innanzitutto le cattive relazioni tra Benes e Stefánik. Nel 1927 l'inchiesta ufficiale, condotta dalla Cancelleria militare del presidente della Repubblica Masaryk, confermò che a provocare la caduta dell'aereo era stata una sparatoria . Accertata la sparatoria, il governo di Praga fu costretto ad ammettere almeno l'ipotesi di un errore dei soldati cecoslovacchi che scambiarono l'aereo italiano per uno ungherese e lo colpirono. Anche questa ipotesi lascia però molte perplessità poiché gli ufficiali che diedero l'ordine di sparare non potevano non sapere dell'arrivo previsto dell'aereo di Stefánik e non porre la necessaria attenzione nel distinguere i velivoli.

Una smentita a questa ipotesi è costituita dal fatto che la fidanzata di Stefánik, sicuramente toccata dal grave lutto, non diede peso alla voci che indicavano in Benes il responsabile ultimo della morte del ministro della Guerra e continuò negli anni successivi a frequentare assiduamente Benes, Masaryk e le loro famiglie[120].

Nel 1930, il direttore de "La Tribuna", Roberto Forges-Davanzati, sottopose all'attenzione del generale Gazzera, che a sua volta interessò il responsabile dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'esercito, la lettera inviatagli da Mario Brelich-Dall'Asta di Budapest che gli proponeva di intraprendere un'inchiesta per il giornale circa l'incidente aviatorio di Stefánik affinché la morte dei militari italiani che lo accompagnavano non restasse impunita. Sebbene il direttore de "La Tribuna" conoscesse le condizioni economiche critiche di Brelich-Dall'Asta e ritenesse che la richiesta di sovvenzioni per svolgere la ricerca potesse essere mossa dalla necessità e le notizie che avrebbero dovuto suscitare interesse in Forges-Davanzati potessero non essere veritiere, egli ritenne opportuno comunicare le informazioni giunte in suo possesso all'autorità militare che non diede però corso ad ulteriori accertamenti[121].

La relazione di Brelich-Dall'Asta, nonostante contenga molte notizie approssimative e imprecise, riporta correttamente il dato fondamentale della sparatoria ed altre informazioni, delle quali non si precisa la fonte ma che, se confermate, costituirebbero ulteriori prove circa le implicazioni politiche nell'episodio della morte di Stefánik. Egli narra, ad esempio, di aver cercato di mettersi in contatto con Igor Stefánik, fratello del ministro della Guerra, che viveva in Jugoslavia perché era stato costretto ad emigrare a causa del rigido controllo al quale le autorità ceche lo avevano sottoposto, in seguito alle indagini che egli aveva condotto sulle circostanze della morte del fratello. Undici anni dopo Igor, che viveva ancora lontano dalla patria, continuava, secondo Brelich-Dall'Asta, ad essere sorvegliato anche in Jugoslavia poiché, alla sua richiesta di informazioni sull'incidente aviatorio, egli aveva risposto che di quell'argomento si poteva parlare solo di persona[122].

L'episodio della controversa morte di Stefánik, che rappresenta un ulteriore lato oscuro della fase di stabilizzazione dello Stato boemo, è tanto più eclatante se si considera la circostanza nella quali avvenne: il rientro in patria, dopo tanti anni di lontananza del ministro della Guerra, uno dei tre uomini che avevano i maggiori meriti nella fondazione della Cecoslovacchia e che nell'attività politica e diplomatica, si era distinto nelle azioni militari al punto di terminare la guerra insignito del grado di generale e di meritare di essere ricordato come un eroe nazionale.

Se la morte di Stefánik fosse dovuta, come appare plausibile, ad un assassinio politico da parte ceca, sarebbe interessante poter valutare il peso che ebbe, nel suo progressivo allontanamento dalle posizioni di Masaryk e Benes sino al conflitto personale con quest'ultimo, la scelta filoitaliana dello slovacco che, dalla corrispondenza di Benes, appare come l'ultima, grandissima occasione di scontro tra le due personalità che propugnavano indirizzi di politica estera differenti. L'ambiente italiano, che aveva sancito l'abilità diplomatica ed il successo politico di Stefánik, artefice principale del risultato raggiunto dal Consiglio Nazionale dei Paesi cechi con la firma della convenzione del 21 aprile con l'Italia, ed i legami personali e politici che egli aveva instaurato in Italia condizionarono le sue scelte diplomatiche al punto di provocarne la crisi politica e l'isolamento dal circolo governativo praghese. Il ministro degli Esteri cecoslovacco potrebbe aver temuto che il suo inserimento nella vita politica del nuovo Stato avrebbe comportato disordini e incertezze a causa delle sue vedute eterogenee rispetto a quelle dei ministri strettamente legati a Benes; avrebbe quindi deciso di evitare gli scontri pubblici con Stefánik che potevano minare la sua autorità sino ad allora indiscussa, eliminandolo.



4.6 L'esito della Missione militare italiana


Dopo il periodo di relativa quiete, interrotta solo da sporadici scontri con truppe magiare sul confine slovacco-ungherese, era incominciata un'altra fase delle operazioni militari. L'intervento delle truppe francesi, serbe e soprattutto rumene in Ungheria, giustificato dalla necessità di domare la rivoluzione bolscevica per evitare principalmente che il contagio rivoluzionario si propagasse, aveva costretto i magiari a far convergere le proprie forze verso Budapest, alla quale si avvicinavano le truppe comandate dal generale francese Franchet D'Esperey, e dove nel luglio 1919 sarebbe giunto l'esercito rumeno ponendo fine alla Repubblica dei Consigli. Gli ungheresi dovettero perciò abbandonare anche le posizioni sulle quali si erano attestati al confine con la Cecoslovacchia. Si creò così una fascia di territorio, dalla quale erano evacuati i magiari, priva di alcun controllo, e le autorità boeme colsero l'occasione per estendere il dominio a questa area prossima alla linea di demarcazione con il pretesto di evitare che avvenissero disordini e saccheggi in assenza delle autorità ritenute legittime dalla Conferenza della pace . L'incarico di raggiungere la nuova linea di demarcazione più avanzata, che avrebbe compreso nel territorio della Repubblica boema anche la città di Miskolcz, fu affidato al generale Piccione ad al generale Hennoque. Gli obiettivi che le autorità boeme avevano ordinato di raggiungere furono conquistati il 2 maggio 1919

Dopo un breve periodo durante il quale le forze ungheresi si riorganizzarono e si rinforzarono, esse intrapresero un contrattacco che in pochi giorni costrinse i boemi a ritornare sulle posizioni di partenza . L'attacco ceco, progettato per il 31 maggio e che avrebbe dovuto riconquistare i territori persi, fu però sventato dall'offensiva magiara che precedette quella boema di poche ore. Il giorno 30, infatti, fu sferrato un attacco dalle truppe rosse di Béla Kun contro il settore occidentale affidato alla 7a divisione. I successi militari magiari continuarono per alcuni giorni al punto da permettere la penetrazione magiara in Slovacchia ed il 16 giugno venne proclamata anche un'effimera Repubblica slovacca dei Consigli

Si era dunque in una fase critica di ripiegamento e di riorganizzazione delle forze quando, la notte tra il 31 maggio e il I giugno, il comando delle operazioni venne trasferito dai comandi italiani a quelli francesi, le attribuzioni del generale Piccione vennero assunte quindi dal generale francese Mittelhauser e, di conseguenza, i comandi italiani cessarono di funzionare.

La data stabilita per incominciare il ritiro della missione militare italiana era stato fissato per il 24 maggio, anniversario della costituzione dell'Esercito cecoslovacco d'Italia e del momento di maggiore affiatamento tra l'Italia e gli emigrés boemi, ed erano state previste manifestazioni di simpatia per gli ufficiali italiani da parte delle autorità boeme, per mitigare la sensazione di ostilità e insofferenza dei cecoslovacchi nei loro confronti.

La scomparsa di Stefánik, che si era impegnato a promuovere tali manifestazioni, fece temere ai comandi italiani di dover abbandonare la Cecoslovacchia in modo poco onorevole , ma le previste espressioni di riconoscenza e di amicizia non mancarono. Nei documenti che riportano i messaggi e le dichiarazioni di quegli ultimi giorni di permanenza del comando italiano in Slovacchia non vi è traccia delle polemiche e degli scontri che avevano avvelenato il clima tra Italia e Cecoslovacchia nel periodo immediatamente precedente . Ma l'apparenza di un rimpatrio tranquillo non mutava la sostanza delle cose: con il ritiro della Missione militare italiana in Boemia si interrompeva il clima di amicizia e collaborazione tra le due nazioni, che si era cercato di creare durante la guerra e di protrarre nella fase postbellica.

La Missione francese si sarebbe ingrandita con l'invio di altro personale dalla Francia , per poter assumere gli incarichi sino ad allora svolti dagli italiani, rinsaldando così la presenza e l'influenza francese in Cecoslovacchia. Il momento particolarmente critico dal punto di vista militare per sostituire i comandanti italiani metteva in evidenza come la scelta dei tempi fosse stata condizionata dall'impegno di ordinare il ritiro a breve scadenza della missione di Piccione dalla Slovacchia, preso dalle autorità italiane con l'accordo stipulato a Parigi.

La situazione che l'offensiva ungherese aveva creato rese più difficile per l'Italia respingere le accuse che venivano nuovamente mosse da parte ceca circa la cattiva direzione delle operazioni che aveva causato il ripiegamento delle truppe boeme. Non appena la missione di Piccione lasciò la Boemia, i giornali cecoslovacchi intrapresero una durissima campagna di stampa contro gli italiani, accusati di avere provocato le sconfitte boeme fornendo armi e munizioni ai magiari, di avere favorito l'infiltrazione di spie bolsceviche nelle file boeme in Slovacchia, di aver venduto alle Guardie rosse il fronte. Le inverosimili notizie apparse sui giornali in quei giorni venivano smentite dalle stesse testate boeme più serie, come il "Narodny Listy", che aveva sempre manifestato un atteggiamento favorevole agli italiani, anche grazie alla collaborazione di Dadone con la redazione . La disponibilità del giornale a dare spazio alle repliche italiane si manifestò nella pubblicazione di un'intervista all'ambasciatore Lago, nella quale egli difendeva i militari italiani dalle accuse più svariate che venivano loro mosse in quei giorni.

In quel periodo emerse anche la tendenza ad esagerare il contributo dei legionari cecoslovacchi alla guerra italiana, che divenne una sorta di mito sulla fondazione della patria. Se alcuni giornali boemi che assunsero dei toni estremi nei confronti della Missione militare italiana giunsero a dichiarare che "gli italiani con le loro forze non avrebbero conquistato un solo palmo di terra austriaca" , la tendenza a gonfiare i numeri della partecipazione boema alla guerra italiana fu riscontrata direttamente dalle autorità militari italiane. Il generale Diaz, "senza voler svalutare tale concorso, ma semplicemente allo scopo di voler mettere nella giusta luce i fatti", diramò i dati ufficiali sulle perdite subite dalla Legione boema in Italia durante il conflitto . Questo clima, che subentrava a quello di fratellanza sancita dalla lotta comune e di esaltazione per le imprese dei legionari cechi, diffuso sino alla fine del 1918, manifestava in modo emblematico la delusione italiana per i mancati risultati della cooperazione militare italo-boema.

Gli insuccessi militari, che avevano reso ancora più amari gli ultimi giorni del comando italiano in Slovacchia e che erano stati attribuiti, naturalmente, alla incapacità o alla malafede italiana, non cessarono quando subentrarono gli ufficiali francesi. Ciò avvalorava le cause addotte da Piccione per spiegare la disfatta boema; al termine del suo incarico, egli criticò ad esempio la scarsa disciplina delle truppe boeme. A suo parere, l'atteggiamento democratico che si era diffuso anche negli organismi militari e la libertà lasciata ai soldati di occuparsi di politica avevano fatto perdere alle truppe ceche il senso del dovere e la disposizione al sacrificio

Gli insuccessi militari ebbero anche la conseguenza di distogliere l'attenzione degli stessi responsabili politici italiani dalle cause politiche e diplomatiche della crisi della Missione, attribuendone la responsabilità solo ai comandi militari. Piccione fu infatti criticato per aver accettato una situazione da lui stesso giudicata inadeguata: il generale aveva, ad esempio, più volte rilevato la scarsità delle forze rispetto alla lunghezza del fronte, che non avrebbe permesso di resistere ad una offensiva ben organizzata, ma non si era sottratto al rischio di subire una sconfitta a causa di tali ragioni da lui rilevate e a lui non imputabili. La sua colpa era stata quella di non salvaguardare il prestigio della Missione italiana imponendo l'assunzione di misure che scongiurassero le sconfitte.

Va però rilevato che le iniziative diplomatiche di Piccione, attraverso le quali aveva tentato di trattare direttamente con le istituzioni politiche ceche per definire la sua posizione e le sue attribuzioni, non sono sembrate gradite al generale Diaz, responsabile delle trattative svoltesi a Parigi con il governo cecoslovacco. Egli infatti aveva più volte ribadito l'opportunità che Piccione non agisse in modo autonomo, per non rischiare di creare equivoci tra le rappresentanze italiana e ceca. Alcuni interventi del comandante della Missione italiana, comunque, si erano resi necessari anche a causa della intempestività della delegazione romana a Versailles nel farsi carico dei problemi che emergevano in Slovacchia, tanto da creare l'impressione di trascurare gli ufficiali italiani. Questa sensazione è avallata, oltre che dalle testimonianze dei protagonisti e dall'assenza, per lunghi periodi di comunicazioni inviate dai rappresentanti italiani alla Conferenza della pace ai comandi italiani in Slovacchia. La mancanza di direttive coerenti, che faceva apparire la Missione italiana uno strumento nelle mani, non troppo abili, della delegazione a Versailles, da orientare a seconda della piega che prendevano le discussioni, privava di peso politico la posizione italiana.

L'infelice esito della Missione militare di Piccione venne sottolineato dal suggerimento dato dal capo dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, accolto dal ministro della Guerra, di non pubblicare neppure un riassunto della relazione finale stilata da Piccione sulla Missione che aveva diretto . A detta del responsabile dell'Ufficio Storico la relazione del generale narrava le ragioni obiettive dell'insuccesso militare dell'iniziativa, ma l'esposizione dei motivi non giustificava l'operato insoddisfacente del comando italiano

Le maggiori responsabilità furono però politiche e erano da rintracciarsi nella mancata definizione dei termini della Missione che, mentre registrava le prime sconfitte militari, era già fallita dal punto di vista diplomatico ed il progetto di imminente ritiro ne aveva segnato i destini.




AUSSME, rep. E11, b. 64, Relazione sulla Missione militare italiana in Boemia compilata dal generale Luigi Piccione, p. 10

AUSSME, rep. L13, b. 135, Benes a Piccione, Parigi, 4 novembre 1918, lettera

Vincenzo Gallinari, L'esercito italiano nel primo dopoguerra (1918-1920), Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, Roma, 1980, p. 76

F. Caccamo, L'Italia nella corrispondenza., cit., p. 496

Gioacchino Nicoletti, Sotto la cenere, Milano - Roma, Treves-Treccani-Tuminelli, 1927, p. 127

G. C. Gotti Porcinari, op. cit., p. 68

K. Pichlík, B. Klípa, J. Zabloudilová, op. cit., p. 233

AUSSME, rep. L13, b. 135, Benes a Piccione, Parigi, 14 novembre 1918, (E-185); il generale Piccione aveva commentato a margine: "il signor Benes è male informato".

Ivi, Piccione a Benes, (Foligno), 24 novembre 1918, n. 61 Ris. Per.

Ivi, Benes a Piccione, Parigi, 23 novembre 1918; Istruction au commandant suprème des forces tchécoslovaque en Slovaquie. Nella nota Benes raccomandava di evitare sino a quando possibile scontri armati.

G. C. Gotti Porcinari, op. cit., p. 72

K. Pichlík, B. Klípa, J. Zabloudilová, op. cit., p. 234

AUSSME, rep. L13, b. 135, Badoglio a Piccione, Parigi, 20 gennaio 1919, T. 1112 a.c.pp

Ivi, Piccione a Badoglio, Kromeritz, 21 gennaio 1919,

AUSSME rep. E11, b. 64, Relazione ., cit., p. 20

Nello stesso periodo la Cecoslovacchia mostrava il suo atteggiamento aggressivo e intrigante anche nei confronti della Polonia, con l'intento di occupare Karvin e Tesin. Oltre alla minaccia armata i comandi boemi avevano puntato sull'equivoco che la presenza di ufficiali alleati nella delegazione boema poteva sortire, inducendo i polacchi a ritenere i cecoslovacchi interpreti della volontà del Comando Supremo interalleato; K. Pichlík, B. Klípa, J. Zabloudilová, op. cit., pp. 236-237

G. C. Gotti Porcinari, op. cit., pp. 83-84

AUSSME, rep. E11, b. 64, Relazione., cit., p. 23

AUSSME, rep. L13, b. 135, Srobar a Piccione, Zilina, 31 gennaio 1919,

Nella lettera si ha la testimonianza dei motivi pretestuosi utilizzati per denigrare gli ufficiali italiani quando, ad esempio, si dice che il colonnello Nascimbene "destava il malcontento con la sua sfrenata vita sessuale"; ibidem. Quest'accusa era frequentemente sollevata nei confronti dei militari italiani, K. Pichlík, B. Klípa, J. Zabloudilová, op. cit., p. 240; G. Nicoletti, op. cit., p. 181

AUSSME, rep. L13, b. 135, Rossi a Piccione, (Kosice), 5 febbraio 1919, lettera

"O diritto delle genti, ove sei andato a cacciarti? Ci volevano proprio i rappresentanti [.] di un popolo redento per straziarti sin nell'ultimo brandello?"; G. Nicoletti, op. cit., p. 129. Dalla corrispondenza degli ufficiali si apprende che alcuni di essi avevano prospettato la loro domanda di esonero dall'incarico poiché disgustati di servire una causa alla quale non aderivano, AUSSME, rep. L13, b. 135, Rossi a Piccione, cit., "non so se continueremo a servire la Repubblica boema se il sistema non cambia, nel senso di maggior rispetto verso giustizia e diritto"; Ibidem, Boriani a Piccione, Nytra, 6 febbraio 1919, n. 630 di prot. Op. Ris. Per., nel quale riferisce del rifiuto che aveva opposto alla preghiera di essere esonerato dall'incarico avanzata dal colonnello Barreca.

Ivi, Barreca a Boriani, Bratislava, 9 febbraio 1919, n. 136 di prot. Op.

Ibidem

G. Nicoletti, op. cit., p. 134

AUSSME, rep. L13, b. 135, Boriani a Piccione, Nytra, 9 febbraio 1919, n. 630 di prot. Op. Ris. Per.

Ivi, Gambi a Boriani, Luceneč, 15 febbraio 1919, n. 137 prot. Op.

Ad esempio, l'insofferenza provocata dalla visita a Bratislava di Srobar, considerato dagli abitanti della Slovacchia un emblema degli aspetti più negativi del nuovo regime, era stato sfogato dal popolo in una manifestazione antisemita; ibidem

Ivi, Gambi a Boriani, Luceneč, 12 febbraio 1919, n. 121op.

Ibidem

Documenti diplomatici italiani, serie VI, vol. II, doc. n. 310, Lago a Sonnino, Praga, 11 febbraio 1919

AUSSME, rep. L13, b. 135, Masaryk a Srobar, Praga, 12 febbraio 1919

Ivi, Boriani a Piccione, Nytra, 9 febbraio 1919, n. 630 di prot. Op. Ris.

Ibidem

Ivi, Rossi a Piccione, (Kosice), 12 febbraio 1919, n. 4 di prot. Ris. Per. Speciale Italiano

Ibidem

K. Pichlík, B. Klípa, J. Zabloudilová, op. cit., p. 240

AUSSME, rep. L13, b. 135, Piccione a Boriani, (Kromeritz), 15 febbraio 1919, n. 18 Ris. Per. confidenziale

Documenti Diplomatici Italiani, Serie VI, vol. II, doc. n. 424, Badoglio a Orlando, Comando Supremo, 21 febbraio 1919

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.26.1, Piccione a Comando Supremo-Ufficio segreteria, Kromeritz, 24 febbraio 1919, n. 30 R. P. C.

F. Caccamo, L'Italia nella corrispondenza., cit., p. 500; J. F. Vondracek, op. cit., p. 103

AUSSME, rep. L13, b. 135, Piccione a Lago, Bratislava, 6 marzo 1919, n. 52 R. P. C.

Ivi, Piccione a Comando Supremo (Ufficio segreteria), (Bratislava), 5 marzo 1919, n. 51 R. P. C.

Ivi, Piccione ai comandanti della 6a e 7a divisione, (Kromeritz), 26 febbraio 1919, n. 37 R. P. C.

In K. Pichlík, B. Klípa, J. Zabloudilová, op. cit., p. 240 gli autori riportano che in occasione delle feste organizzate dall'alta società ungherese, l'abbondanza di vino e la presenza di donne provocarono più di una volta da parte di alcuni alti ufficiali "frasi del tipo che l'Italia al di là delle Alpi ha tre milioni di baionette e non permetterà che la Slovacchia magiara diventi parte della Repubblica cecoslovacca".

AUSSME, rep. L13, b. 135, Rossi a Piccione, (Kosice)12 febbraio 1919, n. 4 di prot. Ris. Per. Speciale Italiano

La Francia aveva accettato di stringere accordi con il Consiglio Nazionale cecoslovacco circa i futuri rapporti con lo Stato boemo nel settembre 1918. Una simile proposta di alleanza era stata avanzata da Benes anche all'Italia ma Sonnino l'aveva ritenuta "prematura" (si veda p. 131).

F. Caccamo, L'Italia nella corrispondenza., cit., p. 497

Ibidem

Si veda p. 97

AUSSME, rep. L13, b. 135, Piccione a ministero della Guerra, (Foligno), 10 dicembre 1918, n. 3105 R. F.

Ivi, Memoria circa gli "Elementi d'informazione per giudicare esattamente la questione" presentati dal ministro Benes al ministro Sonnino, 18 aprile 1919, p. 3

F. Caccamo, L'Italia nella corrispondenza., cit. p. 497

AUSSME, rep. E11, b. 64, Relazione.,  cit., p. 27

ACS, PCM, Guerra europea, f. 19. 26.1, Lago a Sonnino, Praga 12 febbraio 1919, allegato a ministero della Guerra a Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma. 8 marzo 1919, n. 1940

Ivi, Comando Supremo a Presidenza del Consiglio dei Ministri, (Abano), 27 marzo 1919, n. 5274 Op.

Documenti diplomatici italiani, serie VI, vol. II, doc. n. 620, Bonin a Sonnino, Parigi, 3 marzo 1919

Ivi, Dadone a Piccione, Praga, 7 marzo 1919, lettera. Dadone aveva incontrato Pellé, il quale gli aveva assicurato che i compiti delle due missioni italiana e francese erano perfettamente distinti. Il tenente non riusciva a trovare tale distinzione così netta ma scriveva con ironia: "poiché lo dice il generale Pellé, bisogna che ci creda!" Il generale francese rassicurò il rappresentante italiano anche in altre occasioni, ribadendo che il Comando francese avrebbe controllato le milizie territoriali e quello italiano le legionarie.

Documenti diplomatici italiani, serie VI, vol. II, doc. n. 445, Orlando a Sonnino, Roma, 22 febbraio 1919

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.26.1, Ministero della Guerra a Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 8 marzo 1919, n. 1940

AUSSME, rep. L13, b. 135, Lago a Piccione, Praga, 11 marzo 1919, n. 165

Ivi, Piccione a Comando Supremo, Presburgo, 22 marzo 1919, T. 80 R. P. C.

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.29.1, Lago a Sonnino, Praga, 19 marzo 1919, allegato a Piccione a Comando Supremo, Presburgo, 24 marzo 1919, T. 87 R. P. C.

P. Hanák, op. cit., p. 198. All'epoca degli avvenimenti narrati, l'autore era vice commissario agli Esteri nella Repubblica dei Consigli.

D. Perman, op. cit., p. 220

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.26.1, Piccione a Comando Supremo, Presburgo, 22 marzo 1919, T. 80 R. P. C. 

AUSSME, rep. L13, b. 135, Relazione della conferenza dell'8 aprile 1919 fra il generale Piccione, il ministro Srobar e il ministro Scheiner

Ibidem

F. Caccamo, L'Italia nella corrispondenza., cit., p. 503

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.26.1, Piccione a Comando Supremo, Presburgo, 22 marzo 1919, T. 80 R. P. C. 

AUSSME, rep. L13, b. 135, Piccione a Lago, Presburgo, 23 marzo 1919, N. 83 R. P. C.

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.26.1, Piccione a Comando Supremo, Presburgo, 22 marzo 1919, T. 80 R. P. C.

Ivi, Piccione a Comando Supremo, Presburgo, 24 marzo 1919, T. 87 R. P. C.

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.26.1, Piccione a Comando Supremo, Presburgo, 22 marzo 1919, T. 80 R. P. C.

AUSSME, rep. L13, b. 135, Lago a Piccione, Praga, 22 marzo 1919, T. 242

Ivi, Lago a Sonnino, Praga, 25 marzo 1919, T. 93

Ivi, Vecchierelli a Piccione, Praga, 27 marzo 1919, n. 101 prot.

Ivi, Memoria circa gli "Elementi di informazione per giudicare esattamente la situazione" presentati dal ministro dott. Benes al ministro Sonnino

F. Caccamo, L'Italia nella corrispondenza., cit., p. 505

D. Perman, op. cit., p. 215

AUSSME, rep. L13, b. 135, Lago a Piccione, Praga, 4 maggio 1919, n. 1276

M. S. Ďurica, op. cit., p.24

Ivi, p. 21

F. Caccamo, L'Italia nella corrispondenza., cit., p. 504

La stessa accusa era stata mossa da Stefánik  ai leaders politici cecoslovacchi per aver utilizzato la sua firma nelle proclamazione e nei documenti emanati durante la sua assenza, nonché di aver fondato le basi del governo del nuovo Stato su atti non legittimi poiché non formulati dagli organi costituzionali preposti a farlo.

F. Caccamo, L'Italia nella corrispondenza., cit., p. 507

AUSSME, rep. L13, b. 135, Promemoria sulla questione del generale Piccione, 31 marzo 1919

Ivi, Klofac a Comando Supremo delle forze cecoslovacche in Slovacchia, Praga, 26 marzo 1919, T. 9366

Ivi, Relazione della conferenza dell'8 aprile 1919 ., cit.

Ibidem

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.26.1, Piccione a Comando Supremo, Presburgo, 24 marzo 1919, n. 87 R. P. C.; AUSSME, L13, b. 135, Dadone a Piccione, Praga, 27 marzo 1919, lettera

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.26.1, Seba a ministero della Guerra, Roma, 19 marzo 1919, n. 2655

Ivi, Piccione a Comando Supremo, Presburgo, 27 marzo 1919, n. 92 R. P. C.

Ivi, ministero della Guerra a Orlando, Roma, 26 marzo 1919, n. 2880

AUSSME, L13, b. 135, Promemoria del Comm. Scodnik Vice direttore generale dell'Istituto Nazionale d'Assicurazioni, circa la situazione in Boemia, 7 aprile 1919, n. 6096 Op.

Diaz sintetizzò le direttive circa l'atteggiamento da tenere nei confronti dei cechi in alcuni appunti a matita sulla prima pagina del promemoria di Scodnik; ibidem

Ivi, Piccione a Klofac, Bratislava, 9 aprile 1919, n. 110 R. P. C.

Ivi, Piccione a Lago, Presburgo, 31 marzo 1919, n. 97 R. P. C.

Ivi, Relazione sulla conferenza dell'8 aprile 1919..., cit.

"Noi italiani - e questa è una mia nettissima sensazione personale - siamo lasciati completamente in balia di noi stessi. Mancano, mi sembra, precise direttive" in G. Nicoletti, op. cit. p. 126. L'affermazione di Nicoletti potrebbe essere considerata frutto del suo stato d'animo e perciò poco significativa per interpretare la vicenda politica, se non fosse confermata dai lunghi silenzi del ministero degli Affari Esteri e dalle notazioni di Piccione, di Lago e di Vecchierelli.

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.26.3, Vecchierelli a Comando Supremo, Praga, 4 aprile 1919, T. 128 S. I.

AUSSME, rep. E5, b. 260, Diaz a Comando Supremo, Parigi, 13 aprile 1919, T. 4277 S. P:

AUSSME, rep. L13, b. 135, Badoglio a Diaz, Abano, 12 aprile 1919, T. 6391, appunto a matita di Diaz. Con il telegramma n. 6391 si comunicava a Diaz il T. 113 R. P. C. inviato da Piccione al Comando Supremo il 10 aprile 1919

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.26.3, Presidenza del Consiglio dei Ministri a Lega italo-cecoslovacca, Roma, 19 giugno 1919, n.9048

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.26.4, Lega italo-cecoslovacca a Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 9 luglio 1919, lettera

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.4.3, sf. 7/28, Comando Supremo a Presidenza del Consiglio dei Ministri, (Abano), 16 aprile 1919, T. 7611 che comunicava le direttive del ministero degli Esteri.

F. Caccamo, L'Italia nella corrispondenza. p. 505

Ivi, pp. 505-506. Nella stessa lettera nella quale Benes illustrava a Masaryk i suoi piani per risolvere la crisi in Slovacchia, egli descriveva lo scenario europeo in toni estremamente pessimistici, giungendo a prospettare una nuova guerra nella quale l'Italia sarebbe stata sullo stesso fronte di tedeschi, austriaci e ungheresi, mentre la Cecoslovacchia si sarebbe alleata con jugoslavi, polacchi e, soprattutto, francesi. Berthelot, che condivideva queste visioni drammatiche, consigliava perciò a Benes di allontanare quanto prima la Missione italiana dalle terre cecoslovacche.

Ivi, p. 509

AUSSME, rep. E8, b. 253, Diaz a Comando Supremo, Versailles, 16 aprile 1919, T. 4514 S. P. di prot.

AUSSME, rep L13, b. 135, Copia dalla comunicazione inviata dal generale Stefánik , ministro della Guerra, al presidente della Repubblica cecoslovacca

Ivi, Diaz a Comando Supremo, Parigi, 18 aprile 1919, T. 4639 con il quale la delegazione italiana a Parigi comunicava il raggiungimento dell'accordo e le implicazioni che esso sottintendeva circa il ritiro della Missione.

AUSSME, rep. E8, b. 253, Diaz a Stefánik, Parigi, 23 aprile 1919, n. 4978

Ivi, Badoglio a Diaz, Abano, 16 aprile 1919, n. 37.7 op., appunto a matita, che segue un'annotazione di Diaz, non firmato ma siglato "AT".

F. Caccamo, L'Italia nella corrispondenza., cit., pp. 503, 507, 510

Ivi, p. 511

L'unica opera in italiano che tratta l'argomento è M. S. Ďurica, op. cit.

AUSSME, rep. L3, b. 175, f. 2-Incidente aviatorio e morte del generale Stefánik , Segre a Comando Supremo, 12 maggio 1919, n. 8875 P.

M. S. Ďurica, op. cit., p. 26

G. Benzoni, op. cit., pp. 126 e segg.

AUSSME, rep. L3, b. 175, f. 2, Forges Davanzati a Gazzera, Roma, 8 dicembre 1930, lettera; ivi, Gazzera a Giacca, Roma, 15 dicembre 1919, lettera

Ivi, Brelich-Dall'Asta a Forges Davanzati, Budapest, 4 dicembre 1919, lettera nella quale narra di aver saputo che, subito dopo la partenza di Stefánik  da Roma, la sua abitazione era stata perquisita dai legionari cechi che portarono via o distrussero tutti i suoi documenti. Un'altra informazione riferita da Brelich-Dall'Asta, come la precedente priva di ulteriori conferme, riguarda l'insistenza dei cechi, che erano a conoscenza del destino che attendeva gli accompagnatori del generale slovacco, affinché gli aviatori italiani scelti per la missione fossero celibi.

G. C. Gotti Porcinari, op. cit., p. 88

AUSSME, rep. E11, b. 64, Relazione sulla Missione..., cit, p.32

Pasquale Fornaro, Crisi postbellica e rivoluzione. L'Ungheria dei Consigli e l'Europa danubiana nel primo dopoguerra, Milano, Franco Angeli, 1987, pp. 78-79

Ivi, p. 86. Secondo Fornaro la estemporanea creazione politica in Slovacchia sembrò interpretare le istanze della popolazione slovacca in quel particolare momento storico, durante il quale essa stava subendo la delusione delle aspettative circa la convivenza ceco-slovacca, che non apportava i benefici attesi dai fautori slovacchi del "cecoslovacchismo".

AUSSME, rep. L13, b. 135, Piccione a Comando Supremo, Presburgo, 5 maggio 1919, n. 149 R. P. C.

Vari documenti relativi alla fine della Missione sono pubblicati in G. C. Gotti Porcinari, op. cit., pp. 121-132

AUSSME, rep. L13, b. 135, Lago a Piccione, Praga, 27 maggio 1919, T. 1836

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.26.1, Lago a ministero Affari Esteri, Praga, 19 giugno 1919, T. 10872.

Ibidem, che riferisce le affermazioni del "Prazsky Vecernik".

AUSSME, rep. E8, b. 257/2, Diaz a ministero degli Affari Esteri-Ufficio Stampa-Propaganda, Parigi, I luglio 1919, n. 9650 Sp. Le perdite subite dai legionari cecoslovacchi nelle battaglie combattute sul fronte italiano ammontavano a 84 morti, a 217 feriti e 60 dispersi.

AUSSME, rep. E11, b. 64, Relazione sulla Missione..., cit, pp. 44-49 in cui Piccione, elenca le cause della debolezza manifestata dalle truppe ceche davanti al primo serio ostacolo.

Ivi, ministro della Guerra a Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, Roma, 27 febbraio 1920, T. 3494.

Ivi, Promemoria relativo alla "Relazione sull'opera della Missione militare Italiana in Boemia" stilata dal Capo dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore colonnello Alberti, 3 febbraio 1920.




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