COME LE IMPRESE EMETTONO TITOLI
Gli investimenti azionari in giovani società
private sono di solito noti come venture capital. Tale capitale di
rischio può essere fornito da società specializzate, da istituzioni o da
individui agiati che sono disposti a sostenere una società nei suoi primi passi
in cambio di una partecipazione azionaria. Le società di venture capital hanno
lo scopo di aiutare le imprese in crescita e superare quel difficile periodo
adolescenziale prima che siano abbastanza grandi da essere quotate in Borsa.
Quando le imprese annunciano una nuova emissione di azioni, il loro prezzo
diminuisce. Crediamo che la causa sia l’informazione che gli investitori
leggono nell’annuncio. Quando le azioni o le obbligazioni vengono vendute
pubblicamente, possono poi essere scambiate nei mercati azionari. Ma, talvolta,
gli investitori vogliono tenersi le azioni e non sono interessati alla vendita.
In questi casi ci sono pochi vantaggi in un’emissione pubblica e l’azienda può
preferire il collocamento diretto delle azioni presso poche istituzioni finanziarie.
La prima fase della società si chiama stadio zero. Se le banche locali
non ritengono l’idea una garanzia adeguata, si può fare ricorso alle venture
capital. La preparazione di un business plan è il primo passo necessario: è un documento confidenziale che
descrive il prodotto proposto, il suo mercato potenziale, la relativa
tecnologie e le risorse necessarie per il successo dell’impresa. Il successo di
una nuova impresa dipende in larga parte dall’impegno profuso dai manager.
Così, le società di venture capital cercano di strutturare un accordo che
incentivi fortemente i manager a lavorare sodo. I manager si devono
accontentare di stipendi modesti e dovrebbero perciò guadagnare solo se le loro
azioni aumentino di valore. I venture capitalist raramente offrono a una nuova
impresa tutto il denaro di cui necessita in un unico finanziamento. A ogni
stadio essi danno il necessario per raggiungere il successivo punto di svolta.
Quando una nuova impresa si finanzia tramite il venture capital, queste 2 classi
di diritti (sui flussi di cassa e sul controllo dell’azienda) sono negoziate
separatamente. La società di venture capital vorrà poter dire qualcosa circa il
modo in cui l’impresa è gestita e per questo vorrà essere rappresentata nel cda
con un numero significativo di voti. Potrà essere d’accordo di rendere meno
stringenti questi diritti se le cose andranno bene, ma potrà intervenire in
modo più pesante sino a pretendere che il management sia sostituito se al
contrario le cose andassero male. I venture capitalist non pretendono
necessariamente la maggioranza nel cda. Che lo facciano oppure no, dipende per
esempio da quanto il business è maturo e da quale frazione di esso posseggono.
Un compromesso abbastanza comune fa sì che si dia un uguale numero di posti ai
fondatori e agli investitori esterni. Le società di venture capital sono
raramente soci silenziosi: il loro giudizio e i loro contatti possono spesso
rivelarsi molto utili per un management team relativamente inesperto. Il
mercato del venture capital: la maggior parte delle nuove imprese ricorre
inizialmente ai capitali familiari e ai prestiti bancari. Alcune di esse
continuano a crescere con l’aiuto del capitale di rischio fornito da ricchi
individui, i cosiddetti private angels. Tuttavia, la maggior parte del
capitale di rischio per le imprese appena nate proviene dalle società di
venture capital, le quali raccolgono fondi da una varietà di investitori,
ricercano le imprese promettenti in cui investire e quindi le aiutano a
crescere. La maggior parte dei fondi di venture capital è organizzata come
limited partenership con una vita prefissata di circa 10 anni. Anche alcune
grandi imprese industriali agiscono come venture capital, offrendo capitale di
rischio alle nuove imprese innovative. I venture capital non sono investitori
passivi. Offrono continui consigli alle imprese in cui hanno investito e
svolgono spesso un ruolo cruciale nella scelta del team manageriale. Questi
consigli sono solitamente molto preziosi per le imprese ai primi stadi del loro
sviluppo e le aiutano a portare più rapidamente i loro prodotti sul mercato. I
venture capitalist possono rientrare dall’investimento effettuato in 2 modi. A
volte, quando l’impresa ha un po’ di storia alle spalle, può capitare che venga
venduta a una più grande. Tuttavia, molti imprenditori non si adattano
facilmente all’organizzazione di una grande imprese e preferirebbero invece
rimanere alla sua guida. In questo caso un’impresa può decidere di quotarsi in
Borsa offrendo così ai venture capitalist l’opportunità di liquidare il proprio
investimento, vendendo la propria partecipazione e lasciando il controllo agli
imprenditori originari. Un a 838c24i ttivo mercato del venture capital necessita perciò
di un mercato azionario, come il Nasdaq, che sia specializzato nella quotazione
di imprese relativamente giovani e in rapida crescita. Anche in Europa
cominciano a crescere rapidamente come l’Aim di Londra, il Nouveau Marché di
Parie il Nuovo Mercato di Milano. Per ogni 10 operazioni finanziarie da venture
capitalist nel primo stadio, solo 2-3 possono normalmente sopravvivere e
diventare di successo. Da queste statistiche discendono 2 regole per avere
successo nell’attività di ventur capital. In primo luogo, non rifuggite
dall’incertezza e siate disposti ad accettare anche una ridotta possibilità di
successo. Ma non investite in un’impresa a meno che non intravediate la
possibilità che diventi una grande impresa quotata in un mercato profittevole.
In secondo luogo, tagliate le perdite: identificate in fretta le imprese perdenti
e se non riuscite a risolvere il problema (per esempio sostituendo il
management) non buttate altro denaro oltre a quello già perso. La prima
offerta pubblica: pochissime nuove imprese ottengono dei buoni risultati,
ma i venture capitalist rimangono ottimisti, dimenticandosi dei molti
fallimenti e ricordandosi solo dei successi. La prima offerta pubblica di
azioni (IPO, initial pubblic offering) può essere in parte una offerta primaria,
cioè nuove azioni dovevano essere vendute per raccogliere altra liquidità
per l’azienda, e in parte può essere un’offerta secondaria, cioè i
venture capitalist e i fondatori della società cercano di vendere delle loro
azioni. Spesso, quando le società fanno offerte pubbliche, l’emissione ha il
solo scopo di raccogliere nuovo capitale. Vi sono però anche dei casi in cui
non viene raccolto nuovo capitale e tutte le azioni in offerta vengono vendute
dagli azionisti esistenti. Di fatto, alcune delle prime offerte pubbliche più
importanti si verificano quando i governi vnedeno le loro partecipazioni
azionarie. Altri vantaggi della quotazione in Borsa sono che il valore di
mercato delle azioni potrebbe offrire una misura prontamente disponibile delle
performance dell’impresa e potrebbe consentire di compensare il team manager
con un piano di stock optino. Poiché le informazioni sulla società
diventerebbero maggiori, più dettagliate e più facilmente reperibili si
potrebbe poi diversificare le fonti di finanziamento e ridurre il costo del
debito. Questi benefici superano ampiamente i costi per la quotazione in Borsa,
i costi di permanenza e quelli per gestire un’impresa quotata, tra cui quelli
di comunicazione con i suoi azionisti. Invece di quotarsi in Borsa, molti
imprenditori di successo potrebbero decidere di cedere la propria impresa a una
più grande o potrebbero continuare a operare con successo come impresa non
quotata. Molte grandi imprese statunitensi non sono quotate. In altri paesi è
ancora più comune il fatto che molti grandi imprese non si quotino. Organizzazione
della prima offerta pubblica: una volta deciso di fare un’offerta pubblica
il passo successivo è di selezionare i sottoscrittori. In una nuova
emissione i sottoscrittori agiscono alla stregua di levatrici finanziarie.
Normalmente svolgono un triplice ruolo: offrono alla società una
consulenza legale e finanziaria, comprano l’emissione e la rivendono al
pubblico. Poi bisogna preparare un prospetto informativo da presentare al SEC o
Consob. L’elaborazione del prospetto è richiesta per ogni emissione pubblica di
titoli. Si tratta di un documento dettagliato e talvolta voluminoso che
presenta informazioni sul finanziamento proposto e sulla storia della società,
le attività in essere e i piani per il futuro. Vendita delle azioni: durante
il periodo di registrazione, l’impresa e i suoi sottoscrittori cominciano a
determinare il prezzo di emissione. Dapprima considerano il rapporto
prezzo/utili delle azioni dei principali concorrenti. Dopodiché, lavorano su
analisi dei flussi di cassa. I sottoscrittori poi saranno più cauti e vorranno
fissare un prezzo in una qualche misura scontato per stimolare gli investitori
a comprare le azioni. Sebbene i sottoscrittori per esempio si fossero impegnati
ad acquistare solo 900000 azioni dell’impresa, scelsero di vendere agli
investitori 1035000 azioni. In questo modo i sottoscrittori erano corti di
135000 azioni, cioè il 15% dell’emissione. Se le azioni non fossero state bene
accolte dal mercato e avessero iniziato a trattare al di sotto del prezzo di
emissione, i sottoscrittori avrebbero potuto riacquistare le azioni sul
mercato. Questo avrebbe aiutato a stabilizzare il prezzo e avrebbe generato ai
sottoscrittori un profitto sulle azioni in più che avrebbero venduto. I
sottoscrittori: la maggior parte delle imprese solo occasionalmente raccoglie
nuovo capitale, mentre questo è il business dei sottoscrittori. I
sottoscrittori affermati sono perciò molto attenti alla loro reputazione e non
tratteranno una nuova emissione se ritengono che i fatti non siano stati
correttamente presentati agli investitori. Così, oltre a trattare la vendita di
un’emissione, i sottoscrittori di fatto danno il loro sigillo di approvazione
ad essa. Ciò significa che l’appoggio dei sottoscrittori può essere di grande
valore per un’impresa che si affaccia sul mercato per la prima volta. I
sottoscrittori sono disponibili ai impegnarsi ad acquistare le azioni per poi
rivenderle al pubblico. Si accollano dunque il rischio che l’emissione non
abbia successo, ritrovandosi a possedere azioni non richieste dal mercato.
Occasionalmente, quando una nuova emissione di azioni ordinarie viene
considerata particolarmente rischiosa, il sottoscrittore potrebbe dimostrarsi
riluttante ad assumersi un impegno fisso e tratterà l’emissione sulla base o
del miglior risultato o del tutto o niente. Per miglior risultato
intende che il sottoscrittore promette di vendere quanto possibile
dell’emissione, ma non garantisce la vendita di tutta l’emissione. Per tutto o
niente si intende invece che, qualora non possa essere venduta tutta
l’emissione al prezzo di offerta, il contratto verrà annullato e la società
emittente non riceverà nulla. I sottoscrittori corrono un altro pericolo.
Quando le azioni di nuova emissione vanno male, possono essere accusati di non
avere informato correttamente gli investitori. I costi di una nuova
emissione di titoli: i sottoscrittori come compenso ricevono un pagamento
nella forma di uno spread, cioè possono comprare le azioni a un prezzo
inferiore a quello di offerta che viene proposto agli investitori. Poiché la
maggior parte dei costi dei sottoscrittori erano fissi, vi sareste aspettati
che lo spread percentuale richiesto diminuisse all’aumentare della dimensione
dell’emissione. Questa relazione in parte è quella che si osserva. Tuttavia,
per quasi IPO di importo compreso tra $20 e i $80 milioni lo spread è stato
esattamente lo stesso. Inoltre vi sono rilevanti costi amministrativi. La
preparazione della dichiarazione di registrazione e del prospetto coinvolse la
direzione, i consulenti legati e i certificatori, così come i sottoscrittori e
i loro consulenti. L’azienda dovette inoltre pagare le tasse per la
registrazione dei nuovi titoli, i costi di stampa e le spese postali. L’underpricing
delle IPO:poiché il prezzo di emissione è risultato inferiore al valore
effettivo delle azioni offerte al pubblico, i risparmiatori che le hanno
acquistate hanno fatto un affare alle spese degli azionisti originari. I costi
che derivano dalla sottovalutazione dei titoli (underpricing) sono nascosti.
Nelle offerte pubbliche iniziali eccedono gli altri costi di emissione.
Ogniqualvolta un’impresa si quota in Borsa è molto difficile per i
sottoscrittori determinare il prezzo a cui i risparmiatori saranno disposti ad
acquistare le azioni. A volte, la domanda viene enormemente sottostimata. I ricercatori
hanno comunque trovato che gli investitori che acquistano al prezzo di
emissione realizzano in media rendimenti molto elevati nelle settimane
successive. Potreste pensare che gli azionisti preferirebbero non vendere le
loro azioni al di sotto del valore di mercato, ma molte banche di investimento
e investitori istituzionali sostengono che l’underpricing è negli interessi
della stessa impresa emittente. Ritengono che un basso prezzo di emissione
nella prima offerta di titoli faccia aumentare il prezzo quando l’azione è
successivamente trattata sul mercato e aumenti la capacità dell’impresa di
raccogliere ulteriore capitale di rischio. Gli scettici rispondono che le
banche di investimento spingono a fissare un basso prezzo di offerta perché in
questo modo riducono il rischio di rimanere con azioni invendute ed entrano
nelle grazie dei clienti a cui hanno assegnato le azioni. La maledizione del
vincitore: supponete che voi partecipiate a un’asta per un quadro e la
vinciate. Dovreste essere contenti? È vero che ora possedete il quadro, che
presumibilmente era ciò che volevate, ma tutti gli altri partecipanti all’asta
hanno apparentemente pensato che il quadro valesse di meno della vostra
offerta. In altre parole, il vostro successo suggerisce che potreste aver
offerto troppo. Questo problema è noto come la maledizione del vincitore. Il
più alto offerente di un’asta è molto probabile che abbia sovrastimato il
valore dell’oggetto. Lo stesso problema si verifica quando sottoscrivete una
nuova emissione azionaria. Per esempio, supponiamo che decidiate di partecipare
a ogni nuova emissione. Vi accorgerete che non avrete alcuna difficoltà a
ottenere le azioni nelle emissioni che non voleva nessuno. Invece, quando la
nuova emissione è considerata attraente, le banche sottoscrittrici non avranno
azioni sufficienti a soddisfare l’elevata domanda, e voi riceverete meno azioni
di quelle richieste o non ne riceverete affatto. Il risultato è che la vostra
strategia per fare soldi potrebbe trasformarsi in una per perdere soldi. Se
siete svegli, partecipereste a questo gioco solo se in media c’è un rilevante
underpricing che vi consenta di chiudere più o meno in pareggio. Gli
investitori non informati, che non sono in grado di distinguere quali emissioni
siano attraenti, sono esposti alla maledizione del vincitore. Le imprese e le
banche sottoscrittrici ne sono consapevoli e hanno bisogno di accettare un
certo livello di underpricing al fine di attrarre gli investitori non
informati. Notate che la maledizione del vincitore scomparirebbe se solo gli
investitori sapessero quale verrà a essere il prezzo di mercato. Una risposta è
di consentire il trading di un azione prima ancora che sia sta collocata.
Questa sorta di sistema di contrattazioni prima del collocamento è noto come
gray market ed è più comune per le emissioni di obbligazioni. La quotazione
in Borsa delle imprese italiane: i requisiti che un’impresa deve possedere
per accedere alla quotazione presso la Borsa Valori di Milano sono cambiati nel tempo in
seguito al succedersi di diversi regolamenti di ammissione. I requisiti
richiesti si sono considerevolmente ridotti rispetto al passato. Essi prevedono
che la società quotanda abbia pubblicato e depositato i bilanci, anche
consolidati, degli ultimi 3 esercizi annuali, di cui almeno l’ultimo
certificato, e che eserciti, direttamente o attraverso le proprie controllate e
in condizioni di autonomia gestionale, una attività capace di generare ricavi.
Inoltre, l’attivo di bilancio ovvero i ricavi dell’emittente non devono essere
rappresentati in misura preponderante dall’investimento o dai risultati
dell’investimento in una società le cui azioni sono ammesse alle negoziazioni
in un mercato regolamentato. Le imprese comunque possono eludere questo vincolo
scorporando le attività operative da imprese quotate che rimangono di fatto
imprese senza altra attività che la partecipazione nella società operativa.
Alcuni requisisti devono essere invece soddisfatti dai titoli azionari che si
intendono quotare. I titoli debbono essere liberamente trasferibili; devono
godere di una sufficiente diffusione, che si presume realizzata quando le
azioni sono ripartite tra il pubblico che per almeno il 25% (flottante) del
capitale rappresentato dalla categoria di appartenenza. La capitalizzazione di
mercato prevedibile deve essere almeno pari a 5 € milioni. Un’impresa che
decide di quotarsi in Borsa deve presentare una domanda di ammissione presso il
componente ufficio della Borsa Italiana SPA. A tale domanda devono essere
allegati diversi documenti, tra cui una bocca del prospetto informativo. In
base al regolamento, l’impresa che presenta per la prima volta domanda di
ammissione alla quotazione dei suoi strumenti finanziari deve nominare una
banca o un intermediario finanziario come suo sponsor. Per un periodo di almeno
un anno dalla data di inizio delle negoziazioni delle azioni. I requisiti
richiesti per la quotazione al Nuovo Mercato sono ancora meno stringenti. Un
requisito che contraddistingue la quotazione del Nuovo Mercato è la clausola di
lock-in, ovvero l’impegno da parte degli azionisti fondatori, amministrativi e
dirigenti a non vendere, per la durata di 1 anno dalle negoziazioni,
quantitativi di azioni pari almeno al 80% delle azioni da esse detenute. Per le
start up,il lock in ha una durata di 2 anni sul 100% delle azioni il primo anno
e l’80% delle azioni per il 2°anno. Lo Star è un segmento di mercato
della Borsa Italiana volta a dare maggiore visibilità a imprese medio -
piccole. Per raggiungere il requisito della sufficiente diffusione delle azioni
tra il pubblico un’impresa ha diverse soluzioni. Qualora alcuni soci volessero
cedere le proprie azioni in un numero sufficiente a soddisfare il requisito del
flottante, queste verrebbero cedute a un intermediario finanziario, il quale,
formando un sindacato di collocamento, organizzerebbe un’offerta pubblica di
vendita di tali azioni, detta anche OPV. Una soluzione alternativa è quella
per cui l’impresa delibera un aumento di capitale in cui viene escluso il
diritto di opzione sulle nuove azioni emesse e le nuove azioni vengono offerte
in sottoscrizione al pubblico degli investitori, nel qual caso si configura un’offerta
pubblica di sottoscrizione (OPS). La terza soluzione nasce dall’unione
delle 2 precedenti, per cui le azioni offerte derivano sia da un’offerta
pubblica di vendita di azioni già esistenti, sia dall’offerta in sottoscrizione
di nuove azioni emesse tramite aumento di capitale. Si chiama offerta
pubblica di sottoscrizione e di vendita (OPVS). Ognuna di queste 3 modalità
può essere affiancata da un collocamento privato di una quota di titoli presso
alcuni soggetti tipicamente investitori istituzionali, e in tal caso si dice
che la tecnica è globale. Anche in Italia sembra che le quotazioni in
Borsa tendano ad avvenire per ondate che coincidono o seguono periodi di forti
rialzi dei corsi azionari. Le matricole italiane non sembrano inoltre fuggire
alla regola dell’underpricing. È inoltre emerso che le imprese italiane che si
quotano sono mediamente più grandi e più vecchie rispetto alle imprese che si
quotano negli USA. È inoltre emerso che un impresa italiana tende a quotarsi
quando le imprese quotate dello stesso settore di appartenenza vengono trattate
con elevati rapporti del valore di mercato rispetto ai mezzi propri. Gli autori
sembrano suggerire come possibile spiegazione il tentativo di gruppi di
controllo di portare le proprie imprese in Borsa nei periodi in cui il mercato
le valuta maggiormente. Tale interpretazione sembrerebbe inoltre suffragata
dalla significativa riduzione della profittabilità delle imprese quotate dopo
essere approdate al listino. Le imprese italiane tendono a inoltre a quotarsi
dopo un periodo di forte crescita ed elevati investimenti e a utilizzare la
liquidità proveniente dalla vendita delle azioni per ridurre l’indebitamento
piuttosto che per finanziare la crescita. La quotazione in Borsa posso essere
anche vista come un passaggio per arrivare alla cessione dell’impresa. Altre
procedure di emissione dei titoli: la maggior parte delle IPO negli Usa
utilizza il metodo del bookbuilding con il quale la banca sottoscrittrice
costruisce un libro dei potenziali ordini e utilizza questa informazione per
fissae il prezzo di emissione. Le principali alternative al bookbuilding sono
un’offerta a prezzo fisso o asta. L’offerta a prezzo fisso (fixed price) è
spesso utilizzata per le IPO in Gran Bretagna. In questo caso l’impresa fissa
il prezzo di vendita e indica poi il numero di azioni in offerta. Se il prezzo
fissato è troppo alto, gli investitori non domanderanno tutte le azioni offerte
e le banche sottoscrittrici saranno costrette ad acquistare le azioni
invendute. Se il prezzo fissato è troppo basso, le richieste eccederanno il
numero di azioni in offerta e gli investitori riceveranno soltanto una
proporzione delle azioni che avevano richiesto. La tecnica del prezzo fisso
lascia agli investitori molto esposti alla maledizione del vincitore.
L’alternativa è tramite asta. In questo caso gli investitori sono invitati a
sottoporre le loro offerte indicando sia quanti titoli vogliono acquistare sia
il prezzo. I titoli vengono quindi venduti ai migliori offerenti. La maggior
parte dei governi vendono le loro obbligazioni tramite asta. Il bookbuilding
per alcuni versi assomiglia a un asta. Tuttavia, le offerte date nella fase di
bookbuilding non sono vincolanti e sono utilizzate solo come una guida per
fissare il prezzo dell’emissione. Il prezzo di offerta è pertanto generalmente
fissato al di sotto del prezzo che sarebbe necessario per vendere l’emissione e
le banche sottoscrittrici assegneranno più probabilmente le azioni i loro
clienti migliori e a quegli investitori le cui offerte sono risultate più utili
nella fissazione del prezzo di offerta. In Italia il prezzo viene fissato o con
la procedura del prezzo fisso o con quelle del prezzo aperto (open price). Con
questa ultima tecnica viene fissato un intervallo di prezzi in base al quale
inizia il bookbuilding. Il giorno precedente l’avvio dell’offerta pubblica
viene fissato il prezzo massimo mentre il prezzo definitivo di offerta viene
fissato una volta chiusa l’offerta pubblica e il bookbuilding. Tipi di asta:
asta competitiva (discriminatory auction) o asta marginale (uniform price
auction). In un’asta marginale, entrambi pagherebbero il prezzo offerto dal
vincitore con l’offerta più bassa. Dal nostro esempio potrebbe sembrare che il
ricavato di un asta marginale sia più basso di quello di un’asta competitiva.
Ma questo non prende in considerazione il fatto che l’asta marginale offre una
migliore protezione contro la maledizione del vincitore. I partecipanti
all’asta esperti sanno che c’è un minimo costo nell’offrire un prezzo un po’
più alto di un asta marginale. Gli economisti sostengono pertanto che l’asta
marginale dovrebbe generare maggiori introiti. Offerte pubbliche da parte di
società quotate: ogni emissione di titoli deve essere formalmente approvata
dal cda e dall’assemblea degli azionisti. Le società quotate possono emettere
titoli mediante un’OPV oppure mediante un’emissione offerta in opzione agli
azionisti già esistenti. Le emissione offerte in opzione ai vecchi azionisti
sono diventate una rarità negli Usa, sono però molto diffuse in Italia. Offerte
pubbliche e shelf registration: quando una società fa un’offerta pubblica
di vendita di obbligazioni o azioni passa attraverso la stessa procedura della
prima emissione. Nel 1982 la SEC
emanò la Rule
415 che permette alle società di grandi dimensioni di compilare una sola
dichiarazione di registrazione che copre i piani finanziari fino a 2 anni
successivi. Questa procedura viene chiamata shelf registration, il che
significa che la dichiarazione di registrazione viene messa in uno scaffale per
essere presa e utilizzata quando necessario. Supponete che la vostra società
abbia bisogno di contrarre l’anno prossimo un nuovo debito a lungo termine di $
200 milioni. La società può presentare una shelf registration per quella somma.
Dispone quindi di una approvazione preventiva per emettere fino a 200 milioni
di debito, ma non è obbligata a emettere un centesimo di nuovo debito, né
tantomeno le viene richiesto di operare tramite un particolare sottoscrittore;
la dichiarazione di registrazione può portare il nome di uno o più
sottoscrittori con cui l’azienda pensa di poter lavorare, ma che possono essere
successivamente sostituiti da altri. A questo punto, potete rilassarvi ed
emettere il debito secondo le vostre necessità, anche poco alla volta se lo
preferite. Ecco che la shelf registration dà alle aziende diverse opportunità
che non avevano in precedenza: 1. i titoli possono essere emessi un po’ alla
volta, senza incorrere in eccessivi costi di transazione 2. i titoli possono
essere emessi con breve preavviso 3. l’emissione di titoli può essere
programmata in modo da approfittare delle condizioni di mercato 4. la società
emittente può assicurarsi che i sottoscrittori competano per l’affare. In
effetti può vendere i titoli all’asta. In Italia non esiste un istituto simile.
Emissione internazionale di titoli: le società più affermate non sono
limitate al mercato finanziario domestico: possono ottenere denaro anche nei
mercati finanziari internazionali. Può significare un’emissione di obbligazioni
estere sul mercato di un altro paese (nel qual caso si sarà soggetti alle leggi
e ai costumi di quel paese), oppure un’emissione di eurobbligazioni che vengono
offerte al livello internazionale. I costi di un’offerta pubblica: ogni
volta che una società fa un’offerta pubblica per raccogliere denaro, deve
sostenere rilevanti costi amministrativi. Inoltre la società deve compensare i
sottoscrittori vendendo loro i titoli a un prezzo inferiore rispetto a quello
che essi si aspettano di ottenere dagli investitori. L’esistenza di economie di
scale nell’emissione di titoli, lo spread dei sottoscrittori diminuisce
all’aumentare della dimensione dell’emissione. I costi di emissione di debito
sono inferiori a quelli delle azioni ma presentano le stesse economie di scala.
La reazione del mercato all’emissione di azioni: gli economisti che
hanno analizzato le nuove emissioni di azioni ordinarie hanno potuto osservare
che ogni annuncio di emissione determina una diminuzione del prezzo delle
azioni: la caduta del valore di mercato equivale a quasi un terzo del nuovo
denaro ottenuto con l’emissione. Se i manager sanno che le loro azioni sono
sopravvalutate la situazione sarebbe rovesciata. Se l’impresa vendesse nuove
azioni a un prezzo elevato, aiuterebbe gli azionisti esistenti a spese dei
nuovi. I manager potrebbero essere disposti a emettere azioni anche se il nuovo
contante dovesse essere semplicemente depositato in banca. Naturalmente, gli
investitori non sono stupidi. Essi sanno che i manager preferiscono emettere
azioni quando ritengono che siano sopravvalutate, di conseguenza ne ribassano
il prezzo. Ed è così che la diminuzione del prezzo delle azioni nel momento
della nuova emissione può non avere nulla a che fare con l’aumento
dell’offerta, ma dipende semplicemente dalla informazioni che l’emissione
fornisce. La maggior parte degli economisti finanziari ora interpreta la caduta
del prezzo delle azioni all’annuncio di una nuova emissione come se fosse un
effetto dell’informazione e non di una pressione dei volumi sui prezzi di
mercato. C’è un altro possibile effetto informativo. Così come un aumento non
atteso del dividendo suggerisce al mercato che l’impresa sta producendo più
liquidità di quella che pensava, l’annuncio di una nuova emissione può avere
l’effetto opposto. Questo effetto però non può spiegare perché l’annuncio di
emissione di un debito non origini una caduta simile nel prezzo delle azioni.
Gli investitori sanno che un manager pessimista ha un incentivo molto maggiore
a emettere azioni piuttosto che debiti sopravvalutati. Sembra che la
redditività di lungo periodo delle imprese che emettono azioni sia sotto gli
standard. Gli investitori sanno che hanno comprato le azioni di queste imprese
dopo l’annuncio dell’emissione hanno ottenuto rendimenti più bassi di quelli
che avrebbero ottenuto se avessero comprato azioni di imprese simili e non
emittenti. L’effetto si manifesta sia per le offerte iniziali sia per quelle
secondarie. Sembra che gli investitori che hanno comprato queste azioni non
abbiano apprezzato pienamente il vantaggio informativo dell’impresa emittente. Il
collocamento privato: ogni volta che una società fa un’offerta pubblica è
obbligata a registrare l’emissione presso l’organo locale di controllo della
Borsa. La società potrebbe evitare questo costoso modo di procedere se vendesse
titoli privatamente. Uno degli svantaggi del collocamento privato è che
l’investitore non può rivendere facilmente i titoli. La liquidità è meno
importante per istituzioni quali le imprese di assicurazioni sulla vita, che
investono somme enormi di denaro in obbligazioni societarie puntando su un
guadagno nel lungo periodo. Di conseguenza, si è evoluto un attivo meccanismo
di collocamento privato per i debiti societari. Spesso il debito collocato
privatamente viene negoziato direttamente fra la società e il finanziatore. Se
l’emissione è troppo grande per poter essere assorbita da una singola istituzione,
la società di solito utilizza una banca di investimento al fine di redigere il
prospetto e identificare i possibili compratori. Costa meno organizzare un
collocamento privato che un’emissione pubblica. Si tratta di un vantaggio
particolare per le imprese che fanno piccole emissioni. Un altro vantaggio del
collocamento privato consiste nel fatto che il contratto di debito può essere
confezionato su misura per le aziende con problemi od opportunità particolari.
Il rapporto tra debitore e creditore è molto più profondo. Anche la
rinegoziazione del contratto di debito a fronte di sviluppi imprevisti è
estremamente difficoltosa per una emissione pubblica, mentre è relativamente
facile per un collocamento privato. Le piccole e medie aziende sono quelle che
affrontano i maggiori costi di emissione nelle offerte pubbliche. Comunque,
anche molte società di grandi dimensioni utilizzano i collocamenti privati.
Naturalmente, non si gode di tutti questi vantaggi gratuitamente. I
finanziatori nei collocamenti privati devono essere compensati per i rischi che
affrontano e per i costi di ricerca e negoziazione. Devono inoltre essere
compensati per il fatto di detenere un’attività non liquida. Tutti questi
fattori sono compresi nel tasso di interessa pagato dall’azienda. Il collocamento
privato di azioni è in Italia estremamente raro, soprattutto a causa
dell’esistenza dell’istituto del diritto di opzione a favore dei vecchi
azionisti. Una qualche diffusione ha invece il collocamento privato di
obbligazioni o altri strumenti di debito come le cambiali finanziarie. Le
sottoscrizioni privilegiate, ovvero le emissioni offerte in opzione ai vecchi
azionisti: negli Usa la maggior parte delle nouve emissioni viene offerta
genericamente a tutti gli investitori. Occasionalmente, comunque, le società
concedono un diritto di sottoscrizione limitato agli azionisti esistenti. In
molti altri paesi (Italia) questa è la modalità più comune, se non addirittura
l’unica per poter emettere azioni. Gli azionisti possono vendere, utilizzare o
gettare questi diritti. I sottoscrittori invece di comprare realmente
l’emissione come in un’offerta pubblica, ottengono un stand by fee. In cambio,
devono essere pronti ad acquistare tutte le azioni non sottoscritte al prezzo
di sottoscrizione, detraendo un take up fee per ogni azione acquistata. La
maggior parte delle emissioni offerte in opzione dispone di sottoscrittori di
riserva, anche se occasionalmente le società risparmiano le commissioni di
sottoscrizione, scegliendo un prezzo di emissione basso e incrociando le dita
affinché il prezzo di mercato non scenda al di sotto del prezzo di emissione. Il
prezzo teorico optato e il valore del diritto di opzione: l’inizio di
un’operazione di ricapitalizzazione di un’impresa quotata coincide generalmente
con il primo giorno di contrazione in Borsa dei diritti di opzione. In tale
giorno le azioni iniziano a quotare senza il diritto di opzione e il prezzo
rilevato viene detto primo prezzo ex (Pex). Per contro, la quotazione
del titolo nel giorno borsistico precedente la data di inizio dell’operazione
viene detta ultime prezzo cum (Pcum), in quanto rappresenta l’ultimo
prezzo in cui il titolo quota ancora cum diritto, ovvero con il diritto di
opzione incorporato. Il prezzo teorico a cui dovrebbero quotare le nuove azioni
optate viene detto prezzo teorico optato (Pto) e rappresenta il prezzo
ex che si dovrebbe realizzare data l’ultimo prezzo cum e le condizioni di
emissione delle nuove azioni. Quando vi è un’unica categoria di azioni, il Pto
può essere derivato applicando l’ipotesi di conservazione della ricchezza sia
al livello dell’impresa sia a quello del singolo azionista. A questo ultimo
livello, tale ipotesi prevede che il valore delle azioni possedute dopo
l’aumento di capitale eguagli il valore delle azioni possedute prima
dell’operazione più il capitale versato per sottoscrizione dei nuovi titoli. Ne
segue che il Pto è dato da: Pto = (nPcum + mPe) / (n+m) dove Pe = prezzo
di emissione delle nuove azioni n= vecchie azioni m = nuove azioni. Similmente,
l’ipotesi di conservazione della capitalizzazione dell’impresa consente di
esprimere il suo valore dopo l’aumento di capitale come somma della
capitalizzazione borsistica prima dell’operazione e della raccolta di denaro
proveniente dall’emissione delle nuove azioni (ipotizzando costi di transazione
trascurabili). A livello dell’impresa il Pto viene pertanto ricavato come
rapporto tra il valore teorico della stessa in seguito all’aumento del capitale
e il nuovo numero totale di azioni in circolazione ovvero: Pto = V1 /(N+M) =
(Vo+R)/(N+M). dove R = raccolta di denaro dall’operazione di
ricapitalizzazione. Quando vi è un’unica categoria di azioni, questa secondo
formulazione consente un’agevole determinazione del Pto per qualsiasi tipologia
di ricapitalizzazione azionaria. Anche ragionando su tutte le azioni, piuttosto
che su un singolo pacchetto, si giunge agli stessi risultati in merito alla
determinazione del Pto. Qualora l’impresa non sia quotata, il suo valore prima
dell’operazione sul capitale non può essere ricavato dalla quotazione di
mercato delle sue azioni ed è pertanto necessario ricorre a una sua stima. Il
valore teorico del diritto di opzione può quindi essere derivato come semplice
differenza tra l’ultimo prezzo cum e il Pto: diritto = Pcum – Pto. Nel
giorno di stacco del diritto, al netto di altri fattori influenzanti
l’andamento delle quotazioni, si dovrebbe assistere a una flessione del prezzo
delle azioni pari al valore del diritto. Al fine di rendere omogenee e
confrontabili le 2 serie di prezzi azionari, quella fino all’ultimo prezzo cum
e quella che inizia dal primo prezzo ex, l’Associazione Italiana Analisti
Finanziari (AIAF) calcola un fattore di rettifica delle quotazioni azionarie,
costituito dal rapporto fra il Pto e l’ultimo prezzo cum: fattore AIAF =
Pto/Pcum. Moltiplicando i prezzi precedenti la data di stacco per il
suddetto fattore AIAF, le 2 serie di prezzi vengono pertanto rese omogenee e
confrontabili. È evidente che la formulazione esposta per determinare il valore
teorico del diritto di opzione, richiedendo la conoscenza dell’ultimo prezzo
cum, non è direttamente in grado di indicarne il valore, una volta che il
titolo abbia iniziato a quotare ex diritto. Il prezzo dell’azione ex diritto
coinciderebbe con il Pto solo se il primo giorno di quotazione il prezzo del
titolo non variasse rispetto al prezzo precedente, che è l’ultimo prezzo cum su
cui è stato calcolato il Pto. Nella realtà, a causa dei movimenti del mercato o
di notizie specifiche al settore o all’impresa, il primo prezzo ex ha quasi
sempre un prezzo diverso dal Pto così coem i prezzi successivi. A operazione
iniziata, il valore teorico del diritto di opzione viene pertanto solitamente
calcolato mediante una seconda relazione che deriva dall’esclusione della
possibilità di arbitraggi. Con riferimento a un aumento di capitale a
pagamento, infatti, dall’inizio della negoziazione dei diritti deve risultare
ugualmente oneroso acquistare un’azione direttamente sul mercato (al prezzo ex)
o comprare diritti necessari a sottoscrivere una nuova azione e pagarne il
prezzo di emissione. Pex = Pe + d n/m. dove d è il valore del diritto e
n/m è il numero di diritti necessari per l’acquisto di una nuova azione. Il
valore teorico del diritto di opzione è d = (Pex – Pe) m/n. Questa
seconda espressione, consentendo di determinare il valore teorico del diritto
di opzione data la quotazione ex diritto dell’azione, viene utilizzata
ogniqualvolta si vogliano ricercare eventuali scostamenti tra il valore teorico
del diritto di opzione e il prezzo a cui è negoziato sul mercato. È emerso che
il valore teorico del diritto di opzione nel periodo 1990 – 1996 coincideva
solo raramente con la quotazione effettiva rilevata nelle sedute di Borsa in
cui era negoziato. Il valore dei diritti per le operazioni in cui il prezzo di
emissione era inferiore a quello di mercato risultava infatti a sconto di circa
il 20% rispetto al valore teorico, con punte fino al 30% negli ultimi giorni di
quotazione in Borsa. Ne segue che quando non si è in grado di prevedere il
futuro andamento del titolo, converrebbe vendere i diritti i primi giorni di
trattazione in Borsa e acquistare i diritti negli ultimi giorni di
contrattazione. Dalla ricerca è anche emerso che i diritti il cui valore
teorico è zero valgono quasi sempre più di zero, in quanto rappresentano
opzioni di acquisto con tempo residuo alla scadenza. Il prezzo di emissione
è irrilevante se i diritti vengono esercitati: invece di una azione ogni 2
a 1,5€ si sarebbe per esempio potuto scegliere la via di 1 azione ogni azione
vecchia a 0,75€. In questo caso si sarebbe venduto il doppio delle azioni a
metà prezzo. Il prezzo di emissione è irrilevante in un’offerta in opzione.
Dopo tutto, il prezzo di emissione non può influenzare le attività reali
possedute dall’impresa, né tantomeno la proporzione di queste attività a cui
ogni azionista ha diritto. Di conseguenza, la sola cosa di cui un’impresa
dovrebbe preoccuparsi nel preparare i termini di un’emissione offerta in
opzione ai vecchi azionisti è l’eventualità che il prezzo delle azioni scenda
al di sotto del prezzo di emissione. Se ciò accadesse, gli azionisti non
eserciterebbero i loro diritti e l’intera emissione naufragherebbe. Questo
pericolo può essere evitato tramite un accordo stand by con il sottoscrittore.
Questi accordi tendono però a essere molto costosi e potrebbe quindi essere più
conveniente fissare semplicemente un prezzo di emissione sufficientemente basso
da evitare qualsiasi possibilità di fallimento dell’emissione. Scelta fra
offerta pubblica e sottoscrizione privilegiata: il primo metodo è quello
usato in quasi tutte le emissioni di debito, nelle prime emissioni di azioni e
in molte delle successive. Una differenza essenziale fra i 2 metodi sta nel
fatto che in un’emissione offerta in opzione il prezzo è praticamente
irrilevante. Gli azionisti possono vendere le loro nuove azioni o i loro
diritti in un libero mercato e possono quindi aspettarsi di ricevere un giusto
prezzo. In un’offerta pubblica invece il prezzo di emissione può essere
importante. Se la società vende azioni a un prezzo inferiore rispetto a quanto
il mercato potrebbe sopportare, l’acquirente ne trarrà un profitto a scapito
degli azionisti esistenti. Benché questo pericolo crei una naturale propensione
a favore delle emissioni offerte in opzione, si può sostenere che la
sottovalutazione rappresenta un serio problema solo nel caso di prime emissioni
di azioni. Le offerte in opzione sottoscritte sono meno costose delle offerte
pubbliche. Notate anche che le emissioni in opzione non devono essere
sottoscritte, se il prezzo di esercizio è fissato molto al di sotto del prezzo
di mercato. Consentendo di evitare il costo della sottoscrizione, le emissioni
in opzione non sottoscritte possono essere molto meno costose delle offerte
pubbliche. Per quanto riguarda il tempo forse occorre un mese in più ma
raramente si tratta di un fattore importante. Il principio del sopravvissuto
dice che le forma contrattuali efficienti dovrebbero durare nel tempo, mentre
quelle inefficienti dovrebbero prima o poi essere espulse dal mercato, i 2
ricercatori suggeriscono che l’offerta pubblica con underwriter, godendo di
ottima salute, sia una forma contrattuale efficiente nonostante le apparenze.
In base al principio del sopravvissuto la contemporanea presenza sul mercato di
diverse forme contrattuali per le tecniche di emissione delle nuove azioni
indicherebbe che ciascuna di esse è sufficiente e comporta, in particolari circostanze,
un vantaggio comparato nei costi di emissione. I costi di un’offerta in opzione
senza consorzio di garanzia dovrebbero infatti diminuire all’aumentare della
concentrazione proprietaria. Nelle procedure di aumento del capitale azionario,
oltre alla presenza di costi fissi che danno origine a economie di scala, vi
sarebbero infatti alcune componenti di costo, come le spese di trasferimento
della proprietà dei titoli, che diminuiscono al crescere della concentrazione
azionaria. I costi di emissione di un’offerta in opzione senza consorzio di
garanzia diminuiscono sia all’aumentare della dimensione dell’operazione sia al
crescere della concentrazione azionaria. Secondo alcune ricerche però i 2/3
delle imprese che hanno utilizzato l’offerta pubblica con una stima dei costi
che avrebbero sopportato adottando la tecnica dell’offerta in opzione avrebbero
sostenuto spese maggiori. Gli aumenti di capitale delle imprese quotate in
Italia: un aumento di capitale, comportando una modifica dell’atto
costitutivo, deve essere deciso in sede di assemblea straordinaria, la quale
delibero con voto favorevole di tanti soci che rappresentino più della metà del
capitale sociale in prima convocazione e più di un terzo in seconda
convocazione. Per le società italiane con azioni quotate in mercati
regolamentati italiani o di altri Paesi dell’Unione Europea, l’articolo 126 del
nuovo Testo Unico di Finanza prevede invece che la delibera dell’assemblea
straordinaria possa essere presa, in prima, seconda o terza convocazione con il
voto favorevole di almeno i 2/3 del capitale rappresentato in assemblea. Non si
possono emettere nuove azioni fino a che quelle emesse non siano state
interamente liberate. Per l’esercizio del diritto di opzione devono essere
concessi almeno 30 giorni dal deposito presso il Registro delle imprese della
delibera di aumento del capitale sociale. In alcune circostanze, il legislatore
ha previsto che i vecchi azionisti possano essere parzialmente o totalmente
privati del diritto di opzione. Ciò si realizza negli aumenti di capitale da
realizzarsi tramite conferimenti in natura, in quelli riservati ai dipendenti
dell’impresa e nei casi in cui l’interesse della società lo esige come accade
quando l’impresa vuole quotarsi in Borsa e deve dotarsi del flottante minimio
richiesto. Reazioni del mercato agli aumenti di capitale: un confronto fra
Italia e Usa: il contesto istituzionale in cui un aumento del capitale
viene realizzato negli Usa è dunque profondamente diverso rispetto a un’analoga
operazione svolta in Italia. Negli Usa le emissioni di nuove azioni non sono
offerte in opzione agli azionisti esistenti, ma vengono offerte al pubblico
tramite le cosiddette offerte pubbliche. Il prezzo di emissione delle nuove
azioni viene pertanto fissato pari al prezzo di mercato meno un piccolo sconto,
attorno allo 0,5% per incentiva l’acquisto dei nuovi titoli rispetto a quelli
già in circolazione. La struttura proprietaria delle imprese è dominata dal
modello della pubblic company, in cui il controllo dell’impresa è esercitato da
un management che detiene una modesta percentuale di azioni. Diverse condizioni
fanno sì che i manager non partecipino all’acquisto delle nuove azioni offerto,
ovvero rimangano passivi. L’acquisto delle nuove azioni è infatti limitato da
eventuali vincoli personali di ricchezza; è disincentivato dai costi di mancata
diversificazione in cui i manager incorrerebbero concentrando il proprio
portafoglio in titoli dell’impresa in cui peraltro lavorano; la diluizione
della quota azionaria posseduta a causa della mancata partecipazione
all’aumento di capitale non costituirebbe un valido incentivo a partecipare
all’acquisto delle nuove azioni, in quanto tale quota è talmente esigua da
risultare ininfluente per l’esercizio del controllo dell’impresa. Si crea così
un fenomeno di selezione avversa (adverse selection) in quanto le
imprese che realizzano aumenti di capitale tendono a essere imprese con titoli
sopravvalutati e gli investitori non sono in grado di distinguerle da quelle
che invece emettono nuove azioni per finanziare validi progetti di
investimento. Essendo il quadro istituzionale in cui vengono effettuati gli
aumenti di capitale in Italia (e in Europa in genere) profondamente diverso,
diversa e generalmente positiva è la reazione del mercato all’annuncio
dell’emissione di nuove azioni. In primo luogo, in quasi tutti i Paesi europei
le nuove azioni vengono offerte in opzione agli azionisti esistenti e il prezzo
di emissione tende a essere pari al 40-50% del prezzo di mercato. Inoltre, la
struttura proprietaria delle imprese, fatta eccezione per quelle britanniche,
tende a essere piuttosto concentrata, specialmente in Italia, dove domina la
presenza di un azionista di maggioranza assoluta o relativa, spesso
riconducibile a una famiglia. Gli insider italiani (ovvero gli azionisti di
maggioranza) tendono a sottoscrivere le nuove azioni offerte in proposizione
alla quota proprietaria detenuta. I vincoli di ricchezza o i disincentivi
all’acquisto di nuove azioni relativi ai manager statunitensi risultano infatti
molto meno stringenti in Italia. L’impegno finanziario inerente alla
sottoscrizione delle nuove azioni provenienti da un aumento di capitale risulta
spesso fortemente ridotto nei gruppi italiani quotati. A ciò si aggiunga che il
disincentivo all’acquisto di nuove azioni, rappresentato dai costi di mancata
diversificazione, viene frequentemente ridotto attraverso una diversificazione
industriale operata dalle famiglie imprenditoriali all’interno del proprio
gruppo industriale. La partecipazione alle ricapitalizzazioni azionarie è
infine favorita dall’interesse dell’azionista di maggioranza a non diluire la
quota detenuta delle azioni con il diritto di voto al di sotto di una sogli
oltre la quale rischierebbe di perdere il controllo dell’impresa e i relativi
benefici privati. Si esclude pertanto la convenienza a varare aumenti di
capitale solo in presenza di sopravvalutazione dei titoli. In altre parole, il
problema di selezione avversa che caratterizza le offerte pubbliche
statunitensi è praticamente assente negli aumenti di capitale italiani (e
probabilmente di altri Paesi europei). Il secondo importante fattore in grado
di spiegare la favorevole reazione del mercato è il segnale implicito di
aumento dei dividendi che scaturisce dall’annuncio delle condizioni
dell’operazione. Un aumento di capitale a pagamento in cui il prezzo di
emissione viene fissato a un livello inferiore al prezzo di mercato origina una
diluizione delle quotazioni azionarie allo stesso modo di un aumento di
capitale gratuito o di un frazionamento di azioni. L’effetto quasi-split:
l’incremento del tasso di dividendo verrebbe sicuramente considerato una buona
notizia dagli azionisti. Quando il dividendo unitario viene mantenuto costante,
l’aumento percentuale del tasso di dividendo in seguito a un aumento di
capitale con offerta in opposizione delle nuove azioni, noto come quasi-split
effect (QSE) viene misurato da QSE = (Pcum /Pto) –1. Se esempio è pari a
0,2 significa che vi è un incremento del tasso di dividendo pari al 20%.
Ipotizzando che il dividendo unitario venga mantenuto costante se è pari a 0,2
significa che vi può essere stato un aumento di capitale gratuito con l’offerta
di una nuova azione gratuita ogni 5 possedute o da un frazionamento di 5
vecchie azioni in 6 nuove azioni. Affinché si realizzi un incremento del tasso
di dividendo non è comunque necessario che il dividendo unitario rimanga
costante. Sarebbe infatti sufficiente che il dividendo unitario diminuisse in
maniera meno che proporzionale rispetto al prezzo azionario. Attraverso gli
aumenti di capitale vengono pertanto perseguite vere e proprie politiche dei
dividendi. Anziché procedere all’aumento del dividendo unitario, alcune imprese
preferiscono mantenerlo costante ed aumentare il monte dividendi ricorrendo ad
aumenti di capitale gratuiti o fissando bassi prezzi di emissione negli aumenti
di capitale a pagamento o misti. L’impegno a distribuire maggiore liquidità
agli azionisti proprio quando si chiede loro di apportare nuovo denaro nelle
casse della società sembrerebbe apparentemente contraddittorio e antieconomico,
in quanto si sopportano i costi di emissione delle nuove azioni. In realtà, se
si considera che dalla proposta di aumento di capitale da parte del cda al
completamento dell’operazione trascorrono diversi mesi, l’effetto combinato del
segnale di aumento dei dividendi e della fissazione di un basso prezzo di
emissione, favorendo una positiva reazione del mercato, consenti di minimizzare
la probabilità che il prezzo di mercato scenda al di sotto del prezzo di
emissione e che l’operazione debba essere rinviata. Tali politiche dovrebbero
consentire di minimizzare i costi connessi con il rinvio dell’operazione.