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Storia economica - Realizzato da Francesca Arcidiacono, matricola n. 634/ 003714, corso EGIT

economia






Ciclo di seminari professionalizzanti

Responsabile: Prof. Maurizio Colonna






“Storia economica”




Realizzato da Francesca Arcidiacono, matricola n. 634/ 003714,

corso EGIT






Argomenti trattati:


“L’Unione Europea dall’economia di mercato all’economia del profitto”, relatore Prof. G. Di Taranto;


“Globalizzazione e mercato tra teoria e prassi” relatore Prof. G. Di Taranto;


“Multinazionalizzazione e transnazionalizzazione. Vecchi e nuovi processi di delocalizzazione” relatore Prof. G. Di Taranto;


“L’evoluzione dell’Economia e dei modelli sociali nel XVIII secolo” relatore Prof. B. Longhitano.













“L’Unione Europea dall’economia di mercato all’economia del profitto”


L’Unione Europea è il risultato di un lento progresso di integrazione che ha determinato la creazione dell’euro. Questo aveva avuto origine agli inizi degli anni ’50 con la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Molta strada è stata fatta da allora con il passaggio ad un mercato comune unico che si è realizzato compiutamente all’inizio del 1993, con l’attuazione dell’Atto Unico e degli accordi di Schengen. Anche sul piano monetario le tappe sono state lunghe e difficili, a partire dal timido ritorno alla convertibilità delle valute, nel lontano 1958. Molti si chiedono, dopo i sacrifici imposti dal rispetto dei parametri di Maastricht per aderire alla moneta unica, se ne valesse la pena. Certamente ciò apparirebbe l’unica via per assicurare all’Europa una solida integrazione della propria struttura economica.


In realtà necessita una revisione critica sugli obiettivi conseguiti con l’attuazione dell’Unione monetaria europea, perché se no essa diventerà solo una costruzione burocratica, finalizzata ad interessi particolaristici invece che al benessere dei cittadini europei. Ciò è ancora più importante, in tempi come quelli attuali, caratterizzati da un’importante crisi economica. Essa è differente dalla crisi del ’29 perché quest’ultima fu causata dalla sovrapproduzione mentre quella odierna è una crisi di Borsa.

Gli aspetti differenziali sono:

nelle cause del crollo delle banche. Nel '29 era dovuto al finanziamento delle imprese che andarono in fallimento; oggi invece  è dovuto ai mutui immobiliari (concessi in maniera non oculata ed eccessivamente rischiosa).

oggi inoltre abbiamo un'Europa economicamente più solida di un tempo e con nazioni (vedi Germania, Italia, Spagna soprattutto) che una volta erano economicamente parlando quasi paesi del terzo mondo;

Tutta l'esperienza dell'economia Keynesiana (che basò i suoi studi proprio sulla crisi del 29, le sue possibili cause e le sue ipotetiche cure) oggi, più che mai, può ess 333j92d ere cura della crisi odierna. Ed in effetti il denaro pubblico che gli stati (USA in primis) mettono in gioco per risollevare l'economia ed il sistema bancario sono una validissima dimostrazione di quanto di quegli studi economici oggi si tenta di mettere in pratica





In un paese come l’Italia fallendo le banche, l’economia ne risente tantissimo. Paesi, come Russia, Cina, Paesi Arabi,  con le materie prime, hanno accumulato capitali che permettono loro di comprare il 4% nelle nostre banche. Ciò comporta che hanno consiglieri di amministrazione nei nostri consigli d’amministrazione. Restano i nomi di molti aziende, come la Peroni, ma esse vengono acquistate da altri stati.

L’economia reale sta attraversando una crisi profonda perché, al contrario di quello che molti hanno continuato a sostenere e molte statistiche a mostrare, l’inflazione è reale e preoccupante. Ecco i dati del Ministero del tesoro, anni 2004-2005: voli nazionali + 19,1%, benzina verde +14,4%,  giornali + 4%, riscaldamento giornaliero + 17,3 %, sportelli postali + 19,1 % e i dati Istat 2002-2005: Sportelli bancari + 32 %, sportelli postali + 28 %, acqua + 17,1 %, istruzione secondaria + 25%, pane +5,3%, farina +14 %, zucchero + 12%.


Il mercato resta davvero l’unica soluzione?

Keynes sosteneva ad esempio che il mercato unico delle merci e dei servizi non dovesse necessariamente portare con sé la libera circolazione dei capitali. Egli si opponeva a quest’ultima perché ne temeva gli effetti destabilizzanti e criticava anche la legge degli sbocchi, enunciata dall’economista Say, secondo cui l’offerta serve/crea la propria domanda.

L’economista francese sosteneva in tale legge che in regime di libero scambio non sono possibili le crisi prolungate, poiché i prodotti si pagano con i prodotti e non con il denaro, che è solamente merce rappresentativa. L'offerta è sempre in grado di creare la propria domanda: ogni venditore è anche compratore. Keynes ha criticato la legge sostenendo che il detentore di moneta può essere motivato a trattenerla invece che a spenderla; il venditore, quindi, può non risolversi in consumatore, causando una domanda aggregata insufficiente.












“Globalizzazione e mercato tra teoria e prassi”


Globalizzazione non significa un mercato unico a livello mondiale.

La globalizzazione del terzo millennio appare sempre più come un fenomeno che integra la dimensione economica con quella politica ed entrambe con quella culturale. La globalizzazione, infatti, offre l’opportunità di dislocare il processo produttivo nei luoghi più distanti del pianeta, al punto che persino la fabbricazione di una semplice penna diventa il frutto di una complessa interdipendenza tra nazioni e culture diverse.

L’abilità di dar vita ad una comunità transnazionale - oltre a quella dei colleghi e degli stakeholders - e, di conseguenza, transculturale e transreligiosa, favorendo, peraltro, lo sviluppo pacifico delle relazioni politiche ed economiche tra paesi ricchi e paesi in via di sviluppo, è la terza forma di comunità che, non il “mercatismo”, ma la libera economia imprenditoriale è in grado di costruire.


Esistono numerose teorie sui mercati e ciascuna consente di inquadrare un aspetto del complesso fenomeno economico; ad ogni modo, in tema di globalizzazione, di economia planetaria, di processi produttivi che si sviluppano in una “società aperta”, sembra che la definizione di mercato offertaci dal premio Nobel F. A. von Hayek possa esprimere con maggiore forza gli elementi che qualificano sotto il profilo economico, politico e culturale gli anni che stiamo vivendo. Sulla base della definizione di Hayek, il mercato non rappresenta l’elemento concettuale di una ideologia, bensì è un meccanismo - un processo - ottimale per la raccolta e la trasmissione di informazioni. Tali informazioni rappresentano gli elementi necessari affinché le centinaia, le migliaia e i milioni di economie individuali, aventi finalità proprie e portatrici di interessi imperscrutabili, siano coordinate tra di loro in modo spontaneo.

Nessuna singola economia (individuale, familiare, aziendale, della pubblica amministrazione) è in grado di gestire un flusso di informazioni tali da conoscere le finalità, gli interessi e i piani altrui.







Come giustamente ci ha fatto notare Hayek in tutta la sua opera scientifica, le informazioni sono diffuse e disperse, possedute in modo autonomo dai singoli individui, i quali le trasformano, le traducono, le alterano, le tramandano, le nascondono.

Il che significa che, data la dispersione delle conoscenze, esse non potranno mai essere conosciute simultaneamente da tutti, ovvero raccolte in un unico centro di elaborazione. È il sistema dei prezzi che agisce da elemento di coordinazione. Sappiamo tutti, infatti, che attraverso la fissazione dei prezzi e delle loro variazioni, il mercato inteso come processo di raccolta e di trasmissione delle informazioni, da un lato trasmette queste ultime in ordine ai gusti e alla preferenze individuali ai produttori e dall’altro la disponibilità di risorse e la possibilità di produrle agli acquirenti.


Generalizzando, possiamo affermare che la libertà individuale e l’efficienza del mercato sono funzioni positive dell’ampiezza del numero di alternative. Il che significa che al crescere del numero di venditori e degli acquirenti, diminuisce, rispettivamente, il potere degli acquirenti e quello dei venditori.

















“Multinazionalizzazione e transnazionalizzazione.

Vecchi e nuovi processi di delocalizzazione”


La multinazionalizzazione è l'insieme di quei processi che caratterizzano un attore nazionale che va ad operare anche in altri contesti nazionali. Ad esempio, quando la FIAT apre una nuova unità di produzione in Brasile essa si multi nazionalizza.

La trans-nazionalizzazione indica invece quei fenomeni che nascono a partire da certe realtà nazionali e poi si diffondono diventando parte di altre realtà nazionali.


Unione Europea è stata costruita per difendere grandi interessi. Purtroppo ha dimostrato di occuparsi della crisi solo quando questa ha intaccato la grande industria, rimanendo indifferente alla gente che non arriva alla terza settimana.

Sembra impossibile ma il tasso di disoccupazione in Italia è leggermente superiore al 5% quindi i giovani - soprattutto quelli del Meridione in cui i tassi di disoccupazione  sono a due cifre- studiano e poi devono andare via per lavorare. L’unica possibilità è fare uno stage, spesso non remunerato (si pensi che il 28% non concede neanche diritto ad un buono pasto). Solo il 2/3% dei giovani, guadagna circa € 2000, ma quello diventa lavoro nero perché si fa passare per stage un lavoro retribuito più del doppio. Solo dopo tanti anni di lavoro precario, a 50 anni si può ottenere un posto fisso ma progettare una vecchiaia con una pensione di solo € 600 al mese.


Oltre alla disoccupazione, un aspetto da attenzionare è che nei paesi dove c’è la stessa moneta si guadagna in modo differente. A parità di diritti economici, nell’Ue in un paese si possono guadagnare 12 mila euro al mese mentre in un altro 9 mila, con un’uguale prestazione lavorativa. Il Rapporto Sapir afferma che esiste una tendenza ad equilibrare i trasferimenti tra gli stati membri, i quali dichiarano di avere almeno alcune regioni sottosviluppate per ottenere una percentuale dei Fondi ben visibile che attenua il nesso tra erogazioni comunitarie e fabbisogno effettivo di sviluppo regionale.



Questo spiega perché i livelli del Pil pro capite e i tassi di disoccupazione tendenzialmente hanno presentato un andamento divergente da una regione all’altra, con conseguente aumento della disparità.







Si pone così il problema della libera concorrenza, che per essere tale, presuppone che le basi di partenza per i soggetti economici siano uguali o, attraverso compensazioni, quanto meno equiparabili. Ciò non potrà realizzarsi all’interno dell’Unione, dove il costo del lavoro e della vita, i sistemi bancari (spesso contraddistinti da prassi, come quella dell’anatocismo, contrarie alla legge e alla trasparenza nei rapporti con la clientela), borsistici e fiscali sono, non solo diversificati, ma lontani anche da una possibile armonizzazione. È legittimo che ogni Stato identifichi il modello di sistema fiscale che vuole applicare, ma ciò non toglie che se l’eccessiva sperequazione tra i diversi Paesi non verrà in parte colmata, essa diverrà un ostacolo insormontabile allo sviluppo del mercato interno, come di quello esterno.


Anche Keynes riteneva che una comunità di nazioni indipendenti può reggersi senza attriti soltanto se le disparità nell'ordine delle ricchezze vengono contenute entro limiti tollerabili. Nessuna comunità internazionale, a suo modo di volere, può tollerare pacificamente al suo interno il contrasto fra paesi estremamente ricchi e paesi al limite della sussistenza. Egli affermava che solo un Paese con un sistema tributario efficiente, capace di migliorare , poteva aprire le frontiere a liberi movimenti di capitali.


E perché un’ Italia che non dispone di un sistema tributario efficiente ha avuto fretta nel realizzare l'integrazione economica? perché addirittura anticipare l'integrazione finanziaria rispetto agli obblighi comunitari? perché dichiarare totalmente liberi i movimenti di capitali? È scontato che, una volta aperte le frontiere finanziarie, per evitare fughe di capitali, si sarebbe dovuto ridurre il costo del lavoro e rialzare i redditi da capitale a partire dai tassi di interesse, tollerando un aumento repentino della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi. Per aiutare le imprese è stato attuato il cugno fiscale, che secondo l’Unione Europea si sarebbe dovuto applicare non solo alle imprese ma anche alle banche e alle assicurazioni.



Errori o non errori la realtà è che in Italia, prima del 2002, chi guadagnava 2milioni non era un povero, mentre alcuni di  quei lavoratori oggi pensionati vanno alla caritas.

L’inflazione non è stata solo percepita come sostenevano alcune statistiche: addirittura l’Istat ha cambiato 3 volte in 3 anni il paniere del costo della vita.

Negli altri paesi l’aumento dei prezzi e stato percepito 80% in Francia, 83% in Spagna, 93 % in Italia.




Keynes per superare la crisi ritiene che sia opportuno riportare la domanda al livello dell’offerta. L’unica soluzione possibile è l’investimento. Si può trattare di infrastrutture, lavori pubblici, dighe, centrali elettriche, ovvero tutto ciò che può migliorare lo stato e aumentare i salari. Poiché l’investimento ha effetto di reddito, il sistema è in equilibrio.

In Europa, lo Stato non può intervenire, eccetto in Inghilterra.


Come migliorare la condizione di noi cittadini europei, se ci è stato tolto pure il voto? Ciò si è attuato con la bocciatura, attraverso referendum popolari in Francia e in Olanda, del progetto di Costituzione europea e la successiva approvazione di Lisbona, che di fatto abolisce i referendum stessi delegandone la decisione di attuazione ai singoli parlamenti.






















“L’evoluzione dell’Economia e dei modelli sociali nel XVIII secolo”


Introduzione

La situazione economico-sociale dell’Europa settecentesca mostra importanti elementi di dinamismo: la crescita demografica; il miglioramento dell’agricoltura, sia in senso intensivo, sia estensivo; la crescita della produzione manifatturiera, soprattutto nel settore tessile; lo sviluppo dei grandi commerci internazionali, legato ad un balzo in avanti nell’affermazione del colonialismo europeo.


Le differenze nazionali

Se questi furono i tratti generali della dinamica economica del secolo, occorre tuttavia ricordare quanto profonde fossero poi le differenze del loro manifestarsi nelle diverse regioni europee.


In realtà, il solo paese in cui si dispiega pienamente la convergenza fra incremento demografico, sviluppo agricolo e manifatturiero è l’Inghilterra, potenza coloniale e commerciale, che già nell’ultimi decenni del secolo vede avviarsi il primo grande decollo industriale del mondo contemporaneo.


I commerci internazionali sono controllati dall’Olanda, che nonostante gli insuperabili limiti demografici e militari e l’assenza di attività agricole, diventa una grande potenza europea.


Gli inglesi vogliono imitare gli olandesi, ma con strumenti più efficaci, ovvero aggiungendo alla produzione agricola e industriale, il commercio e fornendo lavoro a tutta la popolazione attiva.

Le strategie adottate dagli inglesi sono:

l’introduzione di trattati di navigazione, atti a svantaggiare coloro che poco producono e molto commerciano;

la trasformazione dell’agricoltura in allevamento perché le Fiandre comprano la lana dagli inglesi e, quindi, l’allevamento risulta essere più redditizio della produzione di grano.







Il cuore dello sviluppo europeo settecentesco è costituito, oltre che dall’Inghilterra e dall’Olanda anche dalla Francia, dove ad aspetti di modernità si accompagnano fattori di arretratezza: i vincoli feudali nelle campagne, quelli corporativi nelle città, un bilancio dello stato in crescente passivo, e un sistema fiscale inefficiente e sperequato; la frantumazione amministrativa, che impaccia i commerci; la bassa meccanizzazione della produzione industriale. Queste dinamiche porteranno a fine secolo alla rottura rivoluzionaria. Fino a quel momento essa sarà caratterizzata da un’economia contadina e non sostituisce l’agricoltura per l’allevamento.


Alcuni studiosi comparando Francia e Inghilterra affermano che:

riguardo le materie prime, gli inglesi hanno l’industria manifatturiera che dispone di un più basso costo di materie prime mentre la Francia le deve importare.

Riguardo i capitali presi a prestito, essi vengono pagati molto meno in Francia. Il sistema fiscale inglese è più ordinato. Per gli inglesi il saggio di interesse è al 6%, per i Francesi al 18% o 20 %.

Riguardo il costo del lavoro, è presente il regime del commercio dei grani. In Inghilterra si emanano delle leggi sul grano , fatte dai proprietari inglesi che difendono la produzione di grano inglese con dei dazi al grano estero che quindi con l’importazione costa di più.  Solo quando il grano interno supera un certo limite il dazio si elimina. Ciò tiene alto il prezzo del grano in Inghilterra. In Francia invece è vietato esportare grano. Il vantaggio consiste nel fatto che il grano, costando di meno in Francia, abbassa il costo della vita e così i salari possono essere più bassi. Si afferma che il re è fornaio del suo popolo ed il grano appartiene al popolo che l’ha coltivato.


Una dinamica molto più lenta caratterizza l’impero asburgico e la Prussia.


In Italia, ormai periferia europea, a zone del settentrione, dove si registrano fenomeni di razionalizzazione agricola e di ripresa nella produzione industriale, si oppone un meridione, caratterizzato dall’arcaismo delle strutture sociali e dei rapporti di proprietà nelle campagne, che costituisce un freno per qualsiasi processo di modernizzazione.







La società


L’Europa appare un intreccio di vecchio e nuovo,e ciò è particolarmente visibile sul piano sociale.

La società settecentesca, seppur più articolata e mobile di quella feudale e di quella seicentesca, è tuttavia caratterizzata da una struttura gerarchica e da grandi disuguaglianze, in primo luogo giuridiche.

La nobiltà, stretta fra la borghesia emergente e indebolita dall’assolutismo statale, vede ridursi il suo peso economico-politico e impallidire la sua identità culturale, e tuttavia rimane la classe dominante. Essa possiede la maggior parte della terra, occupa i vertici dell’amministrazione pubblica, della gerarchia ecclesiastica, dell’esercito; conserva buona parte dei suoi privilegi.

Accanto a un’aristocrazia arroccata nel difendere i propri privilegi ed il proprio carattere di casta accessibile solo per il diritto di nascita, ve n’è un’altra che ricerca attivamente un ruolo nuovo attraverso gli affari commerciali, gli investimenti produttivi, gli ammodernamenti delle proprietà, l’amministrazione oculata della cosa pubblica. Essa è la borghesia. È presente in piccoli nuclei o del tutto inesistente in molte zone d’Europa, tranne in Inghilterra ed in Olanda, dove non solo è sufficientemente estesa ma ha anche una significativa identità culturale e politica. La Francia mostra una situazione più complessa perché, se è certamente significativo il conflitto che oppone la borghesia commerciale e imprenditoriale all’aristocrazia, non va trascurata la tendenza, in atto dal secolo precedente, che vede il borghese investire il suo denaro per garantirsi un titolo, una carica pubblica, uno stile di vita e un prestigio sociale affini a quelli aristocratici.



La questione fiscale


La vita politica settecentesca presenta tratti nuovi rispetto a quella del secolo precedente: tranne in Inghilterra e in Olanda, ove ci si avvia alla formazione della monarchia costituzionale e parlamentare, il modello politico dominante è quello dell’assolutismo. Esso crea dei problemi di bilancio, perché di fronte alla crescita della spesa generata dal dilatarsi delle strutture amministrative, politiche e militari dello stato assoluto, lo sforzo dei sovrani è quello di aumentare le entrate favorendo lo sviluppo economico del paese e razionalizzando il sistema del prelievo fiscale.







Provvedimenti rivolti in questa direzione si trovano nella politica di tutti i sovrani europei: sostegno alle manifatture, miglioramento delle reti di comunicazione, redazione di catasti delle proprietà terriere, riduzione dei privilegi e delle esenzioni fiscali, lotta contro le corporazioni.

Ad esempio, in Francia, all'inizio del secolo, la principale imposta diretta è la «taglia», che pesa soltanto sui non privilegiati e serve per formare l’esercito.

A questa vengono aggiunte nuove imposte gravanti su tutti, qualunque fosse il loro ordine: la capitazione, che dal 1701 viene applicata su tutte le teste e che in proporzione pesava soprattutto sui non privilegiati; il «ventesimo», che assoggetta tutti i redditi (in teoria 1/20 del reddito, ma i nobili ed il clero la compensano pagandola una volta per tutte ed in seguito furono esentati).


Per comprendere l’evoluzione dell’Economia e dei modelli sociali nel XVIII secolo è utile confrontare le scuole mercantilista e fisiocratica, l’una basata sul sistema mercantile, l’altra su quello agricolo.




La scuola fisiocratica


La fisiocrazia nasce come scuola di pensiero e come corrente politica nel triennio 1756-59 in aperta opposizione al mercantilismo, per mettere a punto con rigore scientifico gli strumenti di analisi teorica e gli indirizzi di politica economica idonei a fronteggiare la crisi e l’arretratezza dell’economica francese.


Precursori e fondatori della scuola sono rispettivamente Richard Cantillon (1680-1734)- uomo d’affari franco-irlandese, autore del saggio sulla natura del commercio in generale (postumo, 1755) e François Quesnay (1694-1774)- medico di corte, autore del Quadro economico (Tableau économiqué, 1758) e di alcune voci per l’Encyclopédie, tra cui Evidenza, Grani, Uomini, Imposte-. Egli aveva anche dato origine alla iatromeccanica (il corpo umano spiegato con la meccanica) perchè sosteneva che, se dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza e se ha istituito delle leggi che regolassero la natura, allora queste leggi regolano pure l’uomo.


Alla fisiocrazia si riferì anche, pur con una posizione originale, Jacques Tourgot (1728-81), ministro delle Finanze, del Commercio e dei Lavori pubblici dal 1774 al 1776, protagonista di una decisa quanto avversata politica di riforme.





Negli anni sessanta, la fisiocrazia divulga idee e programmi con incontri regolari e con due periodici, il “Journal de l’agricolture, du commerce et des finances” e le “Èphémérides du citoyen”.

Con la morte di Quesnay la scuola si frantuma, anche per le critiche di molti economisti, ma per qualche tempo ancora, sia pure per inerzia, seguita a diffondersi in Europa.



L’agricoltura come fonte di ricchezza


Per la fisiocrazia si crea ricchezza nel momento della produzione di beni e non, come per il mercantilismo, nella circolazione delle merci, nel momento dello scambio.

Il ciclo economico è il processo di creazione di un prodotto netto, il surplus necessario all’accumulazione e all’investimento risultante dalla differenza tra il complesso della ricchezza creata- il prodotto sociale- e le anticipazioni necessarie a reintegrare le risorse impiegate a crearla. Sola fonte di ricchezza è la produzione di materie prime, agricole in particolare. Solo l’agricoltura, il settore primario, generando beni fisici, dà un prodotto netto (da cui il termine fisiocrazia da physis, “natura” e kratos, “forza”, “potere”); ogni altro settore, industria compresa, è sterile e tributario dell’agricoltura.

L’espansione dell’occupazione e delle attività industriali e commerciali dipende per i fisiocrati dalla quantità di mezzi di sussistenza che eccedono il fabbisogno degli addetti all’agricoltura.



Il ciclo economico nel Tableau di Quesnay


Anche la definizione delle classi sociali è vista nel loro rapporto con i beni:

chi possiede le risorse produttive e vive del prodotto netto costituisce la classe proprietaria, o oziosa;

i contadini coltivatori che, quali proprietari, affittuari e salariati, creano beni fisici, costituiscono la classe produttiva;

chi infine, nelle manifatture e botteghe artigiane, trasforma quei beni sen<a produrli e chi si limita a consumarli, come commercianti e professionisti, costituisce la classe sterile.







Per nulla inutili, le classi oziosa e sterile hanno un ruolo decisivo rispettivamente nei processi di trasferimento e trasformazione della ricchezza indispensabili alla vita economica. Secondo lo schema del ciclo economico esposto nel Tableau di Quesnay, infatti, al termine del ciclo di produzione la classe produttiva corrisponde le rendite alla classe oziosa, reintrega le anticipazioni necessarie a un nuovo ciclo, acquista manufatti e servizi della classe sterile; a sua volta la classe oziosa, acquistando viveri, manufatti e servizi, ridistribuisce il prodotto netto alle altre due classi; la classe sterile impiega infine le proprie risorse in consumi e materie prime.

I salari si fissano al livello necessario ad assicurare la sussistenza ai lavoratori ed alle loro famiglie. Quesnay quantifica i trasferimenti tra le classi in modo che il totale delle entrate della classe produttiva eguagli l’ammontare del prodotto lordo sociale.



Il “dispotismo legale”


L’orizzonte politico della fisiocrazia è riassumibile nella formula del “dispotismo legale”.

Il potere politico spetta a un’unica autorità illuminata, superiore a tutti gli interessi particolari, che si limita ad assecondare, rispettare e far rispettare le leggi naturali dell’ordine economico e sociale.

Ne derivano chiari precetti di politica economica:

o   introduzione del libero scambio,

o   soppressione dei residui feudali,

o   sostegno alla formazione di grandi aziende,

o   incentivo all’esportazione delle derrate eccedenti il fabbisogno interno,

o   istituzione di un’unica tassa sulla rendita fondiaria e abolizione di ogni altro gravame sugli agricoltori,

o   facilitazione degli investimenti e dei consumi a scapito del risparmio, in modo che l’ammontare complessivo del reddito rientri nella circolazione annuale e la percorra in tutta la sua estensione.

Occorrerà infine agevolare la diffusione e l’ammodernamento delle tecnologie del settore primario e del relativo bagaglio di conoscenze. Il legislatore non dovrà adoperarsi per armonizzare dall’alto gli interessi dei sudditi: la ricchezza così prodotta garantirà, senza altri accorgimenti e senza bisogno di alcun intervento statale, un’armoniosa convivenza sociale, in particolare tra ceti proprietari e non proprietari.








Il mercantilismo


Il mercantilismo è un sistema di politica economica. Esso si formò nel corso del XVIII secolo in seguito al consolidarsi delle grandi monarchie costituzionali nel secolo precedente, e alla necessità di una più estesa e ricca economia. Dal lato economico il mercantilismo si spiega con l’affermarsi della classe dei commercianti e dei manifatturieri arricchitasi con gli scambi.

Connesse al mercantilismo, poi sono pure alcune correnti intellettuali e religiose.


L’originaria fase delle dottrine mercantilistiche fu il cosiddetto creisoedonismo, o bullionismo, per cui la ricchezza della nazione consisteva nella quantità d’oro e d’argento che in essa si trovava; e si doveva perciò evitare con ogni mezzo l’esportazione del metallo prezioso e se ne doveva favorire l’entrata (dottrina del “treasure”). L’erroneità del ragionamento sta nel fatto che la sovrabbondanza di monete porta ben presto a un nuovo equilibrio, su una più alta base di prezzi; e d’altra parte, promuovendo scambi internazionali mediante cessione di metalli preziosi, si favoriva la decadenza di industrie produttive.

Sostenitori delle teorie mercantilistiche si hanno soprattutto nei paesi che più si erano arricchiti di oro dopo la scoperta dell’America. Il mercantilismo prende aspetti diversi secondo i paesi e la caratteristica delle loro economie. La sete di oro e di denaro in genere spiega l’importanza attribuita al commercio e all’esportazione. Ciò spiega perché la politica economica abbia carattere protezionista e scopo di arricchimento. Avere bilanci commerciali attivi è importante perché la ricchezza dello stato è la condizione di potenza. La potenza è capacità di resistere allo sforzo della guerra.



In Inghilterra


In Inghilterra, il mercantilismo rispecchiò gli interessi commerciali e marittimi inglesi. Con la banca d’Inghilterra creata nel 1694, si affermò anche la supremazia bancaria e finanziaria inglese. Ci si occupò del problema dei cambi, del tasso di interesse, della bilancia commerciale. Oltre le questioni monetarie erano al centro delle discussioni, quelle fiscali e soprattutto quelle del commercio internazionale. Per opera di Gresham, fu emanata la legge: “la cattiva moneta scaccia la buona”.







Confronto modello cattolico e protestante


Riguardo il commercio nel XVIII secolo, sono presenti tre modelli:


Modello cattolico: il commercio è un dono che dio ha dato agli uomini per poter star meglio. Un uomo è più ricco se sa soddisfare i suoi bisogni. L’uomo non è “proprio” cattivo.


Modello protestante: l’uomo è cattivo e preda delle passioni. Il commercio è uno strumento con cui una nazione “ruba” ad un’altra. Si ha un rapporto conflittuale che determina per Hobbes “bellum omnium contra omnes” (permanente stato di “guerra di tutti contro tutti”). Per il filosofo inglese, l’uomo è un meccanismo che per natura è portato ad autoconservarsi grazie al suo istinto che lo spinge ad assicurarsi la sopravvivenza e la soddisfazione dei bisogni, usando tutte le risorse possibili e uccidendo i propri simili, quindi è “homo homini lupus”.



Posizione teologica dei giansenisti francesi (cattolici un po’eterodossi): l’uomo è cattivo per il peccato originale.[i]













[i] Realizzato da Francesca Arcidiacono, matricola n. 634/ 003714




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