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Orientatori dei processi scolastici e formativi e delle scelte professionali - ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO

economia




L'ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO







Master

in




Orientatori dei processi scolastici e formativi

e

delle scelte professionali





ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO  

Nella prima parte della relazione sarà delineato il quadro macroeconomico del Mezzogiorno, nella seconda parte l'attenzione sarà puntata, principalmente, sulla Calabria e su alcuni aspetti specifici.

Le fonti alle quali abbiamo fatto riferimento sono i rapporti Svimez 1999 e 2000 per la prima parte, e alcuni contributi del convegno "Conoscere per decidere" organizzato dal Dipartimento di Economia Politica nell'Ottobre di quest'anno presso l'Unical, per la seconda.


[D 4] Il Mezzogiorno - costituito dalle regioni dell'Italia meridionale ed insulare: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna - è stato, in più di un'occasione, oggetto di interventi straordinari messi in atto dalla politica italiana per fare fronte alle disastrose condizioni di quest'area.

[D 5]L'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno (1950) prorogata con la legge 26-6-1965, il piano Vanoni del 1954 che prevedeva uno sviluppo programmato per il Mezzogiorno e la presenza di un Ministro per il Mezzogiorno dal 1965 con la funzione di coordinare gli interventi straordinari, non sono riusciti a modificare, però, il quadro macroeconomico del Mezzogiorno che può essere così riassunto: [D 6]


Elevato tasso di disoccupazione

Scarsa competitività delle imprese

Ridotta crescita del PIL

Scarsi investimenti

Alta % di lavoro irregolare


Il dato più rilevante è certamente l'elevato tasso di disoccupazione: [D 7]


Disoccupazione di tipo strutturale

Le fasce più colpite i giovani tra 20-29 anni

Grande divario Nord-Sud in ogni fascia d'età

Scarso raccordo tra mondo scolastico e quello lavorativo


Si tratta di una disoccupazione di lungo periodo causata da problemi interni al sistema che non riesce ad assorbire la forza lavoro disponibile, per cui la domanda essendo insufficiente fa sì che una grossa fetta dell'offerta rimanga tagliata fuori[1]. [D 8]Nel Mezzogiorno, a fronte di una forza di lavoro che è la metà di quella al Centro-Nord, il numero delle persone in cerca di occupazione è superiore rispetto all'altra macro area del Paese. [D 9] Possiamo rilevare come la % di disoccupati sia cresciuta dal 1993 al 1999: Calabria, Sicilia e Campania le regioni in cui il fenomeno è più significativo. [D 10] In generale sono tutte le fasce a risentirne, ad ogni modo quelle più colpite sono i giovani e le donne. Questa situazione è in parte riconducibile alla scarsa capacità delle politiche per l'occupazione di incidere sugli squilibri del sistema. Un'altra caratteristica, è il grande divario tra le due macro aree del Paese. [D 11]L'unica fascia in cui l'occupazione del Mezzogiorno è superiore a quella del Centro-Nord è la fascia tra 55-64 anni: 48,3% del Mezzogiorno contro 38.1% del Centro-Nord. Questa eccezione si spiega con il fatto che i lavoratori del Sud, entrando in ritardo nel mondo del lavoro, sono costretti a lavorare più a lungo per maturare i contributi necessari per andare in pensione.


[D 12] L'alta percentuale di lavoro irregolare è un'altra caratteristica di notevole rilievo. Nel Mezzogiorno, infatti, si toccano tassi elevatissimi di lavoro irregolare. Si tratta di: irregolari, occupati non dichiarati, persone che lavorano in nero in imprese regolari o sommerse. Al Centro-Nord si tratta, soprattutto, di doppio lavoro, sono cioè integrazioni di redditi riferibili a posizioni lavorative tutelate sul piano normativo e contrattuale. Nel Mezzogiorno, invece, il lavoro sommerso, indice di disagio economico e sociale, esclude significative quote di lavoratori dalle regole dell'economia. Nel 1999, la percentuale di lavoro nero nel Mezzogiorno si attesta al 33.4% (escludendo il settore agricolo si arriva a 26.6%) contro il 18.0% del Nord.

[D 13] La differenza tra Mezzogiorno e Centro-Nord è maggiore nel settore industriale: 41.8% contro il 12.1%; più contenuto nei servizi: 21.8% contro 17.4%. Nel settore delle costruzioni si registra la percentuale più alta, 60% nel Mezzogiorno contro 24% del Centro-Nord.

[D 14] Calabria (44,7%) Sicilia (36,4%) e Campania (34,9%) le regioni con i tassi più alti di lavoro irregolare.


[D 15] Qualche segno di miglioramento inizia a registrarsi. Al 1999 la situazione macroeconomica può essere così riassunta: crescita del PIL, ripresa dell'occupazione + 1.3% che, di per se non è un dato rilevante ma acquista il suo peso soprattutto perché segna un'inversione di tendenza dopo il periodo negativo 1994-97. La crescita è in linea con l'Europa anche 323d35d se inferiore di un punto percentuale.

[D 16] Questi dati positivi sono legati, però ad altri fattori, quali: la diminuzione della popolazione e ripresa delle emigrazioni verso Nord. Tra il 1998 e il 1999 si è registrata una diminuzione di 41.000 unità. In precedenza solo nel 1961 e nel 1968 si erano registrate delle diminuzioni demografiche.

[D 17] A partire dal 1975 (shock petrolifero) i flussi migratori erano andati progressivamente diminuendo a causa della drastica riduzione della domanda di lavoro al Nord che aveva messo fine all'emigrazione di massa dal Sud. I flussi migratori sono ripresi a partire dal 1995 dopo l'interruzione causata dalla recessione che ha colpito entrambe le ripartizioni del Paese (1991-94).

La popolazione meridionale che emigra, nel quinquennio 1995-99, è costituita per lo più da giovani tra i 20 e i 29 anni. Le indagini sulle forze lavoro confermano questo dato. Nel 1999, infatti, la riduzione delle persone in cerca di occupazione si registra proprio nella fascia 20-29 anni. Tali flussi migratori, se da un lato possono allentare le tensioni sul mercato del lavoro, dall'altro costituiscono un fattore di depauperamento delle risorse locali in termini di capitale umano. [D 18] Le perdite più elevate nel 1998 per mille abitanti si sono registrate nelle regioni: Calabria (-7.82), Campania (-5.71) e Sicilia (-3.42).

Il miglioramento in termini occupazionali, quindi, non deriva dalla capacità di assorbimento occupazionale interna all'area ma dalla ripresa dell'emigrazione. Se il fenomeno migratorio può migliorare l'incontro tra domanda e offerta, dall'altra rafforza l'estremizzazione del divario Nord-Sud, oltre che al depauperamento delle risorse potenziali locali delle regioni meridionali.


[D 19] Nel 1999, l'andamento positivo dell'occupazione è riconducibile alla diffusione delle forme di impiego atipico.

Il temporaneo ha contribuito per i 3/4 della crescita occupazionale. Tale crescita ha registrato una battuta di arresto degli ultimi due trimestri del 1999. Motivo: l'estinzione delle misure di promozione diretta all'occupazione predisposte nel 1997 con la legge TREU (L. 196/1997).

[D 20] Nel Mezzogiorno, però, queste forme più flessibili di rapporto di lavoro tendono a sostituirsi a quelle più stabili e con retribuzioni più elevate, con scarsi effetti sull'occupazione complessiva dell'area. Il tempo determinato, il part-time, il lavoro interinale, le collaborazioni coordinate e continuative presentano un trend fortemente crescente, ma il contributo rilevante all'occupazione complessiva si registra solo al Centro-Nord:


Le componenti a tempo parziale e determinato nel Centro-Nord risultano aggiuntive alle componenti tipiche del lavoro.

Nel Mezzogiorno, l'occupazione a tempo parziale e determinato si contrappone al full-time.

Le nuove tipologie contrattuali mostrano capacità di espansione al Centro-Nord. Il lavoro parasubordinato e il lavoro interinale si concentrano nelle aree economicamente più sviluppate del Paese dove è maggiore la presenta di imprese dinamiche in grado di operare sul più vasto mercato concorrenziale nazionale ed estero.


[D 21] Per quanto riguarda i settori produttivi si registra una flessione generalizzata dell'occupazione agricola, la più elevata dal 1993, compensata dalle buone performance nel settore del terziario. Nei quattro trimestri del 1999 la crescita è stata superiore al 2%. In tale settore, inoltre, risultano occupati il 62% degli occupati totali.

Gli aumenti più significativi verificatisi nel Mezzogiorno, in termini occupazionali, si registrano in: Puglia + 1.5% (settore trainante i servizi +22.000 addetti e le costruzioni + 6.000 addetti), Basilicata + 1.3% e Sardegna + 1.1%.


[D 22] La mancanza di incontro tra domanda ed offerta è da ricondursi anche allo scarso raccordo tra mondo scolastico e mondo del lavoro. All'origine di questo stato: rigidità dei percorsi scolastici, offerta formativa incentrata prevalentemente sul modello scolastico, non adeguato collegamento con il mondo del lavoro, mancanza di articolazioni ed opportunità formative.



La rigidità del nostro sistema formativo e la sua scarsa articolazione lo rendono poco attento alle dinamiche dei sistemi produttivi locali esasperando gli squilibri tra domanda ed offerta di contenuti formativi a livello locale. Le prospettive occupazionali dei giovani sono fortemente condizionate dalle possibilità offerte dai mercati locali del lavoro. L'entrata nel mondo del lavoro, ad un anno dal conseguimento del titolo di studio, al Sud risulta mediamente dai 2 ai 4 anni più elevata che al Nord. Il Mezzogiorno conferma la sua incapacità di valorizzare il capitale umano.

[D 23] La difficoltà occupazionale incontrata dai giovani che escono dalla scuola superiore ed i tempi lunghi prima di entrare nel mondo del lavoro, costituiscono un forte incentivo a proseguire gli studi. La necessità di conseguire una formazione supplementare, inoltre, unito alla mancanza di un'adeguata articolazione di opportunità formative indirizza, la maggior parte dei giovani, verso l'università. Questo si traduce in: un elevato tasso di abbandono nel primo anno, ed un basso numero di laureati in corso.

[D 24] La soluzione è da ricercarsi in: percorsi formativi alternativi, acquisizione di conoscenze ed esperienze on the job, attenzione alle dinamiche dei sistemi produttivi locali, maggiore mobilità territoriale del lavoro e differenziazioni salariali in base ai divari di produttività.

La possibilità di proseguire la formazione con soluzioni formative alternative a quelle scolastiche consentirebbe un più rapido ingresso sul mercato del lavoro.

[D 25] Allo stato attuale i progressi fatti dalla scolarizzazione di massa si sono fino ad oggi scontrati con il dualismo economico del nostro Paese che ha differenziato le capacità di valorizzazione delle conoscenze fornite dal capitale umano.


Guardando in prospettiva: l'innalzamento obbligo scolastico, la revisione dei percorsi di istruzioni, lo sviluppo di attività di orientamento, l'introduzione dei crediti formativi, la creazione di un nuovo ramo di istruzione terziaria extra-accademico fa ben sperare.

Certamente tutte le innovazioni non possono produrre risultati significati se non sono adeguatamente supportate da una mentalità pronta al cambiamento.



IL "MODELLO" DI SVILUPPO DELLA CALABRIA. CARATTERISTICHE STRUTTURALI E TRASFORMAZIONI RECENTI

Tre sono i caratteri di fondo dell'economia calabrese: il ritardo, la dipendenza e l'isolamento.


Le due componenti in cui può essere scomposto il PIL pro capite - la produttività del lavoro e il tasso di occupazione - mettono in evidenza come il ritardo economico della Calabria sia da attribuire più al deficit di occupazione che alla bassa produttività media del lavoro.

Il ritardo economico regionale è caratterizzato anche dall'inconsistenza delle attività industriali e, più in particolare, dalle iniziative produttive esposte alla concorrenza.


Il carattere patologico della dipendenza dell'economia calabrese dai trasferimenti finanziari dall'esterno risulta evidente se si considera che la Calabria è ormai l'unica regione italiana a consumare consistentemente più di quanto produce. Grazie proprio a tali trasferimenti i calabresi possono godere di standard di vita e di consumo largamente superiori a quelli cui avrebbero accesso grazie ai soli redditi prodotti all'interno della regione.


L'asfissia produttiva e la dipendenza contribuiscono a forgiare un altro carattere strutturale dell'economia calabrese: l'isolamento. Un segnale evidente della sua modesta apertura è rappresentato dall'inconsistenza assoluta degli investimenti all'estero da parte di imprese calabresi e degli investimenti dall'estero nella regione da parte di imprese extranazionali.



Il ventennio postbellico.


Agli inizi degli anni cinquanta la situazione economica della Calabria mostrava il profilo tipico delle aree a forte deficit di sviluppo. Sottoccupazione, povertà materiale, isolamento, deficit infrastrutturale segnavano marcatamente il territorio regionale e le condizioni di vita dei calabresi.


Il 1950 è un anno cruciale: si avviano contemporaneamente Riforma agraria e Intervento straordinario per il Mezzogiorno. Grazie allo sforzo imponente dello Stato nel settore delle opere pubbliche la Calabria comincia a cambiare volto. Migliora l'accessibilità fisica, si accrescono le condizioni di benessere delle famiglie, cresce il reddito disponibile.


Il 1957 è un altro anno decisivo perché l'Italia entra nel Mercato comune europeo. In quanto dotata di una struttura produttiva striminzita e poco specializzata la Calabria non riuscirà ad approfittare dei nuovi spazi di mercato esteri.


La partecipazione più evidente della Calabria al boom economico dell'ultimo scorcio degli anni cinquanta e la prima metà degli anni sessanta è con l'emigrazione di migliaia di uomini calabresi che vanno a lavorare nelle grandi fabbriche del Nord ed in Germania, Svizzera e Francia.


L'occasione mancata. (Manifestazione particolarmente evidente dello scostamento tra sviluppo effettivo e quello possibile)

Le cospicue rimesse degli emigranti, accoppiate alla dilatazione dei trasferimenti di reddito statali, determinano nel corso degli anni la crescita dei redditi disponibili, affievolendo così uno dei vincoli storici alla crescita della produzione regionale: la modestia della domanda interna. Tuttavia, l'occasione rappresentata dall'espansione del mercato non sarà colta dai produttori regionali: allorché la domanda si farà consistente il sistema produttivo regionale risulterà ormai fiaccato dalla concorrenza esterna e ridimensionato.

La vicenda storica di questo dopoguerra dei NICs (Newly Industrialized Countries) dimostra che il decollo industriale in questi paesi si è potuto realizzare grazie al lungo periodo di protezione accordato all'industria nazionale e alla politica di sostituzione delle importazioni con beni prodotti all'interno.

Se adeguatamente protetti, i distretti manifatturieri calabresi, almeno quelli che mostravano in nuce i caratteri potenziali del successo, avrebbero forse potuto resistere all'invasione del mercato unico e imboccare il sentiero della crescita attraverso l'accumulo delle " esperienze" e delle "competenze"e dopo "un periodo di tempo ragionevole" cogliere le opportunità dell'espansione della domanda nazionale e mondiale.



Gli anni settanta e ottanta: integrazione passiva.


In questo periodo, l'inclusione della Calabria nel mercato nazionale assume sempre di più la connotazione di integrazione passiva: la regione soddisfa gran parte dei propri crescenti fabbisogni di consumo con produzioni esterne, mentre il valore della produzione in uscita è del tutto trascurabile.

Nel 1970 il governo vara un "pacchetto d investimenti per la Calabria", più conosciuto come "Pacchetto Colombo", dal nome del Presidente del Consiglio dell'epoca che prevedeva l'incentivazione di iniziative industriali prevalentemente nei settori chimico, siderurgico e tessile. In realtà il "pacchetto" si rivelò ben presto niente più che una chimera: alcuni degli stabilimenti progettati furono realizzati ma o non entrarono in produzione o non raggiunsero mai i livelli produttivi preventivati, mentre altri investimenti programmati non furono neppure avviati.

L'improvvisazione e la fretta con il quale il Governo confezionò il "pacchetto" si unirono all'incalzare di congiunture sfavorevoli sul versante dello scenario internazionale. Il primo shock petrolifero del 1973, a seguito della guerra del Kippur, che moltiplicò per quattro volte il prezzo del petrolio grezzo, finirono per mettere in crisi già dalla nascita i nuovi presidi industriali di base progettati per la Calabria, cosicché il "sogno" dell'industrializzazione si avvia a declinare rapidamente.

Un altro esito disastroso di quel "pacchetto" di iniziative fu la decisione di sdoppiare l'istituzione Regione in due luoghi fisici distinti e distanti: la Giunta Regionale a Catanzaro e il Consiglio Regionale a Reggio Calabria, alimentando così l'inefficienza burocratica e amministrativa.



Profilo di un modello macroeconomico atipico.


Nel corso del ventennio1970-1990, la Calabria mostra, rispetto alle regioni sviluppate del paese, due "anomalie" eclatanti: da un lato, un acuto sottodimensionamento della produzione industriale e, dall'altro, un ipertrofico peso produttivo dei servizi non vendibili. Le due anomalie sono correlate: l'ipotrofia industriale alimenta l'ipertrofia dei comparti dei servizi non di mercato e, viceversa, la ridondanza del settore dei servizi non destinabili alla vendita sottrae risorse allo sviluppo industriale regionale.

Guardando i numeri dell'occupazione, l'ipertrofia persistente dell'agricoltura regionale potrebbe essere considerata la "terza anomalia" dell'economia calabrese. In realtà, si tratta si tratta di un'anomalia solo apparente in quanto l'eccesso di addetti agricoli non è da connettere con una qualche forma particolare di specializzazione o di spiccata vocazione dell'agricoltura regionale, bensì, come testimonia tra l'altro il bassissimo livello di produttività media del lavoro, con l'insufficienza della domanda di lavoro nei settori extragricoli.


Le trasformazioni recenti.


Le politiche di contenimento della spesa pubblica imposte dal processo di convergenza europea hanno determinato un calo dei consumi delle famiglie.

Le ripercussioni della recessione economica degli anni '90 sono particolarmente devastanti nel mercato del lavoro regionale. Il deficit occupazionale è pesante e generalizzato anche tra le diverse generazioni di forza lavoro. L'unica classe di età che non sembra essere penalizzata è quella degli ultracinquantenni, che registra in Calabria tassi di occupazione in linea con quelli medi del Centro-Nord sia per i maschi che per le femmine. Tutte le altre classi di età evidenziano invece uno scarto elevatissimo. La gravità strutturale della disoccupazione regionale è tanto più evidente se accanto alla "disoccupazione esplicita", quella cioè misurata dall'ISTAT nelle indagini trimestrali secondo il criterio delle azioni di ricerca attiva di un lavoro compiuto nel mese precedente la rilevazione, si prendono  in considerazione anche i cosiddetti disoccupati "scoraggiati", coloro cioè che non cercano attivamente lavoro perché convinti dell'inutilità della ricerca.

Il disagio sociale connesso alla disoccupazione dilagante è stato in parte attenuato dall'ampia consistenza del lavoro "sommerso", cioè di prestazioni lavorative non ufficiali perché non in regala dal punto di vista  salariale, contributivo, fiscale e della sicurezza.

Se pure in un quadro strutturale desolante, è possibile scorgere nell'economia calabrese degli ultimi anni qualche segnale di cambiamento e di dinamismo produttivo. Il limite tangibile di questi segnali è che essi sono rarefatti, spazialmente dispersi, e scollegati gli uni dagli altri, cosicché non riescono a pesare adeguatamente nei processi di trasformazione economica e sociale.


Il saldo positivo della demografia imprenditoriale.

Nel quadriennio 1996-99 la natalità imprenditoriale nei settori non agricoli della Calabria ha sistematicamente superato la mortalità, con un tasso di crescita medio annuo delle imprese pari al 3% circa, un valore ampiamente più elevato di quello registrato nelle regioni del Centro-Nord (meno dell'1%) e in linea con quello meridionale.

L'espansione del settore turistico.



(Sebbene il settore sia tuttora afflitto da un'elevata concentrazione dei flussi su un numero di settimane ancora troppo limitato e da una modesta valorizzazione del potenziale delle risorse naturali, ambientali e archeologiche della regione)

Il porto di Gioia Tauro.

Rappresenta un investimento strategico non solo per gli impatti produttivi e occupazionali sulla critica situazione economica e sociale del contesto di insediamento, ma anche perché ricolloca la Calabria in una posizione spaziale centrale nelle "reti lunghe" dei traffici mercantili tra l'estremo Oriente, il Mediterraneo e l'estremo Occidente che, se opportunamente valorizzata, potrebbe implicare effetti economici rilevanti sull'intero sistema regionale, oltre ai non trascurabili effetti sul piano simbolico dell'identità e della reputazione della Calabria.



Conclusioni

Nonostante i passi da gigante, la Calabria non è però riuscita a ridurre il gap con le regioni del Centro-Nord. Negli ultimi anni, al contrario, si è manifestata una qualche tendenza all'allargamento del divario; ciò, tuttavia, non inficia il giudizio di straordinarietà, nei suoi termini assoluti, del progresso compiuto dalla Calabria. Va peraltro evidenziato che l'eccesso di attenzione per le oscillazioni del divario Calabria/Centro-Nord può implicare un doppio rischio: da un lato quello di sottovalutare i progressi assoluti conseguiti dalla regione e, dall'altro, di accettare acriticamente il cosiddetto "paradigma emulativo", ossia l'assunzione del modello di sviluppo centro-settentrionale come l'unico sentiero possibile alla crescita economica-sociale.

Piuttosto la patologia vera della Calabria è l'essere ancora oggi drammaticamente dipendenti dai trasferimenti monetari pubblici per ogni aspetto della vita economica e sociale regionale. Visto dall'altro lato della medaglia, il problema calabrese consiste in un deficit di strutture di produzione, nella scarsità di strutture di mercato e in una dipendenza asfissiante da reti di relazioni verticali (con Roma, con Bruxelles).

D'altro canto, sembra evidente che il nucleo della questione regionale non sia risolvibile facendo ricorso al semplice schema "più mercato e meno Stato" perché in Calabria Stato e mercato sono entrambi minimi.

Prescindendo da qualunque retorica una possibile soluzione è quella di trasformare i vincoli in opportunità. Se letto in chiave di opportunità, il deficit di sviluppo può essere trasformato in riserva di sviluppo, ossia in disponibilità di spazi fisici, di abbondanza di capitale umano per attrarre gruppi imprenditoriali in cerca di nuove localizzazioni per espandere la loro base produttiva.

Il vincolo della contrazione delle risorse finanziarie potrà diventare un forte incentivo per scoraggiarne gli usi improduttivi, per rafforzare la programmazione del loro uso e la valutazione dei loro impatti.

Una delle più grandi opportunità per la Calabria è la disponibilità di un patrimonio inestimabile di risorse "immobili", di presidi storici e culturali, di boschi di mare che, se adeguatamente salvaguardato e valorizzato, può costituire un tangibile vantaggio per la regione.



CHE FARE PER IL LAVORO IN CALABRIA?


Il principale problema socio-economico della Calabria è la disoccupazione. E' il Mezzogiorno il fallimento più clamoroso della politica economica italiana: un tasso di disoccupazione medio superiore al 20 per cento, con punte fino al 30 per cento in Calabria, la regione con la più alta disoccupazione nell'Unione Europea. Come è possibile che nello stesso paese vi siano regioni con tassi di disoccupazione fra i più bassi del mondo e regioni con disoccupazione da grande depressione? La causa fondamentale della contemporanea presenza in Italia di un tendenziale eccesso di domanda di lavoro al Nord, e di una fortissima disoccupazione al Sud è uno squilibrio competitivo fra il Nord e il Sud dell'Italia provocato da una differenza di produttività nelle attività produttive mobili. E' necessario fare tutto il possibile per eliminare le cause, ma l'esperienza di tanti paesi mostra però, che non tutte le cause delle differenze di produttività possono essere in concreto eliminate. Lo squilibrio competitivo fra Calabria e Nord Italia, e la fortissima disoccupazione che ne consegue in Calabria, può essere superato mediante una strategia complessa che punti ad eliminare le cause della minore produttività della Calabria (adeguamento delle infrastrutture sia fisiche che formative, incremento dell'efficienza delle amministrazioni pubbliche, creazione di un clima più favorevole allo sviluppo delle imprese) e dall'altro a compensare le residue differenze di produttività mediante prezzi dei fattori produttivi minori per le imprese calabresi che per quelle venete o lombarde. In astratto queste differenze nei prezzi per le imprese dei fattori produttivi può essere ottenuta sia mediante differenze nelle remunerazioni percepite dai fattori produttivi che si spostano con maggiore difficoltà dalla Calabria verso il Nord dell'Italia, sia mediante sussidi alle attività produttivi mobili localizzate in Calabria, finanziati dai contribuenti del Nord. Quindi il prezzo del lavoro per le attività produttive mobili localizzate nei paesi o regioni meno efficienti può essere ridotto mediante minori retribuzioni percepite dai lavoratori  in tutti i settori produttivi e/o mediante sussidi pubblici all'occupazione per le attività produttive mobili localizzate nelle regioni meno efficienti. Il prezzo del capitale nelle regioni meno efficienti può essere ridotto soltanto mediante sussidi pubblici, poiché la mobilità molto elevata del capitale finanziario impedisce che possano esserci differenze significative fra una regione all'altra nella remunerazione del capitale. Considerato che il fattore relativamente più abbondante nelle regioni meno efficienti non è certo il capitale ma il lavoro e che esiste una sia pur limitata sostituibilità fra capitale e lavoro, in linea di principio si può affermare che i sussidi pubblici dovrebbero essere utilizzati per ridurre nelle regioni meno efficienti il prezzo del lavoro piuttosto che il prezzo del capitale pagato dalle imprese. In concreto , vale a dire tenendo conto dei trasferimenti politicamente possibili, sembra essere impraticabile realizzare per la Calabria un equilibrio competitivo di piena occupazione senza significative, anche se non particolarmente elevate, differenze nelle retribuzioni percepite dai fattori produttivi poco trasferibili, e quindi principalmente dai lavoratori. Un'ipotesi realistica potrebbe essere quella di una ripartizione grosso modo paritaria dell'onere del sostegno alla competitività dei prodotti calabresi fra lavoratori calabresi e contribuenti del Nord. Per essere efficace, le differenze nelle remunerazioni percepite dai lavoratori devono essere pienamente legittime dal punto di vista giuridico, e uniformi per tutti i settori produttivi. Attualmente, invece, esistono differenze regionali a volte molto forti nelle retribuzioni percepite dai lavoratori, realizzate spesso violando le leggi e comunque con fortissime disparità fra un settore e l'altro. Nel settore pubblico, in Calabria le retribuzioni sono pari che al Nord in termini nominali e sostanzialmente più elevate in termini di potere di acquisto di merci e servizi. Nel settore privato, molti lavoratori sia dipendenti sia autonomi, percepiscono in Calabria retribuzioni dell'ordine della metà di quelle ottenute per lavori analoghi nelle regioni del Nord. Paradossalmente, l'opposizione a differenze generalizzate nelle retribuzioni fra Calabria e il Nord, sembra aver generato indirettamente differenze fortissime nelle retribuzioni percepite per lavori analoghi in uno stesso comune della Calabria. Le proposte di sostenere la competitività del Mezzogiorno mediante differenze nel prezzo del lavoro compensative delle differenze di produttività sono state a volte criticate perché esse favorirebbero imprese meno efficienti in settori maturi. Questa preoccupazione non sembra però essere giustificata né storicamente né dal punto di vista dell'analisi economica. Storicamente, i paesi che negli ultimi cinquant'anni hanno registrato i maggiori aumenti di produttività (Giappone, Italia, ecc.) sono quasi sempre partiti con livelli salariali anche più bassi di quelli necessari a compensare la loro minore produttività. Altra critica rivolta alle proposte di differenze salariali territoriali è che in realtà molte imprese del Mezzogiorno esposte alla concorrenza esterna già hanno costi del lavoro significativamente minori delle imprese del Nord, soprattutto in conseguenza di violazioni generalizzate delle norme sui minimi salariali, sui contributi previdenziali obbligatori, sugli oneri fiscali. A queste critiche si può rispondere mediante la teoria dei salari di efficienza secondo la quale un'impresa paga ai suoi dipendenti salari più bassi di quelli pagati nello stesso comune dalle pubbliche amministrazioni o dalle banche, difficilmente riuscirà a ottenere lo stesso impegno che nel caso in cui anche pubbliche amministrazioni e banche pagassero salari più bassi. Ciò che serve alla Calabria non è una flessibilità salariale intesa come disponibilità ad accettare volta per volta i salari che le diverse imprese sono in grado di pagare. La flessibilità salariale che serve per lo sviluppo della Calabria consiste nell'individuare il livello delle retribuzioni compatibile con un equilibrio competitivo di piena occupazione in Calabria e applicare poi questo salario di equilibrio in tutte le occupazioni, pubbliche e private. Altra obiezione è che esse potrebbero stimolare l'emigrazione verso il Nord dei lavoratori più qualificati, contribuendo ad aggravare le differenze di produttività. A questo si può rispondere che per gran parte dei lavoratori dipendenti e autonomi all'interno del settore privato le retribuzioni di fatto sono oggi molto più basse in Calabria che al Nord, senza che ciò determini significativi flussi di lavoratori verso il Nord.


Poiché il reddito prodotto viene largamente determinato dal numero di imprese operanti in ciascuna regione (almeno questo è il modello di sviluppo seguito dall'Italia), spesso se ne deduce, frettolosamente, che sia l'assenza di spirito imprenditoriale ad essere uno dei vincoli principali allo sviluppo del Mezzogiorno. In realtà un'offerta di capacità imprenditoriali nelle regioni meridionali si è sempre avuta. Solo che essa si è razionalmente diretta verso attività (legali ed illegali) che garantiscono dei rendimenti uguali o superiori alle cosiddette attività produttive. Alcuni interventi possono essere realizzati per contrastare tale tendenza negativa.

Occorre, innanzitutto, restituire certezza ai diritti di proprietà, aumentando fortemente l'impegno delle forze dell'ordine nella difesa dei diritti ad esercitare un'attività produttiva senza essere taglieggiati dalla mafia locale. Ogni volta che una impresa viene costretta a pagare una tangente si innalzano i costi della stessa. In presenza di un mercato concorrenziale ciò comporta prezzi più alti e, nel lungo periodo, la fuoriuscita dal mercato. Per aumentare l'offerta  di imprenditorialità, occorre accrescere velocemente la formazione di capitale umano nel settore delle ingegnerie. La capacità di praticare attività di rent-seeking dei laureati in ingegneria è molto bassa. Al contrario è molto forte la oro offerta/domanda di attività imprenditoriali produttive.

Ogni azione che può portare all'aumento del rendimento delle attività produttive (abbassamento dei costi e del rischio mafia, introduzione di nuovi processi e prodotti, accelerazione e riduzione delle pratiche amministrative per la nascita di una nuova impresa), può incentivare gli individui a scegliere un'attività produttiva rispetto ad una rent-seeking.

L'ostacolo principale allo sviluppo della Calabria non è il livello delle retribuzioni nel settore esposto alla concorrenza esterna, ma quello dei settori protetti, e in particolare della pubblica amministrazione. L'offerta da parte delle pubbliche amministrazioni di remunerazioni che, tenendo anche conto della sicurezza dell'impiego, sono pari, per lo stesso tipo di lavoro, a quasi il doppio di quelle ottenibili nel settore privato, rende conveniente per tanti giovani "investire" tanto tempo nella ricerca di un impiego pubblico, piuttosto che impegnarsi nel settore privato, e in particolare nelle attività produttive esposte alla concorrenza nazionale e internazionale. Per lo sviluppo della Calabria la cosa più importante non è l'attrazione di investimenti esterni, ma rendere conveniente per i giovani del Sud impegnarsi per lo sviluppo di attività produttive esposte alla concorrenza esterna, piuttosto che dissipare negli anni migliori nella ricerca delle rendite offerte dalle pubbliche amministrazioni. In questa prospettiva la misura più efficace è l'eliminazione, o almeno una sostanziale riduzione, delle rendite da impiego pubblico in Calabria. Gli ostacoli principali allo sviluppo produttivo del Mezzogiorno sono stati, e sono, da un lato la contrarietà di gran parte delle organizzazioni sindacali e dei partiti politici a forme generalizzate di differenziazione salariale territoriale, e dall'altro il divieto della Commissione Europea, e in particolare della Direzione per la tutela della concorrenza, agli sgravi fiscali e contributivi necessari a mantenere in equilibrio competitivo le attività produttive del Mezzogiorno esposte alla concorrenza esterna, in assenza di differenziazioni salariali uniformi per tutti i settori produttivi. La combinazione fra uniformità salariale territoriale per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni e delle imprese regolari del settore privato a mercato prevalentemente locale (soprattutto le banche) e insufficiente sostegno alla competitività delle attività produttive mobili ha creato nel Mezzogiorno un dualismo accentuato nel mercato del lavoro, con remunerazioni nel settore pubblico e nelle banche che, a parità di lavoro, sono dell'ordine del doppio di quelle ottenibili in gran parte del settore privato. Appare evidente la tragica assurdità di questo risultato: non si accettano differenziazioni neppure modeste nelle retribuzioni nominali dei dipendenti pubblici fra Cosenza e Milano, ma si accettano differenze dell'ordine del 100 per cento nelle remunerazioni di lavori simili svolti in ambiti diversi nello stesso comune del Mezzogiorno. Un aspetto tragico di questa situazione, è che le rendite assicurate a gran parte dei dipendenti pubblici del Mezzogiorno dall'uniformità contrattuale rispetto al Nord sono in parte rilevante "dissipate", mediante un lungo periodo di ricerca di un'occupazione nella pubblica amministrazione, e/o l'acquisizione di qualificazioni molto più elevate di quelle necessarie per il lavoro da svolgere. D'altronde, differenze retributive dell'ordine del 100 per cento rendono perfettamente razionale dal punto di vista individuale "dissipare" fino a vent'anni di potenziale lavoro nella ricerca di un impiego pubblico. A parte ciò, la garanzia di eguali retribuzioni nominali al Nord e al Sud dell'Italia riguarda esclusivamente il lavoro dipendente. Perché si ritiene inaccettabile una differenza di reddito fra Cosenza e Milano per un dipendente di un'amministrazione pubblica o di una banca, e non per un commerciante, un meccanico, un idraulico, un barbiere, un avvocato o un commercialista? Per ridurre efficacemente la disoccupazione in Italia non servono generiche misure volte a rendere più flessibile un mercato italiano del lavoro che non esiste, ma l'adozione di due regole fondamentali dell'economia: (1) Il prezzo del lavoro per le imprese che producono beni facilmente trasferibili deve essere differenziato in rapporto ai diversi livelli di produttività concretamente raggiungibili in ciascuna regione; (2) all'interno di ciascuna regione i lavoratori devono avere la possibilità di ottenere nelle attività produttive esposte alla concorrenza esterna remunerazioni complessive che, tenendo conto anche di eventuali differenze dal punto di vista della penosità del lavoro e della stabilità dell'impiego, non siano minori di quelle ottenibili nelle amministrazioni pubbliche e in altre attività produttive a mercato locale. Spesso si sostiene che le retribuzioni nel Mezzogiorno sono già oggi più basse che al Nord, e che non è realistico pensare di ampliare ulteriormente le differenze nei salari fra il Nord e il Sud dell'Italia. In realtà ciò è vero soltanto in parte, poiché le differenze delle remunerazioni riguardano soltanto alcuni settori produttivi. Nelle pubbliche amministrazioni, vale a dire per quasi un terzo dei lavoratori calabresi, le remunerazioni sono uguali che al Nord in termini nominali e sensibilmente più elevate in termini di potere di acquisto di merci e servizi. Ciò significa che le imprese del Mezzogiorno esposte alla concorrenza esterna, se è vero che pagano ai lavoratori remunerazioni minori che al Nord, è anche vero che riescono a ottenere lavoratori meno efficienti e motivati che al Nord, perché devono competere sul mercato del lavoro con datori di lavoro pubblici che offrono retribuzioni fuori mercato. E' ovvio che non si può pensare di ampliare ulteriormente le differenze salariali fra Sud e Nord nelle attività produttive esposte alla concorrenza esterna; la soluzione sta nell'applicare in modo uniforme a tutti i settori produttivi le differenze retributive necessarie per mantenere in equilibrio competitivo le regioni del Nord e del Sud dell'Italia. Si è cercato in queste pagine di mettere in evidenza gli aspetti essenziali di una strategia di politica economica in grado di riportare verso la normalità le prospettive di lavoro per i Calabresi. Ritenendo improbabile in futuro un aumento dei trasferimenti dall'esterno, l'attenzione è stata concentrata sull'esigenza di aumentare la competitività delle produzioni calabresi. Sulla base di considerazioni sia storiche sia analitiche, si argomenta poi che la compensazione delle attuali differenze di produttività mediante differenze nel prezzo del lavoro per le imprese, non soltanto non è in contrasto con una strategia di riduzione delle differenze di produttività (che naturalmente rimane la strategia ottima), ma contribuisce di per sé alla riduzione delle differenze di produttività stimolando la realizzazione di preziosissime economie di apprendimento. Essa potenzia quindi gli effetti di misure volte direttamente ad eliminare le cause delle differenze di produttività (carenza di infrastrutture, di conoscenze e qualificazioni professionali acquisibili migliorando il sistema educativo, ecc.).



Le politiche del lavoro "welfare-to-work": una riflessione sui problemi di sviluppo regionale.

Il nostro Paese presenta un alto tasso di disoccupazione, squilibri regionali ampi e persistenti, scarsa partecipazione al mercato del lavoro e prolungata durata dei periodi di inoccupazione in special modo con riferimento ai giovani e alle donne. Nel 1999 il 60% dei giovani, con età inferiore ai 35 anni, aveva la prospettiva di trascorrere almeno due anni alla ricerca di un posto di lavoro. In questo lavoro prenderemo in esame le politiche cosiddette welfare to work (Boeri et al., 2000) che si propongono di contemperare gli obiettivi equitativi e redistributivi delle politiche passive con quelli di efficienza e di riduzione delle frizioni (mismatch) all'interno del mercato, proposti dalle politiche attive del lavoro. L'indirizzo di politica del lavoro welfare-to-work nasce dalla constatata necessità di introdurre dei meccanismi che facilitino la partecipazione individuale al mercato del lavoro, favoriscano l'incontro tra domanda e offerta di lavoro e rendano possibile un'ampia convergenza dei livelli produttivi e occupazionali territoriali senza ricorrere ad un sistema di sussidi di lungo termine. Le politiche attive nascono dall'intento di favorire l'incontro tra domanda ed offerta di lavoro e di consentire uno sbocco professionale ai disoccupati di lungo termine. Gli strumenti adottati a tale scopo consistono in misure che agiscono sul sistema di formazione delle competenze specifiche dei disoccupati e sui canali di accesso all'occupazione. In tale ambito la riforma del sistema del collocamento riveste un ruolo chiave al fine di indirizzare i disoccupati verso reali opportunità di impiego. L'adozione delle cosiddette politiche passive del lavoro, basate su un sistema di sussidi ai disoccupati, nasce dall'esigenza di lenire le conseguenze reddituali della disoccupazione. Gli interventi sono pertanto mirati ad obiettivi di natura assicurativa e distributiva. A tale scopo, l'introduzione di limitazioni alla fruizione del sussidio in termini di durata e di entità nonché la perdita del sussidio in caso di rifiuto di un'offerta di lavoro rappresentano importanti elementi introdotti dalle politiche in questione. L'individuo ha, pertanto, il dovere di attivarsi nella ricerca di un lavoro e di rendersi disponibile quando riceve delle offerte per evitare di perdere il sussidio. L'obiettivo è, naturalmente, quello di favorire la partecipazione al mercato del lavoro ed evitare che l'individuo resti ingabbiato in condizioni di dipendenza dai trasferimenti dello Stato. Sembra acquisita, in tale ambito, l'argomentazione che un sistema contrattuale decentrato, agendo sulla relazione tra salari e condizioni del mercato del lavoro locale, potrebbe migliorare i livelli occupazionali e ridurre i differenziali regionali. Nell'intento di consentire il maggior numero possibile di accessi all'occupazione e di limitare la durata dell'occupazione è evidente che le politiche di incoraggiamento alla mobilità regionale rappresentano uno strumento rilevante.




IL SISTEMA BANCARIO E LO SVILUPPO ECONOMICO DELLA CALABRIA



Dagli anni '90 è in corso in Italia un profondo processo di trasformazione del settore bancario e finanziario che si caratterizza principalmente col passaggio da un sistema bancario protetto ad un sistema bancario orientato al mercato. Tale processo si basa essenzialmente sulla ridefinizione degli assetti proprietari e su diverse incorporazioni e fusioni. Si sono verificate di conseguenza una sostanziale riduzione del numero di banche (- 100 unità) e un aumento del numero degli sportelli(+5000 unità) nel periodo '93-'98.

Questo processo ha avuto i suoi effetti nel Mezzogiorno e nello stesso periodo le nostre banche erano afflitte da una grave crisi caratterizzata da forti perdite (duemila miliardi annui!), tutto questo ha spinto le banche del Centro-Nord ad intervenire per sanare la disastrosa situazione. In Calabria si è avuto così il passaggio da un sistema bancario dominato da banche locali a un sistema bancario eterodiretto. Tale passaggio è scaturito essenzialmente dalle incorporazioni e fusioni avvenute nel Sud nell'ultimo decennio. Ciò ha portato tra le altre cose ad una segmentazione per tipologia di clientela, dal momento che le banche esterne si sono interessate dei mutuatari di grosse dimensioni mentre quella più piccole si sono concentrate su quelle di piccole dimensioni. Gli effetti dell'intervento delle banche esterne sono stati molto positivi e sono riscontrabili nel miglioramento dell'efficienza operativa delle banche incorporate. E' infatti aumentata la produttività a livello di sportello nel periodo 1990-'99 e tutto ciò a fatto si che le banche calabresi superassero le altre in termini di produttività del lavoro.


COMPORTAMENTO DEL NOSTRO SISTEMA BANCARIO


Per analizzare il comportamento del sistema bancario occorre prendere in considerazione tre fattori:

1) I tassi di interesse attivi e passivi;

2) Le garanzie richieste dalle banche;

3) La composizione dell'attivo e del passivo.


In Calabria l'andamento è stato caratterizzato da una riduzione dei tassi attivi e da un sostanziale allineamento di quelli passivi con quelli del resto del paese. Per tale motivo lo spread si è ridotto notevolmente nell'ultimo decennio. A determinare in modo significativo questo dato è intervenuto in Calabria la rischiosità dei mutuatari, fattore molto elevato considerate le caratteristiche delle imprese calabresi: piccole dimensioni, eccessiva fragilità finanziaria, operanti nei settori tradizionali.


Il secondo fattore si è ridotto notevolmente, passando dall'80% al 60% nel periodo 19909-'96, e ciò a permesso un allentamento delle condizioni di accesso al mercato del credito.

In conclusione vi è stata la crescita di competitività che però non è stata sufficiente a ridurre in modo significativo il differenziale dei tassi rispetto al resto del paese. Tutto ciò principalmente perché in Calabria permane un'eccessiva sofferenza nell'attività imprenditoriale.



CONDIZIONE DELLE IMPRESE IN CALABRIA


E' evidente dunque la grossa difficoltà che incontrano le nostre imprese trovandosi nella condizione di dover sostenere alti costi in rapporto ai loro livelli di produttività. Il costo del credito, superiore, in Calabria, di oltre 3 punti percentuali, determina uno svantaggio competitivo rispetto al territorio nazionale. Le conseguenze di tale situazione sono, soprattutto. la difficoltà di costruire una fonte interna di finanziamento e  la necessità di avviare attività imprenditoriali affidandosi a risorse proprie. Questo è di forte ostacolo per giovani dotati di grandi capacità, ma che non possiedono patrimoni propri. Per intervenire in tale situazione a vantaggio delle imprese bisognerebbe ridefinire i rapporti tra banche ed imprese, coinvolgere maggiormente il sistema bancario nel nostro sistema produttivo e passare sostanzialmente da un meccanismo Stato-impresa a uno Banche-impresa. Quest'ultimo punto sembra fondamentale affinché le banche possano interpretare un ruolo centrale in sintonia con le imprese.

Una soluzione potrebbe essere la creazione di un fondo pubblico di garanzia regionale per salvaguardare le banche dalla mancata restituzione dei prestiti. Le banche garantirebbero l'abbattimento dei tassi di interesse attivi in cambio di una copertura da parte della regione sulle perdite dei crediti. Tale fondo potrebbe realizzarsi dando attuazione ai decreti legislativi n.112 e n.123, previsti dalla legge Bassanini, che demandano alle regioni la gestione del credito agevolato e l'eventuale istituzione di fondi pubblici di garanzia.

E' evidente, dunque, che sono necessari dei cambiamenti anche considerando le società (ad esempio FINCALABRA e BIC CALABRIA) che, in Calabria, forniscono servizi reali e finanziari alle imprese: vi sono troppe sovrapposizioni sia negli strumenti utilizzati che negli obiettivi da perseguire; cambiamenti che possano realmente contribuire al miglioramento della nostra situazione economica.























Forza lavoro: l'insieme delle persone occupate e di quelle disoccupate in età lavorativa che lo cercano attivamente. Tasso di disoccupazione: rapporto tra disoccupati e forza lavoro. Tasso di partecipazione: rapporto tra forza lavoro e la popolazione in età lavorativa.







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