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ECONOMIA E POLITICA ECONOMICA IN ETA' FASCISTA - Il neomanchesterismo di Alberto De' Stefani

economia



ECONOMIA E POLITICA ECONOMICA IN ETA' FASCISTA


Il neomanchesterismo di Alberto De' Stefani

Giunto alla guida del governo, Mussilini nominò ministro delle Finanze l'economista Alberto De' Stefani. Un paio di mesi più tardi De' Stefani assunse anche il controllo del dicastero del Tesoro, in seguito alla scomparsa del ministro Vincenzo Tangorra; quindi De' Stefani controllava sia il ministero delle Finanze che quello del Tesoro che venne unito a quello delle Finanze.

Attraverso il professore universitario Ca' Foscari il fascismo intendeva attuare un programma di "restaurazione economica" di stampo liberistico. In realtà quello che De' Stefani attuò fu un liberismo autoritario. La politica dello Stato dei salvataggi (in particolare quello del Banco di Roma che fu molto costoso alle casse dello Stato) sembra sfociare in un liberismo neomanchesteriano per avvalorare la tesi della continuità con la precedente politica economica.

Gli obiettivi del programma di De' Stefani erano:

colmare il disavanzo pubblico;



conseguire un indirizzo economico "produttivistico" che assicurasse un più largo spazio all'imprenditorialità privata;

rendere disponibile una quota maggiore del risparmio nazionale per gli investimenti privati.

L'azione di De' Stefani volta al risanamento della finanza pubblica ebbe molto successo, tanto da arrivare al pareggio del bilancio nell'esercizio 1924 - 25.

De' Stefani, per arrivare a ciò, fece numerose operazioni, tra cui:

- abrogazione della legge giolittiana sulla nominatività delle azioni;

- abolizione di alcune imposte (sui sovrapprofitti di guerra, sui proventi di amministratori e dirigenti di società commerciali, sulla successione del nucleo familiare);

- attenuazione dell'imposta sul patrimonio;

- riduzione delle aliquote sui fabbricati.

In pratica De' Stefani mirò a liquidare il carico fiscale straordinario (legato alle bardature di guerra) e a consolidare il gettito ordinario; da ciò ne derivò un alleggerimento per imprese e ceti proprietari. Però De' Stefani aumentò il prelievo diretto a carico dei ceti popolari tramite:

- l'istituzione dell'imposta di ricchezza mobile sui salari degli operai;

- l'imposta sui redditi agricoli che andò a colpire anche i contadini non proprietari.

Questi provvedimenti furono accompagnati da una diminuzione delle aliquote, volta a sgravare principalmente le categorie sociali aventi redditi elevati che potevano effettuare degli investimenti.

Infatti tra il 1922 ed il 1925 il rapporto tra imposte dirette ed indirette era sceso dallo 0,94 allo 0,72.

In definitiva il criterio di far pagar meno ma tutti si risolse con una regressività del sistema tributario in coerenza con l'obiettivo di far accumulare i capitali.

A determinare il risanamento del bilancio furono i drastici tagli operati alla spesa pubblica, in particolare a quella militare, della amministrazione postale e ferroviaria; ciò provocò:

- il licenziamento di migliaia di impiegati non di ruolo;

- l'apertura delle assicurazioni sulla vita ai privati (abolendo il monopolio dello Stato);

- la cessione ai privati della rete telefonica urbana, mentre la gestione fu affidata ad enti appositamente istituiti.

Il quadriennio 22 - 25 si connotò per un evidente rilancio (crescita) dell'economia: infatti il PIL del 1921 era pari a 101.092 milioni di lire, nel 1924 il PIL era cresciuto a 124.142 milioni con una crescita annua pari al 5,3%. Ciò potè avvenire grazie:

- alla riconversione delle industrie;

- alla ripresa delle esportazioni;

- al lieve alleggerimento della pressione fiscale.

Però ci furono dei limiti a questa ripresa: infatti nonostante il notevole dinamismo delle esportazioni, la bilancia dei pagamenti vide aggravare sempre di più la sua posizione deficitaria per la forte e crescente espansione delle importazioni (soprattutto cerealicole).

L'aumentata domanda, specie di beni di investimento, determinò un sensibile aumento della circolazione della moneta, dando vita all'inflazione che nel 1925 era giunta a 15% spingendo il cambio tra lira/sterlina a quota 130 e lira/dollaro a quota 27.

Quindi la politica di De' Stefani in campo monetario è da considerarsi deludente; per correre ai ripari egli attuò dei provvedimenti mirati ad un più rigoroso controllo del mercato finanziario, a bloccare la speculazione di borsa e a limitare il credito. Il tasso di sconto che dal 5% venne portato al 7%, rimase immutato fi 919b15j no al 1927, anno in cui venne attuata la manovra di stabilizzazione monetaria. Seguirono un crack borsistico e fallimenti di imprese che suscitarono molte critiche da parte degli ambienti culturali contro il ministro.

Mussolini, allora, nel luglio del 1925, sostituì De' Stefani con il finanziere Giuseppe Volpi. Il nuovo ministro tenne per 3 anni la carica e con il suo ingresso al dicastero delle Finanze, Mussolini ottenne l'appoggio dell'establishment industriale.



La battaglia della lira e la quota 90

Nel 1925 il problema principale della politica economica era quello di bloccare l'inflazione e di stabilizzare il cambio della lira che si era svalutata in seguito alla condizione deficitaria della bilancia dei pagamenti. Al fine di limitare gli esborsi di valuta, Volpi reintrodusse i dazi cerealicoli dando vita alla cosiddetta battaglia del grano in quanto le importazioni granarie incidevano in proporzioni considerate insostenibili sulle passività della bilancia commerciale.

Prima della stabilizzazione della lira era necessaria la sistemazione dei debiti di guerra e la normalizzazione delle relazioni finanziarie con i Paesi creditori: gli USA vincolavano alla soluzione di questa questione, l'apertura di linee di credito, che costituivano la precondizione per la stessa stabilizzazione monetaria e per l'ingresso dell'Italia nel Gold Standard.

Le trattative, non facili, con il segretario americano al Tesoro, Mellon, sul pagamento del debito di guerra (che ammontava a 2.138.000.000 di dollari, di cui 23% di interessi) si conclusero nel novembre 1925 con un accordo che la stampa americana dichiarò più favorevole all'Italia. Durante il negoziato la delegazione italiana guidata da Volpi, di cui faceva parte anche l'inustriale Giovanni Battista Pirelli, sottolineò i pesanti sacrifici economici ed umani sofferti durante il conflitto, la modesta quota per le riparazioni assegnata all'Italia (solo il 10% contro il 52% della Francia ed il 22% della Gran Bretagna) ed il carattere costantemente passivo della bilancia commerciale specie nei confronti degli USA.

Si ottenne una dilazione di 62 anni al pagamento del debito e soprattutto, di pagare per i primi 5, anni quote simboliche aumentando poi i versamenti lentamente. Per quanto riguarda il tasso di interesse esso fu quasi irrisorio. In pratica gli americani rinunciarono al circa l'80% del proprio credito.

Sull'onda del successo Volpi riuscì ad ottenere dalla Banca Morgan un prestito di 100 milioni di dollari spianando la strada ad ulteriori operazioni di finanziamento all'Italia.

Si accelerarono anche i tempi per definire il contenzioso dei debiti di guerra con la Gran Bretagna. Volpi siglò un ottimo accordo con Churchill dove si ottenne una riduzione dell'85% del debito e delle condizioni vantaggiose per il pagamento.

Queste trattative costituirono un indubbio successo per il governo italiano.

In base al piano Dawes (1924) l'Italia ottenne sia dalla Germania che dall'Austria le riparazioni dei danni di guerra che permisero di compensare la rete di ammortamento dei debiti la quale amministrazione fu affidata alla Cassa di ammortamento costituita nel 1926. Essa cessò di funzionare nel 1932 poiché nel 1931 ci fu una moratoria internazionale che mise fine al pagamento dei debiti di guerra.

Va puntualizzato che le trattative concluse con gli USA e la Gran Bretagna determinarono una notevole contrazione del debito pubblico che, successivamente agli accordi, era costituito solo da quello interno, diminuendo dal 117% al 57% del reddito nazionale.

Dopo la sistemazione del debito estero le tensioni inflazionistiche e la speculazione al ribasso della lira che nel giro di pochi mesi (da maggio ad agosto del 1926) si svalutò del 17 - 18% rispetto alla sterlina e al dollaro.

Le quotazioni della lira arrivarono al minimo con un cambio di 153,68 con la sterlina e 31,60 con il dollaro.

Fu avviata, perciò, una politica deflazionistica volta alla stabilizzazione monetaria.

Nel famoso discorso di Pesaro del 18 agosto 1926 Mussolini, con il timore di perdere la propria reputazione se non fosse riuscito in quella che lui chiamò la battaglia della lira, si pronunciò per una discreta rivalutazione della moneta a quota 90 rispetto alla sterlina (90 era la quota raggiunta dalla lira con il cambio in sterline all'indomani della marcia su Roma).

Gli americani, in realtà, non esercitarono alcuna pressione per una rivalutazione della lira; infatti essi desideravano stabilizzarla ad un valore facilmente sostenibile.

Lo stesso ministro Volpi e vari economisti consigliarono di stabilizzare il cambio con la sterlina a 120.

Ciò che portò a Mussolini a fare di più furono considerazioni di prestigio interno ed internazionale:

1. la volontà di rafforzare il sostegno al regime da parte della piccola borghesia che avrebbe visto i suoi risparmi rivalutarsi;

2. L'esigenza di rendere meno costose le importazioni di materie prime;

3. La necessità di far affluire capitali stranieri in Italia.

Per conseguire l'obbiettivo occorreva:

- un riordino strutturale dell'economia;

- completare il risanamento della finanza pubblica;

- riformare il sistema di emissione.

Per quanto riguarda il sistema di emissione, fu attribuito nel 1926 il monopolio dell'emissione alla Banca d'Italia che assunse quindi il controllo della moneta e del credito potendo regolamentare il sistema economico.

Un altro gravoso problema, e l'avviata soluzione ad esso, è rappresentato dalla crescente massa di titoli di debito a breve termine. A questo proposito, tra il 1925 ed il 1926 le richieste di rimborso furono talmente alte che il ministero del Tesoro fu costretto a chiedere alla Banca d'Italia ingenti somme come anticipo che gonfiarono notevolmente la circolazione di moneta creando così inflazione. Per arginare tale situazione fu creata la conversione di 20 miliardi di debito fluttuante in cartelle di prestito consolidato denominato Littorio.

L'effetto di questa manovra era dato dal fatto che il debito fluttuante scese da più del 30% a meno del 7%. A tutto ciò occorre aggiungere le aspettative della rivalutazione che fece ridurre la velocità di circolazione di moneta facendo spingere i prezzi ad un continuo ribasso e nella primavera del '27 la lira raggiunse la cosiddetta Quota 90 con il cambio con la sterlina. La lira così fece il suo ingresso nel Gold Standard. La Quota 90 non fu una semplice stabilizzazione della moneta ma una effettiva rivalutazione. I contraccolpi della politica deflazionistica gravarono sull'economia. In particolare il 1927 e metà del 1928 furono gli anni di recessione nella quale:

- i salari si ridussero in quanto vennero introdotte altre 2 imposte che andavano a decurtare i salari ciascuna del 10%;

- la produzione industriale diminuì del 4%;

- il numero dei disoccupati tra il 1927 ed il 1928 triplicò;

- la domanda interna subì una notevole contrazione.

Sul piano finanziario, però, la rivalutazione della lira ha facilitato l'ingresso di capitali stranieri nel paese e stimolò la formazione del risparmio interno. Di ciò ne beneficiarono le grandi imprese.

In definitiva per sostenere una ripresa economica lo Stato passò da una politica liberista ad una interventista. Il '28 ed il '29 furono gli anni della ripresa economica che precedette la grande depressione del 1930.



La battaglia del grano e la bonifica integrale

Un significativo mutamento avvenne nell'assetto proprietario delle campagne italiane negli anni successivi alla 1° Guerra Mondiale.

La diffusione della piccola proprietà fu resa possibile grazie ai risparmi dei contadini accumulati negli anni di guerra e di dopoguerra fino al 1926.

Al Nord il trasferimento delle terre fu agevolato grazie alla disponibilità dei medi e grandi proprietari terrieri assenteisti che non consideravano né remunerativo né sicuro l'investimento in beni fondiari.

I contadini, che si erano indebitati per l'acquisto delle terre, nel periodo di forte inflazione si trovarono in grave disagio, in quanto subentrata la politica deflazionistica, essi videro i loro debiti consolidarsi e i loro redditi ridursi; così a partire dal 1926 i contadini furono costretti a vendere i terreni precedentemente acquistati.

Bisogna dire, però, che la politica economica privilegiava le grandi imprese industriali quindi, a partire dalla crisi deflazionistica, gli agricoltori vennero a trovarsi penalizzati in quanto il divario tra prezzi dei prodotti venduti e quelli acquistati si accentuò (a partire dal 1930).

Ad influire su tale andamento furono i costi troppo elevati di macchinari e fertilizzanti (monopolio della Montecatini).

L'effetto più evidente fu il forte rallentamento del processo di meccanizzazione e di modernizzazione delle campagne. Considerando che il 15% del valore medio delle importazioni era costituito dall'acquisto di prodotti cerealicoli, nel 1925 venne reintrodotto dal ministro Volpi il dazio sul grano.

La politica a sostegno dei prezzi fu uno dei principali strumenti di attuazione della battaglia del grano che prevedeva l'aumento della produzione cerealicola nazionale.

Questa politica intendeva anche fronteggiare l'aggravamento del problema della rivalutazione della lira che avrebbe facilitato le importazioni agrarie.

A tal proposito fu istituito un Comitato permanente del grano con il compito di individuare i mezzi che dovevano favorire la produzione cerealicola.

Il regime motivò la crescita della produzione di grano non solo per la necessità di ridurre gli esborsi finanziari ma anche per essere autosufficienti in caso di guerra ovvero ragioni di nazionalismo economico; inoltre si deliberarono dei provvedimenti di premi e assistenza finanziaria per gli agricoltori che effettuavano produzioni cerealicole.

I risultati furono abbastanza soddisfacenti nel medio periodo:

° le importazioni di frumento si mantennero fino al 1928 a livelli elevati però a partire dal 1929 si registrò una diminuzione;

° la superficie coltivata a grano aumentò (soltanto nel Mezzogiorno aumentò del 15%);

° la resa media del frumento per ettaro era del 20% grazie all'utilizzo di concimi chimici e ad una intensificata meccanizzazione agricola.

La battaglia del grano rappresentò un freno allo sviluppo capitalistico delle campagne in quanto ai costi relativi alle mancate produzioni alternative occorre aggiungere il fatto che il prezzo del grano sul mercato italiano era più elevato (a causa dei costi per il suo sostegno nel mercato) di quello del mercato mondiale.

Anche se i raccolti subivano da un anno all'altro delle oscillazioni, a causa dei cambiamenti climatici, l'aumento medio dei raccolti fece diminuire le importazioni (a partire dal 1929).

Con l'approvazione del Testo Unico sulle bonifiche nacque la bonifica integrale come scienza della pianificazione territoriale in cui alle tradizionali opere di prosciugamento si aggiungevano la sistemazione idraulica, la costruzione di canali d'irrigazione, acquedotti, strade, insediamenti abitativi e la lotta alla malaria.

Questa legge fu il frutto di un gruppo di qualificati economisti agrari tra cui Arrigo Serpieri che era il sottosegretario all'Agricoltura. La legge elevava al 70% la quota del contributo statale per le opere realizzate nel Mezzogiorno facendo scatenare la reazione dei proprietari terrieri, che avevano il timore di perdere le proprietà. Questa reazione indusse il governo ad apportare delle modifiche alla legge.

Successivamente, però, gli interventi di bonifica vennero rilanciati dal regime e a tal proposito ricordiamo la legge Mussolini del 24 dicembre 1928.

La bonifica integrale si risolse in un vasto programma di lavori pubblici effettuati in buona parte entro il 1934. Quando, però, si pose il problema del passaggio alle trasformazioni agrarie (di competenza privata) i proprietari terrieri e gli imprenditori si tirarono indietro facendo arenare molti progetti di completamento.

Nel 1934 Serpieri venne rimosso da sottosegretario alla bonifica poiché aveva nuovamente presentato un disegno di legge che provocava l'espropriazione dei terreni ai proprietari assenteisti.

Da quel momento, a causa delle fortissime resistenze socio - economiche e culturali, le bonifiche fecero registrare una fase di rallentamento. Sul piano sanitario, però, la bonifica ha effettuato una drastica riduzione della malaria.

La crisi degli anni '30 segnò un generale impoverimento dei piccoli affittuari mentre molti contadini dovettero rivendere, almeno in parte, i terreni in precedenza acquistati. Questi disagi si accentuarono in concomitanza con l'incremento della popolazione e la chiusura totale delle frontiere. Il regime, infatti, attuò una politica tesa a scoraggiare l'emigrazione ed a incentivare la crescita economica anche attraverso lo slogan "il numero è potenza".

L'effetto di questa strategia fu un intensificato movimento migratorio interno che si risolse in una diminuzione della popolazione delle campagne ed in una lievitazione di quella urbana (specie in città industrializzate e a Roma).



Il corporativismo

Nel corso del 1925 il fascismo pose fine al pluralismo sindacale e stroncò le ultime forme di resistenza operaia nelle fabbriche. Con il patto di Palazzo Vidoni, la Confederazione dei Sindacati e la Confindustria si riconoscevano rappresentanti esclusivi dei lavoratori e degli industriali: ciò portò alla cessazione della libertà sindacale.

Il Gran Consiglio del fascismo stabilì che il fenomeno doveva essere controllato ed inquadrato dallo Stato, il quale assunse un ruolo dominante nel configurare un nuovo assetto sociale. Questo intervento è stato valutato come la forma più originale di politica economica del regime.

Con la legge Rocco del 1926 lo Stato riconobbe ai sindacati fascisti il monopolio della rappresentanza professionale di ogni categoria ed i contratti da essi stipulati avevano obbligatorietà per tutti, anche per i non iscritti.

Questa normativa mirava:

- ad armonizzare l'interesse individuale con quello supremo della nazione;

- non si riteneva più ammissibile la lotta di classe;

- vennero dichiarati illegali lo sciopero e la serrata;

- venne istituita la Magistratura del lavoro operaio con lo scopo di dirimere eventuali controversie tra imprenditori ed operai.

La legge Rocco consentì alle imprese di controllare il costo del lavoro e al regime di manovrare il livello dei salari in funzione della stabilizzazione monetaria.

In questo nuovo scenario si intensificarono le pressioni sui lavoratori perché s'iscrivessero ai sindacati fascisti in cambio del lavoro.

Ad un anno di distanza (1927), fu emanata la Carta del lavoro, considerata il manifesto dello Stato corporativo che riguardava: lo Stato corporativo, il contratto collettivo di lavoro, gli uffici di collocamento, la previdenza, l'assistenza, l'educazione e l'istruzione. Essa definiva il lavoro un dovere sociale che veniva tutelato dallo Stato. Gli obiettivi della produzione si riassumevano nel benessere dei singoli e nello sviluppo della potenza nazionale. Con questa frase si affermava che la vita economica veniva a dipendere dallo Stato totalitario.

Le corporazioni erano indicate dalla Carta del lavoro come rappresentanza integrale degli interessi della produzione nazionale ed esercitavano funzioni di conciliazione, di coordinamento e di organizzazione della produzione.

Per quanto riguarda gli uffici di collocamento, questi vennero sottratti all'esercizio dei privati e resi pubblici la quale gestione venne affidata ai sindacati fascisti sotto la sorveglianza del ministero delle Corporazioni (istituito nel 1926) con a capo Giuseppe Bottai che non mancò a degli scontri ideologici con Edmondo Rossoni (leader sindacalista).

Per diversi anni le corporazioni rimasero sulla carta; infatti esse furono istituite con legge solo nel 1934. Ogni corporazione era presieduta dal ministro delle Corporazioni che nel 1932 divenne lo stesso Mussolini. Gli obiettivi delle corporazioni erano la pace e la giustizia sociale, ma al tempo stesso la potenza della nazione.

Di fatto, però, le corporazioni erano luoghi di dibattito e ratifica di decisioni prese in altri luoghi. Di esse si fece un gran parlare per tutta la durata del fascismo poiché fu l'unico argomento della quale si poteva discutere liberamente.

Il corporativismo, quindi, fu una delle modalità in cui si esplicò lo stato interventista italiano che a partire dagli anni Trenta andò accentuandosi sempre più.

Va puntualizzato però che non è rinvenibile un'unica ideologia fascista sul corporativismo, ma anzi si diffusero molteplici concezioni: 4 ne individuò Renzo De Felice:

la prima posizione fu quella riduttiva di chi vedeva nel nuovo sistema solo uno strumento giuridico utile a regolamentare i rapporti di lavoro;

la seconda posizione (la più accolta specie da tecnici e studiosi) indicava nel corporativismo la via per la modernizzazione. Si affermava, infatti, la concezione sociale della proprietà e l'intervento programmatore dello Stato nella produzione, oltre che nella distribuzione della ricchezza;

la terza posizione (quella riconducibile al filosofo Ugo Spirito) auspicava la formazione della proprietà corporativa che avrebbe ricomposto i contrasti con la vigente economia dualistica attraverso l'immedesimazione della vita individuale con quella statale;

la quarta posizione era quella formulata dai sindacalisti che si opponevano ad una corporazione onnicomprensiva: l'ordinamento corporativo avrebbe dovuto facilitare l'inserimento delle organizzazioni sindacali nella direzione economica del Paese.

Quindi il fascismo non poteva vantarsi né di aver inventato l'idea corporativa, né di presumere di esaurire nella realizzazione di quest'idea ogni forma di corporativismo.

Con la legge del gennaio 1939 venne riordinato il Consiglio nazionale delle corporazioni per renderlo idoneo a partecipare all'attività legislativa

Esso risultò formato dai membri effettivi dei 22 consigli corporativi e da un comitato corporativo centrale. Questi membri insieme agli esponenti del Consiglio nazionale del Pnf costituirono la Camera dei Fasci e delle Corporazioni che venne a sostituire la Camera dei Deputati.

La Camera dei Fasci rappresentò un radicale sovvertimento all'antico sistema di rappresentanza politica e della stessa Costituzione dello Stato.

Sul piano della legislazione previdenziale e della politica assistenziale il regime attuò la propria azione a partire dagli anni Trenta:

- già nel 1919 erano state rese obbligatorie l'assicurazione pensionistica, affidata alla Cassa nazionale per le assicurazioni sociali (CNAS), e l'assicurazione contro la disoccupazione; con l'avvento del fascismo la CNAS venne trasformata nel 1933 nell'Istituto nazionale fascista della previdenza sociale (INFPS);

- nel 1933 si diede vita all'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) che unificò la gestione antinfortunistica;

- nel 1943, in ambito sanitario, venne creato l'istituto nazionale per l'assistenza di malattia (INAM);

- nel 1925, sul piano assistenziale, venne fondata l'Opera nazionale maternità ed infanzia (ONMI), che erogava servizi assistenziali, sanitari ed educativi a donne e bambini.

- sempre sul piano sociale venne creato il Patronato per l'assistenza sociale (PNAS) che aiutava gratuitamente i lavoratori, anche quelli non iscritti ai sindacati, in ambito tecnico - legale.



La crisi del 1929

Nel 1929 si vide interrompere il trend espansivo che aveva contraddistinto in precedenza le principali economie nazionali. Ebbe inizio la grande crisi, caratterizzata dalla caduta dei prezzi e dalla drastica diminuzione degli scambi internazionali.

La crisi generò un diffuso sentimento di sfiducia nei confronti del sistema capitalistico. In realtà per l'intero 1929 e per parte del 1930 l'economia mondiale fu investita dalla più grande depressione della sua storia.

La crisi ebbe la sua origine negli Stati Uniti, dove fece registrare l'impatto più forte. La potenza americana, ritirando i capitali già dal 1928, inflisse il primo duro colpo all'economia mondiale con effetti destabilizzanti per molti paesi dell'Europa centro - orientale. La Germania fu il paese europeo che soffrì maggiormente di questa crisi, in quanto non poteva rinunciare ai finanziamenti esteri per rilanciare la propria economia.

Un secondo colpo fu inferto dagli Stati Uniti nell'estate del 1929. Si trattava di un rallentamento alla frenetica espansione che coinvolgeva molti settori trainanti, tra cui: edilizia e beni di consumo durevoli.

Il 24 ottobre 1929, chiamato dagli americani il giovedì nero, un'ondata di vendite in borsa fece crollare le quotazioni dei titoli. Il collasso del mercato azionario non fu la causa della grande depressione in quanto quest'ultima era già in atto prima del crollo della borsa.

La rilevante contrazione dei prestiti americani a breve termine fu determinata dall'ascesa del mercato azionario statunitense. La speculazione non solo fece rientrare cospicui capitali precedentemente investiti all'estero, ma indusse anche la classe media americana a ricorrere al credito bancario per finanziare l'acquisto di azioni che promettevano rapidi guadagni.

I governi dei Paesi, costretti a sopportare una forte caduta degli investimenti a seguito del deflusso dei prestiti esteri, dovettero energicamente intervenire sul piano fiscale e commerciale se volevano continuare a rimanere nel regime del Gold Standard.

Alla caduta della domanda globale si rispose con la svalutazione delle monete, un sempre più accentuato protezionismo, il controllo dei cambi e dei movimenti dei capitali.

Vi è invece una maggiore concordanza di opinioni sulle ragioni della gravità della crisi e sul perché si è protratta così a lungo nel tempo; queste opinioni sono riconducibili principalmente alle posizioni assunte dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti.

La Gran Bretagna non fu più in grado di svolgere il ruolo di Paese guida esercitato nell'anteguerra sul piano finanziario, commerciale e come stabilizzatrice dell'economia mondiale e per quanto riguarda gli Stati Uniti, essi furono restii ad assumere l'eredità della Gran Bretagna.

La conferenza di Londra del 1933 rappresentò l'estremo tentativo i trovare una comune via d'uscita alla crisi: essa però fallì, evidenziando l'assoluta mancanza di volontà collaborativa da parte della maggiore potenza creditrice mondiale (USA) in grado di sostituire la Gran Bretagna.

I meccanismi di difesa adottati dai singoli Stati non fecero che produrre degli effetti negativi:

- appesantire la bilancia dei pagamenti;

- ridurre gli scambi;

- far precipitare il livello delle attività produttive.

Le difficoltà dei debitori europei si sarebbero probabilmente potute alleviare con una politica commerciale ispirata a criteri liberistici. Ma ciò non si verificò, anzi, con la tariffa Smoot - Hawley del 1930, gli Stati Uniti applicarono uno dei più elevati aumenti dei dazi sulle importazioni nella storia del commercio internazionale. Questo provvedimento protezionistico non fece che aggravare la crisi, rendendo ancora più difficile ai Paesi debitori esportare le loro merci in America per procurarsi la valuta necessaria a restituire i prestiti.

Il commercio estero risentì della crisi addirittura più del sistema produttivo infatti il commercio estero intraeuropeo si ridusse negli anni tra il 1929 ed il 1932 del 40%. Gran Bretagna e Francia ovviarono in parte a queste difficoltà operando nell'ambito di aree economiche privilegiate, con l'accordo di Ottawa del 1932 che creò il sistema della preferenza imperiale. In questo contesto si diffusero gli accordi di clearing, ossia accordi di compensazione bilaterale che comportavano lo scambio diretto di merci di pari valore e comunque si riduceva al minimo il ricorso ai saldi in oro o in valuta estera.

Con l'eccezione dell'Unione Sovietica, tutti i Paesi subirono un rilevante calo del Pil, ma soprattutto una diminuzione della produzione industriale. La crisi colpì più duramente i Paesi a prevalente economia agricola,poiché i prezzi dei prodotti agricoli e alimentari subirono contrazioni maggiori di quelli industriali.

Sul piano sociale l'aspetto più rilevante è dato dagli elevati livelli di disoccupazione registrati in tutti i Paesi: in Germania la disoccupazione triplicò estendendosi a 6 milioni di lavoratori nel periodo tra il 1929 ed il 1932. Per l'Europa nel suo complesso è stata indicata una disoccupazione totale pari a 15 milioni di lavoratori.

Nella seconda metà del 1930 ed il 1931 la situazione economica si deteriorò costantemente ovunque. La crisi finanziaria va imputata principalmente all'incapacità dei Paesi creditori di fornire i mezzi finanziari per fronteggiare gli effetti della crisi.

Si continuò per tutto il 1930 a ritirare i capitali dall'Europa da parte dei creditori americani, in un periodo in cui le banche erano eccessivamente esposte verso le industrie in difficoltà. Da questa situazione si generarono una serie di fallimenti in cui si trovarono coinvolti numerosi istituti di credito.

La crisi finanziaria mandò in frantumi il sistema dei cambi fissi, anche per la tendenza delle banche centrali a privilegiare come riserva l'oro, rispetto alle ex valute forti, con la conseguente fine del Gold Standard. A tal proposito si ricorda che nel settembre 1931 la Gran Bretagna fu costretta ad uscire dal Gold Standard provocando la svalutazione della sterlina di circa il 40% e facilitando l'adozione di una politica monetaria di reflazione volta a contrastare la crisi; questa manovra ebbe effetti negativi per i Paesi che collocavano i prodotti sul mercato inglese.

Nel 1933 anche gli Stati Uniti abbandonarono il Gold Standard e nel gennaio del 1934 si rilevava una continua svalutazione anche del dollaro (41%).

Il sistema monetario internazionale fu sostituito da sistemi regionali che riflettevano legami commerciali e politici; quindi si crearono 4 diverse aree: l'area della sterlina, l'area del dollaro, l'area dell'oro (alla quale appartenevano i Paesi che erano ancora rimasti nel Gold Standard) e l'area del Reichsmark (alla quale appartenevano i Paesi dell'Europa centro - orientale, dominati dalla Germania).

Con la crisi si giunse anche alla conclusione dei contrasti relativi ai pagamenti dei danni di guerra: il Piano Yung (che subentrò all'inizio del 1930 al Piano Daws) alleggeriva di due terzi gli oneri per le riparazioni ancora dovuti dalla Germania; questo Piano venne sospeso quasi subito in quanto la Germania non era più in grado di onorare gli impegni. Il presidente americano Hoover accordò ai tedeschi una moratoria di un anno che però alla fine del 1932 divenne definitiva e fu accompagnata dalla cancellazione dei debiti.

In quell'anno l'economia raggiunse il punto più basso. L'agricoltura subì un crollo pesantissimo dei prezzi, più che della produzione fisica, mentre il settore industriale fu interessato da una notevole caduta di entrambi.

L'inizio di una ripresa si manifestò a partire dal 1933. È da notare che in tutto il periodo della crisi l'Unione Sovietica fece registrare un enorme incremento della produzione industriale.


Le ripercussioni in Italia e i primi interventi pubblici

La crisi mondiale del 1929 colpì con qualche ritardo anche il sistema industriale italiano a causa degli effetti della politica deflazionistica. Nel 1930 si registrò una caduta del Pil stimata attorno al 6%.

L'agricoltura si trovò particolarmente esposta alla drastica caduta dei prezzi già all'indomani del crollo di Wall Street: tra il 1929 ed il 1932 l'indice dei prezzi della produzione agricola cadde da 100 a 53. In quel medesimo periodo, la produzione cerealicola registrò un costante aumento che comunque non fu in grado di colmare del tutto il fabbisogno interno.

Le difficoltà dei produttori agricoli dei primi anni '30 derivarono dal restringersi degli sbocchi sui mercati esteri e dal crescente divario tra i prezzi dei prodotti messi in vendita e quelli dei prodotti acquistati per necessità aziendali che erano rimasti più elevati. In generale i livelli produttivi non diminuirono. Non mancarono però significative eccezioni come la pesante contrazione della produzione della sericoltura che risentì della concorrenza giapponese. Una qualche soluzione alle difficoltà del mercato venne ricercata nella compressione delle retribuzioni della manodopera, infatti, nel 1934 i salari agricoli risultavano diminuiti rispetto al 1928 del 30 - 50%.

Per quanto riguarda la produzione industriale, essa diminuì del 20% a causa della caduta della domanda estera e dei consumi interni. Già nel dicembre del 1929 per soccorrere la Fiat, che fu messa in difficoltà dalla concorrenza americana, furono innalzati i dazi d'entrata sulle automobili; quindi, il regime deliberò l'estromissione della Ford dal mercato italiano a tutto vantaggio del gruppo torinese, che copriva l'80% della produzione nazionale di auto e veicoli industriali.

Nel tentativo di frenare la caduta dei prezzi attraverso accordi consortili fu approvata del 1932 una legge sui consorzi industriali obbligatori.

La fissazione oligopolistica dei prezzi e la limitazione dell'offerta consentirono di frenare la caduta dei profitti. Questo provvedimento rappresentò una svolta in direzione di un più diretto intervento dello Stato nella politica industriale.

A far uso di intese consortili furono i comparti di: chimica (in cui la Montecatini deteneva una posizione di supremazia), meccanica, cemento e fibre tessili artificiali.

Al 1933 risale anche la legge sull'autorizzazione ministeriale per l'impianto e l'ampliamento di stabilimenti industriali, finalizzata a regolare l'afflusso di risorse finanziarie al settore industriale in una fase di profonda ristrutturazione. Il provvedimento si tradusse in un consolidamento delle posizioni oligopolistiche e in una limitazione della concorrenza.

L'apposizione di questi limiti alla libertà d'impresa ridusse ulteriormente le possibilità di ammodernamento.

Anche l'Italia fin dall'autunno del 1929 dovette subire il deflusso dei capitali americani a cui aveva fatto largamente ricorso anche per sostenere la rivalutazione della lira. A partire dal 1930 si moltiplicarono insolvenze e fallimenti generando una crescita della disoccupazione.

Il processo di adattamento alle più difficili condizioni del mercato avvenne anche ricorrendo ad un aumento del carico di lavoro individuale e ad una riduzione del personale. Il problema dell'incremento della produttività fu affrontato con l'aumento della forza lavoro e non con un ammodernamento delle tecnologie.

Fu il comparto tessile a risentire più pesantemente di altri la diminuzione della domanda interna e della marcata diminuzione delle vendite dell'estero. Questo comparto costituisce il più vasto serbatoio di assorbimento di manodopera, la sua crisi fece lievitare la massa dei disoccupati, che salirono complessivamente nel 1932 alla cifra si 1,2 milioni di lavoratori.

La recessione internazionale ostacolò la possibilità di riversare all'estero la manodopera rimasta senza impiego.

Il commercio d'esportazione fu duramente penalizzato, malgrado la concessione di crediti agevolati e premi agli esportatori e nonostante l'attivazione dei meccanismi di drawback, ovvero la restituzione ai produttori dei dazi pagati sulle materie prime.

Nel 1934 la lira era apprezzata a livello internazionale tanto che il cambio con la sterlina era arrivata a quota 59 e con il dollaro a 12.

In questo contesto, per contenere il deficit della bilancia commerciale, fu decretato nel settembre 1931 un sovradazio del 15% sulla generalità delle merci. Tra il 1930 ed il 1934 le importazioni scesero, ma anche le esportazioni si ridussero quasi nelle stesse proporzioni.

La bilancia commerciale rimase costantemente passiva, ma con disavanzi decrescenti. La ragione di questi miglioramenti dipese dalla notevole riduzione delle importazioni di grano e di derrate alimentari.

Il governo fascista tardò ad adottare particolari misure anticongiunturali continuando a privilegiare un indirizzo deflativo senza molti riscontri in Europa, basato:

- sul mantenimento della parità aurea della lira;

- sulla riduzione dei costi e la razionalizzazione della produzione;

- sul sostegno dei prezzi nel mercato interno;

- su un elevato protezionismo doganale.

Soltanto nel 1934 furono presi dei provvedimenti che mutarono la disciplina dei cambi, del commercio e delle modalità di pagamento di merci e servizi.



Lo Stato banchiere ed imprenditore

Il crack borsistico del 1925 e le difficoltà finanziarie delle imprese dopo la quota 90 ebbero degli effetti negativi sulla solidità di molte banche che si erano già indebolite dalle eccessive esposizioni per finanziare imprese assai indebitate, e con la crisi del 1929 molte di esse, se non tutte, si trovarono in gravissime condizioni finanziarie.

Il processo di ristrutturazione finanziaria del sistema bancario ebbe inizio già prima degli anni '30, con la creazione di diversi istituti di credito:

- l'Istituto di credito per le imprese di pubblica utilità (Icipu) nel 1924 e presieduto da Benedice;

- il Credito navale nel 1928;

- l'Istituto mobiliare italiano nel 1931.

Gli istituti Benedice avevano dei caratteri comuni:

° essere strumenti di un crescente intervento statale nell'economia;

° attingevano il capitale di fondazione dalla Cassa depositi e prestiti e dagli istituti pubblici assicurativi e previdenziali;

° emettevano sul mercato finanziario obbligazioni garantite dallo Stato.

Come conseguenza diretta della grande depressione si maturò nei primi anni '30 la crisi definitiva delle banche miste e si accelerò il processo di concentrazione bancaria già iniziato con i provvedimenti del 1926 - 1927.

Nel periodo compreso tra il 1930 ed il 1936 il numero delle banche si dimezzò a causa di assorbimenti e fusioni. Il risultato complessivo fu l'aumento delle dipendenze dei maggiori istituti, ma al tempo stesso la riduzione del 12% delle piazze bancabili.

La rivalutazione della lira aveva accresciuto la carenza di liquidità delle grandi banche, ma soprattutto fu la caduta della borsa di Wall Street a mettere in ginocchio il sistema creditizio italiano. La Banca d'Italia si era impegnata con cospicue sovvenzioni per fronteggiare la crisi di liquidità delle principali banche la cui causa era data dalle difficoltà di molte imprese da loro finanziate.

Si resero necessari ulteriori erogazioni da parte del Tesoro per effettuare il secondo ciclo dei salvataggi per evitare che l'intreccio tra banca ed industria provocasse effetti devastanti all'intero sistema economico nazionale.

Per ridare liquidità alle banche miste attraverso lo smobilizzo delle partecipazioni, si tentò di attuare l'operazione di cosmesi finanziaria: nel 1931 il Credit trasferì, a favore di due holding, la Società finanziaria italiana e la Società elettrofinanziaria, i pacchetti azionari delle imprese controllate; la Comit effettuò un analogo processo verso la Società di finanziamento industriale.

La Banca d'Italia, per lo smobilizzo del Credit e della Comit, s'impegnò, tramite il credito di ultima istanza, in un'azione onerosissima di sostegno. Occorreva fornire al sistema industriale un ente di finanziamento distinto dagli istituti bancari. A tal proposito, nel 1931, nacque l'Imi che erogava credito industriale a grandi imprese, nella forma di mutui a medio - lungo termine, con garanzia ipotecaria, rimborsabili entro 10 anni.

Nel 1932 la situazione delle 3 più grandi banche miste stava diventando sempre più drammatica, in quanto le banche si trovarono in una situazione di illiquidità, da cui ne risultavano danneggiate soprattutto le piccole e medie imprese, le quali, invece di ottenere i crediti richiesti, venivano pressate affinché queste effettuavano i rimborsi di prestiti precedentemente ricevuti.

Bisognava evitare ad ogni costo il crollo dell'intero sistema creditizio, che avrebbe esposto a grave rischio i depositi bancari, gettando sul lastrico i piccoli risparmiatori; con essi occorreva inoltre salvare la maggior parte possibile del patrimonio industriale.

Nel 1933 si giunse alla costituzione dell'Istituto per la ricostruzione industriale (Iri) ed attraverso esso lo Stato avrebbe messo a disposizione i capitali necessari a coprire le perdite, acquisendo i titoli e le proprietà industriali delle banche da risanare.

I capitali di primo funzionamento furono forniti dalla Banca d'Italia che a sua volta fu autorizzata a provvedere alle risorse finanziarie proprie attraverso l'emissione sul mercato di proprie obbligazioni. Alla banca mista subentrò quindi lo Stato che non si limitò alla semplice funzione di riparatore delle perdite bancarie, ma assunse il compito di garante di una politica di credito.

L'Iri aveva una duplice articolazione:

Sezione dei finanziamenti che esercitava il credito industriale a favore soprattutto delle piccole e medie imprese;

Sezione smobilizzi che esercitava le gestioni affidate all'Istituto di liquidazioni che fu sciolto;

Attraverso la Sezione smobilizzi, l'Iri acquisì la gestione delle banche miste e delle imprese da esse controllate. L'Iri, quindi, oltre alle 3 ex banche miste, diventate banche d'interesse nazionale, si trovò a gestire il 100% dell'industria siderurgica bellica e dell'estrazione del carbone, il 90% dei cantieri navali, l'80% delle società di navigazione e delle industrie meccaniche di locomotori, il 40% della siderurgia civile, il 30% dell'industria elettrica e quasi tutta la telefonia.

Vennero retrocesse ai privati: l'Italgas, la Bastogi e diverse società elettriche tra cui la Edison.

Altre acquisizioni bilanciarono le privatizzazioni effettuate, fino a quando nel 1937 l'Iri passò da ente temporaneo a ente permanente. Questa riforma istituzionale fu dovuta all'insufficienza di capitali privati in grado di acquistare le aziende risanate. In sostanza l'Iri divenne una holding, la più grande concentrazione industriale del Paese.

In definitiva l'istituto finì con l'assumere una fisionomia del tutto diversa da quella di partenza.

In Italia l'intervento pubblico acquisì negli anni '30 dimensioni più estese, rendendo lo Stato banchiere e imprenditore. L'eredità più significativa lasciata dalla grande depressione fu rappresentato dal rapporto tra banca ed impresa, in base al quale la grande impresa poteva ricorrere, oltre che al mercato mobiliare, anche agli istituti di credito di diritto pubblico.

Il controllo esclusivo del credito d'investimento e la gestione di una quota molto consistente del settore industriale da parte dello Stato non trovarono riscontro in nessun altro Paese dell'Europa occidentale. Ci si avviò così ad una vera e propria economia mista.

La vicenda dell'Iri ebbe il suo atto finale con la legge bancaria del 1936 che rappresentò il compimento del processo di separazione tra banca ed industria, distinguendo l'esercizio del credito ordinario (della quale si occuparono le banche di deposito) dall'esercizio del credito industriale (della quale si occuparono gli istituti speciali e di credito fondiario, edilizio e agrario).

La riforma del 1936 completò la legge bancaria del '26 nella quale la Banca d'Italia fu trasformata in un istituto di diritto pubblico di durata illimitata e di banca delle banche.

Sempre con la legge del 1936 la raccolta dei depositi e l'esercizio del credito furono dichiarati funzioni di interesse pubblico.





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