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Diritto Commerciale - "La delega agli amministratori ad aumentare il capitale sociale nelle s.r.l."

economia



Diritto Commerciale


"La delega agli amministratori ad aumentare il capitale   sociale nelle s.r.l.".

La disciplina della delega agli amministratori ad aumentare il C.S. nelle S.p.a. prevede, per il valido conferime 818h79i nto della stessa, il rispetto di due condizioni:

a)  che nell'atto costitutivo che la preveda (o nella successiva deliberazione dell'assemblea straordinaria modificativa dell'atto costitutivo) sia indicato l'ammontare massimo dell'aumento del C.S. che gli amministratori devono effettuare in una o più volte;



b)  che sia stabilita la durata massima della delega che non può eccedere i cinque anni.

Circa le modalità da osservarsi, da parte degli amministratori, nell'attuazione dell'aumento del C.S. è la stessa assemblea straordinaria dei soci che conferisce la delega a dover precisare le modalità poiché non può in nessun caso essere conferito agli amministratori il potere di modificare la composizione del C.S. Nel caso in cui, invece, nulla sia stato disposto a questo riguardo si deve propendere per un'interpretazione estensiva della disposizione dettata in tema di aumento gratuito del C.S. e conseguentemente sostenere che l'aumento del C.S. debba essere attuato offrendo in opzione agli azionisti azioni della stessa categoria di quelle già possedute.

La norma che, nelle s.p.a., prevede la possibilità del conferimento della delega agli amministratori di aumentare il C.S. non è richiamata per le s.r.l. Alla luce di ciò occorre stabilire la validità di una eventuale clausola statutaria che sancisca come regola generale, anche in una s.r.l., la possibilità che venga conferita delega agli amministratori ad aumentare il C.S. e che ciò possa avvenire per qualsiasi successivo aumento del C.S. Una siffatta clausola deve considerarsi a tutti gli effetti nulla in quanto viola il diritto soggettivo di ciascun socio di una s.r.l. di partecipare alle deliberazioni che modificano l'atto costitutivo e in secondo luogo perché verrebbe a modificare la ripartizione delle competenze fra i diversi organi societari che è inderogabilmente sancita dalla legge.

Il legislatore nel momento in cui non ha richiamato per le s.r.l. la norma che, nelle s.p.a., prevede la possibilità di conferire delega agli amministratori ad aumentare il C.S. ha inteso tutelare il diritto di ciascun socio di partecipare alla relativa deliberazione. Ciascun socio può, quindi, rinunciare esplicitamente allo stesso: la rinuncia, per avere efficacia erga-omnes deve provenire da tutti gli interessati. Di conseguenza valida deve ritenersi la deliberazione dell'assemblea in sede straordinaria dei soci di una s.r.l. con cui venga deciso, all'unanimità, di conferire delega agli amministratori ad attuare un determinato aumento del C.S.

Conclusione: esiste un diritto soggettivo del socio di partecipare alle deliberazioni con cui si intende modificare l'atto costitutivo (e tra queste rientra anche la decisione circa l'aumento del C.S.); che l'esercizio di questo diritto può essere dai soci delegato ad altri, e in particolare agli amministratori, ma ciò può avvenire o in virtù di una norma che lo preveda (come per l'art. 2443 per le s.p.a.) o con il consenso unanime di tutti gli interessati. Per cui la deliberazione con la quale l'assemblea in sede straordinaria dei soci decida, a maggioranza, di conferire delega agli amministratori ad aumentare il C.S. non è sicuramente presa in conformità della legge. Peraltro non si può dire che una tale deliberazione abbia un oggetto impossibile ex-art. 2379 proprio perché a quel risultato si poteva validamente pervenire anche se solo col consenso unanime. E' da ritenere pertanto che la stessa sia annullabile ai sensi del comma 2° dell'art. 2377.


"Delega agli amministratori e omologazione".

Procedimento di omologazione del tribunale: richiesto per l'autorizzazione alla iscrizione nel registro delle imprese:

a)  dell'atto costitutivo

b)  delle deliberazioni con cui si intende modificare l'atto costitutivo

c)  per l'emissione delle obbligazioni

Il controllo che il tribunale è chiamato ad effettuare è, per concorde opinione di dottrina e giurisprudenza, un controllo di "mera legalità". La procedura si chiude con un decreto con il quale il tribunale può solo autorizzare o negare l'iscrizione dell'atto nel registro delle imprese

Avverso la decisione del tribunale è possibile proporre reclamo dinanzi alla corte d'appello da parte del notaio che ha rogato l'atto, degli amministratori o del pubblico ministero.

La decisione della corte d'appello non è impugnabile dinanzi alla corte di cassazione.

Abbiamo detto sopra che il controllo che il tribunale è chiamato ad effettuare in sede di omologazione deve essere ed è un controllo di "mera legalità" e non di merito. Diventa, peraltro, difficile in determinate situazioni stabilire l'esatto confine fra controllo di legalità e controllo di merito. Ad es. nel caso in cui il C.S. con il quale una società si costituisce si rivela palesemente insufficiente rispetto all'entità degli investimenti richiesti dal tipo di attività esercitata; oppure nel caso della riduzione del C.S. per esuberanza. Ebbene si ritiene, in queste due fattispecie e in generale, che non è in nessun caso possibile esorbitare dai limiti di un controllo di mera legalità.

Ci si chiede ancora se il controllo del tribunale debba limitarsi ai soli requisiti formali o estrinseci dell'atto ovvero debba riguardare anche il suo contenuto e, in quest'ultimo caso, se il tribunale possa rifiutare l'iscrizione adducendo una qualsiasi violazione di legge.

Considerato che la "ratio" della disciplina dell'omologazione è quella di tutelare i terzi che entrano in rapporto con la società, tenendo presente che nelle società di capitali la consistenza e l'integrità del C.S. costituiscono la sola garanzia di puntuale adempimento delle obbligazioni che la società è in grado di offrire ai terzi, se ne deve di conseguenza dedurre che il controllo del tribunale non può essere solo formale ed estrinseco (e quindi limitato alla sola verifica dell'adempimento delle condizioni richieste dalla legge per la valida costituzione della società) ma deve riguardare anche il contenuto dell'atto.

(N.B.: contenuto dell'atto merito dell'atto).

Una volta chiarito che il sindacato del tribunale debba riguardare anche il contenuto dell'atto occorre chiedersi se il tribunale possa e debba rilevare una qualsiasi violazione di legge. Una parte della dottrina sosteneva che se la violazione della norma imperativa fosse causa di nullità la stessa doveva essere rilevata dal tribunale, non lo stesso nel caso in cui detta violazione fosse causa di semplice annullabilità dell'atto.

Sennonché una tale conclusione non tiene conto della ratio della disciplina e in particolar modo degli interessi che il legislatore ha inteso tutelare, che sono, ancora una volta gli interessi dei terzi che entrano in rapporto con la società. Ebbene se il tribunale non rilevasse quei vizi dell'atto che sono causa di annullabilità dello stesso e questo venisse impugnato ai sensi del comma 2° dell'art. 2377 poiché manca una qualsiasi forma di pubblicità del suddetto giudizio di impugnazione può ben accadere che il terzo ne venga a conoscenza solo al momento dell'iscrizione nel registro delle imprese del dispositivo della sentenza con il rischio, quindi, di essere coinvolto in vicende giudiziarie che potrebbero pregiudicare il soddisfacimento del suo credito. Questo è il motivo per cui il tribunale deve rilevare la violazione di una qualsiasi norma di legge, naturalmente solo di quelle che risultano dal contesto dell'atto, poiché detto controllo giudiziario vale a stabilire una presunzione di conformità alla legge dello stesso e a determinare la buona fede dei terzi che hanno fatto affidamento sulla validità degli atti societari (in conseguenza dell'iscrizione dell'atto nel registro delle imprese).


" Limitazioni della circolazione delle quote di s.r.l.".

Art. 2355: "l'atto costitutivo può sottoporre a particolari condizioni l'alienazione delle azioni nominative" e L. 281/1985 secondo cui sono inefficaci le clausole degli atti costitutivi di s.p.a. che subordinano gli effetti del trasferimento delle azioni al mero gradimento degli organi sociali.

La prima conclusione che si può con certezza trarre da queste due norme è che le stesse non riguardano i trasferimenti mortis-causa per i quali, quindi, non può ritenersi valida alcuna limitazione statutaria.

Per quanto concerne la sorte dell'azione nel caso di rifiuto del gradimento, visto che gli interessi tutelati con l'inserimento nell'atto costitutivo della clausola di gradimento sono quelli della collettività dei soci ad evitare l'ingresso in società di persone non gradite, è da ritenere che il rifiuto del gradimento non debba necessariamente ripercuotersi negativamente sul rapporto intercorrente fra le parti del contratto di compravendita, riguardando solo quello tra l'acquirente del titolo e la società. Naturalmente le parti possono subordinare la sopravvivenza dell'intero rapporto alla concessione del gradimento ma perché ciò accada è necessaria una pattuizione espressa.

Nel caso delle s.r.l., la genericità della disposizione normativa che prevede la trasferibilità della quota sia per atto tra vivi che per successione a causa di morte salvo diversa disposizione dell'atto costitutivo, ha indotto una parte della dottrina a considerare valida qualsiasi clausola statutaria che ponga delle limitazioni o addirittura sancisca il divieto assoluto di trasferimento della quota, dovendosi al contempo riconoscere al socio, applicando analogicamente la regola generale dettata per la società semplice, il diritto di recedere dalla società. Sennonché il diritto di recesso è espressamente disciplinato anche nelle società di capitali da una norma di carattere eccezionale e quindi non suscettibile di interpretazione analogica e che soprattutto subordina l'esercizio del recesso a condizioni e presupposti assai diversi da quelli previsti dal recesso per giusta causa nelle società di persone. Di qui l'impossibilità di utilizzare questo strumento di autotutela nelle società di capitali e segnatamente nelle s.r.l.

E allora la conclusione è che nelle società di capitali lo strumento di autotutela del socio che voglia sciogliersi dal vincolo contrattuale, per essere venute meno le ragioni della sua partecipazione alla società, non può essere costituito dal recesso per giusta causa che tra l'altro determinerebbe, a motivo della liquidazione al socio receduto, un depauperamento del patrimonio sociale che in questo tipo di società costituisce la sola garanzia per i creditori (questo problema non sussiste per le società personali a motivo della responsabilità personale e illimitata dei soci); ma deve essere rappresentato dalla libera trasferibilità della quota che perciò può essere assoggettata a limitazioni ma non può essere del tutto esclusa.




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