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CORSO DI POLITICA ECONOMICA INTERNAZIONALE

economia politica



FACOLTA' DI ECONOMIA

A.    A. 2004-2005




CORSO DI

POLITICA ECONOMICA INTERNAZIONALE








I CONCETTI, LE CAUSE E GLI EFFETTI DELLA GLOBALIZZAZIONE


Definizione di globalizzazione

Il sociologo U.Beck (1997) individua tre diversi utilizzi del termine e distingue:

a)    globalismo: punto di vista secondo cui il mercato mondiale rimuove o sostituisce l'azione politica (ideologia del neoliberismo). Riduce la multidimensionalità della globalizzazione alla dimensione economica e subordina le altre dimensioni - globalizzazione ecologica, culturale, politica, civile - al predominio del sistema del mercato mondiale. Attrae avversari che auspicano il ritorno a forme diverse di protezionismo (protezionisti neri, verdi, rossi). Nuovi soggetti stabiliscono regole e comportamenti senza legittimazione politica e dirimono questioni in ambiti extra-giudiziali (arbitrati). Primato dell'economia sulla politica.

b)    globalità: significa che viviamo da tempo in una società-mondo dove la rappresentazione di spazi chiusi diviene fittizia. Pertanto, d'ora in poi nulla di quel che si svolge sul nostro pianeta è un avvenimento limitato localmente, ma ogni invenzione, conquista e catastrofe riguardano il mondo intero e bisogna riorientare e riorganizzare le azioni, le organizzazioni e le istituzioni lungo l'asse "locale-globale". Ciò conduce ad una omologazione culturale e ad una omogeneizzazione dei gusti dei consumatori e dei prodotti che li soddisfano?

c)    globalizzazione come processo in seguito al quale gli Stati nazionali e la loro sovranità vengono condizionati e connessi trasversalmente da attori transnazionali. Le culture locali sono penalizzate o rivalutate da tale processo?

La specificità del processo di globalizzazione oggi consiste nell'estensione, densità e stabilità delle reti di relazioni reciproche regional-globali, nell'autopercezione di questa transnazionalità (nei mass-media, nel consumo, nel turismo). Globalizzazione significa anche non-Stato mondiale; società mondiale senza Stato mondiale e senza governo mondiale. Gli strumenti di politica economica adottati dai singoli Stati perdono efficacia (tasso d'interesse, tasso di cambio e interventi di politica fiscale).

La globalizzazione economica, seguendo la definizione data dall'OCSE, si può definire come:

"un fenomeno per il quale il mercato e la produzione di differenti paesi diventano sempre più interdipendenti attraverso i cambiamenti indotti dalla dinamica del commercio internazionale, dei flussi di capitali e tecnologici, cambiamenti dei quali il veicolo principale è dato dalle imprese multinazionali. Grazie alle tecnologie dell'informazione e della comunicazione tali imprese sono organizzate come reti transnazionali in un contesto di accresciuta concorrenza internazionale che si estende anche alle imprese locali, così come ad altre sfere della vita economica e sociale di ciascun paese".


Il risultato di questo processo di integrazione economica a livello internazionale è generalmente un aumento del benessere economico complessivo dei paesi partecipanti, anche se non necessariamente del benessere individuale di tutti gli agenti economici o di tutti i paesi coinvolti (efficienza versus equità).


Globalizzazione come "integrazione economica internazionale"

Trasformazioni strutturali delle economie dei Paesi avanzati che incidono sui processi di integrazione economica:

diversa composizione strutturale : importanza crescente dei servizi e importanza decrescente dell'industria nell'economia dei Paesi avanzati;

incremento della produzione di beni commerciabili rispetto ai beni non-commerciabili;

mutato contenuto degli scambi internazionali: gli scambi adesso avvengono tra manufatti spesso all'interno della stessa industria (commercio intra-industriale) o tra manufatti di industrie diverse    (commercio inter-industriale).


Si possono distinguere due tipi di integrazione commerciale:

integrazione superficiale connessa con l'aumento degli scambi internazionali di merci, di capitale finanziario e di lavoro;

integrazione profonda connessa con l'aumento della produzione internazionale, attribuibile in larga misura alle imprese multinazionali.

Tre tipi di imprese multinazionali in base alle determinanti dell'Investimento Diretto Estero (IDE).

Impresa multinazionale domestica (stand-alone): l'impresa tende a replicare all'estero tutta l'attività svolta nel paese di origine o parte di essa.

Impresa multinazionale con integrazione semplice (simple integration stategy): un'impresa che delocalizza una o più fasi della produzione o la produzione di alcune parti componenti;

Impresa multinazionale con integrazione complessa: ogni consociata si specializza in certe funzioni ed alcune consociate assemblano anche le diverse parti componenti prodotte da varie unità.



La globalizzazione è un fenomeno mai visto prima?

Due posizioni estreme:

Osservatori (tra cui Greider (1997)) che vedono nella globalizzazione la nascita di un nuovo mondo, in cui si assiste al primato dell'economia sulla politica;

Studiosi che negano la novità dei recenti sviluppi, facendo riferimento a quanto già accaduto tra la fine dell'Ottocento e la prima guerra mondiale.

E' opportuno individuare una posizione intermedia.

Anche in passato si erano già verificati fenomeni di globalizzazione (1870-1914; 1945-1980), ma nessuno sembra poter uguagliare quello che ha avuto inizio negli anni '80 e che stiamo attualmente vivendo. Grazie all'elevato flusso di informazioni, oggi è possibile in tempo reale avere una immediata percezione dei diversi aspetti, positivi e negativi, del fenomeno.


Confrontiamo le tre differenti ondate di globalizzazione sulla base dei canali principali dell'integrazione economica rappresentati da (vedi fig.1.1.):

commercio;

flussi di capitale;

immigrazione.


Possiamo così individuare le peculiarità delle tre ondate di globalizzazione (Collier, Dollar,2002).

Prima ondata di globalizzazione: 1870-1914

Cause

diminuzione costi di trasporto (passaggio dalla navigazione a vela a quella a vapore, diffusione rete ferroviaria);

riduzione delle barriere tariffarie.

Modello di commercio

Scambio di materie prime contro prodotti finiti. Le esportazioni in percentuale sul reddito globale raddoppiarono, raggiungendo circa l'8% del totale mondiale.

Flusso migratorio:

Pari a circa il 10% della popolazione mondiale: circa 60 milioni di persone emigrarono dall'Europa verso l'America del Nord e l'Australia e altrettanto emigrarono dalla Cina e dall'India verso Sri Lanka, Thailandia, Filippine e Vietnam. In questa ondata i flussi migratori sono stati la forza trainante del processo di crescita mondiale.

Stock di capitale estero nei LDCs: nel 1870, solo 9% del reddito nazionale, nel 1914 arrivò al 32% del reddito nazionale grazie all'istituzione di sistemi finanziari sul modello dei paesi sviluppati che riuscirono a canalizzare i risparmi esteri (britannici in primo luogo).

Tasso di Crescita mondiale: da 0,5% annuo a 1,3% annuo. Le economie dei paesi globalizzati (Argentina, Australia, Stati Uniti) andarono incontro a un processo di convergenza.

Crescita e disuguaglianza:

Poiché le esportazioni provenienti dai LDCs sono soprattutto di materie prime e prodotti dell'agricoltura, dove la proprietà terriera è concentrata, come in America Latina), la diseguaglianza è aumentata, dove invece la proprietà della terra è più frammentata, come in Africa Occidentale, i vantaggi del commercio si diffusero ampiamente. Il tasso di riduzione della povertà aumentò notevolmente (0,8% anziché 0,3%), ma fu insufficiente a controbilanciare l'aumento della popolazione e quindi i poveri in valore assoluto aumentarono.


Anche allora la globalizzazione sembrava un fenomeno irreversibile. Invece, politiche economiche inadeguate, disoccupazione e nazionalismo spinsero gli stati verso il protezionismo. Nel periodo tra le due guerre mondiali il tasso di crescita del reddito pro capite diminuì del 30%.


II ondata di globalizzazione: 1950-1980

Caratteristica principale: maggiore integrazione fra paesi ricchi.

Dopo la II guerra mondiale, con la costituzione delle Nazioni Unite e degli altri organismi internazionali (di cui parleremo più ampiamente più avanti), l'Europa, l'America del Nord ed il Giappone si impegnarono a ripristinare relazioni commerciali reciproche mediante una serie di liberalizzazioni commerciali multilaterali nell'ambito del Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade). Tuttavia la liberalizzazione risultò incompleta, sia dal punto di vista della partecipazione di paesi che di prodotti, e asimmetrica : nei LDCs contribuì a ripristinare il modello di commercio Nord-Sud - lo scambio di prodotti in cambio di beni primari - ma non ripristinò i flussi internazionali di capitale e lavoro.

Modello di commercio: il commercio fra paesi sviluppati fu determinato non dai vantaggi comparati dovuti alla diversità di dotazioni produttive, ma dai risparmi nei costi derivanti dalle economie di scala e di agglomerazione: le imprese tendono a concentrarsi spazialmente.

Le economie di agglomerazione però costituiscono un fattore negativo per coloro che ne restano fuori. La maggioranza dei LDCs non ha preso parte all'aumento degli scambi di beni industriali e servizi. La persistenza di barriere nei loro confronti da parte dei paesi sviluppati, unita all'ambiente poco favorevole agli investimenti e alle politiche protezionistiche nei LDCs costrinse questi ultimi a dipendere dallo scambio di beni primari: nel 1980 solo il 25% delle esportazioni di merci dei LDCs era costituito da prodotti finiti.

Crescita e disuguaglianza: nel Nord del mondo, nei paesi OCSE, forte spinta alla convergenza di lungo periodo. Nei paesi OCSE non solo si è ridotto il divario fra i paesi - probabilmente proprio grazie alla globalizzazione - ma anche la disuguaglianza all'interno degli stessi paesi -probabilmente grazie alle politiche sociali redistributive e ai consolidati sistemi di protezione sociale. In ambito OCSE, la maggiore crescita coincise con una maggiore equità e si fa riferimento a questo periodo come all'età dell'oro.

Altrettanto non è stato per i LDCs: anche se la crescita del reddito pro capite ebbe una ripresa dopo il ristagno nel periodo tra le due guerre, essa fu considerevolmente più lenta rispetto a quella dei paesi ricchi.

Aumenta quindi la disuguaglianza mondiale e il numero di poveri, nonostante l'aumento della speranza di vita, per il concorso di tre componenti:

la maggiore equità all'interno dei paesi sviluppati;

il maggiore divario fra paesi sviluppati e LDCs;

assenza di variazioni nette in termini di equità all'interno dei LDCs.


NUOVA ONDATA DI GLOBALIZZAZIONE (1980- OGGI)

Caratteristiche che la differenziano nettamente dalle precedenti:

struttura del commercio: per la prima volta, partecipazione ai mercati globali di un numeroso gruppo di LDCs che sono riusciti a sfruttare la forza lavoro abbondante ottenendo un vantaggio competitivo nella produzione di beni e servizi labour-intensive. Dal 1980 al 1998, la quota di beni industriali esportata dagli LDCs cresce dal 25% all'80%. La quota di servizi esportata dagli LDCs cresce anch'essa dal 9 al 17%, mentre quella dei paesi ricchi aumenta solo leggermente dal 17 al 20%. Gli LDCs maggiormente coinvolti in questo processo di globalizzazione sono la Cina, l'India e i paesi asiatici di recente industrializzazione (Corea del Sud, Singapore, Taiwan, Hong Kong).

Che cosa ha contribuito a tale trasformazione?

diverse politiche commerciali: apertura commerciale degli LDCs: riduzione dazi sui prodotti finiti, eliminazione barriere agli investimenti esteri. In questi paesi il grado di apertura commerciale (dato dalla somma delle importazioni e delle esportazioni di beni divisa per il PIL) è aumentato, dal 1977 al 1997, del 104%, mentre nei paesi ricchi è aumentato del 71% (fig.1.9).

progresso tecnico nel campo dei trasporti e delle comunicazioni;

interventi delle autorità pubbliche degli LDCs per consentire alle imprese nazionali di accedere ai mercati industriali con il miglioramento delle infrastrutture, delle competenze professionali dei lavoratori e delle istituzioni necessarie per la produzione moderna. Gli LDCs più globalizzati hanno registrato negli ultimi venti anni risultati considerevoli per quanto riguarda l'istruzione di base, il rispetto dei diritti di proprietà e delle leggi e la stabilità macroeconomica;

marginalizzazione di altri LDCs, nei quali si assiste ad una diminuzione del reddito e ad un aumento della povertà. Perché alcuni paesi , situati per lo più in Africa e comprendenti molte delle economie dell'ex Unione Sovietica non sono riusciti a integrarsi nell'economia industriale globale?

le ragioni di scambio dei beni primari destinati all'esportazione hanno avuto un andamento estremamente variabile e decrescente nel tempo;

non sono riusciti a sfruttare il vantaggio comparato derivante dalla forza lavoro abbondante a causa delle loro politiche economiche inadeguate;

svantaggio geografico e deficit infrastrutturale.

la modalità principale di integrazione nei mercati dei capitali mondiali non è costituita d'afflusso di capitali ma dalla loro fuga a causa del disallineamento dei tassi di cambio, del rating del rischi scadente, dell'elevato indebitamento e dalla crescita dell'attività bancaria internazionale.

maggior rischio di guerre civili.

flussi di capitali internazionali: i paesi industrializzati hanno rimosso gradualmente i controlli sull'uscita dei capitali: il Regno Unito, ad esempio, li ha eliminati nel 1979. Anche i governi dei LDCs hanno adottato gradualmente politiche meno ostili verso gli investitori. Grazie a queste politiche oltre che a causa della crisi petrolifera degli anni '70, considerevoli somme di capitali iniziarono a fluire verso i LDCs.

Il flusso totale di capitale verso i LDCs è passato, in termini reali, da meno di 28 miliardi di dollari negli anni '70 a circa 306miliardi di dollari nel 1997, anno in cui raggiunsero il punto massimo (fig.1.13). Durante questo periodo è mutata la composizione di questi flussi di capitale: il valore degli aiuti ufficiali si è dimezzato, mentre i flussi di capitali privati diventano la fonte principale di capitale per diverse economie emergenti.

Anche la composizione di questi ultimi muta:

gli Investimenti Diretti Esteri (IDE) continuano ad aumentare durante tutti gli anni '90: le fusioni e acquisizioni di società costituiscono la fonte principale di questa crescita;

i flussi di investimento di portafoglio sono cresciuti in termini reali, da 0,01 miliardi di dollari nel 1970 a 103 miliardi di dollari nel 1996;

la costituzione di nuovi fondi comuni e fondi pensione internazionali convogliò gli investimenti diretti verso i LDCs;

l'importanza dei prestiti bancari e di altri flussi privati diminuì costantemente.


Anche se i flussi netti di capitale privato verso i LDCs sono aumentati, in percentuale rispetto al PIL sono ancora al di sotto del livello raggiunto nel 1914 (22% del PIL contro 32%). Inoltre, i flussi di capitale verso i LDCs rappresentano solo una piccola porzione del mercato globale dei capitali: la maggior parte dei flussi di capitale è tra paesi sviluppati a basso rischio o riguarda solo alcuni LDCs dell'Asia e dell'America Latina.

Gli IDE non portano solo capitale, ma anche tecnologia avanzata ed accesso ai mercati internazionali e quindi sono decisivi per poter partecipare alle reti produttive nel mondo: esercitano quindi un effetto notevole sulla crescita.

A livello microeconomico, l'impatto della liberalizzazione sulle imprese genera:

maggiore turnover delle imprese con un miglioramento dell'industria in termini di produttività;

l'apertura del mercato interno genera una struttura di mercato e prezzi più concorrenziali. Gli effetti dell'IDE sulla struttura di mercato sono più complessi da determinare e dipendono dalle politiche commerciali adottate. Se l'afflusso di investimenti esteri coesiste con politiche protezionistiche ciò darà luogo ad abusi di potere di mercato da parte delle multinazionali. Se invece l'afflusso di investimenti esteri coesiste con politiche di liberalizzazione degli scambi, le multinazionali saranno esposte alle pressioni dei concorrenti esteri;

trasferimenti di tecnologia e spillovers;

effetto di apprendimento ed effetto soglia delle esportazioni: sono di solito le imprese più efficienti o che hanno superato una determinata soglia di produttività quelle che decidono di produrre beni destinati all'esportazione.

Di contro, la maggior parte delle vendite e delle attività delle multinazionali è ancora concentrata nel paese d'origine e indagini sociologiche mostrano che nel top-management delle multinazionali prevalgono ancora nettamente gli esponenti dei paesi d'origine. Gli Stati Uniti e il Regno Unito sono di gran lunga i due paesi leader per gli IDE in uscita.


ripresa dei flussi migratori

I flussi migratori internazionali furono insignificanti durante la seconda ondata. Tuttavia, le disparità di reddito che si erano create diedero origine a notevoli pressioni economiche che spinsero le persone ad emigrare sia dalle aree rurali verso i centri urbani sia verso altri paesi. Tali pressioni furono largamente frenate dai controlli sull'immigrazione; in alcuni paesi ricchi tuttavia i controlli furono allentati durante la terza ondata, con notevoli effetti sui salari dei paesi poveri.

Lo stock di immigrati (numero di persone nate all'estero (o straniera) in ogni paese) è cresciuto da 75 milioni nel 1965 a 120 nel 1990 e a 158 nel 2000 (stime M.Livi Bacci), ma anche la popolazione del mondo è raddoppiata (o quasi) nello stesso periodo, per cui se tali flussi sono rapportati alla popolazione, vi è una sostanziale invarianza del fenomeno (2,3 per cento di nati all'estero nel 1965, 2,6 per cento di nati all'estero nel 2000).

La principale motivazione economica alla base dell'emigrazione è la differenza nei salari, specialmente tra LDCs e paesi ricchi. I vantaggi dell'emigrazione nei paesi d'origine dovrebbero consistere nell'aumento dei salari di coloro che restano e nell'incremento dell'ammontare annuo di rimesse che costituiscono una fonte importante di afflusso di capitale.

L'emigrazione però favorisce anche gli altri flussi di globalizzazione commercio, capitale ed idee.



Sulle cause della attuale fase di globalizzazione


la fine della contrapposizione, ideologica e politica, tra economie di libero mercato e economie pianificate.

mutato orientamento (teorico e politico) delle organizzazioni economiche internazionali, divenute convinte sostenitrici della superiorità del libero scambio in luogo di teorie protezionistiche: la Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale si indirizzano verso un'imposizione, più o meno coatta, di politiche commerciali liberiste nei Paesi assistiti.

Molti Paesi accettano di seguire politiche più liberiste in merito alla circolazione dei capitali finanziari Questa tendenza di favore alla libera circolazione dei capitali finanziari riguarda anche paesi meno sviluppati ed è talvolta caldeggiata da organismi internazionali (FMI in primis).

Un numero crescente di paesi, nel corso degli Anni Ottanta e Novanta, adotta la convertibilità della propria valuta, anche con ciò rendendo più facili e meno costosi i movimenti internazionali di capitali che coinvolgono un numero crescente di Paesi.

Il progresso tecnico: l'ICT rappresenterebbe, secondo l'etichetta di Aghion et al. (1999), una "General Purpose Technology" (GPT) che fa sentire lentamente e in modo differenziato i suoi effetti sulla produttività nei diversi settori, a seconda del grado in cui viene applicata.

In estrema sintesi, le caratteristiche della new economy sarebbero:

(i) l'uso intensivo e diffuso delle ICT;

(ii)  l'assoluta rilevanza delle conoscenze e delle informazioni nel determinare il vantaggio competitivo;

(iii)   la prevalenza della strutture del network nell'organizzazione interne e esterna dell'impresa;

(iv)    lo stimolo alla flessibilità produttiva;

(v)   lo stimolo all'ampliamento della gamma produttiva dell'impresa;

(vi)    la delocalizzazione della produzione.


Sugli effetti della globalizzazione

Globalizzazione e performance di crescita

Negli anni '80, sull'onda dei successi dei Paesi che avevano seguito politiche di crescita "export-led", si era molto insistito sul fatto che la correlazione tra crescita e apertura commerciale è positiva. L'esperienza degli anni '90, pur meno eclatante e condizionata dalle crisi di taluni paesi del Sud Est Asiatico, non ha ribaltato questo giudizio. Studi empirici, tra cui Frankel e Romer (AER, 1999) stimano che un incremento dell'1% del grado di apertura commerciale ((Imp+Exp)/GDP) genera un aumento del reddito pro-capite pari all'1,5-2 %.

La preoccupazione maggiore è che la maggiore mobilità di beni e fattori e la presenza di rendimenti crescenti nella produttività dei fattori, accentui il processo di marginalizzazione dei Paesi meno sviluppati, con minore apertura commerciale.

Globalizzazione, distribuzione del reddito e povertà

Nei paesi sviluppati la globalizzazione ha continuato a generare il processo di convergenza della prima e seconda ondata. Questo fenomeno è stato però controbilanciato dall'aumento della disuguaglianza all'interno dei singoli paesi,  con un'inversione della tendenza affermatasi durante la seconda ondata. In parte ciò può essere dovuto all'immigrazione, in parte potrebbe anche essere stato causato da mutamenti delle politiche fiscali e sociali non connesse alla globalizzazione. Come nei paesi OCSE, anche fra quelli di recente globalizzazione è aumentata la disuguaglianza all'interno dei paesi (soprattutto in Cina, tra le aree rurali e gli agglomerati urbani). Nei paesi di recente globalizzazione, la povertà in termini assoluti è diminuita. Tuttavia, i LDCs con una minore apertura commerciale sono arretrati e vivono un processo di divergenza : il loro tasso di crescita è stato inferiore a quelli sperimentati durante la seconda ondata di globalizzazione e il numero dei poveri in termini assoluti è aumentato.

Il trend della povertà. Bisogna distinguere tra l'incidenza della povertà in termini percentuali e in termini assoluti. Infatti la percentuale di popolazione che vive in condizioni di povertà assoluta è diminuita nel complesso dei Paesi meno sviluppati (dal 28.3% nel 1987 al 24% nel 1998 di coloro che vivono con meno di $ al giorno e dal 61% nel 1987 al 56% nel 1998 di coloro che vivono con meno di 2$ al giorno) in tutti i paesi meno sviluppati eccetto che nell'Africa Sub-Sahariana, nell'Europa dell'Est e nell'Asia Centrale. Più di 40 Paesi meno sviluppati con più di 400 milioni di abitanti hanno avuto una crescita del reddito negativa o prossima a zero negli ultimi 30 anni. Il numero complessivo di individui che vivono in condizioni di povertà assoluta è, pertanto, ancora in aumento 

La globalizzazione può certamente agire come fattore di riduzione della povertà ma perché si realizzi ciò devono concorrere importanti fattori a livello globale e locale.  

Globalizzazione e struttura produttiva

L'età della globalizzazione si è accompagnata a fenomeni di diffusa de-industrializzazione nei paesi avanzati: è calato il peso del settore dell'industria (sia in termini di contributo al PIL sia in termini di occupazione) ed è aumentato il peso del settore dei servizi.

Se ciò sia legato in qualche modo alla globalizzazione è questione aperta; di certo questo mutamento strutturale è una componente importante nella definizione del processo di globalizzazione. Secondo alcuni economisti, la crescita delle esportazioni di manufatti da parte dei PVS e la delocalizzazione di alcune fasi della produzione manifatturiera potrebbero spiegare la perdita relativa di occupazione nel settore manifatturiero di paesi industrializzati. Secondo altri, tale fenomeno può essere solo marginalmente spiegato dalla globalizzazione ed è invece principalmente imputabile a fattori di domanda e tecnologici.

Sul piano tecnologico, infatti, la minore crescita della produttività nei servizi, implica un maggiore incremento di occupazione in questo settore, rispetto agli incrementi domanda nell'industria. In altre parole, l'elasticità occupazionale alla crescita è maggiore nel settore dei servizi, piuttosto che in quello dell'industria e quindi, per ogni dato tasso di crescita, vi è un aumento dell'occupazione nei servizi maggiore di quello generato nell'industria.

Globalizzazione e dispersione salariale

In molti Paesi sviluppati, gli ultimi anni hanno testimoniato una crescente disuguaglianza nella distribuzione personale del reddito.

Ciò è il frutto di una accresciuta dispersione nei livelli salariali, accompagnata da una battuta d'arresto nelle politiche del welfare adottate nei singoli Paesi.

In modo semplificato possiamo immaginare che i lavoratori siano distinguibili in lavoratori qualificati (skilled) e non-qualificati (unskilled o low-skilled).

L'evidenza empirica di tutti i Paesi avanzati testimonia una diminuzione dei salari reali dei lavoratori low-skilled tra gli anni '80 e '90, sia in termini assoluti che relativamente a quello dei lavoratori ad alta qualifica professionale.

La letteratura economica sta attualmente discutendo se la tendenza all'accrescimento della dispersione salariale sia addebitabile in misura maggiore al progresso tecnologico o agli scambi commerciali.

La produzione di beni ad alto contenuto tecnologico richiede lavoratori sia skilled che low-skilled, mentre la produzione di beni a basso contenuto tecnologico richiede solamente lavoro low-skilled. Deriva da ciò che possono produrre beni ad alto contenuto tecnologico soltanto i Paesi dotati di un sufficiente numero di lavoratori qualificati; i beni a basso contenuto tecnologico, viceversa, possono essere prodotti da tutti i Paesi, utilizzando solamente i lavoratori low-skilled.

All'interno di un Paese sviluppato, i lavoratori più svantaggiati sarebbero quelli low-skilled, esposti alla concorrenza diretta (per effetto dell'immigrazione dai PVS o della delocalizzazione di produzioni ad alta intensità di lavoro poco qualificato attuata tramite IDE) e indiretta (tramite l'importazione di beni ad alta intensità di lavoro poco qualificato). Gli effetti indiretti si manifestano sui prezzi dei beni e dei fattori: la maggiore offerta di beni ad alto contenuto di lavoro poco qualificato abbassa il prezzo relativo di tali prodotti e, di conseguenza, il prezzo del fattore relativo di cui quei prodotti sono intensivi, cioè il lavoro poco qualificato (teorema Stolper-Samuelson).

Secondo altri economisti, l'ampliamento dei differenziali retributivi fra lavoro qualificato e lavoro non qualificato è da imputarsi in misura prevalente al progresso tecnico che ha accresciuto la domanda di lavoro qualificato. In tale ottica, il commercio internazionale è reputato un fattore meno importante del progresso tecnologico, nello spiegare la discrepanza tra i salari dei lavoratori low-skilled workers e quelli degli skilled. Alcune evidenze empiriche sarebbero in accordo con questa valutazione: ad esempio, l'ampiezza dei flussi di scambio per/da gli Stati Uniti sarebbe troppo piccola per poter generare i cambiamenti osservati nei salari; ancora, il prezzo relativo dei beni ad alto contenuto di lavoro non qualificato non è diminuito in misura rilevante negli anni Ottanta e Novanta.

Gli effetti di tale shock tecnologico sarebbero stati differenti nei Paesi dell'Europa continentale, rispetto agli Stati Uniti. Nell'esperienza europea, politiche economiche interventiste sul mercato del lavoro, intese a contenere i differenziali salariali, si sarebbero tradotti in un incremento del tasso di disoccupazione; al contrario, negli USA la disoccupazione non è aumentata, perché l'ampliamento dei differenziali salariali ha consentito di esprimere una domanda di lavoro sufficientemente alta.

Aumenti dei differenziali salariali sono stati osservati anche nei Paesi emergenti. La tradizionale teoria neoclassica porterebbe a dire che la riduzione delle barriere al commercio, rendendo le produzioni più specializzate in tutte le regioni, incrementa la diseguaglianza dei salari nel Nord e riduce la diseguaglianza dei salari nel Sud. Ciò tuttavia non è confermato dalle evidenze empiriche, che segnalano, appunto, un aumento della dispersione salariale anche nelle regioni povere. E' possibile spiegare questa evidenza osservando che la globalizzazione allontana dalle regioni povere soprattutto i lavoratori skilled, che hanno la più elevata propensione alla mobilità (Reichlin e Rustichini, 1998; Stark et alii, 1998). L'abbassamento dei costi di spostamento e di comunicazione consentendo ai lavoratori del Nord di cooperare in maniera più intensiva con i lavoratori del Sud, determina un aumento del gap tra lavoratori skilled e low-skilled sia nel Nord che nel Sud. Analogamente, il trasferimento delle attività produttive dal Nord al Sud, determina un innalzamento del livello qualitativo dei prodotti in entrambe le regioni e tende ad ampliare la divergenza tra i salari dei lavoratori skilled e low-skilled sia nel Nord che nel Sud.

Globalizzazione e re-distribuzione dei capitali finanziari

La globalizzazione finanziaria ha dato luogo ad una forte re-distribuzione finanziaria a favore dei più ricchi.

Già dagli anni '80, gli Stati Uniti sono stati il paese che ha maggiormente beneficiato dell'afflusso netto di capitali finanziari. Gli Stati Uniti hanno ricevuto capitali dall'Europa e dal Giappone, ma in una certa misura anche dai paesi poveri dell'America Latina, dell'Africa e dell'Asia: il loro debito, sotto forma di acquisto di titolo pubblici e di azioni USA, è cresciuto anno dopo anno fino a giungere nel 2000 ai 1900 miliardi di dollari, pari al 19,2% del PIL. L'afflusso di capitali esteri ha avuto un peso significativo nella ripresa economica e tecnologica che si è verificata negli USA dal 1992 al 2000 soprattutto se si considera che gli USA hanno una bassa propensione globale al risparmio.

Anche all'interno dei vari paesi alcune importanti tendenze dei mercati finanziari hanno avuto effetti re-distributivi:

trend positivo dei tassi d'interesse reali che spesso hanno superato il tasso di crescita reale dell'economia. La crescita dei rendimenti finanziari in termini reali dei detentori di titoli pubblici e obbligazionari ha comportato un'enorme redistribuzione di redditi e ricchezza fra chi, avendo salari al limite della sussistenza, non aveva risparmi e quindi rendimenti da attività finanziarie, e chi invece disponeva di vistosi stocks di risparmio e quindi di elevati rendimenti finanziari;

grande pressione verso un aumento dei rendimenti reali da parte società quotate in borsa e di quelle a esse concorrenti. Le prime si trovano a dover raggiungere trimestralmente livelli abbondanti e non cedenti di profitti per poter attrarre capitali e non veder cadere le proprie quotazioni sui mercati mobiliari. Ciò darà origine a radicali processi di ristrutturazione per migliorare l'efficienza e la competitività delle aziende quotate in borsa.


Globalizzazione e politica economica

Le condizioni entro le quali si muovo i policy-makers sono mutate. La interdipendenza (e la percezione della interdipendenza) tra le diverse economie, rende ciascuna economia maggiormente esposta a shocks esterni; ciò determina altresì una minore autonomia decisionale di ciascun paese. I tradizionali strumenti di politica monetaria e di politica fiscale sono pertanto divenuti meno controllabili da parte delle autorità nazionali e sono pure divenuti meno efficaci sugli obiettivi. Si impone perciò la ricerca di nuovi strumenti di politica economica. Sotto tale ottica, vale la pena soffermarsi sulle politiche commerciali e le politiche basate sugli standard produttivi (di cui parleremo più avanti), poiché gli obiettivi perseguiti dai Paesi sia industrializzati sia in ritardo di sviluppo con questi strumenti non sempre sono coerenti con i propositi.


Cinque quesiti sul rapporto commercio -sviluppo:

Il commercio, e più in generale i flussi internazionali di beni e di capitali, si possono ritenere i "motori della crescita"?

Il commercio altera la distribuzione del reddito e del benessere all'interno dei singoli paesi e tra i diversi paesi?

Sotto quali condizioni può il commercio aiutare i PVS (LDCs) nel conseguimento dei loro obiettivi di sviluppo?

Sono in grado le LDCs di determinare con iniziative proprie il livello di transazioni commerciali?

Alla luce delle esperienze passate e delle diverse opinioni in materia, le LDCS dovrebbero adottare una politica "estroversa" (outward-looking) o una politica "introversa" (inward-looking), o dovrebbero perseguire una via intermedia, come ad esempio, forme di cooperazione economica a livello regionale?


La risposta non sarà univoca. Domanda interna e domanda estera non sono alternative, né si può stabilire a priori una sequenza ottima e formulare una regola valida per tutti che indichi se una strategia di sviluppo debba fondarsi inizialmente sul mercato nazionale o su quello internazionale. Per giungere a qualche indicazione bisogna precisare gli obiettivi di sviluppo e conoscere le condizioni specifiche del paese e dell'ambiente internazionale in cui opera.


I vantaggi del commercio internazionale


3 vantaggi principali:

vantaggi che derivano da un migliore impiego di risorse date e già precedentemente occupate;

vantaggi che derivano dalla possibilità di impiegare risorse che in condizioni di economia chiusa non lo sarebbero;

vantaggi derivanti da una maggiore produttività e dalla formazione di nuove risorse.



La teoria dei vantaggi comparati: vantaggio considerato dalla teoria pura del commercio internazionale, classica e neoclassica. La teoria dei vantaggi comparati è stata per la prima volta esposta in modo rigoroso da Ricardo (1818). Essa considera un'economia composta da due paesi, due prodotti X e Y, ed un unico fattore produttivo. Il modello è statico. Nel celebre esempio proposto da Ricardo, si considerano due paesi - Gran Bretagna e Portogallo - entrambi in grado di produrre due beni - la stoffa e il vino - con condizioni tecniche differenti riassunte nelle seguenti Tabelle:


Tab.1 Quantità di lavoro per unità di bene (in uomini/anno)


X = vino

Y= stoffa

Gran Bretagna

ax = 120

ay =100

Portogallo

ax*=80

ay*=90



Tab.2 Vantaggi comparati


vino/stoffa

stoffa/vino

Gran Bretagna

ax / ay = 1,20

ay / ax =0.83

Portogallo

ax*/ ay*= 0.88

ay*/ ax*=1.125


Il lavoro necessario alla produzione di un'unità di merce è diverso per ciascuna merce nei due paesi e per la stessa merce nei due paesi, in relazione alle diverse condizioni "naturali e artificiali" che rendono un paese più adatto ad una produzione piuttosto che ad un'altra. I costi di produzione espressi in unità di lavoro sono quindi diversi. Se in uno dei due paesi i costi sono inferiori a quelli dell'altro per entrambe le merci, questo paese gode di un vantaggio assoluto. Sarebbe conveniente quindi che le due merci venissero prodotte nel paese che le produce a costi minori ma ciò richiederebbe il trasferimento di capitali e lavoro nel paese con vantaggio assoluto. Il modello di Ricardo non ammette la possibilità di movimento dei fattori produttivi. Bisogna pertanto considerare i vantaggi relativi. Dalla Tabella 1 si evince che il Portogallo gode di un vantaggio assoluto in entrambe le produzioni e la Gran Bretagna gode di un vantaggio comparato nel produrre stoffa, piuttosto che vino, rispetto al Portogallo. Se i due paesi possono commerciare tra di loro queste due merci, ogni paese guadagna dalla specializzazione nella produzione del bene per il quale ha il vantaggio comparato. Ciò infatti permetterà a ciascuno dei due paesi di consumare una maggiore quantità di beni.

Teoria della dotazione dei fattori: nel corso del XX secolo, gli economisti Heckscher (1950), Ohlin (1933) e Samuelson (1948) modificarono e raffinarono il modello di Ricardo sulla base dell'ipotesi della diversa dotazione di fattori nei due paesi. Pertanto, le tecniche utilizzate per la produzione di ciascun prodotto sono identiche per i due paesi e l'unica differenza tra di essi sta nella diversa dotazione dei due fattori: capitale e lavoro. Supponendo che una delle due produzioni sia più capital-intensive e l'altra più labour-intensive, si dimostra che ciascun paese si avvantaggia nello specializzarsi nella produzione della merce che impiega per unità prodotta una maggiore quantità del fattore "abbondante".

Pertanto, sulla base delle seguenti ipotesi che caratterizzano le due economie considerate:

due prodotti e due fattori;

concorrenza perfetta nei mercati dei prodotti e dei fattori;

funzioni di produzione uguali nei due paesi, omogenee di primo grado;

assenza di costi di trasporto o altri ostacoli al commercio internazionale di prodotti;

immobilità internazionale e mobilità inter-settoriale di entrambi i fattori di produzione;

identiche preferenze dei consumatori nei due paesi;

vale il seguente teorema:

"Nello scambio di due prodotti fra due paesi, ciascun paese esporta il prodotto che usa più intensamente, rispetto all'altro prodotto, il fattore di produzione che nel paese è relativamente più abbondante."

Il commercio internazionale determina un prezzo unico, intermedio tra i due prezzi interni precedenti e quindi diminuisce per ciascun paese il prezzo della merce che impiega la risorsa scarsa ( e che verrà in parte o totalmente importata) e aumenta il prezzo di quella che impiega la risorsa più abbondante ( e che verrà in parte o totalmente esportata). Il migliore impiego dei fattori porta, come in Ricardo, alla possibilità di un maggiore consumo rispetto alla situazione in cui le due economie sono chiuse. Questo modello fornisce le basi per una visione del commercio internazionale che consente di raggiungere l'ottima allocazione delle risorse. (vedi Fig.12.2).

Altre conclusioni del modello sono le seguenti:

Non vi è completa specializzazione nei due paesi: l'aumento dei costi interni e quindi dei prezzi interni rispetto a quelli internazionali impediranno che la completa specializzazione produttiva avvenga;

L'unicità dei prezzi internazionali delle merci porta al pareggiamento delle remunerazioni, relative e assolute, dei fattori, dato il ricorso alle medesime tecnologie;

Poiché la remunerazione dei proprietari delle risorse più abbondanti dovrebbe aumentare, nelle LDCs ciò dovrebbe corrispondere ad un aumento nella quota del reddito nazionale che spetta ai lavoratori. Effetti redistributivi;

Posto che i diversi paesi si pongono al di fuori della loro frontiera delle possibilità produttive e si assicurano i beni da altre parti del mondo, il commercio dovrebbe stimolare la crescita economica.



Gli svantaggi del commercio internazionale

Le teorie del commercio internazionale hanno fornito e forniscono argomenti ai fautori del liberismo, ossia del libero scambio internazionale non ostacolato da politiche commerciali da parte di singoli paesi.

Sulla base di queste teorie i paesi periferici - caratterizzati da risorse non pienamente utilizzate e relativamente meglio dotati di fattore lavoro - dovrebbero specializzarsi nella produzione di beni primari e scambiare i beni primari con prodotti industriali sul mercato internazionale. Tutto ciò può essere vero se il tipo di specializzazione che contraddistingue la maggior parte dei paesi periferici sia un fatto "naturale" e non ereditato dal periodo coloniale.

Per questo motivo, le indicazioni di policy che si possono trarre da queste teorie sono state contestate da numerosi economisti che si sono posti il problema dello sviluppo nell'immediato dopoguerra.

L'idea che i paesi periferici sono svantaggiati nel commercio internazionale ha un ruolo importante nella fase di formazione dell'economia dello sviluppo. Tuttavia, le argomentazioni a sfavore del libero commercio internazionale non sono riconducibili a modelli teorici ben definiti.

Effetti negativi:

tendenziale squilibrio della bilancia commerciale dei paesi periferici;

trasferimento dei frutti del progresso tecnico da questi a quelli centrali;

l'approfondimento del gap tecnologico tra gli uni e gli altri;

distorsioni nella produzione e nel consumo dei paesi periferici.



Cause:

caratteristiche domanda internazionale dei prodotti industriali e di quelli primari;

diversa struttura dei mercati al centro e alla periferia;

condizioni che rendono difficile ai paesi periferici di godere di economie di scala;

conseguenze che hanno per essi le esternalità connesse al progresso tecnico.


Tesi di Prebisch e Singer

Le ragioni di scambio dei paesi periferici tendono nel lungo periodo a peggiorare rispetto a quelle dei paesi del centro.

Sulla base dell'analisi statistica dei dati sul commercio estero della Gran Bretagna relativi al periodo tra il 1870 e il 1938, Prebisch dimostrò che le ragioni di scambio per i paesi periferici avevano avuto un sensibile miglioramento nell'intervallo di tempo considerato. Da ciò dedusse che le ragioni di scambio per i paesi periferici produttori di beni primari avevano subito un corrispondente secolare deterioramento. Questa tesi contraddiceva ciò che fino a quel momento sia Ricardo che successivamente Keynes avevano sostenuto.

Le cause del fenomeno evidenziato da Prebisch sono le seguenti:

diverse elasticità rispetto al reddito delle domande mondiali dei prodotti primari e dei prodotti industriali (vedi Legge di Engel). Inoltre, nel paese industriale l'applicazione delle scoperte scientifiche e l'innovazione tecnologica permetteranno in misura sempre maggiore la sostituzione di input naturali con prodotti intermedi nella fabbricazione dei prodotti finiti;

l'elasticità della domanda (e dell'offerta) mondiale di prodotti primari è anch'essa abbastanza bassa e quindi ogni spostamento delle curve di domanda e di offerta causa un'ampia fluttuazione volatilità dei prezzi. Il conseguente fenomeno dell'instabilità di guadagni dalle esportazioni ha caratterizzato molte economie periferiche e ha condotto a più bassi tassi di crescita economica.

diversa struttura dei mercati nei paesi periferici e in quelli centrali. Dove l'attività prevalente è l'industria esistono generalmente strutture oligopolistiche nei mercati dei prodotti e forti sindacati in quelli del lavoro: gli aumenti di produttività andranno ad aumentare salari e/o profitti. Lo stesso non avverrà nei paesi periferici dove l'attività prevalente è quella agricola o mineraria, i sindacati sono inesistenti o deboli, l'offerta di lavoro abbondante, i prezzi regolati dalla concorrenza internazionale: in questo caso, l'aumento della produttività si tradurrà in una diminuzione dei prezzi.

Crescita economica e progresso tecnico tenderanno a peggiorare le ragioni di scambio per i paesi periferici.

I frutti del progresso tecnico tendono a trasferirsi dalla periferia al centro: mentre nei paesi industriali l'aumento di produttività si traduce - almeno in parte - in maggiori profitti e salari, la maggiore produttività delle attività primarie esportatrici dei paesi periferici porterà a prezzi più bassi dei quali si avvantaggeranno i consumatori del centro.


Effetti del gap tecnologico e delle economie di scala

Le conseguenze del "gap tecnologico" si possono spiegare con i seguenti approcci:

la teoria del ciclo del prodotto, secondo cui i prodotti tecnologici esportati dai paesi periferici, ove vi fossero, sarebbero realizzati con tecnologie ormai standardizzate e avrebbero prezzi più bassi di quelli esportati dai paesi industrializzati e realizzati con tecnologie innovative.

il commercio internazionale è uno dei fattori che può aiutare a spiegare l'origine stessa del gap tecnologico: il vantaggio tecnologico iniziale tende a cumularsi.


Per quanto concerne la realizzazione delle economie di scala e dei processi di differenziazione del prodotto, tenendo conto delle preferenze dei consumatori, queste sono maggiormente realizzabili nei paesi del centro, che hanno mercati interni ampi e livelli del reddito e struttura delle preferenze simili, così da potersi agevolmente scambiare i propri prodotti. I paesi della periferia si trovano in una posizione diversa. La distorsione è ancora più evidente se si considera che le importazioni dai paesi dal centro riguardano anche mezzi di produzione che incorporano tecnologie ideate sulla base delle dotazioni dei fattori e delle caratteristiche dei mercati dei paesi del centro.


Alcune critiche della teoria tradizionale del libero commercio sulla base delle esperienze del Terzo Mondo


Quali sono le ipotesi fondamentali della teoria del commercio tradizionale basata sulla dotazione dei fattori, e come queste vengono violate nel mondo reale?

Sei aspetti fondamentali non trovano riscontro nel mondo reale:

Pieno impiego dei fattori produttivi e nessuna mobilità internazionale dei fattori.

Questa ipotesi in un contesto di commercio ineguale tra Nord e Sud del mondo comporta che lo stato iniziale di ineguale distribuzione delle risorse tenda ad aggravarsi e ad esacerbarsi proprio a causa degli scambi commerciali. Il Sud si troverà bloccato, costretto in una situazione stagnante che perpetua il vantaggio comparato in attività non produttive e che richiedono manodopera poco specializzata (unskilled). L'efficienza statica del modello neoclassico del commercio internazionale diventa inefficienza dinamica e genera un processo cumulativo che, proprio grazie agli scambi, accentua le distanze tra Nord e Sud del mondo (modelli di commercio Nord-Sud). A fronte di ciò, M.Porter, nel suo Competitive Advantage of Nations, introduce una differenza qualitativa tra fattori di produzione di base e fattori di produzione avanzati. Egli sostiene che la teoria del commercio internazionale tradizionale si adatta bene ai fattori di produzione di base (risorse naturali, lavoro a basso costo) ma non a quelli avanzati (conoscenze, lavoro qualificato) e che pertanto ciascuna nazione deve porsi come prima priorità la creazione dei fattori produttivi avanzati per competere internazionalmente.

Disoccupazione, sottoutilizzazione delle risorse e teoria del commercio vent-for-surplus: la sottoutilizzazione delle risorse umane nel Terzo Mondo offre l'opportunità di espandere la capacità produttiva e il GNP a costi bassi se non addirittura nulli producendo beni per i mercati esteri che non vengono domandati a livello locale (Fig 12.3). L'argomento vent-for-surplus fornisce uno scenario analitico più realistico che ripercorre l'esperienza vissuta da molte LDCs. Tuttavia, nel breve periodo, coloro che beneficeranno di questo processo saranno gli imprenditori stranieri giunti nelle LDCS colonizzate. Nel lungo periodo, questa situazione può generare una situazione di "enclave", cioè può inibire le necessarie trasformazioni strutturali nella direzione di un'economia maggiormente diversificata e auto-sufficiente.

Tecnologia di produzione fissa e liberamente disponibile. Sovranità del consumatore: il rapido cambiamento tecnologico (soprattutto in Occidente) incide sull'andamento delle relazioni commerciali internazionali. (Ad esempio, creazione di prodotti sintetici che sostituiscono i prodotti naturali spesso importati dal Terzo Mondo, gomma, lana, cotone). Di contro, alcuni paesi asiatici di recente industrializzazione hanno potuto seguire il modello sviluppato dalla teoria del ciclo del prodotto del commercio internazionale.

Mobilità interna dei fattori e perfetta concorrenza (assenza di rischio e incertezza): critica strutturalista, fenomeno dei rendimenti crescenti, concorrenza imperfetta e mercati controllati. Argomentazioni strutturaliste sostengono che più le nazioni dipendono dalle esportazioni di prodotti primari, più rigide diventeranno le loro strutture economiche e più esposte saranno ai mutamenti dei mercati internazionali. I modelli di commercio internazionale in mercati a concorrenza imperfetta (Helpman, 1989) giungono a conclusioni che contraddicono quelle della teoria tradizionale del libero commercio.

Il governo nazionale non gioca alcun ruolo nelle relazioni economiche internazionali; i prezzi internazionali sono stabiliti dalle forze del mercato (domanda e offerta). In realtà, i Governi non sono osservatori imparziali ma esercitano un ruolo attivo, avvalendosi di diversi strumenti di politica commerciale (tariffe, quote, sussidi alle esportazioni). La storia della crescita industriale del Giappone negli anni '50 e '60 e le più recenti performance di Taiwan e della Corea del Sud sono esempio significativi del ruolo determinante delle politiche industriali perseguite dai rispettivi Governi.

Tutte le economie possono prontamente procedere ai necessari aggiustamenti per adeguarsi ai mutamenti nei prezzi internazionali. In realtà, molte economie soffrono di deficit commerciali che impongono l'adozione di misure che le allontanano dalle condizioni di libero commercio.

I guadagni del commercio percepiti da ciascuna nazione beneficiano i residenti di quella nazione. Questo in realtà non avviene dove si sviluppano economie di "enclave".






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