Caricare documenti e articoli online 
INFtub.com è un sito progettato per cercare i documenti in vari tipi di file e il caricamento di articoli online.


Meneame
 
Non ricordi la password?  ››  Iscriviti gratis
 

MALATTIE RARE

medicina



MALATTIE RARE



Fui solo come un tunnel. Da me fuggivano gli uccelli

e in me irrompeva la notte con la sua potente invasione.

Per sopravvivere a me stesso ti forgiai come un'arma,

come freccia al mio arco, come pietra per la mia fionda.

(P. Neruda)


I  UNA DEFINIZIONE DELL E MALATTIE RARE



Il fenomeno delle malattie rare è relativamente recente. Il concetto di malattia rara è comparso per la prima volta in un articolo di Holzman del 1978, ed è cominciato a divenire argomento di interesse e di riflessione solo dagli anni '80. La caratteristica comune di queste patologie è di essere potenzialmente invalidanti e prive di terapie specifiche o trattamenti risolutivi, e vengono definite rare perché a livello epidemiologico presentano una bassa prevalenza (ossia un basso numero di casi rispetto alla popolazione generale). Questo criterio di definizione quindi non inquadra ed orienta ad un ordine determinato di manifestazioni cliniche, quanto piuttosto una condizione di bassa prevalenza a cui presumibilmente si associano una serie di questioni e problemi condivisi. Allo stesso tempo comprendiamo che per definire una malattia come rara deve essere innanzitutto stabilito in modo convenzionale un margine di prevalenza, oltre il quale distinguere una malattia rara da una non rara; un margine propriamente convenzionale[1]: basti pensare che in USA deve essere inferiore a 200.000 casi nell'intera popolazione (che corrisponde pressappoco a meno di un caso su 1.300), mentre nella Comunità Europea è stato stabilito a meno di 1 caso su 2.000, ed in Giappone a meno di 1 su 2.500. Un aspetto significativo delle malattie rare è che ben oltre la metà di esse (alcune stime arrivano all'80-90%) sono interessate da una componente genetica, anche se nemmeno questo ci aiuta a restringere o a definire caratteristiche cliniche comuni nelle malattie rare. Si riconoscono attualmente circa 7.000-8.000 patologie definibili come rare, anche se bisogna considerare che l'universo che include tali patologie si sta ancora espandendo, tendendo ad aumentare di pari passo con l'avanzamento della clinica e della diagnostica medica. Un paradosso è che nonostante ogni patologia rara si presenti per definizione con scarsa frequenza, nell'Unione Europea si stima che circa il 6-8% della popolazione generale sia affetto da una malattia rara, ossia tra i 27.000.000 e i 36.000.000 di persone (secondo i dati dell'UE). Secondo Orphanet, nel 2004 in Italia i malati rari sarebbero stati più di 1.500.000.

Rispetto alle definizioni, possiamo distinguere:

Malattia rara (rare disease): caratterizzata da bassa prevalenza

Malattia dimenticata (neglected disease): malattie frequenti, pericolose e contagiose, che sono molto diffuse nei paesi in via di sviluppo, ma non in quegli industrializzati. Sono prive di investimenti per la ricerca-intervento, perché non rappresentano un mercato appetibile, restando quindi trascurate.

Malattia orfana (orphan disease): quella malattia che non è oggetto di investimenti di ricerca, caratterizzata quindi da uno scarso interesse e dalla mancanza di progetti per il suo studio e per il suo trattamento. Può comprendere sia una malattia rara, che una malattia dimenticata.

Farmaci orfani (orphan drug): sono farmaci utili al trattamento delle malattie rare. Per le caratteristiche del loro target, non rappresentano oggetto di particolare interesse per le industrie farmaceutiche, poiché i costi per la loro realizzazione e commercializzazione non sarebbero, in normali condizioni di mercato, nemmeno coperti dai ricavi.


II QUALE REALTA' EMERGE ATTRAVERSO LA CATEGORIA "MALATTIE RARE"

Dalla premessa ci è possibile risaltare che con "malattie rare" si determina e si fa riferiamo ad un fenomeno sociale, e non ad una questione di clinica medica, anche se evidentemente interessa un insieme di patologie organiche definito attraverso criteri epidemiologici.

Malattie rare, come categoria, "benché spuria (a causa della sua disomogeneità interna) risulta strumentalmente utile per i sistemi di welfare, al fine di organizzare una struttura di rete che sia in grado di gestire quadri complessi, i quali assumono, in ultima analisi, una configurazione di problemi almeno in parte sovrapponibile. [.] la priorità attribuita al criterio di prevalenza [.] assume il senso di <<spostare>> l'attenzione dagli aspetti puramente medico-bilogici del fenomeno, con l'obiettivo di porre invece in risalto la più ampia e complessa dimensione sociale, assistenziale e solidaristica in cui tale fenomeno complessivamente si colloca, nonostante la sua disomogeneità interna"[2].

La condizione di "rarità" quindi serve a rendere immediatamente disponibili alla riflessione 353b14d una serie di problemi, se non proprio sistematici, decisamente ricorrenti, e che proviamo a riassumere così:

Difficoltà a diagnosticare esattamente e in tempi utili la patologia

Mancanza di programmi adeguati di ricerca e mancanza di cure adeguate

Difficoltà a riuscire a trovare il Centro clinico specializzato in grado di trattare con competenza scientifica e di servizio la patologia

Inesistenza o scarsità dei Centri di riferimento per la patologia, spesso localizzati in regioni diverse dalla propria

Forti difficoltà nell'individuazione dei percorsi più idonei

L'assunzione di quote più elevate di livelli di responsabilità circa le scelte e la gestione della malattia da parte del paziente: tendenza a delegare il problema al solo competente contro maggiore rilevanza di processo a tutta la rete


III   DIFFICOLTA' A DIAGNOSTICARE ESATTAMENTE E NEI TEMPI UTILI LA PATOLOGIA

La malattia, se rara, è anche prevedibilmente poco trattata a livello scientifico. E' quindi poco probabile che un medico, per quanto specialista, l'abbia incontrata e studiata nella sua formazione; e allo stesso modo nella sua pratica clinica ne avrà difficilmente fatto esperienza. Questo fa sì che la malattia rara poco si conosca, e difficilmente si riconosca: purtroppo le conseguenze del ritardo diagnostico, da un punto di vista clinico, sono talvolta irrimediabili, proprio per la caratteristica degenerativa della maggior parte di queste patologie. Inoltre l'errore diagnostico espone spesso a rischi importanti, conseguenti al mancato trattamento della patologia, o agli effetti iatrogeni o collaterali di interventi o terapie sbagliate.

Crediamo che, dal punto di vista del paziente, la diagnosi rappresenti solitamente l'evento di realtà attraverso il quale può prendere avvio, per quanto questo possa risultare faticoso, la riorganizzazione possibile del progetto esistenziale della persona che si ammala. E' un momento particolarmente denso, dove ogni sfumatura acquista rilevanza e pregnanza simbolico-emozionale. Ipotizzando che lo star male sia il preannunciatore e l'attivatore fantasmatico di dimensioni violative, distruttive e mortifere, l'evocatore di "oggetti parziali" e persecutori, con la diagnosi il paziente può cominciare a disporre di un contenitore simbolico e di un modello di funzionamento (più o meno) definito entro cui poter collocare e organizzare il proprio "star male". Non è solo la categoria diagnostica, ma il destino, o meglio la destinazione progettuale che richiede una specifica malattia a divenire portatrice di senso: dunque, la diagnosi segna, oltre l'inquadramento clinico della sintomatologia, piuttosto che l'interpretazione degli esami strumentali, la possibilità di avviare un progetto di cambiamento: tanto più assunto ed investito, tanto più implicante l'elaborazione del lutto e la mobilitazione delle proprie risorse; un compito certamente non semplice, né (psicologicamente parlando) economico, anche se opportuno, necessario.

Stare male, senza ricevere una diagnosi, significa in qualche modo star male senza sapere il perché, e lì dove la scienza questo perché promette di assumerlo e organizzarlo in codici e modelli predeterminati, ossia indipendenti dal paziente (e permettendogli così un certo spostamento del carico e dell'impegno emotivo dell'"autoinvestigazione selvaggia"), non riuscire a trarre una diagnosi, pur consultando medici e facendo esami, alimenta esponenzialmente nel tempo la difficoltà di portare avanti strategie adattive, facendo spesso naufragare verso il vissuto affettivo di impotenza e disperazione (il cosidetto helplessness), a cui conseguono atteggiamenti di rinuncia, autocondanna o abbandono. Il senso di padronanza e l'assunzione di un atteggiamento attivo e propositivo di strategie per gestire l'evento della malattia è in questo senso direttamente connesso all'informazione posseduta sulla malattia, al tipo di accordo emozionale-affettivo che viene a crearsi con il medico e al contesto di sfondo che funge da matrice di significazione e simbolizzazione: costrutti come il locus of controll interno (Rotter, 1966) - ossia la percezione di poter influenzare e padroneggiare i propri eventi di vita e destino. Solano (2001) nota che il locus of controll interno è un atteggiamento mentale affine alla posizione depressiva descritta dalla Kleine, quindi ad una costellazione di rapporti affettivi più maturi con gli oggetti, così come il locus of controll esterno lo sarebbe della posizione schizo-paranoide -, o la self efficacy (Bandura, 1986), dovrebbero essere considerati in questo senso come variabili dipendenti. Non ricevere una diagnosi è da molti pazienti[3] descritto come "un limbo": limbo (limbus patrum e limbus puerorum), ossia la condizione di chi, senza peccati personali, e pur senza colpa, non essendo stato battezzato e purificato dal peccato originale, attende il Giudizio Universale, non meritando appieno né l'Inferno, né il Paradiso, ma neanche il Purgatorio.

Nel dominio della tecnica, non di rado poi il paziente che non si sa diagnosticare a livello biomedico viene diagnosticato a livello psicologico: ansia, stress, "disturbi fittizzi", etc. Il ricorso alla "psicologizzazione" avviene generalmente quando il medico non riesce ad individuarne la causa del problema lamentato dal paziente; anche se, di solito, dopo aver tirato in gioco il problema d'ordine psicologico "non segue alcuna proposta di intervento, per cui il paziente sente questo tipo di risposta come una condanna senza appello. <<Allora significa che me lo debbo tenere>> è la risposta sconfortata che sintetizza questo vissuto. In alternativa, il paziente potrà ritenere di non essere stato preso sufficientemente sul serio e [.] cercare un altro medico"[4].

Scoprire di aver ricevuto una, o più d'una, diagnosi sbagliata, oltre a minare la fiducia del paziente nel medico, nelle possibilità di cura e nella medicina stessa, vanifica buona parte degli sforzi adattivi che la persona-malata ha dovuto sin lì compiere nel tentativo di conciliarle la propria condizione e la propria vita attraverso un orizzonte progettuale, esponendosi talvolta a pericolose esperienze di impotenza e di inefficacia.

Esiste infine un problema difficilmente trascurabile. Come abbiamo visto le patologie rare vengono definite in base alla prevalenza, e ciò implica la possibilità di riuscire a disporre, in ogni momento, del numero effettivo di pazienti affetti da quella patologia: tralasciando i problemi della rete informativa sulle malattie rare, esiste quindi comunque una certa probabilità che l'errore diagnostico, decisamente diffuso tra le malattie rare, allontani dalla possibilità di disporre di un quadro epidemiologico esaustivo del fenomeno.


IV   Mancanza di programmi adeguati di ricerca e mancanza di cure adeguate

Le terapie farmaceutiche derivano dalla ricerca. Come abbiamo notato la ricerca sulle malattie rare è frenata dalle più basilari regole di mercato. Le industrie farmaceutiche vantano importanti ed efficienti laboratori di ricerca, tuttavia la loro attività è naturalmente sostanziata dalle logiche di profitto. Per quanto esse si possano muovere all'interno di programmi di responsabilità sociale d'impresa, investendo parte dei loro capitali anche sulle ricerche per malattie rare, questi sforzi appaiono decisamente insufficienti, e necessitanti di ulteriori contributi. Perché se non è il movente economico, esistono comunque importanti spinte etiche e politiche[5] che sembrano voler promuovere la costituzione di appositi Fondi o altri contributi pubblici da destinarsi a queste ricerche.

Allo stato attuale, invece, per parecchie di queste malattie sono disponibili solo trattamenti sintomatici: il medico e il paziente devono per la maggior parte dei casi essere disposti ad accettare ed elaborare le loro fantasie di onnipotenza-risolutiva, lasciando aperta la possibilità di potersi vedere sfumare le aspettative di miglioramento clinico.

La difficoltà del medico che prende in cura un paziente con malattia rara è di riuscire a operare al dì là dei protocolli, dei trattamenti specifici, e di modelli sperimentati di intervento: lo stato di indeterminatezza e i margini di inesattezza sono generalmente molto più estesi che nelle altre malattie. L'approccio che il medico deve mettere in gioco assume spiccate connotazioni esplorative, e dosi massicce di responsabilità, per l'ampia variabilità e incertezza entro cui agisce. Nel rapporto con il malato raro, l'impossibilità del medico di potersi affidare alla tecnica, ad uno specifico trattamento, o ad un farmaco, ma prima di tutto ad una sufficiente letteratura, lo sollecitano a porsi in un atteggiamento necessariamente più idiografico, attento e rispondente, che può essere assunto solo se si riesce ad accettare l'alta implicazione, l'impegno e l'esposizione ai rischi che questo comporta.


V DifficoltA' a riuscire a trovare il centro clinico specializzato in grado di trattare con competenza scientifica e di servizio la patologia

La possibilità che il medico si ponga verso il paziente malato raro con un atteggiamento di maggiore disponibilità (appunto, dovuta all'assenza degli abituali strumenti "scientificamente legittimati" che correlano il suo agire) professionale, tuttavia, non dipende dal solo medico. Il servizio di secondo livello (ovvero dove è situato quello medico specialistico nel nostro SSN) si attua elettivamente all'interno degli ospedali. Come abbiamo cercato di dimostrare (vedi "Aspetti psicosociali del SSN") gli ospedali non sono solo "le dimore professionali dei medici", ma sistemi organizzativi che erogano servizi complessi. La disponibilità a trattare in modo clinicamente adeguato le malattie rare, non dipende dal medico soltanto, ma deve corrispondere ad un preciso orientamento organizzativo.


DISABILITA' VISIVA. ORGANIZZATIVA

M. ha 30 anni e vive in un piccolo paese nella campagna attorno Pisa. Dopo molte diagnosi sbagliate, scopre di avere, a più di dieci anni dalla comparsa dei primi sintomi, una malattia rara, ad interessamento vascolare: al momento di questa diagnosi, a seguito di ripetute uveiti, ha perso gran parte del campo visivo e del visus. Conoscendo la sua diagnosi comincia, come la definisce lei, a fare una "gimcana" tra gli specialisti oculisti, alla ricerca di qualcuno in grado (e disposto) di trattarla con competenza. Arriva ad un Policlinico di Roma, in un Centro rinomato e specializzato per queste patologie, e viene presa in cura da un oculista di questo reparto.

Uno degli aspetti che caratterizzano l'intervento per trattare la malattia di M è stabilito dalla necessità di poter rispondere in modo tempestivo al primo segnale d'uveite, con dosi "d'attacco" di cortisone, per impedire conseguenze "cicatriziali" sulla retina, come postumi dell'infiammazione. Per la prassi del Centro, tuttavia, M. per poter essere visitata deve prendere appuntamento che, compatibilmente con gli altri appuntamenti, può essergli dato anche dopo un mese. L'oculista che l'ha in cura gli propone, per ovviare questo "impedimento organizzativo", di potersi incontrare nel suo studio privato, così da riuscire ad operare con l'opportuna tempestività.

Questo caso ci aiuta a riflettere su come la competenza scientifica di un Centro e la disponibilità individuale di un medico ad operare secondo le necessità del caso, non sono gli unici ingredienti necessari per fornire un servizio efficace: crediamo che serva piuttosto, a livello organizzativo, la volontà e uno specifico assetto gestionale orientato alle realtà dei pazienti con cui si è in contatto, per poter rispondere in maniera adeguata alle esigenze di cura (esigenze del resto che fondano il mandato sociale dell'organizzazione ospedaliera stessa).



In Italia esistono Centri clinici ospedalieri che si propongono di trattare anche malattie rare. Alcuni di essi hanno adottato criteri gestionali idonei per erogare servizi adeguati alle esigenze di cura dei malati rari, e rappresentano esempi di eccellenze organizzative, le cui esperienze potrebbero fungere da modello, confronto e riflessione.

Per il malato raro, una volta ricevuta la diagnosi, non è comunque semplice riuscire ad orientarsi nel SSN e individuare il Centro a lui utile, rispetto alla sua patologia. Manca, e lo abbiamo altrove evidenziato, un operatore in grado di lavorare a livello di rete  con i vari servizi: abbiamo suggerito che questa funzione potrebbe essere assunta dal MdB, una volta che questi si sia attivato ad individuare e mappare una rete, determinandone la natura dei servizi. L'esperienza dimostra invece che allo stress della malattia, e di una diagnosi spesso difficile e lunga, si aggiunge generalmente la difficoltà di riuscire ad individuare il giusto Centro di cura: il paziente comincia ad esplorare un contesto confuso e difficilmente decifrabile, quello dei servizi ospedalieri e delle competenze utili per trattare la propria patologia. Il paziente, non disponendo dei criteri di valutazione e orientamento necessari, ha logicamente bisogno di essere indirizzato al giusto Centro. Negli ultimi vent'anni, per porre rimedio a questa situazione di smarrimento e desolazione, si sono cominciate a costituire spontaneamente Associazioni di malati rari, assumendo le funzioni di tutoraggio dei loro soci, condivisione di informazioni sulla patologia, orientamento ai servizi, e talvolta rivendicazione dei diritti. Purtroppo però, nonostante queste Associazioni si inseriscano in modo spesso sostitutivo alle carenze del Sistema Sanitario, quasi mai chi esegue la diagnosi propone (se non già il Centro clinico qualificato a trattare la malattia!) il contatto con l'associazione di riferimento rispetto alla patologia.


VI   Inesistenza o scarsitA' dei Centri di riferimento per la patologia, spesso localizzati in regioni diverse dalla propria

Non solo i malati sono rari, ma anche i Centri clinici competenti a trattare la loro patologia. Che non vi possa essere una distribuzione capillare di questi Centri è una condizione comprensibile, tuttavia è un evento altamente problematico per il paziente e molto spesso per tutta la sua famiglia. Un paziente può trovarsi ad avere un Centro di riferimento nella propria città, nella città della propria provincia, in una città della propria regione, ma anche in un'altra regione, e a volte addirittura dall'altra parte d'Italia: negli ultimi casi i compiti esistenziali relativi alla malattia s'amplificano enormemente nella loro gravità. La distanza significa: disporre del tempo necessario a raggiungere il Centro; costi di viaggio e di pernottamento da dover sostenere; spesso, disponibilità di altre persone (solitamente famigliari) ad accompagnare il paziente; sostenere il viaggio e gli aspetti simbolici che ne derivano; e significa anche incertezza della relazione con il medico, poiché la sua presenza è mediata da un viaggio; difficoltà a sviluppare un senso di presenza e di co-determinazione dei processi di cura: "il malessere è qui e il dottore sta laggiù" amplifica la sensazione di isolamento rispetto ai problemi impliciti alla malattia, e mina la possibile alleanza medico-paziente (impedendola o idealizzandola).

Da una parte l'Unione Europea, in linea generale, incentiva e promuove questo tipo di mobilità verso la cura, facendo leva sul "diritto di scelta della cura" anche tra paesi diversi, dall'altro è in casi come questo che tale realtà non disegnandosi come diritto, bensì come esigenza, assume connotati non ignorabili. L'impegno, anche solo quello puramente pratico di tempo e di denaro necessario per potersi curare in un Centro localizzato in una regione lontana dalla propria, determina un necessario sconfinamento verso altre persone dei compiti, che si diffondono principalmente sulla propria unità famigliare o sulle risorse di supporto della propria "rete informale".


VII  Forti difficoltà nell'individuazione dei percorsi più idonei

La mancanza di informazioni, di orientamento, di comprensione dei percorsi sanitari e assistenziali adeguati, e di chiari inviti di condivisione circa la scelta di tali percorsi, sono condizioni che ricorrono nella "carriera" di un malato raro. La particolarità e per certi versi la necessaria improvvisazione che sovente si verifica nella scelta e nelle modalità di fruizione dei servizi, rende i percorsi sanitari e assistenziali dei malati rari assai poco predeterminabili. Allo stesso tempo è palesemente evidente quanto un supporto orientativo e progettuale, anche semplicemente basato sulla possibilità di rendere disponibili informazioni concretamente utilizzabili, rappresenti un sostegno indispensabile per gestire le quote di disorientamento, confusione e smarrimento, implicite.

I cambiamenti dei riferimenti culturali e degli assetti sociali, hanno portato ad un processo di ridefinizione del Welfare, che si attua fondamentalmente attraverso la modificazione della mappatura normativa e funzionale dei suoi diversi ambiti. Anche la crescente sensibilità verso le problematicità delle "malattie rare" ha contribuito a promuovere progressivi cambiamenti, a livello europeo e nazionale. Se da una parte questo potrebbe coincidere con una auspicabile tensione verso un generico miglioramento delle condizioni, dall'altro è indispensabile, proprio per permettere all'utente (destinatario del processo di miglioramento) di riuscire a godere appieno degli eventuali vantaggi (supponendoli come ispiratori del cambiamento), rendere disponibili strumenti orientativi appropriati per poter utilizzare i benefici del cambiamento, senza subirlo. Ancora una volta ci sembra si riproponga un problema di orientamento del malato raro verso i percorsi di fruizione dei servizi, ma anche l'indicazione sempre più sbiadita di possibili figure di riferimento formali rispetto questa necessità: si verifica solitamente che questa funzione orientativa sia spontaneamente assunta, o dal MdB (o pediatra), se preparato e volenteroso, oppure dalla propria associazione di malati, soprattutto se competentemente organizzata. E poi c'è internet, una fonte inesauribile di notizie ed informazioni attorno le malattie rare: rappresenta difatti lo strumento elettivo dei paziente per le loro ricerche sulle patologie e sulle cure, ed è anche molto utilizzato per l'individuazione delle risorse sociali e per la costruzione della mappa dei soggetti di interesse presenti nella rete; tuttavia il problema che comporta l'uso di internet è che non esiste una reale garanzia sulla validità ed affidabilità di ciò che vi si trova, e i siti che riportano inesattezze o opinioni prive di fondamento, possono essere confusi con quelli realmente seri ed utilizzabili

Quale sia la strada, comunque, la possibilità di orientarsi aumenta esponenzialmente la capacità di individuare le risorse nel contesto e di poter dare agli elementi di realtà un peso più rilevante, riuscendo a partecipare in modo attivo alle decisioni: sono tutti fattori che facilitano la possibilità di un "adattamento assunto" tra il proprio destino progettuale e i limiti e le opportunità del contesto.   


VIII    L'assunzione di quote più elevate di livelli di responsabilitA' circa le scelte e la gestione della malattia da parte del paziente: Tendenza a delegare il problema al solo competente contro maggiore rilevanza di processo a tutta la rete

Abbiamo accennato al vissuto di confusione e di isolamento reattivo che può cogliere una persona con malattia rara a seguito dell'aumento sconfinato della complicatezza dei compiti adattivi che egli si trova ad affrontare in un contesto non semplice: un sentiero spesso non chiaro, a volte addirittura ignoto, ancora tutta da battere. L'accordo sociale tra medico e paziente, che presuppone il potere della cura, nel suo livello esplicito, quanto in quello collusivo, nelle malattie rare si trova sconfermato. Certo non solo nelle malattie rare, ma in tutte le patologie croniche e prive di cura specifica. Tuttavia nelle malattie rare, a nostro avviso, esiste una trasgressione più di base che non quella al potere della cura. Un paziente con patologia rara scopre di avere una patologia, oltre che priva di terapie specifiche, soprattutto trascurata dall'interessamento della medicina: il che è un po' come dire che l'impotenza che ne deriva, qui, è per colpa. La colpa dell'indifferenza. Lo stesso paziente spesso scopre che le sue difficoltà sono trascurate anche dai servizi, essendo questi a livello di territorio molto dispersi, a livello di accesso non facilmente individuabili, e a livello di prestazioni spesso in sovraccarico di impegni. Inoltre, è opportuno rilevare che un paziente che trova difficoltà di orientamento e di accesso ai servizi sarà prevedibilmente un paziente che inizierà tardivamente gli interventi di cura, con tutte le precipitazioni del caso sull'andamento della malattia, e perdendo anche i possibili benefici di azioni di prevenzione.

In buona sostanza, le criticità delle malattie rare non possono essere poste nella sola mancanza di cure specifiche (condizione del resto comune anche ad altre patologie): a livello simbolico-affettivo queste affondano nelle potenti emozioni derivanti dal tradimento dell'accordo collusivo di "presa in carico", garantito dalla medicina. Ma non solo, perché anche nei servizi assistenziali la situazione non cambia di molto: si riscontrano molte difficoltà ad inserirsi in circuiti di reti formali, poiché questi sono frammentati sul territorio con dei legami così deboli che potrebbero intendersi quasi del tutto a carico dell'utente.

L'isolamento è la deriva meno auspicabile, ma tuttavia probabile della difficile condizione in cui sono situati i malati rari; difficile a tal punto che spesso non riesce ad essere sostenuta: fanno da corollario sentimenti di impotenza, perdita di speranza, il ritiro sociale, la passività e la rinuncia progettuale. Un costo per le persone, ma anche per la società, molto alto.

Lì dove la presa in carico dei bisogni esistenziali di una specifica popolazione, non viene assunta ed assorbita da una rete sociale predisposta e ben coordinata (e quindi non casuale e spontanea), si verifica un isolamento che condensa il peso di questi bisogni sovraccaricandolo su pochi soggetti (tra i primari, la famiglia); avviene in altri termini che strutture reticolari, piuttosto che svilupparsi secondo le possibilità potenziali del contesto, si ritirino, intensificando sproporzionalmente i pochi legami residui, elettivamente di livello informale: reti poco ampie, dunque, ma eccezionalmente dense (Maguire 1983). Questa condizione tuttavia è particolarmente problematica, perché se da una parte i sistemi chiusi possono essere (ma possono anche non esserlo affatto!) altamente protettivi, dall'altra hanno la tendenza a sclerotizzare la loro struttura (fissandone caratteri egocentrici o paranoidi), autoimpedendone lo sviluppo. La malattia (e la malattia rara ancora più facilmente) in questi casi diventa il mito che regge ed organizza le relazioni, facendo dello "stare insieme" una sorta di rituale collettivo di riparazione: una riparazione impossibile, poiché riparare riporterebbe quella tensione centrifuga e di sviluppo, che a questo punto minaccerebbe l'unica modalità ri-conosciuta di stare insieme. Con sviluppo non facciamo riferimento al raggiungimento di teoriche tappe evolutive, bensì alla attuazione di concrete linee progettuali, entro cui si realizza un incremento sostanziale della capacità del vivere nel proprio presente e di orientarlo in modo consapevole verso il proprio futuro; facciamo insomma riferimento a un modello si sviluppo che si fonda e trova sostanza nello spazio relazionale "individuo-contesto".

In un'ottica di sviluppo, progettuale e autorealizzativa, la connessione con il contesto, la sua conoscenza, la capacità di porvi contributi e di sapervi intervenire operando delle scelte, sono elementi fondamentali. Soprattutto nelle malattie rare, caratterizzate da una notevole difficoltà a individuare una connettività sociale in grado di dare senso e continuità di senso, si rende indispensabile invece proprio la possibilità di muoversi in contesti e condizioni praticabili: ossia possedere una competenza a saper leggere, riconoscere ed agire nel sistema. Competenza che si acquisisce proprio attraverso i processi di scambio e supporto, emozionale e informativo, tra il soggetto e la sua rete, informale e soprattutto formale (ossia degli operatori professionali e servizi).

Il malato raro si trova ad agire in condizioni di instabilità (le norme di riferimento possono cambiare, man mano che il fenomeno viene trattato con provvedimenti politici) e di incertezza (sia diagnostica e terapeutica, che normativa e dei "diritti"): la sua condizione non gli permette di affidarsi a processi automatizzati o di delega, ma al contrario lo sollecita a mobilitare gradi più elevati di partecipazione e responsabilità. Responsabilità implica la capacità di presenza, di assunzione consapevole delle criticità, delle prospettive ed orizzonti additati attraverso le scelte: significa in altri termini percepirsi e continuare a percepire il senso delle proprie azioni nelle conseguenze, sapendo di esservi già intervenuti e di potervi continuare ad intervenire.

Alla luce di quest'ipotesi proponiamo due scenari, da considerare come vertici: da una parte l'isolamento reattivo con un attaccamento sovrainvestito a pochissime figure significative (ad esempio la sola famiglia, o un solo famigliare, o il solo medico specialista), dove sono prevedibili aspettative magiche, alti livelli di controllo colpevolizzante e di dipendenza, e con il bisogno continuo e mai appagabile di doversi confermare la promessa di fedeltà: la richiesta impossibile, quella di "trovare il tutto in una sola parte" e di "realizzare esistenze, senza lasciarle realizzare", spinge a continue prove per confutare la natura evolutiva delle cose, la sua tensione dispiegativa (qui presa nel suo significato etimologico: distendere, srotolare, sciogliere). Si tratta in altri termini di relazioni non volte allo sviluppo e alla crescita, bensì tutte dedicate al mito dell'espiazione del male e alla bonifica del residuo relazionale, nel progetto di "cementificare assieme", in una sorta di reciproco possesso dell'altro: questo implica costantemente una messa alla prova, poiché di base nella relazione si verifica una restrizione dei termini e degli ambiti di realtà, lasciando che gli elementi fantasmatici-emozionali condensino a tal punto da determinare una ambivalenza ad altissima pressione: l'unico modo per neutralizzare questa pressione è "costringere l'amico a dimostrare di non essere il nemico", anche se il nemico potenziale è, piuttosto, quello che esce dalle fantasie prodotte dal proprio mondo interno (Carli, Paniccia, 2003). Sull'altro vertice invece proponiamo la progettualità assunta, dove l'investimento verso l'esterno e la capacità d'orientamento nel contesto riescono comunque a mantenersi, determinando e/o conseguendo alla realizzazione dello sviluppo delle quote di autonomia possibile. Ovviamente questa condizione non può essere considerata il semplice esito della "natura caratteriale dell'individuo", quanto piuttosto l'esito multidimensionale del rapporto persona-contesto: il mondo sociale, con le sue caratteristiche contingenti, pone dei limiti e delle risorse alle persone, ma queste sono agenti e influiscono, fosse anche impercettibilmente, sull'ambiente con cui sono in contatto, contribuendo alla sua struttura e intervenendo sul suo destino. Concetti come l'accordo psicosociale (Murrell, 1973), proposto dagli psicologi di comunità come il rapporto tra le pressioni ambientali e le aspettative individuali, ossia le sintonie o "le discrepanze tra desiderata individuali e desiderata organizzativi"[6], chiariscono i potenziali di sviluppo e di benessere lì dove esiste una continuità di senso e concordanza d'attuazione intersistemica: permettendo la realizzazione dello sviluppo diffuso e a più livelli di elementi quali responsabilità e autonomia, quindi ad un io adeguatamente integrato ed individuato nel proprio sistema sociale. Il rapporto tra quella che abbiamo definito progettualità assunta, il benessere e gli effetti preventivi e promozionali sulla salute, è ampliamente sostenuto da una eterogenea e numerosa letteratura, e oltretutto riconosciuto a livello politico anche dai rapporti della Commissione Europea.


IX   TRA ORFANI E PIONIERI

Quando si affronta il fenomeno delle malattie rare, il termine che si incontra in modo più ricorrente è orfano. Come abbiamo visto anche nelle definizioni ritroviamo questo termine: malati orfani, e farmaci orfani.

Proviamo a rintracciare il livello simbolico-affettivo di questa parola. Seguendo l'origine etimologica di orfano siamo condotti a rappresentarci in maniera molto diretta l'essenza emozionale della violenza propria di un tragico rapimento (arp-àzo, ossia "rapisco", che deriva dalla stessa radice di orph-òs), irrisolvibile e non risarcibile: quello dei genitori rapiti dalla morte. I genitori sono del resto "gli agenti da cui si genera", "coloro che generano" (dall'etimologia di genit-us). La brutalità della perdita della propria matrice esistenziale, la dissolvenza del rapporto di continuità tra l'origine e il presente, la mancanza di una direzione, di una guida e di una condotta certa. L'orfano non ha radici, non ha riferimenti sicuri, è in balia degli eventi, delle avventure e disavventure.

Come abbiamo proposto, nel contesto delle malattie rare l'inclusione simbolico-affettiva entro la parola orfani non pensiamo sia da attribuire principalmente alla mancanza di cure specifiche. In altri termini, crediamo che non sia l'assenza di strumenti (le cure) a sollecitare questa condizione emozionale, ma qualcosa di molto più basico. La percezione di essere parte di un'unità più ampia, origina e si struttura attraverso l'esperienza di coerenza, continuità e del comune destino di senso, nonché con la condivisione delle medesime regole di funzionamento. In questo caso l'accordo sociale da cui deriva l'"essere parte" viene compromesso da una serie di importanti trasgressioni: il mancato della medicina (e si pensi al peso che questo può assumere considerando la medicina nella sua declinazione "beneficiale e salvifica"), l'assenza di misure e strutture adatte per l'inclusione delle caratteristiche e delle esigenze dei malati rari nel sistema sociale in generale, e in quello sanitario-assistenziale in particolare, la mancanza di serie premure ed intenti di ricerca, la percezione di non avere un posto designato nel sistema sociale e di convivenza, la scoperta di dover abitare in uno spazio psicologico privo degli elementi sociali famigliari, rassicuranti e riconoscibili. A questo punto ci sembra che questa condizione incammini su due grandi sentieri: il primo, riaffermare un posto preteso, rivendicare diritti, utilizzare quella stessa condizione di ingiustizia, di asimmetria, rovesciandola, attuando cioè l'onnipotenza passiva e colpevolizzante della vittima, con l'esclusività manichea e il privilegio reattivo che questo "status speciale" (malato raro) fa assumere (pur essendo un disagio il suo presupposto): in sintesi, quello che più sopra abbiamo chiamato "passività reattiva"; l'altro, provando a definirlo in una parola, il sentiero dei pionieri, gli apripista, coloro che ritrovandosi in un territorio nuovo e mai battuto, ingegnandosi, vi permettono il passaggio, rimuovendone gli ostacoli: partendo dalla constatazione, esperita in prima persona, di tutta la serie di mancanze a livello sistemico-sociale, del vuoto di funzioni e di funzionalità, proporsi attivamente all'esplorazione, promozione e alla costruzione o alla ricostruzione del sistema assente o non funzionante (appunto, attraverso la "progettualità assunta"). Crediamo che, in misura variabile rispetto ai compiti, queste due strade non debbano necessariamente escludersi a vicenda, ma anzi intersecarsi in maniera produttiva: la prima permette di rispondere all'interrogativo "chi siamo", permettendo l'assunzione consapevole di uno specifico punto di vista sulle cose, nonché del punto di posizionamento del "teodolite di lavoro" per cominciare a misurare distanze e inclinazioni delle funzioni e delle risorse nel contesto di riferimento; la seconda invece permette di intervenire nel contesto, favorendo e determinandone sviluppo: riuscire però a percorrere questa seconda strada è assolutamente indispensabile.

Queste prospettive sono tracciate chiaramente dalla psicologia di comunità, dove tra tutti trova rilievo il concetto dell'empowerment:

"Il concetto di potere è comunemente legato a un'idea di dominio e di possesso che non ne fa cogliere gli aspetti costruttivi e di sviluppo. E' a questo tipo di potere che fa riferimento l'empowerment, un potere non di oppressione ma di trasformazione, di attivazione del proprio e/o dell'altrui capitale (Amerio, Piccardo, 2000). Questo aspetto del potere si declina nel sentimento di controllo e di padronanza, nel desiderio di sviluppo e di emancipazione; crea reciprocità, chiama in causa le competenze attive dei soggetti, individuali e collettivi, mettendoli in grado di esercitare un realistico controllo sugli eventi, di far fronte ai cambiamenti o di produrre loro stessi delle condizioni di cambiamento. [.] La capacità di controllo è notoriamente considerata fonte di benessere e molti contributi teorici sono in grado di sostenere tale ipotesi [.]. Viceversa, la mancanza di potere può essere patogena e fonte di disturbi psicologici per coloro che la vivono. Può derivare da molti fattori tra loro interagenti di carattere soggettivo ma anche oggettivo, come ad esempio l'insicurezza economica, il mancato accesso alle informazioni, l'appartenenza a gruppi stigmatizzati, che facilitano l'interiorizzazione di immagini di sé negative e rendono meno capaci di pensare a se stessi coma a individui meritevoli, aventi il diritto e/o il potere di cambiare se stessi o la propria vita. [.] L'empowerment è un costrutto multilivello che spinge a pensare in termini di promozione della salute, di auto-aiuto e di definizioni multiple di competenza. La teoria dell'empowerment collega il benessere dell'individuo al contesto sociale e politico al quale egli appartiene e sostiene che le comunità possono migliorare la vita dei propri abitanti offrendo loro occasioni di essere attivi e di partecipare ai processi decisionali della comunità stessa"[7].


X La famiglia: un'unita' DI RIFERIMENTO imprescindibile

Quando una coppia decide di avere un figlio, compie un'importante passaggio di struttura. La nascita di un figlio attua un significativo stravolgimento degli ordini affettivi e un loro necessario riassetto: avviene nella coppia un sostanziale cambiamento, dove l'affettività, da percorsi lineari, passa a flessioni triangolari, speculari e tridirezionali. L'investimento progettuale affettivo, che può attuarsi per definizione solo su "un terzo", nella scelta d'essere oltre che coppia, genitori, eleggendo il figlio quale meta di sviluppo progettuale, implica l'introduzione in un nuovo assetto identitario, assunto innanzitutto attingendo nel proprio materiale affettivo-evolutivo, nei propri modelli identificatori (Siegel, Hartzell, 2003; Gambini, 2007).

Nel momento in cui si sceglie di diventare genitori già sono state mobilitate fantasie identificatorie e anticipatorie. La nascita del figlio è l'evento entro cui si iniziano a incontrare, o scontrare, tali fantasie con gli aspetti di realtà. Queste fantasie in modo più o meno preminente accompagnano per tutto l'arco di vita; anzi potremmo considerarle come dei coefficienti endogeni che orientano e danno continuità, tra la vita che è stata, quella che è, e quella che sarà: nei genitori esiste un modello attualizzatore dell'identità genitoriale per ogni fase della di vita, così come esiste una fantasia anticipatoria del figlio, per ogni sua fase di crescita, e per ogni attivazione di un modello, o fantasia anticipatoria, esiste uno scarto significativo con la realtà e con le prospettive che questa offre (Scabini, Cigoli, 2000).

La nascita di un figlio, il diventare genitori, il "crescere assieme", sono condizioni dove in continuo si attualizzano fantasie che necessitano di una costante elaborazione: questo processo non è affatto passivo, ma passa per fisiologiche crisi, elaborazioni di lutti (tra ciò che si aspetta e ciò che si ha), ri-organizzazioni progettuali; in sostanza con una definizione molto generale potremmo sintetizzare affermando che questo processo si disegna come una serie di cambiamenti che espongono a livelli (variabili, ma non eliminabili) di stress, come pure a considerevoli occasioni di sviluppo esistenziale e di profondissime gratificazioni ed arricchimenti affettivi.

Scoprire una malattia importante sul proprio figlio richiede ai genitori un impegno evolutivo decisamente maggiore, perché gli elementi che abbiamo sin qui descritto si trovano ad avere margini di grande distanza tra i modelli identificatori disponibili, le fantasie e le attese, e la realtà. Uno dei compiti più importanti che si trovano ad affrontare i genitori è l'individuazione delle risorse reali (e non di quelle ideali o che il senso comune direbbe. "buone"!), la loro acquisizione e la capacità di sapercisi muovere oltre i "diktat" convenzionalmente previsti (imposti o desiderati a priori) della propria esperienza. La possibilità di poter elaborare verso dimensioni di sviluppo, ossia riuscendo a mantenere attive ed aperte le possibilità di piena gratificazione affettiva, è un passo fondamentale, che si basa in modo complesso sull'intersezione degli aspetti interni ed esterni del sistema famiglia e sulla soddisfazione di coppia dei genitori: "Alcune relazioni entrano in profonda crisi, questo accade quando i partner reagiscono all'evento in modo differente e nel contempo non sono in grado di comprendere le reciproche reazioni all'evento. [.] La rabbia, la convinzione di essere stati puniti o lesi ingiustamente, nella ricerca di una causa o di un colpevole si riversa nei confronti del partner ritenuto responsabile della malattia del figlio. Talvolta, queste situazioni possono dare vita a profonde crisi coniugali, che non raramente sfociano in separazioni"[8]. Zanobini sottolinea: "In particolare, quando i genitori non riescono a superare il dolore iniziale, svilupperebbero una relazione distorta nei confronti del figlio [.]: si può infatti evidenziare un atteggiamento di rifiuto, che talvolta si esprime nella manifestazione comportamentale di <<correre da uno specialista all'altro>> per cercare una soluzione definitiva al problema; all'opposto, ma a partire dalla stessa difficoltà di accettazione, l'atteggiamento nei confronti del bambino può diventare iperprotettivo, e sostanzialmente tale da impedire al figlio disabile di crescere. Si può infine manifestare, ma generalmente con carattere transitorio, una più o meno completa negazione"[9], tuttavia particolarmente dannosa, perché espone a notevoli rischi (tendendo ad impedire ogni intervento, sia a livello affettivo, che terapeutico).

Quando l'evento della malattia colpisce un genitore dovremmo invece spostare l'asse degli elementi che abbiamo sin qui richiamati nel nostro discorso. Appare quindi chiaro come l'identità di ruolo del genitore si trovi in questo senso minacciata, e come i fantasmi dell'incapacità e dell'impotenza si trovino sollecitati in modo più esplicito e diretto. Nelle condizioni poi in cui è il figlio, bambino o adolescente, a doversi prendere cura del genitore, solitamente si genera un vero e proprio rovesciamento dei ruoli, determinando nei figli "esperienze parentali [.] povere d'amore e di supportività, anche se non necessariamente rifiutanti [che nel tempo scoraggiano] la autonomia del figlio e ne incoraggiano la dipendenza come a favorire nel figlio una sorta di compiacenza nei confronti dei genitori"[10]; in queste famiglie è come se si ribaltassero le naturali direzioni di sviluppo, provocandovi un controsenso che le arresta: nel rovesciamento dei ruoli l'aspetto paradossale è che il figlio si trova ad essere "il nonno di se stesso", così come il genitore "il nipote di se stesso"! In queste famiglie viene a caratterizzarsi una generale debolezza di senso nelle identità che impedisce l'esplorazione del mondo al di fuori della famiglia, determinando un notevole stato di invischiamento, con interazioni dominate da intrusività e mancanza di confini.

Sembra chiaro quindi come la famiglia sia un sistema, come cioè le persone che vi abitano siano tra loro così fortemente connesse e mutuamente determinanti, da farne cogliere l'importanza di considerarla come un'unità affettiva inscindibile: la sola attenzione all'individuo portatore della malattia, non renderebbe comunque la effettiva connotazione della realtà esistenziale dell'individuo, né la giusta portata del fenomeno prodotto dalla malattia. La attenzione all'unità famigliare permette inoltre di considerare in modo più corretto i possibili ambiti di risorsa per l'adattamento e lo sviluppo, uscendo dagli stereotipi e dalle pretestuosità dei luoghi comuni.

L'incontro con la malattia rara, e con i problemi e i difficili compiti adattivi a cui espone, non è solo una condizione irrimediabilmente negativa. Come tutti gli eventi critici, porta in sé potenziali importanti di sviluppo, almeno per la sua unità fondamentale di riferimento, cioè la famiglia. La difficoltà, a volte la tragicità di elementi di realtà immodificabili, mettono in crisi i modelli scontatamente attesi di identificazione di sé e delle cose: si entra in uno spazio sconosciuto, che può essere negato, oppure esplorato ed abitato, in quest'ultimo caso potendosi permettere aspetti e livelli di esperienza e di sviluppo insoliti, meno scontati e noti, ma anche più approfonditi, e a volte estremamente gratificanti (Andolfi, D'Elia 2007). L'evento critico, irrompendo in un ordine che si vorrebbe o pretenderebbe perpetuante e rassicurante, obbliga ad una perdita, ma potenzialmente permette, proprio per la necessità di riassettare un nuovo ordine, anche una rielaborazione di elementi esistenziali, modalità, vissuti, credenze, opinioni, linguaggi, scopi, obiettivi, valori, ecc.

La famiglia come sistema è a sua volta in rapporto con altri sistemi e con sistemi di livello superiore, inclusivi. In questo senso crediamo assolutamente parziale e approssimativo tenere in considerazione (nell'analisi o nell'intervento, o nella semplice riflessione) il solo individuo malato, così come pensiamo ragionevole sostenere che le risorse di sviluppo che la famiglia può attualizzare in relazione all'evento critico della malattia, non dipendono unicamente dalle caratteristiche di quella famiglia. Si pensi ad esempio al peso che possono assumere i valori e gli assunti culturali (Schein, 1985) di riferimento, o la sensibilità sociale e gli interventi che di volta in volta, e in modo diverso nel tempo, vengono focalizzati su un tipo di problemi e non su altri. La società è lo scenario iniziale e l'inevitabile rinvio esistenziale dell'agire umano. In molti studi (Maguire 1983; Froland, Pancoast, Chapman, Kimboko, 1981; Warren, 1981; Caplan, Killilea, 1976) si rende chiara la funzione del sostegno sociale: di protezione rispetto ai livelli più ingestibili di stress relativo a eventi critici[11]; di prevenzione rispetto a possibili conseguenze negative che possono derivare da tentativi difensivi inadeguati di reagire alle difficoltà; e di promozione dell'adattamento rispetto alle condizioni impegnative, del raggiungimento di gratificanti livelli di soddisfazione affettiva e del benessere, ma soprattutto della realizzazione e compimento di un proprio destino progettuale. "Si può definire sostegno sociale il supporto emotivo, informativo, interpersonale e materiale che è possibile ricevere e scambiare nelle reti sociali"[12]. Gli studi quindi mettono in evidenza che tanto più s'espande la distanza tra le logiche di funzionamento e di senso di una società e quelle di uno specifico nucleo famigliare, tanto più quel nucleo sarà isolato e deprivato di risorse adattive al cambiamento: e questa condizione è sia una fonte che una conseguenza di disagio. Disagio in cui ci sembra del tutto inutile distinguere nettamente le famiglie dai membri che le compongono. Così come ci sembra addirittura impossibile differenziare gli individui dai loro campi relazionali, soprattutto quelli ad alta pregnanza affettiva, come la famiglia (che è un'unità di matrici affettive comuni, di fantasie e simbolizzazioni, prospettive storiche e processi costruttivi condivisi della realtà e degli eventi); in questo senso proponiamo come sterile e improduttivo separare poi il disagio della famiglia, dal suo rapporto con la comunità e dal sistema sociale in cui è compresa. La possibilità di un qualunque soggetto (individuo o gruppo) di abitare, in coerenza con le proprie esigenze e compiti adattivi, lo spazio sociale, affrontando quindi soddisfacenti progetti realizzativi, ci sembra del tutto connessa con la continuità e la possibilità di una sintonia operativa tra quel soggetto e il suo contesto sociale. Sintonia operativa che passa anche attraverso la disposizione di risorse materiali e strumentali. Quando, ad esempio, una famiglia si confronta con le costellazioni delle esigenze relative alla malattia rare e dei compiti pratici da affrontare, verifica quando questi siano pervasivi rispetto alla quotidianità: e sotto l'aspetto economico, essendoci a volte dei costi diretti (quando i farmaci, o le analisi, o le riabilitazioni, o le terapie, non sono esentate; oppure quando il Centro di riferimento è in un'altra regione di Italia, dovendo così affrontare spese di viaggio e spesso di pernottamento), ma dovendo sempre sostenere quelli indiretti (quando la malattia porta a disabilità lavorative del paziente; ma anche ai limiti lavorativi e di carriera che comporta la mole di impegni necessari per l'adeguato sostegno al malato da parte dei suoi famigliari); e sotto l'aspetto progettuale, perché nelle malattie rare, molto del tempo e delle attività dei famigliari devono essere impiegate per tamponare le carenze del sistema sanitario-assistenziale, quindi per poter attuare, in modo sostitutivo, funzioni che potrebbero invece essere maggiormente coperte da politiche di Welfare più mirate. In conclusione, se la politica entra chiaramente in rilievo assumendo un ruolo determinante nel fenomeno delle malattie rare, allo stesso tempo proponiamo di considerare quale "unità minima" di interesse per la politica, non tanto l'individuo malato raro, bensì (e perlomeno) la sua famiglia.




[1] Attualmente con la Risoluzione del Parlamento europeo del 23 aprile 2009, si sottolinea che la necessità di "una maggiore flessibilità per evitare problemi nella classificazione di malattie con un'incidenza di 5,1 o 5,2 ecc. casi ogni 10.0000 persone".

[2] Istituto psicoanalitico per le Ricerche Sociali (a cura di). Le malattie rare: una sfida per i sistemi di welfare. Roma: Casa Editrice Psicoanalisi Contro, 2003, pp. 11-12

[3] Incontrati da chi scrive, durante l'attività svolta presso una Associazione di malati rari e altre occasioni

[4] Tomassoni M, Solano L (a cura di). Una base più sicura. Milano: Franco Angeli, 2003, p. 61


[5] Attualmente (Decreto ministeriale 279, 18 maggio 2001), da un punto di vista legislativo, rispetto alle malattie rare si è: istituita una Rete nazionale della malattie rare, costituita da presidi accreditati aventi lo scopo di prevenire, diagnosticare e trattare le malattie rare; esentata dal ticket ogni prestazione relative alla diagnosi, controllo e trattamento di malattie rare (riconosciute!); istituito un Registro nazionale delle malattie rare, per  poter archiviare insieme, gestire, utilizzare e rendere utilizzabili i dati relativi alle malattie rare.


[6] Francescato D, Tomai M, Solimeno A. Lavorare e decidere meglio in organizzazioni empowering ed empowered: L'analisi organizzativa Multidimensionale e la formazione empowering come strumenti di intervento nei contesti di lavoro. Milano: Franco Angeli, 2008, p. 105

[7] Francescato D, Tomai M. Psicologia di comunità e mondi del lavoro: Sanità, pubblica amministrazione, azienda e privato sociale. Roma: Carocci Editore, 2005, pp. 28-29

[8] Pajardi D, Alessandra Viano. Sindromi rare: aspetti psicologici nella famiglia. In Malattie Rare ma non orfane: un primo orientamento per le famiglie con bambini colpiti da malattie rare. Milano: aidweb.org, 2008, p. 164

[9] Zanobini M, Usai M C. Psicologia della disabilità e della riabilitazione: i soggetti, le relazioni, i contesti in prospettiva evolutiva. Milano: 2005, p. 197

[10] Langher V, Cecchini M. L'attaccamento infantile negli adulti. Roma: Edizioni di Psicologia, 1997, p. 51

[11] La Buffering hypothesis (Cohen, Wills, 1985) considera il sostegno come una sorta di cuscinetto protettivo e ammortizzatore della pervasività del disordine emozionale dello stress, a vantaggio della gestibilità degli eventi

[12] Francescato D, Tomai M. Psicologia di comunità e mondi del lavoro: Sanità, pubblica amministrazione, azienda e privato sociale. Roma: Carocci Editore, 2005, p. 39




Privacy




Articolo informazione


Hits: 495
Apprezzato: scheda appunto

Commentare questo articolo:

Non sei registrato
Devi essere registrato per commentare

ISCRIVITI



Copiare il codice

nella pagina web del tuo sito.


Copyright InfTub.com 2024