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La scuola storico-culturale
La rivoluzione bolscevica del 1917 ebbe, come abbiamo detto, una profonda influenza sulla
cultura, l'arte, la filosofia e la scienza nel nuovo stato socialista.
Nel 1924, all'Istituto di psicologia di Mosca, il direttore elpanov venne sostituito da Konstantin
N. Kornilov (1879-1957), uno psicologo d'impostazione materialistica che pose subito il
problema teorico dei rapporti 646d37g tra psicologia e marxismo [Kornilov 1925]. Si imponeva l'urgenza
di rinnovare la psicologia ad un livello sia teorico (rapporti tra psicologia e marxismo, psicologia e
scienze naturali, ecc.) sia pratico (il ruolo della psicologia nella società comunista e dello psicologo
nelle scuole, nelle fabbriche, negli ospedali, ecc.). Kornilov si impegnò per la soluzione di tali
problematiche attraverso la formazione di un gruppo di giovani studiosi, rivelatisi subito ingegni
eccezionali e brillanti, tra i quali spiccarono Vygotskij, Leont'ev e Lurija.
Lèv S. Vygotskij (1896-1934)
Lèv S. Vygotskij nacque nel 1896 a Orsa (Russia Bianca) da una famiglia
ebrea benestante. Dopo aver frequentato il liceo di Gomel, si iscrisse nel
1913 alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Mosca, laureandosi nel
1917, e contemporaneamente frequentò l'università di Sajavskij di Mosca,
un'istituzione privata dove insegnavano alcuni tra i maggiori esponenti della
coeva cultura russa. Tra il 1915 e il 1916 si interessò di letteratura, al teatro
e all'estetica e scrisse La tragedia di Amleto (1915) e La psicologia dell'arte
(1925), pubblicate solo nel 1925. Nel 1918 iniziò ad insegnare nella scuola
magistrale di Gomel e a dirigere il Dipartimento teatrale della commissione
popolare per l'istruzione, dedicandosi attivamente alla letteratura e al teatro.
Nel 1919 si ammalò di tubercolosi. Nel 1924 lesse la relazione Metodologia
della ricerca riflessologia e psicologica al secondo congresso panrusso di
pedologia, pedagogia sperimentale e psiconeurologia a
Leningrado, suscitando un grande interesse tra gli psicologi
presenti. Nel 1924 fu invitato da Kornilov a collaborare con
l'Istituto di psicologia di Mosca, dando inizio alle ricerche sui
processi cognitivi che furono alla base della scuola storico-
culturale e collaborando con Leont'ev e Lurija. Sempre nel
1924 tenne la conferenza La coscienza come problema della psicologia del comportamento, il cui testo
pubblicato nel 1925 divenne il manifesto della teoria storico culturale. Sempre nel 1925 finì la
dissertazione di dottorato sulla psicologia dell'arte, ma ammalatosi nuovamente non poté
discuterla. Durante la malattia scrisse Il senso storico della crisi della psicologia, pubblicata postuma,
solo nel 1982. Nel 1926 fu edito il libro Psicologia pedagogica e al IX congresso internazionale di
psicologia a New Haven del 1929, presentò con Lurija una comunicazione sul linguaggio
egocentrico nella quale criticava Piaget. Tra il 1928 e il 1930 diresse il laboratorio di psicologia
all'Accademia dell'educazione comunista. Tra il 1929 e il 1931 furono pubblicati i due volumi di
Pedologia dell'adolescente, i libri Immaginazione e creatività nell'età infantile La storia dello sviluppo delle
funzioni psichiche superiori e, con Lurija, Studi di storia del comportamento. La scimmia, l'uomo primitivo, il
bambino. Nel 1931 fondò un dipartimento di psicologia presso l'Accademia di psiconeurologia a
Charcov, in Ucraina, dove si sarebbe costituito un gruppo di ricerca guidato da Leont'ev, che
sarebbe stato chiamato successivamente la «scuola di Charcov»; sempre nel 1931 divenne
direttore di varie riviste di psicologia e pedagogia, professore all'Università di Mosca, direttore
dell'Istituto di difettologia di Mosca. In quegli anni curò anche la traduzione russa di varie opere
di psicologia occidentale (Piaget, Freud, Köhler, Bühler, ecc.). Nel 1933 scrisse un importante
saggio sul gioco nello sviluppo psichico infantile (inedito fino al 1966) e una monografia sulle
emozioni. In quell'anno i rapporti con Leont'ev e Lurija si interruppero a seguito di critiche
ideologiche rivoltegli pubblicamente, che lo portarono ad un isolamento quasi completo.
Nel 1934, a soli trentotto anni, Vygotskij morì di tubercolosi e furono pubblicati postumi vari
saggi di psicologia, neurologia e pedagogia, tra i quali Pensiero e linguaggio edita nel 1954.
La teoria di Vygotskij non fu apprezzata dai contemporanei, anche perché poco conosciuta al di
fuori della Russia. L'Occidente cominciò ad interessarsene solo dopo gli anni '60 e molte delle
opere rimasero inedite fino agli anni '80, in cui si ebbe una vera e propria esplosione delle
ricerche e degli studi sulla teoria vygotskijana. Solo con la conoscenza più compiuta delle opere di
Vygotskij si poté prendere atto che l'opera di Vygotskij non poteva essere ridotta alla
problematica dei rapporti tra pensiero e linguaggio, attraverso la quale era stato conosciuto in
Occidente; essa contiene infatti una varietà di contributi nei campi più svariati: dalla psicologia
alla pedagogia, dall'estetica alla linguistica, dalla psicopatologia alla neuropsicologia.
Il manifesto della scuola storico-culturale fu esposto ne La coscienza come problema della sociologia del
comportamento, un saggio contenuto nel testo Psicologia e marxismo curato da Kornilov nel 1925. La
coscienza si basava sulla prima conferenza che Vygotskij tenne all'Istituto di psicologia di Mosca
nell'ottobre del 1924. Invece, il testo della conferenza tenuta a gennaio dello stesso anno a
Leningrado, intitolato Metodologia della ricerca riflessologia e psicologica, conteneva già gli elementi
essenziali del manifesto della scuola. Vygotskij partiva dalla considerazione che le teorie
riflessologiche russe (Bechterev e Pavlov), consideravano la psiche come un sistema di riflessi, si
erano occupate esclusivamente dei processi psichici elementari (i riflessi condizionati) e per
cercare un metodo basato sulla misurazione oggettiva avevano escluso lo studio dei processi
psichici superiori, che avrebbe invece richiesto l'introspezione e l'esperienza soggettiva. Questa
posizione, secondo Vygotskij, comportava una rinuncia da parte della psicologia all'indagine sulla
specificità dei processi psichici umani, che si differenziavano da quelli animali per un elemento
fondamentale: la presenza della coscienza
Per Vygotskij tale rinuncia implicava una posizione dualistica inaccettabile, in cui da una parte, si
collocavano i processi psichici elementari - misurabili oggettivamente - e dall'altra, i processi
psichici superiori - inaccessibili e irriducibili. Appare chiaro a Vygotskij che occorre individuare
procedure oggettive anche sui processi psichici coscienti e la via metodologica per accedere alla
coscienza è indicata dallo studio delle risposte verbali dei soggetti. Nel saggio La coscienza come
problema della sociologia del comportamento, Vygotskij scrive in epigrafe un famoso passo del Capitale
di Marx, nel quale vengono messi a confronto il comportamento di un'ape e quello di un
lavoratore. Il confronto si basa su un'attività concreta, un processo che dipende da un'idea
prodotta da una mente cosciente - e persegue uno scopo
«[.] ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall'ape migliore è il fatto che [l'uomo]
ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo
emerge un risultato che era già presente idealmente. Non che effettui soltanto un cambiamento di
forma dell'elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, da lui ben conosciuto, che
determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà » (Marx,
Vol. I).
Secondo Vygotskij, le correnti psicologiche contemporanee evitano costantemente e
intenzionalmente il problema della natura psicologica della coscienza, generando di conseguenza
dei sistemi di psicologia scientifica corrotti da vizi organici. I più importanti limiti delle teorie
riflessologiche, per Vygotskij (1925), sono i seguenti:
«1) Ignorando il problema della coscienza, la psicologia si preclude da sola l'accesso allo studio dei
problemi complessi del comportamento dell'uomo. Essa è costretta a limitarsi a chiarire i nessi più
elementari dell'essere vivente con il mondo. È facile convincersi che le cose stanno realmente così
dando un'occhiata all'indice del libro dell'accademico V.M. Bechterev, Principi generali di riflessologia
dell'uomo. Principio di conservazione dell'energia. Principio della variabilità continua. Principio del
ritmo. Principio dell'adattamento. Principio della reazione, pari all'azione. Principio di relatività. In
una parola, principi universali, che abbracciano non soltanto il comportamento dell'animale e
dell'uomo, ma l'universo intero. E perciò neppure una legge psicologica del comportamento
dell'uomo che formuli un nesso o una dipendenza dei fenomeni, che caratterizzi l'originalità del
comportamento umano, differentemente dal comportamento dell'animale.
All'altro polo del libro c'è il classico esperimento del riflesso condizionato, un piccolo esperimento
di importanza eccezionale in linea di principio, ma che non riempie lo spazio universale dal riflesso
condizionato di primo grado al principio della relatività. La discordanza tra il tetto e le fondamenta
svelano facilmente quanto sia ancora presto per formulare principi universali sul materiale
riflessologico e quanto sia facile prendere le leggi da altri campi del sapere e applicarle alla
psicologia. E quanto più vasto e universale è il principio che prendiamo, tanto più facile sarà
infilarlo addosso al fatto che ci interessa. Non si può però dimenticare che l'ampiezza e il contenuto
di un concetto sono sempre inversamente proporzionali. E come l'ampiezza dei principi universali
tende all'infinito, così il loro contenuto psicologico diminuisce con altrettanta impetuosità fino allo
zero.
E questo non è un vizio particolare del corso di Bechterev. In una forma e nell'altra questo stesso
vizio si scopre e si riflette in ogni tentativo di esporre sistematicamente la teoria del comportamento
dell'uomo come nuda riflessologia.
2) La negazione della coscienza e la tendenza a costruire un sistema psicologico senza questo
concetto, come una «psicologia senza coscienza», secondo l'espressione di P.P. Blonskij porta al
risultato che la metodologia viene privata dei mezzi indispensabili per lo studio delle reazioni non
palesi, non visibili a occhio nudo, come i movimenti interiori, il linguaggio interno, le reazioni
somatiche ecc. Lo studio delle sole reazioni visibili a occhio nudo è del tutto impotente e
inconsistente anche di fronte ai più semplici problemi del comportamento dell'uomo. Eppure il
comportamento dell'uomo è organizzato in modo tale che proprio i movimenti interiori
difficilmente identificabili guidano e indirizzano il suo comportamento. Quando formiamo il
riflesso condizionato di salivazione del cane, in un certo modo noi organizziamo preliminarmente il
suo comportamento con procedimenti esterni, altrimenti l'esperimento non riesce. Mettiamo il cane
nell'apparecchio, lo afferriamo con delle bretelle, ecc. esattamente nello stesso modo noi
organizziamo preliminarmente, in un certo modo il comportamento del soggetto preso in esame,
con determinati movimenti interiori, attraverso l'istruzione, la spiegazione, ecc. E se ad un tratto i
movimenti interiori cambiano durante l'esperimento, tutto il quadro del comportamento cambierà
nettamente. Così ci serviamo sempre di reazioni rallentate; sappiamo che esse si svolgono senza
sosta nell'organismo; sappiamo che hanno un ruolo influente nella regolazione del comportamento,
nella misura in cui esso è cosciente. Ma siamo privi di ogni mezzo per lo studio di queste reazioni
interne.
Per dirla più semplicemente: l'uomo pensa sempre tra sé; ciò non resta mai senza influenza sul suo
comportamento; un improvviso cambiamento dei pensieri durante l'esperimento si ripercuote
sempre bruscamente su tutto il comportamento del soggetto (ad un tratto sorge il pensiero: non
guarderò nell'apparecchio). Ma non sappiamo nulla sul modo di tener conto di questa influenza.
3) Si elimina ogni confine di principio tra il comportamento dell'animale e quello dell'uomo. La
biologia divora la sociologia, la fisiologia divora la psicologia. Il comportamento dell'uomo si studia
nella misura in cui è il comportamento di un mammifero. Ciò che di totalmente nuovo la coscienza
e la psiche introducono nel comportamento umano viene ignorato» (Vygotskij, 1925).
La prima formulazione sistematica dei concetti e metodi della teoria storico-culturale venne data
negli Studi sulla storia del comportamento del 1930, opera scritta in collaborazione con Lurija. La
trattazione è suddivisa in tre parti, ciascuna delle quali esamina le funzioni psichiche dei primati,
del bambino e dell'uomo adulto, con l'illustrazione dei metodi impiegati e degli esperimenti
condotti. I problemi principali affrontati sono:
1) il rapporto tra la psicologia degli animali e degli esseri umani
2) la psicologia dell' uomo 'primitivo' e dell'uomo occidentale
3) la psicologia dei bambini e degli adulti
4) la psicologia dei soggetti sani e malati.
La prospettiva vygotskijana è, quindi, evolutiva sia in senso filogenetico (animale-uomo) che
ontogenetico (bambino-uomo). Lo studio evolutivo mostra che vi è una continuità strutturale e
funzionale e al tempo stesso coesistono una serie di momenti critici che distinguono nettamente i
comportamenti. I processi fisiologici e comportamentali - come i riflessi condizionati - possono
essere comuni agli animali e all'uomo, ma mentre per i primi costituiscono l'unità fondamentale
di comportamento, per il secondo sono solo i processi più elementari e ne rappresentano
processi meno tipici.
Tra gli animali e l'uomo vi è un «salto qualitativo» caratterizzato dallo sviluppo di processi
psichici superiori che dipendono strettamente dal contesto storico-sociale in cui cresce un
bambino. Ciò non significa che i processi superiori sostituiscono i processi inferiori, o che la
dimensione storica sostituisce quella biologica. I processi psichici superiori conservano la stessa
natura biologica dei processi psichici inferiori, ma i primi rappresentano una nuova
organizzazione funzionale generata da fattori sociali e culturali. Quindi sia i processi psichici
inferiori che quelli superiori sono processi materiali svolti nel cervelli ma questi ultimi si
sviluppano in relazione all'ambiente.
Vygotskij assume l'ipotesi che la struttura fondamentale dei processi psichici sia la sequenza
Stimolo-Risposta (S-R): essa è alla base dei processi elementari, come gli istinti, i riflessi innati -
che costituiscono il livello più elementare, secondo la distinzione di Bülher - seguiti dal livello dei
riflessi acquisiti o condizionati. Nei processi psichici superiori, il livello delle funzioni intellettive
tra lo stimolo e la risposta si inserisce il priem (strumento, metodo, artificio o stimolo-mezzo). È
lo stimolo-mezzo che rappresenta il salto dialettico che modifica qualitativamente il rapporto tra
stimolo e reazione.
A questo proposito Vygotskij cita l'esempio dell'asino di Buridano: davanti a due sacchi di fieno
ugualmente pieni l'asino non sa decidersi e muore di fame. Un uomo invece può lanciare una
moneta e scegliere in base al risultato del lancio. Nel primo caso i due stimoli producono due
risposte «uguali ma di direzione contraria»: il risultato è l'inibizione del comportamento; nel
secondo caso l'uomo crea uno stimolo che utilizza come strumento, come mezzo per consentire
al comportamento di intraprendere una direzione diversa. Per Vygotskij è proprio la presenza di
stimoli creati, accanto a quelli dati, che distingue la psicologia dell'uomo. Anche nei primati
esistono i comportamenti mediati da strumenti, come ad esempio, gli scimpanzé degli
esperimenti di Köhler che si servivano di bastoni o casse per raggiungere il cibo. Eppure per
Vygotskij, il comportamento umano è guidato quasi del tutto da comportamenti mediati da
stimoli-mezzi, che sono, a differenza degli strumenti utilizzati dai primati, strumenti acquisiti
dall'ambiente sociale e interiorizzati:
«Noi chiamiamo 'segni' questi 'stimoli-mezzi' artificiali introdotti dall'uomo nella situazione e
svolgenti una funzione di autostimolazione. [.] In base a questa nostra definizione, dunque, ogni
stimolo condizionato creato dall'uomo e assunto come mezzo per dirigere il proprio o l'altrui
comportamento è un segno» (Vygotskij, 1931).
I segni sono acquisiti nella storia psicologica individuale (sviluppo ontogenetico) attraverso il
contesto sociale (la famiglia, la scuola, ecc.). L'uomo, quindi, si avvale in modo caratteristico degli
strumenti, degli stimoli-mezzi, intendendo con questi ultimi anche il linguaggio verbale, come
forma di comunicazione, basata su capacità genetiche della mente umana, ma acquisita grazie
all'ambiente familiare e sociale in cui cresce il bambino.
«Nei primi anni di vita il bambino usa i simboli (sia nel senso di parole che di regole dell'attività
comportamentale) in base all'interazione che ha con i propri genitori e con gli adulti nella vita
quotidiana e nella scuola. In seguito egli adotta gli stessi simboli da se stesso, senza lo stimolo
esterno di un'altra persona» (Legrenzi, 1980).
Un processo fondamentale è l'interiorizzazione degli stimoli-mezzi o segni: nella Storia dello
sviluppo delle funzioni psichiche superiori (1931), nelle Lezioni di psicologia (1932) e negli articoli raccolti
con il titolo Lo sviluppo psichico del bambino (1923-24) Vygotskij ha fornito molti esempi per spiegare
i processi di interiorizzazione del linguaggio e le regole del comportamento nello sviluppo del
bambino tra i quattro e gli otto anni. Questo problema è centrale anche in Pensiero e linguaggio,
opera postuma edita nel 1954.
«Oltre ad esaminare criticamente le teorie contemporanee sulla genesi dei processi del pensiero e
del linguaggio, Vygotskij vi elabora una teoria che ancora oggi rappresenta un punto di riferimento
fondamentale. Il pensiero e il linguaggio hanno due radici genetiche differenti. Sia negli animali che
nel bambino piccolo vi sono forme più o meno evolute di attività intellettiva relative ad esempio
alla soluzione di problemi e all'adattamento all'ambiente. Queste attività possono essere
indipendenti dal linguaggio. Allo stesso tempo, il bambino può usare forme primitive di linguaggio
senza implicare processi intellettivi o di pensiero, ma per comunicare stati emotivi, richiamare
l'attenzione dei genitori, ecc. Intorno ai due anni circa il pensiero e il linguaggio cominciano ad interagire.
Il linguaggio diventa strumento di comunicazione alle altre persone della propria attività di
pensiero e regolazione del proprio comportamento in base alle strategie e alle regole adottate dal
bambino. Una distinzione importante, ripresa da vari membri della scuola storico-culturale e in
particolare da Lurija, è appunto quella tra linguaggio come strumento di comunicazione e
linguaggio come strumento di regolazione del comportamento. Le due funzioni del linguaggio si
sviluppano in tempi diversi, la funzione comunicativa si sviluppa intorno a 1 anno e mezzo-2 anni,
la funzione regolativa intorno ai 4 anni. Un aspetto importante di questa teoria è il concetto di
interiorizzazione. In un primo stadio, il linguaggio è espresso a voce alta quando si comunica con le
altre persone, successivamente viene usato come strumento di regolazione delle proprie azioni.
Prima dell'interiorizzazione della funzione regolativa, questa viene svolta però a voce alta, come si
osserva soprattutto quando il bambino dovendo risolvere un problema difficile «ricorda» a se stesso
a voce alta le operazioni che deve compiere. L'interiorizzazione è quindi un processo graduale che
si compie non prima dei 7 anni. Questa fase intermedia nell'uso del linguaggio a voce alta viene
denominata fase del linguaggio egocentrico. E sulle fasi dì sviluppo che si centrano le critiche svolte
da Vygotskij a Piaget.
Questi venne a conoscenza delle critiche solo negli anni '50 e poté scrivere una replica «postuma»
in occasione della traduzione americana del 1962 (la risposta di Piaget si trova in appendice all'edizione
italiana di Pensiero e linguaggio). Sulla cosiddetta polemica Vygotskij-Piaget molti autori
contemporanei hanno concentrato la loro attenzione, perché attraverso essa è possibile impostare
un discorso assai più generale su tutto lo sviluppo mentale del bambino. Secondo la teoria espressa
da Piaget in Il linguaggio e i! pensiero del fanciullo nel 1923, come scrive Vygotskij, «il linguaggio
egocentrico del bambino è la manifestazione immediata dell'egocentrismo, il quale è, a sua volta, un
compromesso tra l'autismo iniziale e la progressiva socializzazione del pensiero infantile», mentre
per la teoria dì Vygotskij stesso «si ha invece una considerazione del tutto opposta; il linguaggio
egocentrico del bambino rappresenta uno dei fenomeni di transizione dalle funzioni interpsichiche
a quelle ultrapsichiche e cioè un passaggio da forme di attività sociale a forme di attività
interamente individuale» [Vygotskij 1934]. Per Vygotskij il linguaggio è una funzione psichica
complessa che si sviluppa nel bambino nell'interazione con l'ambiente sociale, è una funzione
interpsichica, che mette in rapporto cioè una persona con l'altra. Successivamente diviene una
funzione intrapsichica, una funzione che permette di regolare dall'interno i propri processi cognitivi
e il proprio comportamento. Per Piaget il percorso è l'opposto. Da funzione interna e propria del
bambino, il linguaggio diviene gradualmente una funzione socializzata. Per la teoria storico-cultura-
le, lo sviluppo di funzioni complesse come il linguaggio ha come condizione necessaria
l'interazione dell'individuo con l'ambiente sociale. La struttura del linguaggio è innata, ma la
concreta prestazione linguistica, la lingua che un individuo parla è determinata dall'ambiente sodale
e culturale in cui l'individuo nasce e cresce. Quanto è appreso in tale ambiente viene
progressivamente interiorizzato e costituisce le regole, le strategie e i contenuti dell'attività psichica.
Un grande interesse per la psicolinguistica hanno le considerazioni fatte da Vygotskij sulle
differenze tra linguaggio esteriore e linguaggio interiore. Il linguaggio interiore frammentario,
abbreviato, mentre il linguaggio esteriore, quello che usiamo quando parliamo con un'altra persona,
è più disteso e completo. Queste differenze si ripercuotono sul piano grammaticale e sintattico, per
cui possiamo studiare la trasposizione dei contenuti di pensiero in specifiche forme linguistiche a
seconda delle funzioni che il linguaggio assolve di momento in momento» (Legrenzi, 1980).
Dopo i lavori degli anni tra il 1925 e il 1935 vi fu un rallentamento dovuto alla svolta politicoculturale
dello stalinismo e alla graduale egemonizzazione della ricerca da parte della scuola
pavloviana. Anche se la scuola storico-culturale ebbe il proprio fondamento teorico in Vygotskij,
essa non si esaurì nelle tesi che Vygotskij stesso sviluppò.
Il nucleo centrale delle ricerche della scuola storico-culturale è costituito dal problema dello
sviluppo mentale infantile (formazione dei concetti, sviluppo della memoria, dell'attenzione, ecc.),
tuttavia un filone di ricerche intrapreso negli anni '30 ha sviluppato il rapporto tra culture e
società diverse e lo sviluppo di capacità mentali. Attraverso spedizioni in Asia centrale i confronti
cross-culturali tra i processi cognitivi di popolazioni nomadi con popolazioni urbane, avevano
messo in luce forti differenze di origine storico-culturale.
Nella seconda metà degli anni '50, si ebbe una ripresa della scuola storico-culturale sia con la
riedizione, nel 1956, di alcuni scritti psicologici di Vygotskij sia con la pubblicazione di importanti
opere dei collaboratori di Vygotskij. Tra i principali esponenti di questa scuola vanno ricordati
Aleksej N. Leont'ev, autore di studi sulla memoria e di una teoria del condizionamento storicosociale
dei processi mentali [1959], e Aleksandr R. Lurija, psicologo di grande rilievo.
«Aleksandr R. Lurija nacque a Kazan nel 1902. Unitosi al gruppo moscovita nel 1923, si interessò in
un primo tempo dei processi emotivi e dinamici (le ricerche furono sintetizzate nella monografia
del 1923) e poi insieme a Vygotskij dello sviluppo del linguaggio e dei processi cognitivi (Vygotskij
e Lurija, Studi di storia del comportamento, 1930; Lurija, Storia sociale dei processi cognitivi 1974). Durante la
seconda guerra mondiale cominciò ad interessarsi dei disturbi dei processi psichici conseguenti a
lesioni cerebrali, con tutta una serie di opere fondamentali nella storia della neuropsicologia che
ebbero una prima sintesi nell'opera Le funzioni corticali superiori nell'uomo (1962), poi negli anni '50
furono ripresi gli studi sul linguaggio. Le ultime opere, scritte prima della morte nel 1977, sono state
dedicate alle basi cerebrali della memoria (Lurija, Neuropsicologia della memoria, 1974) e del linguaggio
(Lurija, Problemi fondamentali di neurolinguistica, 1975). Nel libro Come lavora il cervello (1973) è contenuta
una sintesi aggiornata delle sue ricerche neuropsicologiche (Mecacci e Misiti, 1978). Bisogna notare
in primo luogo che all'interno delle ricerche sovietiche sul cervello, in buona parte impostate
secondo la teoria pavloviana, Lurija ha rappresentato un indirizzo differente e specifico in implicita
polemica talvolta proprio con la scuola pavloviana. Le funzioni cerebrali che mediano funzioni
psichiche complesse non sono traducibili nei termini di riflessi condizionati, ma sono sistemi
funzionali, sistemi di interazione cerebrale molto più complessi, la cui organizzazione, in accordo
alla teoria generale storico-culturale, si sviluppa in stretta relazione con l'ambiente. Il linguaggio, ad
esempio, non ha come struttura fisiologica di base il riflesso condizionato, come sostenevano i
pavloviani, ma risulta dall'interazione di strutture cerebrali diverse che si sviluppa e si modifica nel
corso dell'ontogenesi. Data questa stretta relazione tra cervello e ambiente, si spiega come le lesioni
cerebrali producano disturbi differenziati da individuo a individuo a seconda delle loro abitudini,
della loro lingua, della loro cultura, ecc. Per questa ragione Lurija ha dato molta importanza allo
studio dei casi individuali di cerebrolesi, come è esemplificato nell'analisi che ha fatto di un caso di
memoria prodigiosa e di un afasico» (Legrenzi, 1980).
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