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PLATONE - FEDRO

filosofia

























Punti da analizzare:


Collocare il dialogo nell'itinerarium mentis di Platone, ovvero nello sviluppo cronologico delle opere.

Struttura del dialogo

Possibili interpretazioni delle dottrine esposte.

Conclusione



RELAZIONE:


Secondo la successione cronologica tradizionale degli scritti di Platone, fondata sull'analisi stilistica e contenutistica della stessa opera, il Fedro apparterrebbe al periodo mediano della produzione di questo illustre filosofo, ovvero all'età convenzionalmente riconosciuta come quella della maturità.

Approfondite e riconosciute ricerche del von Arnim hanno evidenziato, per la prima volta, la possibilità che questo importante dialogo entri a far parte dell'ultimo periodo della produzione platonica e cioè a quello posteriore non soltanto al Gorgia, al Fedone e al Convito ma anche alla Repubblica e al Simposio e che quindi si possa senza incertezze affiancare ai dialoghi rappresentanti per eccellenza il periodo della vecchiaia, quali il Parmenide, il Teeteto, le Leggi e il Sofista.

Il Fedro è un'opera molto complessa e comparativamente più difficile da leggersi che non altri dialoghi platonici pur fondamentali; tale complessità è dovuta sostanzialmente a due sue caratteristiche peculiari:


a) al fatto che Platone tratta qui molteplici argomenti (La dottrina dell'amore - La dottrina dell'anima - La dottrina della dialettica).

b) Alla sua attestata appartenenza, come chiarito sopra, agli scritti della vecchiaia che denotano la massima espressione dell'impegno dialettico dello stesso Platone, spinto ad approfondimenti ed a sottigliezze concettuali sconosciuti ai dialoghi precedenti.


Gli studiosi che, inoltre, solo sulla base delle affinità d'argomento e della coincidenza dei protagonisti descritti, ritenessero il Fedro semplicemente come una sorta di continuazione del Convito, errerebbero giacché mancherebbero di considerare l'emergente problematica della dialettica che in quest'ultima opera non è affrontata.


L'aspetto morfologico, linguistico e strutturale del Fedro è pressoché semplice data la brevità dell'opera.

Colpiscono alcune tecniche sintattiche e retoriche utilizzate nel testo greco da Platone: in particolare nel capitolo XIII egli inizia ad usare il procedimento di istituire delle etimologie "arbitrarie", per stabilire dei collegamenti concettuali - spesso o quasi sempre inesistenti - tra parole diverse.

In questo caso egli collega l'aggettivo greco liguV ("arguto", ma anche "ligio") col nome proprio LigueV, designante i Liguri.

Un altro analogo esempio è nel capitolo XXX, dove viene associato il termine shma (ovvero "tumulo") al termine swma (ovvero corpo).

Per quanto concerne la vera e propria struttura del dialogo, essa si può semplicemente schematizzare così:



I / V preludio al tema del dialogo

VI / IX discorso di Lisia

X / XIV dialogo tra Socrate e Fedro

XIV / XVIII I° discorso di Socrate

XIX / XXI dialogo tra Socrate e Fedro ed apparizione del demone

XXII / XXXVIII 2° discorso di Socrate con palinodia (ritrattazione), dottrina dell'anima (descrizione e dimostrazione della sua immortalità).

XXXIX / LVIII dialogo tra Socrate e Fedro e discussione della dialettica contrapposta all'arte  meramente retorica ed utilitaristica dei Sofisti.

LIX / LXIV discussione intorno al rapporto tra oralità e scrittura.


Il Fedro, come già detto, tratta le problematiche di tre argomenti fondamentali: l'amore, l'anima e la dialettica.


a) dottrina dell'amore:


Il dialogo, ovvero, secondo Platone, la più potente ed autorevole arma di conoscenza, scaturisce tra i due protagonisti, il grande maestro Socrate e Fedro, quando quest'ultimo riporta al filosofo un discorso presumibilmente tenuto da Lisia sul tema dell'amore: qui si dichiara che bisogna compiacere al non innamorato piuttosto che all'innamorato.

Il punto di partenza per le future contestazioni di Socrate è proprio questo: Lisia, artefice del primo dei tre più fondamentali monologhi del Fedro, personifica qui l'estrema e degradata posizione sofistica basata sul mero utilitarismo contestato fortemente e tenacemente dallo stesso Platone; emerge, infatti, altrettanto inconfutabilmente dal discorso del logografo il continuo preoccuparsi del possibile ricambio di benefici concessi durante il rapporto di amicizia, caratteristica che individua il tipico amore basato sull'utile e di cui Platone evidenzia la meschinità nel capitolo IX.

".Conviene che anche degli altri si trattino bene non i migliori, bensì coloro che si trovano nella più grande angustia: poiché, essendo afflitti da grandissimi mali, essi serberanno la maggiore gratitudine. Così, , non si debbono invitare gli amici, bensì quelli che lo chiedono e che hanno bisogno di sfamarsi. Essi infatti diverranno tuoi seguaci e staranno dinanzi alla porta e saranno massimamente disponibili alla cosa.". Lisia, insomma, sostiene egoisticamente che è meglio ed è preferibile rapportarsi e legarsi non agli innamorati, che spesso sono causa di discordia e contrasto, bensì alle persone dalle quali si può trarre semplicemente maggior beneficio e vantaggio per se stessi.

Il secondo discorso è, viceversa, tenuto da Socrate, ma solo come preludio al suo vero discorso, che sarà il terzo.

In questo secondo discorso Socrate si associa paradossalmente alla tesi di Lisia, superando, tuttavia, la posizione meramente utilitaristica di quest'ultimo e individuando il concetto di amore (eros) in una sorta di desiderio che ottiene il sopravvento sulla ragione nell'anima, prevaricando su quell'equilibrio (in Greco swfrosunh, ovvero moderazione, assennatezza, saggezza) che costituisce invece il dominio della ragione sul desiderio.

Per semplificare e meglio schematizzare il concetto di anima, che è introdotto in questo capitolo (XIV), Platone prende in considerazione soltanto i suoi due aspetti estremi, quello razionale e quello della concupiscenza, trascurando la sezione intermedia che, secondo la sua psicologia, costituirebbe l'anima irascibile (in Greco qumoeidhV

Importante, sempre dal punto di vista linguistico, in questo brano è il termine greco "ubriV" che traduce la parola sfrenatezza, indicante a sua volta l'anima concupiscibile: non è da ignorare la scelta meditata di tale sostantivo, utilizzato nella cultura ateniese ed ellenica tanto per indicare sfrenatezza delle passioni quanto oltraggio alla giustizia e agli dei per desiderio di prevaricazione.

In un altro importante passo di questo secondo monologo Socrate, per impostare il problema secondo cui l'amicizia debba attuarsi tra persone simili o dissimili, riprende un celebre proverbio popolare citato dall'Odissea omerica (XVII, 218): << sempre un dio conduce il simile verso il simile>> . Il filosofo a questo proposito obietta che il simile non può offrire all'altro simile nessuna cosa che quest'ultimo possa procurarsi da solo, al contrario di una situazione che vede coagire due esseri dissimili.

A questa stregua, traendo le conseguenze estreme della tesi, si giungerebbe al risultato che non solo il giusto dovrebbe essere amico dell'ingiusto, e l'ingiusto del giusto, ma anche che il nemico dovrebbe essere amico dell'amico e viceversa.

E' interessante notare come Platone sostenga il contrario "della sua verità" che esporrà solo più avanti, al fine di intaccare la credibilità del discorso di Lisia.

Il terzo discorso di Socrate è anticipato dal ritorno del concetto di ubriV (peccato verso gli dei) che si affianca alla prima presentazione, nel dialogo, del famoso demone che aleggia sulla vita quotidiana del filosofo, condizionando con i suoi consigli le scelte di quest'ultimo.

Socrate, fondamentalmente, in questo XX capitolo, è ammonito appunto da questo demone, da questa sua coscienza interiore per aver commesso una colpa che è, a sua volta, prontamente spiegata a Fedro: il peccato supposto è quello di aver urtato i sentimenti di Afrodite, dea dell'amore, avendo formulato, come egli stesso afferma, codesto discorso da sempliciotti.

Avviene quindi la cosiddetta palinodia ovvero la ritrattazione dialogica di quanto detto prima ed è quindi formulato il terzo importante discorso, dove è ritenuto migliore l'innamorato del non innamorato.

Emerge qui la concezione dell'amore inteso come divina mania, come qualcosa attraverso cui il filosofo diviene consapevole della vera realtà del mondo delle idee, come qualcosa che trascende l'uomo e sfiora il divino, come qualcosa che nobilita l'animo.

Sulle origini della concezione platonica della "divina mania" il più moderno studioso sull'argomento, E. Dodds, ha dimostrato come Platone sia partito da un iniziale razionalismo e, in un secondo momento, in seguito ai contatti personali coi pitagorici della Magna Grecia, egli abbia innestato sul terreno del suo primitivo razionalismo una nuova tendenza irrazionalistica e magica, ritenendo che, come afferma lo stesso Dodds, la ragione fosse una manifestazione attiva della divinità nell'uomo, un demone in sé e per sé, non elemento passivo in balia di forze nascoste.


b) dottrina dell'anima


La dottrina dell'anima, che occupa quasi tutto il secondo dei due discorsi di Socrate, secondo l'interpretazione di Armando Plebe, contrapposta a quella dello studioso H. W. Thomas, è di derivazione orfico - pitagorica.

Secondo la concezione omerica, esisteva da un lato un'anima vitale (in greco yuch), che alla morte del corpo lo abbandonava: essa tuttavia non poteva né sentire né pensare e, per questo, veniva affiancata da un'anima senziente e pensante (in greco qumoV), la quale però era del tutto legata e condizionata all'esistenza degli organi e delle funzioni fisiche del corpo.

In base a questa concezione non è possibile ipotizzare una discendenza dell'anima platonica da quella omerica.

Il primo esempio di essere senziente e pensante separato dal corpo è in Anassimene che nel VI secolo scrive così: << come la nostra aria che è psiche ci tiene uniti e ci governa, così l'intero universo è tenuto insieme da pneuma ed aria>>.

Secondo Anassimene l'origine di ogni nascere e di ogni morire è quindi l'aria e la morte, in questo senso, non è che il ritorno dell'aria alla sua sede originaria; il pensiero di questo filosofo, tuttavia, lasciava ancora ambiguo se la sopravvivenza dell'anima fosse insieme sopravvivenza dell'IO individuale.

Ciò invece diviene esplicito nei miti orfici e pitagorici, la cui prima testimonianza è per noi costituita dalla seconda Olimpica di Pindaro, dove Pindaro riporta il mito orfico della sopravvivenza dell'anima individuale, la quale viene premiata o punita nell'al di là a seconda del suo comportamento nel corso della vita terrena.

Come ricorda il Plebe, nel finale del Gorgia è ripresa la stessa concezione:


La morte non è altro, a mio avviso, che la separazione

Di due cose, cioè dell'anima dal corpo; dopo tale separazione

Entrambi conservano il loro essere non meno che in vita.


L'aspetto maggiormente interessante dell'anima platonica del Fedro è la sua fantasiosa e simbolica descrizione, attuata da Socrate attraverso la "via umana e più breve".

L'anima è simboleggiata nel dialogo da una coppia di cavalli alati guidati da un auriga: di questi due cavalli l'uno è buono e nato da buoni (quello bianco), l'altro è contrario e nato da contrari (quello nero) sicché per l'auriga, che cerca di indirizzarli verso la regione sopraceleste (iperuranio), dove ha sede l'essere, è certamente difficile il guidare: il primo animale, infatti, tende verso l'alto e verso l'iperuranio, la vera sostanza costituita dalla totalità delle idee, mentre l'altro tende verso il basso, precludendo all'anima la vista di tale sostanza.

La durata di visione di quest'ultima determina il luogo in cui l'anima si incarnerà: più essa avrà visto più si incarnerà in uomo devoto alla sapienza, meno essa avrà visto più si incarnerà in un uomo alieno dal sapere.

Nella vita terrena il ricordo delle sostanze ideali è risvegliato dalla sola bellezza, che l'uomo riconosce subito per la sua luminosità, attraverso quello che per Platone è il più importante e potente dei sensi, ovvero la vista.

Esemplificando nel Fedro, come sostiene Armando Plebe, sono contemplate due ascese al cielo ben distinte e diverse tra loro: una è quella, temporanea in quanto dura solo nell'intervallo tra la fine di un'incarnazione e l'inizio di un'altra, che è riservata alle anime meritevoli e le situa non nella sede definitiva celeste, ma in un luogo provvisorio del cielo dove tali anime non contemplano ancora le idee ma continuano a vivere la stessa vita che vivevano prima sulla terra; l'altra invece è il ritorno vero e proprio alla sede celeste, che non è riservato a una sola minoranza di anime, ma a tutte quante, con la sola differenza che per le anime dei filosofi tale ritorno è anticipato di tremila anni dopo la prima incarnazione  mentre per le altra anime è posticipato a diecimila anni dopo.

Particolare è anche la dimostrazione dell'immortalità dell'anima fornita nel capitolo XXIV, che diverge radicalmente dalle analoghe dimostrazioni del Fedone e della Repubblica.

Platone sostiene che: "l'anima è immortale e, ancor di più, tutto ciò che possiede un intrinseco movimento è immortale giacché non potrebbe alienarsi da se stesso e, inoltre, è anche causa e principio di tutte le altre cose che si muovono in funzione di se stesso.

Il principio non è generato (se fosse generato da qualcosa, questo qualcosa non sarebbe a sua volta generato da detto principio) ed, essendo tale, è incorruttibile (poiché se perisse non potrebbe né generarsi né essere generato da qualcos'altro, essendo lui l'unico principio).

Principio del movimento è ciò che si muove da sé medesimo, principio che è, come dimostrato, non generato e imperituro e di conseguenza immortale.

E' proprio in base a questo ed alla considerazione fisiologico - naturalistica dell'anima, descritta prima, che il von Arnim ha concluso quanto sostenuto nella prima domanda, ovvero che il Fedro non può che appartenere all'ultimo periodo della produzione di Platone, in cui affiorano in lui gli interessi naturalistici, accanto a quelli cosmologici e dialettici.



c)    la dottrina della dialettica:


L'ultima parte del Fedro è dedicata a mostrare come l'arte dei discorsi, dall'aspetto deteriore fondato sull'inganno e l'incompetenza dei sofisti, sempre accusati da Platone, possa elevarsi e sublimarsi concettualmente al di sopra di detta retorica sofistica, verso il conseguimento della dialettica.

Un primo accenno a questo argomento è riscontrabile nel discorso iniziale di Lisia che sarà successivamente deplorato da Socrate come noioso e ripetitivo per la sua abitudine di dire sempre la medesima cosa in maniere diverse: questo particolare espediente, che aveva il fine di colpire diversi tipi di ascoltatori o di impressionare ora un lato, ora un altro, dello stesso ascoltatore, è uno degli argomenti preferiti dalla retorica antica.

Questa tecnica, di origine pitagorica, è stata descritta chiaramente da Antistene sotto il nome di polutropia: <<Trovare il modo di sapienza conveniente a ciascuno è proprio della sapienza. Invece è segno di ignoranza adoperare un'unica forma di discorso con coloro che sono variamente disposti>>.

Essa era stata praticata soprattutto dai sofisti, sostenitori della teoria per cui il principio del kairoV, ovvero "opportunità conveniente", doveva essere dominante nella pratica oratoria. Diogene Laerzio ci testimonia appunto che Protagora <<per primo espose la potenza del kairoV>>.

Platone fondamentalmente accusa la retorica sofistica di nascondere e obliare la reale verità dell'argomento trattato sotto il manto degli espedienti tecnico - linguistici, di cui egli ironicamente cita un elenco (esposizione, testimonianze, verosimiglianze, confutazione, sottodimostrazione, biasimi indiretti, ripetizioni, sentenziosità, uso delle immagini, ricapitolazione, facondia delle espressioni licinniane), secondo finalità persuasive ed utilitaristiche.

La vera arte del ben parlare e del ben discorrere è, viceversa, secondo Platone, la dialettica che si compone, a suo dire, di due momenti fondamentali: il primo è quello del raccogliere la molteplicità nell'unità dell'idea, il secondo è invece quello della divisione delle idee "nelle loro articolazioni strutturali": in primis quindi abbiamo la sinossi (dal Greco sun + oraw Þ ovvero "osservo e colgo il tutto, insieme, in un sol sguardo) che è la fase fondamentale; di seguito troviamo la dieresi (o divisione) il cui compito consiste  nel dividere ogni genere nelle sue specie.


Un'altra importantissima ed interessantissima questione analizzata da Platone nel Fedro è il rapporto tra oralità e scrittura.

L'argomento è affrontato a partire dal capitolo LVIII ma la problematica sorge e si delinea chiaramente solo nel capitolo successivo: qui Socrate narra a Fedro il mito di Theuth, l'inventore della matematica, della geometria e dell'alfabeto.

Egli recandosi presso il re d'Egitto Thamus, di Tebe, fece un elogio della scrittura, scienza che, a suo dire, avrebbe reso gli Egiziani più sapienti aumentando notevolmente la loro memoria.

La risposta del re è saggia e rispecchia la convinzione di Socrate: l'utilizzo della scrittura sarà causa di un NON esercizio della memoria, la quale si atrofizzerà. <<Perciò - afferma Thamus - hai trovato la medicina non della memoria, bensì del richiamare alla memoria>>.

Da qui parte la critica alla scrittura operata da Platone per bocca di Socrate, il quale peraltro era egli stesso contrario a questa scienza tanto da non aver lasciato nulla di scritto.

Tra le accuse più importanti del filosofo è bene ricordare:


v ".la scrittura ha sempre bisogno di un padre che le venga in aiuto, perché è da sola non può né aiutarsi né difendersi.".

v ".la scrittura è come la pittura: le parole e le immagini non possono rispondere ai quesiti del lettore o dell'osservatore né chiarire dubbi né smentire false interpretazioni.".

v Come detto sopra, la scrittura atrofizza la mente perché non sviluppa la Mnhmh ovvero la facoltà memorativa.


4) Il Fedro è senza dubbio una delle più importanti opere di Platone.

Nella sua essenzialità e schematicità concretizza, seppur, alcune volte, in modo solo parziale, le grandi tematiche del pensiero di questo altrettanto grande ed illustre filosofo.

Per bocca di Socrate, suo grande maestro e venerato modello, Platone teorizza tre fondamentali dottrine: dell'amore, dell'anima e della dialettica.

Aggiunge a ciò il dibattito che caratterizza e permea la sua epoca e che imprimerà una svolta decisiva ed irreversibile della storia: il passaggio da un'epoca meramente orale / aurale ad un'epoca in cui la scrittura prende il sopravvento.

Oggi come mai, in questa particolare fase della nostra storia, in questo altro periodo di transizione, questa volta dall'età della scrittura verso un'altra epoca che sta prendendo il sopravvento (con la tecnica, il progresso scientifico e l'informatica), si rende necessaria una profonda introspezione, fondamentale per definire la nostra vera meta, il nostro vero percorso  ed il nostro orientamento.

La questione analizzata da Platone nel V secolo a.C. si presenta, insomma, in egual modo a noi circa 2500 anni dopo, seppur in un contesto totalmente differente che è  indubbiamente ed imprescindibilmente il prodotto finale di quella scelta tra oralità e scrittura che ha dovuto compiere l'uomo molti anni fa, nel suo evolversi nel regno del tempo.




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