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I contributi italiani alla formazione della Cecoslovacchia - I successi della propaganda boema in Italia

politica



I contributi italiani alla formazione della Cecoslovacchia




2.1 I successi della propaganda boema in Italia


I rapporti tra l'Italia e i patrioti boemi, avviati negli anni del Risorgimento quando le teorie mazziniane e le gesta di Garibaldi avevano attratto i nazionalisti cechi, si erano pian piano allentati e, quando l'Italia aveva aderito alla Triplice Alleanza, quei boemi che nutrivano sentimenti autonomistici e anelavano all'indebolimento della supremazia tedesca nell'Impero asburgico si erano trovati su un fronte ideologicamente opposto a quello adottato dal governo italiano. Con lo scoppio del conflitto, la Triplice, i cui rinnovi erano stati sempre motivo di polemica ed i cui vincoli gli italiani stavano già da qualche anno cercando di allentare, venne sconfessata da Roma con la neutralità prima e, poi, con l'adesione all'Intesa, sancita dal patto segreto siglato a Londra il 26 aprile 1915 con il quale si assicuravano all'Italia, in caso di vittoria, le terre irredente popolate da italiani ed alcuni territori la cui annessione avrebbe negato il principio nazionale, assumendo essa un carattere imperialistico, poiché erano regioni abitate da popolazioni tedesche e slave, albanesi e greche[1]. Le dichiarazioni ideologiche dei governi dell'Intesa, che proclamavano come scopi della loro guerra la difesa del principio di nazionalità e del diritto di autodeterminazione dei popoli, misero l'Italia in una posizione difficile poiché, se per una piccola parte anche le sue richieste erano conformi a questi ideali, per un'altra contrastavano il sentimento nazionale di altri popoli, in particolare degli jugoslavi. Questi, peraltro, consapevoli della minaccia che la vittoria dell'Italia avrebbe costituito per loro, lanciarono un appello agli Stati dell'Intesa, esclusa l'Italia, che veniva di proposito ignorata, manifestando la loro volontà di liberarsi e raggiungere l'unità, includendo nella nuova formazio 848c26i ne statale Serbia, Croazia, Slovenia e Montenegro. Questo atto, che fu il cosiddetto Patto di Corfù, siglato nel 1917, era frutto di trattative tra rappresentanti non tutti pienamente legittimati, poiché Croazia e Slovenia non avevano ottenuto alcun riconoscimento internazionale di un'esistenza al di fuori dell'Impero austroungarico .




Il messaggio dell'8 gennaio con il quale Wilson illustrava, in 14 punti, i propositi della guerra alla quale gli Stati Uniti avevano deciso di partecipare, offrendo il loro contributo militare in difesa dei principi democratici, portò un'ulteriore smentita al Patto di Londra, che peraltro era ignorato dal presidente americano. Infatti, se il punto IX assicurava all'Italia una rettifica delle frontiere, specificava anche che i nuovi confini sarebbero dovuti correre lungo "linee di nazionalità chiaramente riconoscibili"; il punto X garantiva alle popolazioni soggette all'Austria-Ungheria che sarebbero state accordate loro le più ampie opportunità di sviluppo autonomo[3].

La comune volontà di sconfiggere la Monarchia danubiana per liberare il rispettivo territorio nazionale dal dominio asburgico condusse necessariamente italiani e boemi a considerare l'importanza di allearsi, ma le ambizioni imperialistiche dell'Italia non le permettevano di aderire limpidamente e totalmente alla lotta delle nazionalità oppresse.

Le ambiguità in cui la politica italiana si dibatteva emersero durante i primi mesi del 1918, nel momento in cui si presentò l'opportunità di compiere una scelta ideologica decisamente orientata in senso democratico, dando il massimo supporto ai fuoriusciti austroungarici, anche quando ciò avrebbe significato accettare una limitazione alle aspirazioni italiane. Tali ambiguità produrranno poi conseguenze della massima gravità durante la conferenza della pace, quando le Potenze dell'Intesa avrebbero dovuto mostrare coerenza con i principi proclamati durante la guerra.


Una parte dell'opinione pubblica italiana, tradizionalmente avversa all'Impero asburgico, considerava il conflitto in corso soprattutto come un'opportunità per completare l'unità nazionale e si situava naturalmente su posizioni affini a quelle dei patrioti boemi. Così, quando, superando la scarsa conoscenza che nell'Europa occidentale si aveva della situazione delle nazionalità dell'Impero danubiano, si apprese dell'esistenza di questo popolo così deciso a conquistare la propria libertà, alcuni gruppi di intellettuali italiani appoggiarono apertamente i cecoslovacchi.

Questo sostegno giunse immediatamente dagli esponenti del cosiddetto "interventismo democratico", coloro che avevano appoggiato l'entrata in guerra dell'Italia per completarne l'unità territoriale - centrale era il gruppo degli irredentisti, tra i quali Cesare Battisti - o che nutrivano idealità più alte ed ampie, come quelle del leader del Partito socialista-riformista Bissolati, che dalla guerra si attendeva, secondo un'ideologia mazziniana, il riscatto delle nazionalità oppresse.

Già nel marzo 1915, quando ancora l'idea di smembramento dell'Austria-Ungheria non si era neppure lontanamente posta all'attenzione dei governi dell'Intesa, Gaetano Salvemini, direttore de "L'Unità", dalle pagine del suo giornale propugnava la possibilità di distruggere l'Impero asburgico e affrontava il problema della sua successione. Egli fu tra le prime personalità italiane a valutare l'importanza che le spinte centrifughe delle varie nazionalità potevano assumere nell'indebolire il fronte degli Imperi Centrali e tra le poche a rimanere coerente con la sua teoria fino alla fine della guerra. L'interessamento della sinistra democratica per i popoli che dovevano completare il loro risorgimento nazionale risaliva agli anni precedenti alla guerra e, solo pochi mesi prima dell'attentato di Sarajevo, era cominciata, ad esempio, la pubblicazione di una collana di opere curata da Umberto Zanotti-Bianco che già nel titolo La Giovine Europa richiamava lo spirito mazziniano da cui era animata. Scopo di queste opere era di pubblicizzare e analizzare le varie questioni nazionali e di giungere a proporre dei programmi concreti d'azione per i vari popoli affinché l'Italia potesse incarnare "ciò che fu il sogno più alto del profeta del nostro risorgimento G. Mazzini: la difesa delle varie nazionalità oppresse."[4] Salvemini affiancò costantemente l'opera di Zanotti-Bianco e diede un contributo consistente alla collana.

Nell'articolo "Finis Austriae" del 12 marzo 1915, Salvemini già fece riferimento alla costituzione di uno Stato indipendente composto da Boemia e Moravia, ed il 16 dicembre 1916 completava il suo quadro comprendendo nel progetto del futuro Stato anche la Slovacchia, appoggiando completamente le aspirazioni cecoslovacche.[5] Per sostenere le sue tesi, il direttore de "l'Unità" pubblicò sulle pagine del giornale articoli di pubblicisti stranieri, quali Seton-Watson e Bryce, che appoggiavano il movimento dei cecoslovacchi. Stuparich indica "L'Unità" come la prima in Italia a considerare l'importanza di formare legioni di volontari slavi anti-austriaci sul fronte italiano, eventualmente raggruppati per nazionalità, in modo da sollecitare il sentimento patriottico degli slavi, e a proporre che si facesse propaganda a questo progetto tra i prigionieri.

Il primo rappresentante ufficiale del governo che manifestò la sua approvazione all'idea della distruzione dell'Impero danubiano fu Leonida Bissolati, che si accostò al conflitto considerandolo come "l'ultima guerra per la successione dell'Austria Ungheria", nella definizione coniata da Salvemini a commento delle vedute bissolatiane[6]. Queste concezioni furono espresse dal ministro socialista con la massima enfasi e pubblicità nel "discorso di Cremona", nel quale definì l'Austria-Ungheria una "compagine mostruosa, la negazione e la compressione di tutte le nazionalità che non siano la tedesca e la magiara" : la sua distruzione avrebbe permesso a tutte le stirpi al suo interno di riacquistare la libertà, chi ricongiungendosi alla patria, come italiani e rumeni, chi ricostituendosi come nazione basata sulla propria personalità etnica, come cecoslovacchi e polacchi.

Bissolati rappresentò il portavoce di una tendenza, innovativa rispetto alla tradizionale politica estera italiana, che, tenendo conto della forze nazionali che emergevano in Europa, mirava ad avvicinare l'Italia ai popoli che avrebbero costituito le nuove nazioni dopo l'auspicata scomparsa dell'Impero asburgico. In quest'ottica democratica, anche i rapporti dell'Italia con gli slavi del sud della Monarchia si sarebbero dovuti basare su una collaborazione, nell'ambito della quale all'Italia era affidato una supremazia morale, ottenuta grazie al ruolo di liberatrice che avrebbe svolto contribuendo all'abbattimento dell'Impero asburgico. In questo quadro, una volta riconquistate le province irredente, l'Italia avrebbe goduto di maggior peso politico ed influenza nell'Adriatico presentandosi come garante dei diritti delle piccole nazionalità, piuttosto che occupando qualche striscia di terra, di dubbia italianità, in più.

Nella compagine governativa, lo scontro tra la concezione "mazziniana" della politica estera, e quella conservatrice, legata ai tradizionali equilibri europei e incapace di ricollocarsi nello scenario europeo in via di trasformazione, era rappresentato dall'attrito tra Bissolati e Sonnino, che si approfondì man mano che la questione della sopravvivenza dell'Austria-Ungheria si fece più pressante.

Sonnino, unanimemente riconosciuto come il maggiore responsabile della politica estera italiana sino alla sua uscita di scena, avvenuta nel giugno 1919, non solo non riteneva realistica la possibilità della scomparsa dell'Impero ma, soprattutto, non la considerava auspicabile poiché riteneva che sarebbe stato più semplice ristabilire una convivenza pacifica con la Monarchia, una volta eliminate le ragioni di dissidio ridisegnando le frontiere, piuttosto che con una molteplicità di piccoli Stati slavi[9]. Egli aveva espresso la sua idea secondo la quale "quelle nazionalità [che avrebbero costituito gli Stati successori dell'Austria-Ungheria] non [erano] una cosa seria", mostrando di non dare un particolare peso alle ragioni ideologiche che animavano il conflitto, aderendo all'idea del "sacro egoismo" di Salandra. Sonnino non mise in discussione, inoltre, l'esistenza della Monarchia fino alla fine del 1917, ponendosi così nella linea tracciata da Balbo, che considerava l'esistenza dell'Austria indispensabile all'Europa e sperava di recuperare i territori italiani irredenti spingendo l'Impero danubiano a rivolgere verso est le sue mire, e seguita da Crispi, secondo il quale l'Austria sarebbe stata un baluardo contro l'influenza russa verso occidente e una sorta di cuscinetto che avrebbe protetto l'Italia dalla pressione di una Germania in crescita.

L'altro filone di sostenitori di una politica a sostegno della lotta dai cecoslovacchi contro l'Impero austroungarico si ritroverà negli ambienti nazionalisti. Anche questi ultimi, antiaustriaci per un irredentismo che, in alcuni casi, era al limite dell'imperialismo, colsero il valore ideologico che avrebbe avuto l'alleanza e la cooperazione militare di una nazionalità che faceva parte della Duplice Monarchia, anche se in un'accezione meno idealistica e più dettata da considerazioni strategiche[11]. Al contrario della sinistra democratica e di alcuni esponenti del mondo liberale, come ad esempio gran parte della cerchia dei collaboratori del "Corriere della sera", guidati da Luigi Albertini, questi non vollero estendere tale ragionamento agli altri popoli oppressi, per evitare di dover affrontare il problema dei rapporti italo-jugoslavi da un punto di vista che non fosse quello di un nazionalismo che rivendicava territori prevalentemente slavi. In particolare, le richieste - o pretese - italiane in Dalmazia, sottovalutando il peso demografico della popolazione slava delle campagne, insistevano sulla italianità etnica, o almeno culturale e "storica" delle città.

Ad incrementare l'interesse italiano verso la realtà boema concorse la creazione, nel gennaio 1917, di un Comitato italiano per l'indipendenza cecoslovacca che vide la partecipazione di personalità di primo piano del mondo politico, tra le quali molti parlamentari[12]. Anche questa organizzazione nasceva nell'ambito delle iniziative nazionaliste, e ciò è testimoniato dalla stretta connessione del nuovo comitato con altre associazioni con una simile visione politica quali la "Dante Alighieri", la "Pro-Dalmazia italiana", la "Trento-Trieste", dalle quali ottennero anche un supporto logistico durante la fase della strutturazione della rete di sezioni locali del Comitato . Tra i promotori del comitato furono Pietro Lanza principe di Scalea, che svolse il ruolo di presidente; Enrico Scodnik, che si occupò di mantenere i contatti e di assicurare la coordinazione con il Comitato Nazionale dei Paesi cechi a Parigi; Franco Spada, che seppe coinvolgere anche i centri minori nella rete dell'organizzazione; Ugo Dadone, che fu investito del compito di operare per sensibilizzare l'ambiente politico di Roma, ed inoltre Gino Scarpa, che nel 1916 si era messo in contatto con Benes in Svizzera ed aveva definito con lui le forme della collaborazione, facendo da tramite tra il leader ceco e gli italiani interessati alla questione boema; Arnaldo Agnelli; Armando Hodnig. I fondatori del comitato esponevano, nel Manifesto dell'associazione, la necessità dell'aiuto italiano affinché i cechi potessero ottenere una completa indipendenza dal germanesimo e si riproponevano, come scopo della loro associazione, di creare un clima favorevole, sia nelle sfere governative sia nell'opinione pubblica, alla costituzione di un corpo nazionale di volontari cecoslovacchi in Italia . Durante il primo anno di vita, l'attività del Comitato fu piuttosto scarsa e consistette prevalentemente in un'opera mirante a superare l'ostacolo costituito dalla diffusa ignoranza italiana sulle nazionalità dell'Austria-Ungheria.

Un altro ambito nel quale i membri del Consiglio Nazionale dei Paesi Cechi, così come i Comitati nazionali di altri popoli oppressi, cercarono contatti che si sarebbero rivelati utili alla loro causa fu quello massonico. Ciò avvenne in Italia, dove la Massoneria aveva svolto un ruolo notevole per indurre il governo ad entrare in guerra al fianco dell'Intesa[15], così come in Gran Bretagna e in Francia. Le logge furono un importante strumento del quale i membri del triumvirato, Masaryk, Benes e Stefánik, essi stessi affiliati, si avvalsero poiché la Massoneria si era mostrata estremamente sensibile alle aspirazioni nazionali e per la presenza tra i "fratelli" di un gran numero di personalità di vertice, che assicuravano un continuo legame con i governi alleati. Il Congresso massonico tenutosi a Parigi nell'aprile 1917 tra le Massonerie dei Paesi dell'Intesa ufficializzò l'adesione dei liberi muratori alle teorie in difesa del principio di nazionalità. Il Congresso definì i quattro punti fondamentali che i fratelli si impegnavano a perseguire: accanto alla restituzione dell'Alsazia-Lorena alla Francia, alla ricostituzione della Polonia ed alla affermazione dei generici diritti alla liberazione ed unificazione delle nazionalità oppresse, tra le quali erano ricordate anche le popolazioni di Trento e Trieste, figurava anche l'indipendenza della Boemia. L'imponente apparato della Massoneria venne quindi messo servizio della lotta per la difesa della nazionalità .

E' interessante notare come anche all'interno della Massoneria si ricreò per i fratelli italiani una situazione parallela a quella in cui si dibatteva il governo italiano. I capi massoni incontrarono infatti difficoltà analoghe a quelle che il loro governo doveva fronteggiare nella diplomazia. La rappresentanza italiana al Congresso di Parigi fu accusata di non essere stata in grado di perorare efficacemente i diritti italiani in Istria e Dalmazia. La responsabilità fu attribuita al Gran Maestro Ettore Ferrari, che fu costretto a dimettersi a causa degli attacchi che gli provennero dai fratelli. La vicenda mise in evidenza la forte penetrazione, nel Grand'Oriente di Francia, della propaganda jugoslava non adeguatamente contrastata dall'azione italiana; la stessa situazione si verificava nell'ambiente diplomatico, nel quale si rimproverava al governo di lasciar permanere equivoci e incomprensioni relativi agli obiettivi di guerra italiani[17]. E' da rilevare che furono esponenti della Massoneria francese a scatenare la polemica contro il Gran Maestro italiano, pubblicando in modo tendenzioso su un giornale legato agli ambienti slavi, "Le Temps", le notizie relative al Congresso di Parigi ed al modo in cui si erano svolte le discussioni . La reazione dell'ambiente massonico italiano pose in evidenza la scarsa compattezza della Massoneria italiana la quale, al manifestarsi della crisi che indusse Ferrari alle dimissioni, si lacerò al suo interno, scagliandosi contro il suo leader e i suoi collaboratori e facendo il gioco di chi voleva dimostrarne la debolezza. Questo ambiguo ruolo francese, che mirava a far emergere le tensioni latenti negli ambienti italiani si ripropose nei rapporti tra le due nazioni in relazione alla politica delle nazionalità, che le metteva in concorrenza per ottenere la fiducia delle nazionalità emergenti nell'Europa centro-orientale. La crisi rendeva la Massoneria italiana più suscettibile anche agli attacchi che giungevano dal mondo cattolico, da sempre avverso alle logge, le quali si caratterizzavano per l'adesione a teorie razionaliste ed atee. Gli ambienti cattolici tentarono di dipingere gli affiliati come scarsamente devoti agli interessi dell'Italia, portando a riprova di ciò il fatto che, non riuscendo ad ottenere una esplicita dichiarazione di approvazione delle aspirazioni italiane sulle coste adriatiche al Congresso di Parigi, essi si erano fatti valere meno "di una Boemia qualsiasi" .

Con la riapertura del parlamento austriaco, le notizie sui boemi e sul loro atteggiamento di ribellione o resistenza anche passiva nei confronti degli ordini del governo austriaco ebbero grande risonanza poiché furono veicolate all'estero dai discorsi, riportati sulla stampa di tutta Europa, dei deputati cechi che propugnavano da quella sede la propria idea di indipendenza. Anche in Italia, perciò, tutti i maggiori giornali - il Corriere della Sera, il Popolo d'Italia, il Secolo, l'Idea Nazionale, la Tribuna - presero a parlare dei cecoslovacchi come di un popolo affine che lottava per lo stesso obiettivo italiano, la liberazione dall'oppressione asburgica. Un contributo decisivo alla propaganda in Italia sui cecoslovacchi lo fornì l'opera di Benes La Boemia contro l'Austria-Ungheria - La libertà degli Czeco-slovacchi e l'Italia, nel quale il segretario del Consiglio Nazionale ceco ripercorreva la storia boema in chiave antitedesca e antimagiara, esortando gli italiani a temere gli ungheresi a causa della influenza che essi cercavano di guadagnare nell'Adriatico, nel tentativo di rendersi indipendenti dalla politica marittima austriaca.[20] Egli riportava poi, a riprova della sincerità dell'impegno antiasburgico boemo, il resoconto delle lamentele nei confronti dei soldati cechi e slovacchi dei comandi austroungarici , soldati che, una volta divenuti prigionieri dell'Intesa premevano per combattere al fianco degli eserciti Alleati. Benes tracciava poi un quadro delle possibili relazioni postbelliche tra l'Italia e la sperata Cecoslovacchia, caratterizzate da amicizia e collaborazione anche economica, argomenti che avrebbero senz'altro allettato l'Italia, che egli designava come partner privilegiata da cui rifornirsi di merci, verso la quale esportare le risorse minerarie boeme, e che avrebbe beneficiato dell'esistenza di floride nazioni amiche nell'Europa centrale, poiché queste si sarebbero servite dei porti italiani sull'Adriatico per il traffico dei loro beni. L'introduzione dell'opera sopracitata era stata scritta dall'on. Andrea Torre, che faceva parte di un gruppo di parlamentari, sempre più folto, ormai aperti sostenitori del progetto di indipendenza cecoslovacca.




2.2 Il dibattito sulla costituzione delle legioni cecoslovacche


Anche in Italia, come in Russia e in Francia, la campagna degli emigrés mirava ad ottenere dal governo, come primo passo verso l'indipendenza, il riconoscimento del Consiglio Nazionale dei Paesi cechi quale rappresentante ufficiale degli interessi della nazione boema e l'autorizzazione a costituire un esercito nazionale che combattesse al fianco dell'Intesa. Tali aspirazioni erano sostenute dalla presenza, nei campi di prigionia italiani, di numerosi sudditi austriaci di nazionalità boema ma soprattutto dalla disposizione patriottica che questi prigionieri stavano manifestando. Sebbene infatti il Consiglio Nazionale ceco avesse ottenuto che i prigionieri di nazionalità ceca e slovacca fossero separati dagli altri "austriaci" ed un folto numero di boemi fosse concentrato nel campo di Santa Maria Capua Vetere, la disorganizzazione delle autorità italiane fece sì che nello stesso campo rimanessero anche alcune centinaia di tedeschi e ungheresi, che con le loro provocazioni acuirono in alcuni dei prigionieri boemi quel sentimento di appartenenza nazionale, che in alcuni casi li aveva portati a consegnarsi spontaneamente al nemico. I boemi ebbero perciò un motivo in più per voler riaffermare il proprio patriottismo istituendo un "Corpo Volontari Cecoslovacchi"[22]. Questa organizzazione si propose, innanzitutto, di sconfiggere l'apatia ed il disinteresse tra i prigionieri, per creare le condizioni morali opportune affinché tra essi potesse trovare buona accoglienza l'idea di tornare a combattere, questa volta per la propria bandiera nazionale. Il Corpo, che fu fondato all'inizio del 1917, si dedicò ad riorganizzare la vita del campo arricchendola di attività sportive, artistiche e culturali ed a creare una inquadramento di tipo militare tra gli affiliati. Si diede vita anche ad una pubblicazione, il giornale "Boj" (Lotta), informato a idee patriottiche .

Dal luglio 1917 i cecoslovacchi vennero trasferiti al campo presso la Certosa di Padula, dove il Corpo volontari ebbe modo di ingrossarsi grazie ai nuovi prigionieri che continuavano ad arrivare dal fronte. Ciò che maggiormente minava la buona volontà dei militanti nel Corpo era la delusione per le mancate risposte ai loro appelli al governo italiano e al Consiglio ceco, affinché li rimandassero al fronte[24].


Negli stessi mesi, anche la diplomazia del Consiglio Nazionale si era attivata per ottenere di poter formare un esercito nazionale, con maggiore profitto in Francia piuttosto che in Italia, dove si scontrava con la ferma opposizione di Sonnino, contrario a qualsiasi azione ufficiale che presupponesse lo smembramento dell'Austria-Ungheria.

L'azione diplomatica boema in Italia fu affidata soprattutto a Stefánik e Benes. Il colonnello dell'esercito francese aveva effettuato la prima missione in Italia nel maggio del 1916, quando aveva ottenuto dai comandi militari italiani di diffondere dei volantini indirizzati ai cechi arruolati nell'esercito austriaco, affinché disertassero; sebbene questo fosse avvenuto in modo massiccio, non fu inizialmente garanzia per il governo italiano della lealtà boema nei confronti dell'Intesa. L'opera di Benes, in Italia nel gennaio '17, e di Stefánik, che vi si stabilì dal marzo all'agosto '17, non rimase però senza risultati. Il secondo in particolare ebbe modo di stringere contatti con i membri della Consulta e di essere ricevuto da diplomatici e politici italiani, facendo un ottima propaganda alla causa cecoslovacca, anche grazie al fascino che sapeva esercitare su chiunque , migliorando la predisposizione del mondo politico italiano verso le richieste dei boemi.

L'atteggiamento delle autorità italiane nei confronti dei sudditi di uno stato nemico che si recavano in Italia per svolgere attività propagandistica "rivoluzionaria", seppure orientata in senso antiasburgico, e nei confronti dei sudditi italiani che a tale propaganda aderivano, fu piuttosto sereno, se si considera che nei fondi archivistici del Ministero dell'Interno non si trova che un fascicolo, prodotto dall'Ufficio Centrale d'Investigazione, con la doppia intitolazione a "Benes" ed al "Comitato Czeco", che testimonia l'interesse suscitato da Benes durante la sua prima apparizione in Italia, nel gennaio 1917, e che , oltre a riportare notizia dei suoi contatti con Scarpa e con altri due personaggi tra cui Veselý, addetto all'Ufficio Stampa ceco di Roma, rassicurava sul suo conto visto che, durante la sua permanenza a Roma, "non diede motivo di farsi notare". Un appunto del 12 febbraio 1917 specificava che "il dott. Scarpa ha fatto conoscere che per ora non ha più bisogno di informazioni"; il che fa supporre che il fascicolo aperto su Benes possa essere stato sollecitato dall'uomo politico che si trovava in contatto con il ceco[26].

Le notizie che giungevano dalla Francia circa i progressi delle trattative diplomatiche e il timore che l'Italia venisse completamente scavalcata nell'ambito che le iniziative diplomatiche boeme stavano creando, funsero da stimolo per Sonnino, il quale, se si mostrava poco sensibile alle aspirazioni patriottiche ceche, lo era di più alla prospettiva che la Francia guadagnasse spazi di influenza nell'area danubiano-balcanica. Cominciò così a raccogliere maggiori informazioni sul movimento ceco e sul credito di cui il Consiglio cecoslovacco godeva nei Paesi dell'Intesa. Le rassicurazioni francesi, che consideravano il Consiglio come un organo semiufficiale, e le notizie giunte al Ministero degli Esteri circa "la caccia al monopolio dell'inquadramento dell'esercito cecoslovacco" apertasi tra Francia e Russia, che, a detta di Benes, sarebbe stato opportuno bilanciare con un intervento italiano nella questione[27], posero Sonnino in una predisposizione meno ostile alle richieste boeme.

Di tali richieste si fece portavoce Benes quando, nel settembre 1917, ritornò in Italia. Il colloquio più importante fu quello avuto con Sonnino e decise il parziale successo della missione. Durante l'incontro Benes ebbe modo di domandare al ministro, in qualità di rappresentante del governo, che quest'ultimo concedesse un riconoscimento ufficiale al Consiglio Nazionale boemo quale rappresentante di tutti gli interessi cecoslovacchi e come controparte per trattare ufficialmente, esclusivamente e direttamente, tutte le questioni riguardanti i cecoslovacchi. La seconda istanza consisteva nel riconoscimento di cechi e slovacchi come nazione alleata, con la conseguente liberazione di tutti i civili cecoslovacchi internati perché sudditi di uno Stato nemico. Veniva inoltre richiesto al governo italiano di rilasciare tutti i prigionieri che volevano entrare a far parte dell'esercito cecoslovacco, che si stava formando in Francia, autorizzando il loro trasferimento oltralpe[28].

Il Ministro degli Esteri non ebbe esitazioni ad acconsentire alle prime due richieste, autorizzando la costituzione di una Rappresentanza del Consiglio Nazionale dei Paesi cechi nella capitale italiana, composta da un ufficio stampa, una commissione per i prigionieri di guerra e una speciale commissione militare, ed accordando un trattamento di favore, concesso però a titolo individuale, senza impegni per il governo italiano, agli internati civili di nazionalità cecoslovacca[29], ma sulla terza questione si mostrò reticente.

Gli argomenti che Sonnino portò per lungo tempo per giustificare la sua opposizione si rifacevano al diritto internazionale, che proibiva l'utilizzo di prigionieri nei combattimenti. Egli riteneva, inoltre, rischioso utilizzare al fronte prigionieri austriaci, poiché ciò avrebbe potuto provocare rappresaglie nemiche contro i prigionieri italiani. Lo stesso ragionamento andava applicato all'ipotesi di trasferire i boemi in Francia, poiché l'Austria-Ungheria avrebbe potuto decidere di trasferire gli italiani in zone pericolose[30].

Sonnino espresse a Benes anche le ragioni legate alla politica interna italiana: la debolezza del ministero non permetteva di affrontare le ulteriori difficoltà che si sarebbero presentate se l'Austria-Ungheria avesse compiuto rappresaglie su prigionieri italiani in seguito ad una misura assunta dal governo[31].

La reazione di Sonnino fece comprendere a Benes che il suo progetto di un esercito unico non avrebbe trovato seguito, e lo convinse a proporre l'alternativa che prevedeva l'impiego delle forze ceche su più fronti, prospettiva considerata una sorta di ripiego dai boemi, che contavano sul valore che avrebbe assunto la loro partecipazione alla lotta sul fronte occidentale, considerato politicamente e militarmente più importante. Venne così proposta da Benes la creazione di un esercito nazionale cecoslovacco in Italia, la cui forma di organizzazione sarebbe stata oggetto di analisi e dibattiti nei mesi successivi.

La visita in Italia permise al leader ceco di stringere i contatti con altri esponenti politici, quali il sottosegretario Demartino, al quale fu indirizzato dal titolare della Consulta per discutere i dettagli circa la realizzazione delle richieste boeme, i ministri senza portafoglio Comandini, che si occupava delle propaganda, contattato per tramite di Scarpa che era il suo segretario, e Bissolati, presso il quale Benes poteva essere sicuro di trovare un'accoglienza favorevole ai suoi piani.

I giorni successivi all'incontro tra Benes e Sonnino furono impiegati nella ricerca di una formula che desse un minimo di soddisfazione al Consiglio Nazionale ceco, per evitare che esso scegliesse di profondere la sua opera solo in Francia, chiudendo all'Italia la possibilità di inserirsi nella questione cecoslovacca, senza però impegnare in nessun modo il governo italiano con un organo emanazione di una nazionalità che aspirava allo smembramento della compagine asburgica. Sonnino non coglieva, e non avrebbe colto per molti altri mesi, l'importanza che le lotte di liberazione nazionale condotte dalle nazionalità soggette all'Austria-Ungheria avrebbero avuto per la guerra italiana. Perciò non accettava la definizione di "trattative" data da Benes ai contatti in corso nel memoriale diffuso in Italia; anzi si piccava di specificare all'allora presidente del Consiglio Boselli "che erroneamente il signor Benes parla di trattative tra il governo italiano e il Consiglio Nazionale Cecoslovacco. Non può essere questione di altro che di concessioni da parte nostra[32]", svalutando completamente il contributo vantaggioso per l'Italia che avrebbero potuto portare le misure chieste dall'interlocutore ceco.

Il rifiuto di Sonnino di procedere ad un'irregimentazione dei prigionieri boemi condusse ad un compromesso secondo il quale sarebbe stata autorizzata la formazione di reparti speciali cecoslovacchi, che sarebbero stati impiegati in seconda linea come squadre di lavoro per la preparazione di trincee e fortezze. Essi avrebbero comunque mantenuto lo status di prigionieri, con le conseguenze ad esso connesse (come, ad esempio, la vigilanza armata da parte dei militari italiani) che avrebbero potuto produrre effetti morali negativi sui volontari. Questo aspetto giuridico della questione causò profonda insoddisfazione presso il Consiglio di Parigi, che non respinse immediatamente la proposta[33], anche su consiglio delle diplomazie britannica e russa: conoscendo la situazione di monopolio della politica italiana esercitato dal diffidente Sonnino, esse considerarono il risultato come un successo. Chi invece consigliò a Benes di rifiutare l'offerta fu l'inamovibile ambasciatore francese a Roma Camille Barrère, il cui governo sperava nell'invio di divisioni cecoslovacche per aiutare il proprio esercito a sostenere la pressione tedesca. Il leader ceco poté comunque prendere atto della simpatia conquistata presso una parte dell'opinione pubblica italiana in occasione dell'incontro promosso in suo onore il 30 settembre, al quale presero parte politici, militari, giornalisti. I discorsi dell'on. Torre e dell'on. Di Cesarò ribadirono l'idea della fratellanza dei popoli italiano e boemo, dovuta alla situazione simile di oppressione subita dall'Impero asburgico, e quindi la diversa sensibilità italiana nei confronti del progetto della sua disgregazione rispetto a Francia e Gran Bretagna. Queste ancora avevano motivo di scongiurare tale ipotesi, poiché temevano che le province tedesche dell'Austria si sarebbero unite alla Germania, aumentando l'area da questa egemonizzata, dato che una vita indipendente le avrebbe condannate ad una fisiologica debolezza.


L'offensiva austriaca dell'ottobre 1917, che permise alle truppe asburgiche di occupare un ampio territorio italiano, pose l'Italia in una condizione di debolezza nei confronti degli alleati. Poco dopo si affacciò la possibilità per l'Intesa di giungere ad un accordo con l'Austria-Ungheria[35] in seguito alle trattative di pace in corso tra gli Imperi centrali e la Russia agitata delle trasformazioni interne. Presupposto di questa intesa, così come lo era stato di quella proposta all'attenzione delle Potenze alleate dal Principe Sisto di Borbone, per conto dell'Imperatore Carlo, che già nel 1917 aveva manifestato propensione per la pace, era il raggiungimento di un compromesso tra l'Italia e l'Austria-Ungheria. I vertici italiani temettero, quindi, di esser costretti a trattare una pace svantaggiosa in quanto, a causa delle posizioni in cui si trovava l'esercito in quel momento, essi erano privi di qualsiasi strumento contrattuale valido per ottenere delle condizioni territoriali auspicabili.

Questi eventi furono un ulteriore stimolo a prendere in maggiore considerazione l'aiuto che le nazionalità oppresse offrivano nella lotta contro l'Austria-Ungheria. In effetti, nell'Intesa esisteva una discriminante che tendeva ad isolare l'Italia, in particolar modo nei momenti in cui ci si proponeva di indebolire il fronte nemico, separando i due maggiori alleati. La guerra italiana aveva come obiettivo sconfiggere la compagine asburgica, l'eterna nemica della libertà e dell'unità italiane, mentre l'avversario maggiore per Francia e Gran Bretagna era costituito dalla Germania. Da questo punto di vista, era valida l'esortazione tanto spesso usata dalla pubblicistica antiasburgica dell'epoca secondo la quale l'Italia avrebbe dovuto compensare l'isolamento all'interno dell'Intesa con l'avvicinamento alle nazionalità oppresse, che erano le sue alleate naturali, avendo lo stesso nemico da battere.

La notizia dell'accordo ufficiale tra il governo francese e il Consiglio Nazionale dei Paesi Cechi circa la costituzione di un esercito nazionale cecoslovacco stimolò la campagna propagandistica, messa in atto dai sostenitori italiani del progetto boemo, che mirava a convincere il governo ad adottare la cosiddetta "politica delle nazionalità".

Manifestazioni di interesse per il progettato esercito boemo si ebbero anche in Parlamento: il 20 dicembre il deputato Arcà tenne un discorso in cui si augurava un prossimo impiego di truppe cecoslovacche sul fronte italiano. Questi segnali venivano puntualmente colti e sfruttati dai boemi come occasioni di instaurare rapporti cordiali con esponenti dello Stato: Benes infatti inviò i suoi ringraziamenti ad Arcà e al presidente della Camera dei Deputati[36].

Il deputato Agnelli presentò un' interpellanza ai ministri degli Esteri e della Guerra sulla opportunità della costituzione delle legioni[37] ed il senatore Pullè sollevò la questione al Senato, il 28 dicembre 1917 proponendo la formazione di un corpo combattente con i 30.000 prigionieri boemi, seguendo l'esempio degli altri alleati. Il rifiuto di Sonnino fu argomentato con il timore per la ferocia che gli austroungarici avrebbero esercitato contro i volontari, quando fossero stati catturati, nonché con il rischio di rappresaglie contro i prigionieri italiani in Austria e contro le famiglie dei volontari boemi. Il confronto con la situazione francese che gli veniva opposto era controbattuto dal ministro con l'osservazione che la Francia non faceva combattere i boemi direttamente contro l'Austria-Ungheria, evitando loro il pericolo di cadere in mano ai comandi imperial-regi che li avrebbero giustiziati per tradimento. Se le legioni fossero state composte da volontari non prigionieri, egli avrebbe valutato diversamente la situazione perché, in quel caso, non sarebbe gravato sulle autorità italiane il sospetto di aver esercitato costrizione sui prigionieri per indurli a combattere .

Il responsabile dell'Ufficio romano del Consiglio Nazionale, Hlavaček, sollecitò il governo sottoponendo all'attenzione di Orlando, presidente del Consiglio del nuovo gabinetto formatosi dopo la disfatta militare di Caporetto, gli articoli di giornale dai quali si evinceva la reazione negativa dell'Austria alla costituzione delle legioni nazionali cecoslovacche in Russia e in Francia. L'altro argomento utilizzato dai rappresentanti cechi era la volontà di combattere per la patria manifestata dai prigionieri dei campi che inviavano appelli al Consiglio ceco e che erano impazienti di essere utilizzati al fronte[39]. Hlavaček svolgeva il compito di tenere informati i prigionieri nei campi sulla vita politica in Boemia, sull'andamento della guerra e sulle ultime decisioni delle autorità italiane circa il loro impiego, affinché si mostrassero in qualunque momento pronti ad agire.

Le associazioni nazionaliste, quali il "Fascio parlamentare di difesa nazionale", al quale aderivano parlamentari di svariati orientamenti politici, sorto dopo Caporetto per sostenere la resistenza interna la Paese, e la "Dante Alighieri", avevano compreso l'importanza del contributo che i boemi avrebbero potuto fornire all'irredentismo italiano lottando contro il comune nemico asburgico e manifestarono il loro appoggio ai progetti di costituzione di legioni di volontari cecoslovacchi.

Il comitato italiano per l'indipendenza cecoslovacca, che all'inizio del 1918 contava già 128 filiali[40], indusse le sezioni ad inviare al governo i loro voti per la costituzione dell'esercito cecoslovacco .



2.3 Le pregiudiziali di Sonnino e il "percorso" di Orlando


La dichiarazione di Lloyd George del 5 gennaio 1918 e quella di Wilson di tre giorni dopo, che mostravano la loro disponibilità ad un dialogo con l'Austria-Ungheria avevano preoccupato quella parte dell'opinione pubblica italiana che temeva che una pace stipulata prematuramente avrebbe reso vani gli sforzi sostenuti dall'Italia sino ad allora, poiché in quei mesi l'Austria si trovava senza dubbio in una posizione di forza.

D'altro canto la possibilità di una pace aveva ridato voce ai neutralisti e chi voleva mantenere vivo l'impegno bellico doveva cercare di non dare argomenti validi ai "disfattisti". Tali preoccupazioni giustificavano Sonnino nel suo atteggiamento verso l'ipotesi di smembramento dell'Impero asburgico: aderire alla politica delle nazionalità significava assumersi un impegno ulteriore, di ampia portata che, nelle condizioni italiane del momento, sarebbe stato eccessivo. Il "Giornale d'Italia", organo della politica sonniniana, sottolineò, in un articolo circa le polemiche sulla politica estera italiana, che le alte idealità italiane, che sostenevano la lotta delle nazionalità oppresse così come tutto ciò che poteva indebolire e minare l'Austria-Ungheria, non dovevano condurre l'azione italiana fuori dal piano delle possibilità reali[42]. Nella quarta sessione del Consiglio Supremo interalleato tenutosi a Londra alla metà di gennaio, era stata affrontata la questione dell'atteggiamento da tenere nei confronti delle nazionalità soggette. L'opinione condivisa dai governi alleati era stata quella di non lasciare intentata nessuna possibilità per indebolire l'Austria-Ungheria, senza però giungere ad inserire la sua distruzione tra gli scopi di guerra . La prudenza dei governi era dettata dal timore che un allargamento degli obbiettivi bellici avrebbe fatto immaginare la pace più lontana, aumentando l'insofferenza per la guerra.

E' in quest'ottica che Sonnino ritenne opportuno ritornare sulla questione della propaganda da far condurre ai cecoslovacchi nei campi di prigionia. Il Consiglio Nazionale dei Paesi Cechi aveva ottenuto l'assicurazione dai ministeri italiani interessati di poter liberamente svolgere propaganda tra i prigionieri a favore dell'idea di uno Stato (boemo) indipendente[44]. Sonnino tornò sulla questione nel gennaio 1918 quando il Comitato italiano per l'indipendenza cecoslovacca propose l'utilizzo di ufficiali reduci di nazionalità boema per sollecitare il loro sentimento patriottico. Sonnino espose ad Orlando la sua teoria secondo la quale "la propaganda per l'indipendenza della Boemia sarebbe [stata] sfruttata, tendenziosamente, dagli elementi aventi tendenza ad eccitare nel Paese correnti contro la guerra, col pretesto di obiettivi troppo vasti che non [interessavano] direttamente l'Italia" . La politica sonniniana sarà sempre caratterizzata da una ristrettezza di vedute che scandalizzava i politici più idealisti come Bissolati, e pervasa da un calcolo politico stringente secondo il quale tutto ciò che non toccava da vicino gli interessi italiani, provocando un tornaconto immediato, non meritava di essere assunto come impegno: era "la politica estera da misurare col bilancino" di Sonnino, incapace di valutare le situazioni nuove, che la guerra stava creando, in un'ottica di lungo periodo.

Il presidente del Consiglio dei ministri Vittorio Emanuele Orlando si trovò, dal novembre 1917, ad affiancare Sonnino nell'azione diplomatica. Inizialmente egli non scelse una linea politica autonoma rispetto al ministro degli Esteri che, in carica sin dall'inizio della guerra, rappresentava la garanzia di coerenza e continuità della politica estera italiana. Quando, però, entrò in possesso di sempre maggiori elementi di valutazione, grazie all'azione propagandistica degli emigrés boemi e di altre nazionalità dell'Impero, di associazioni e comitati filoboemi nonché dei suoi collaboratori ormai guadagnati alla politica delle nazionalità, e cominciò a comprendere meglio la situazione etnica dell'Impero asburgico, decise di seguire un indirizzo alternativo a quello strenuamente difeso da Sonnino. La ragione per la quale i critici della politica delle nazionalità adottata da Orlando poterono sollevare accuse opposte contro di lui - da una parte di aver indebolito la posizione dell'Italia, compiendo passi a favore delle nazionalità oppresse, dall'altra di aver preso impegni a favore di quelle nazionalità e di non averli poi rispettati - sta nell'incapacità di Orlando di neutralizzare l'opposizione di Sonnino e dei suoi sostenitori. Egli fu perciò costretto a compiere scelte non sempre coerenti, alcune in ossequio alla politica delle nazionalità, al punto da dargli la sensazione di "tradire" Sonnino, altre concordi con l'ottica del ministro degli Esteri, tali da attirarsi le recriminazioni di chi, come Wickham Steed, aveva sempre propugnato la politica in favore delle popolazioni sottomesse agli Asburgo

Alla fine del gennaio 1918 Orlando compì un viaggio a Parigi e a Londra dove, dai contatti che intraprese, ebbe modo di convincersi della necessità per l'Italia di allinearsi alle aspirazioni delle popolazioni oppresse: quando rientrò a Roma poteva già definirsi "tifoso delle nazionalità oppresse"

Nel frattempo il favore verso l'utilizzo dei prigionieri cecoslovacchi al fronte si era fatta strada anche tra i comandi militari i quali, se da una parte sottolineavano che la loro importanza sarebbe stata soprattutto morale, in quanto si sarebbe posto davanti all'Austria-Ungheria un emblema della sua disgregazione, dall'altra non disprezzavano il contributo militare che essi avrebbero apportato, anche in considerazione dell'atteggiamento pessimistico circa la capacità di resistenza italiana diffusosi dopo Caporetto. I comandi italiani assunsero così, in alcuni momenti, l'iniziativa delle trattative per giungere ad una definizione della questione. L'11 febbraio 1918 il generale Cadorna, che aveva avuto modo di conoscere personalmente la lealtà e l'entusiasmo patriottico di Stefánik , presentò una nota al Consiglio Interalleato dell'Intesa circa l'utilizzazione di contingenti cecoslovacchi e jugoslavi a fianco degli eserciti alleati. Sebbene questa memoria non fosse discussa dai comandi dell'Intesa, ravvivò il dibattito interno italiano, poiché mise in evidenza un altro fronte favorevole alla causa cecoslovacca. Orlando, messo a conoscenza dell'intervento di Cadorna, constatò che il generale aveva agito senza un preventivo accordo col governo, ancora bloccato dalla pregiudiziale di Sonnino che si opponeva all'impiego di prigionieri dell'Italia sulla prima linea del fronte

Lo scopo di porre all'attenzione delle diplomazie dell'Intesa la possibilità dell'impiego dei cecoslovacchi sul fronte italiano fu comunque raggiunto e trovò buona accoglienza presso gli alleati. Il generale Giardino, incaricato di condurre le trattative presso la Commissione interalleata di Parigi con l'assistenza di un esperto di questioni slave, il professor Gallavresi, verrà sollecitato da Orlando ad ottenere l'invio di prigionieri e volontari cechi dalla Francia sul fronte italiano, aggirando così il veto posto da Sonnino, che riguardava solo i prigionieri catturati dall'Italia . L'opposizione del ministro degli Esteri limitata al solo utilizzo dei prigionieri italiani, mette in evidenza come le motivazioni umanitarie che in un primo momento aveva accampato erano piuttosto pretestuose, e venivano accantonate quando la responsabilità giuridica e politica dell'invio al fronte dei boemi fosse ricaduta su un altro governo.

Il presidente del Consiglio fu, comunque, messo sull'avviso dal generale circa il modesto apporto militare che, specialmente in tempi brevi, i volontari avrebbero potuto fornire, data la loro impreparazione ed il loro modesto numero. Giardino però ribadì ancora una volta con Orlando che il valore che avrebbero assunto le truppe boeme al fronte era soprattutto morale e perciò, nonostante la scarsa utilità militare, l'opportunità non andava trascurata

Tra febbraio e marzo del '18 la convinzione di Orlando circa l'utilità dell'impiego di reparti militari di nazionalità cecoslovacca si fece più salda, come testimonia Bissolati negli appunti, scritti retrospettivamente, che riguardano quei giorni. Egli narra che la questione dell'impiego dei cechi era stata affrontata dal Consiglio di guerra nella seduta del 7 marzo, durante la quale era emerso il favore di Orlando e l'opposizione di Diaz e di Nitti, interpreti delle posizioni sonniniane. L'opera di convincimento messa in atto da Bissolati e Stefánik, in quel periodo in stretti rapporti con il Comando Supremo italiano, proseguì mettendo in contatto Orlando e Nitti con i responsabili dell'impiego dei cechi come informatori d'armata. L'utilizzo di disertori e prigionieri, che si offrivano volontari come traduttori negli interrogatori o per avvicinare truppe della stessa nazionalità ancora in armi sul fronte nemico, era cominciato già nel 1916, senza che ciò fosse apertamente autorizzato dal governo o addirittura a sua insaputa . I capi degli Uffici Informazioni della I, III e IV armata, Marchetti, Smaniotti e Vigliana mostrarono il loro entusiasmo per le imprese dei reparti esploratori cecoslovacchi, tra le quali la più nota rimarrà il contributo fornito per la preparazione di un'azione per l'occupazione di Trento, concordata con alcuni ufficiali austroungarici di nazionalità cecoslovacca che avrebbero aiutato l'avanzata italiana arrendendosi con le loro truppe: secondo i capi degli uffici informazione, l'azione non fu realizzata a causa delle scelte inadeguate compiute dai comandi italiani nello scegliere i responsabili delle operazioni . L'impressione che Orlando riportò dagli incontri con gli ufficiali avuti in zona di guerra viene descritta da Bissolati con un significativo "Orlando ne è preso" , ed anche Ugo Ojetti, che allora era incaricato di selezionare le opere d'arte da allontanare dalla zona di guerra per metterle al sicuro, narra che il presidente era ormai risoluto ad imporre la formazione della legione ceca . E' di Orlando la responsabilità di aver proceduto sulla strada dello sfruttamento delle risorse morali che le nazionalità soggette offrivano, promuovendo l'istituzione della Commissione per la propaganda sul nemico presso la III armata la cui direzione venne affidata allo stesso Ojetti ed aveva lo scopo di rendere più sistematica la campagna di informazione diretta alle truppe di nazionalità non tedesca e non magiara in forza al nemico circa la disponibilità dell'Italia ad accogliere i disertori e inquadrarli in legioni formate su base nazionale che avrebbero combattuto contro l'Austria-Ungheria, facendo leva sui sentimenti patriottici per indurre i soldati ad abbandonare il fronte austroungarico. La creazione della commissione rappresentò un importante passo del governo, che dimostrava, per la prima volta, di assumersi la responsabilità della conduzione della politica delle nazionalità: il nuovo organo, sorto per iniziativa di Orlando, avrebbe infatti rappresentato ufficialmente l'esecutivo

La campagna di appelli e informazioni indirizzata ai militari dell'esercito imperial-regio non diede gli stessi risultati a livello politico per le varie nazionalità. Se, dunque, pochi mesi dopo si sarebbe costituita una divisione cecoslovacca, grazie anche alla capacità del Consiglio Nazionale ceco di convincere il governo, od almeno alcuni suoi membri, a favorire la causa boema, la costituzione di legioni rumene, polacche e jugoslave non si realizzò che pochissimo tempo prima della fine del conflitto. Le trattative circa la costituzione di truppe nazionali rumene si arenarono quando, con la pace di Bucarest firmata il 7 maggio 1918, la Romania uscì dal conflitto e lo status dei volontari rumeni si modificò di conseguenza, creando ulteriori difficoltà e riserve per il governo italiano . Dei tre reggimenti rumeni inizialmente previsti non se ne formò che uno, e solo nell'ottobre 1918 . L'impiego degli jugoslavi al fronte fu invece ostacolato dalle polemiche sulla formula del giuramento che essi avrebbero dovuto prestare prima di recarsi al fronte: le autorità italiane avevano difficoltà ad accettare le formule proposte che avrebbero implicato il riconoscimento di una nazione jugoslava, o del progetto di unione delle etnie slave del Sud al regno serbo, e frapposero ostacoli che dilazionarono l'invio al fronte delle truppe jugoslave.

L'altra misura assunta da Orlando a conferma del nuovo orientamento politico che stava abbracciando in quelle settimane fu di affidare la "cura politica" dei prigionieri a Bissolati che, profondamente convinto della necessità di abbattere la compagine asburgica sfruttando le aspirazioni indipendentistiche delle nazionalità al suo interno, ne approfittò per spingere avanti la formazione delle legioni ceche

Le trattative in corso a Parigi tra Giardino e il Consiglio Nazionale ceco, nel frattempo, avevano fatto emergere varie ragioni di disaccordo da comporre per giungere ad un'intesa. Innanzitutto, mentre l'obiettivo più allettante per il Consiglio era di riunire sul fronte francese i prigionieri cecoslovacchi che si trovavano in Italia, gli italiani speravano di poter sfruttare il contributo morale e militare cecoslovacco sulle proprie linee. Inoltre, fino a che la pregiudiziale di Sonnino non venne rimossa, si sperava che tale contributo arrivasse dai cecoslovacchi, prigionieri e volontari, provenienti dai fronti serbo, russo o francese . Il Consiglio Nazionale chiarì a Giardino che non ci sarebbe stato nessun impiego di forze boeme in Italia, se questa non avesse messo a disposizione i prigionieri sotto il suo controllo. I rappresentanti boemi sarebbero stati disponibili ad inviare grandi unità militari da integrare con i prigionieri già in Italia, ma qualsiasi accordo era condizionato alla eliminazione del veto posto dal ministro degli Esteri Italiano . Fu proprio in seguito a questa sorta di ultimatum ceco che Sonnino cedette ed autorizzò l'impiego a fini militari dei prigionieri cecoslovacchi, permettendo che iniziasse l'inquadramento dei reparti. Il Consiglio Nazionale, dal suo canto, comprese la portata del successo ottenuto e accettò che i volontari venissero inquadrati in una legione ceca in Italia

In effetti la decisione di Sonnino fu dettata probabilmente dalla situazione di isolamento in cui si venne a trovare, per quanto riguardava la politica delle nazionalità: la sua solitaria opposizione, quando ormai in vari ambienti ufficiali, così come in una larga parte dell'opinione pubblica si era affermata l'idea della utilità delle legioni ceche, sarebbe stata inutile se non dannosa per il suo prestigio e per la sua posizione politica. Il maggiore artefice dello "scavalcamento" di Sonnino fu Stefánik che, da fine febbraio, pressava incessantemente il ministro ed esercitava la sua abilità diplomatica per guadagnare quanti più alleati alla causa ceca nell'ambiente politico italiano gli riuscisse, in modo da neutralizzare più facilmente l'opposizione di Sonnino. L'opera dell'allora colonnello dell'esercito francese culminò nella stesura di un memoriale consegnato al governo italiano il 20 marzo che contribuì a fugare gli ultimi dubbi. Nella nota erano sintetizzate tutte le ragioni che giustificavano la resistenza degli italiani e le argomentazioni che i boemi opponevano. Le due motivazioni principali accampate dal governo italiano, quella umanitaria fondata sul timore per la ferocia con cui gli austriaci avrebbero vendicato il tradimento qualora avessero catturato i volontari, e quella fondata sulla paura di rappresaglie contro i prigionieri italiani in Austria, erano demolite dalle osservazioni circa la responsabilità dell'Italia nei confronti di tutti quei prigionieri che si erano arresi senza combattere o avevano disertato, indotti a farlo dalla propaganda italiana che li aveva esortati a passare dall'altra parte del fronte per potersi battere per la loro patria nazionale. Inoltre Stefánik non si lasciava sfuggire l'occasione di rammentare come l'utilizzo di prigionieri cecoslovacchi al fronte italiano fosse già avvenuto, nonostante il divieto del ministero degli Esteri, riferendosi soprattutto ai reparti "esploratori" con compiti di ricognizione e propaganda. Il colonnello non si asteneva dal criticare tale modo di procedere dei comandi italiani, definendolo degradante per i volontari utilizzati anche con compiti di spionaggio contro i loro ex-commilitoni, se non collocato nel quadro di una cooperazione più ampia e organizzata.

Le difficoltà alle quali i comandi militari italiani temevano di andare incontro erano di ordine prevalentemente tecnico e morale. Essi ponevano in evidenza i problemi linguistici e di organizzazione che sarebbero sorti nelle formazioni ceche, liquidati da Stefánik come di importanza secondaria. I responsabili dell'esercito temevano, inoltre, che i disertori cecoslovacchi potessero costituire un elemento che minacciava di indebolire la lealtà delle truppe italiane, essendo essi dei disertori. A tale preoccupazione lo slovacco obiettava che, se i suoi connazionali tradivano l'Impero asburgico, ciò era dovuto al fatto che essi ritenevano di manifestare il loro attaccamento agli ideali nazionali abbandonando l'esercito dello Stato che aveva oppresso la loro vera patria per secoli. Stefánik non nascondeva che non tutti i volontari erano ardenti patrioti: una parte di loro era spinta a tornare al fronte solo per superare l'apatia e la frustrazione che li dominava nella vita del campo di prigionia e dalla speranza di migliorare la propria condizione materiale. Ciò giustificava il timore dei comandi italiani sul rischio che eventuali spie austroungariche avrebbero potuto trovare un terreno favorevole tra i soggetti meno motivati. Stefánik assicurava però che, una volta inquadrate, le truppe cecoslovacche avrebbero dato prova del loro alto valore morale.

La nota criticava apertamente la soluzione di compromesso suggerita sino ad allora dal governo italiano, la costituzione dei battaglioni di lavoro, che non corrispondevano in niente allo scopo politico e militare che i cecoslovacchi si erano prefissi. L'indecisione e l'ambiguità che la politica italiana aveva dimostrato con questa proposta e che avrebbe ancora dimostrato continuando a negare soddisfazione alle richieste del Consiglio Nazionale cecoslovacco, avrebbero nuociuto al prestigio dell'Italia e avrebbero dato ulteriori spunti alle insinuazioni da parte austroungarica circa l'indifferenza italiana nei confronti delle aspirazioni delle nazioni slave

Un contributo ad aumentare la disponibilità italiana ad un accordo lo fornì anche la stipula del trattato di Brest-Litovsk (3 marzo 1918) con il quale la Russia usciva dallo schieramento dell'Intesa. Da quel momento l'impeto austriaco avrebbe potuto scatenarsi interamente contro l'Italia, supportata molto limitatamente da Francia e Inghilterra che non potevano distrarre troppe forze dal fronte germanico: in quel momento qualsiasi opportunità di rinforzare la linea di difesa doveva essere sfruttata opportunamente.


Poté così cominciare lo studio per uno schema di convenzione tra l'Italia e il Consiglio Nazionale dei Paesi Cechi e si cominciarono ad affrontare più dettagliatamente questioni tecniche sull'organizzazione delle formazioni ceche. La stipula dell'accordo, sul quale si sarebbe basata la partecipazione cecoslovacca alla guerra italiana, era invocata dal Consiglio Nazionale ceco poiché tale documento sarebbe stato un elemento utile per meglio definire la posizione internazionale del Consiglio e della nazione da esso rappresentata

Le difficoltà che rimanevano da superare riguardavano prevalentemente l'armonizzazione dei comandi del futuro esercito cecoslovacco, dislocato in vari Stati. Nello schema di convenzione che Sonnino ebbe modo di commentare sul suo diario alla data del 12 aprile, non appariva certo che le truppe formate con i prigionieri in Italia sarebbero state poste sotto l'esclusivo comando italiano, che avrebbe dovuto comunque procedere d'accordo con il Consiglio Nazionale ceco. Il documento conteneva una clausola in cui si precisava che "l'impiego su differenti teatri d'operazione [doveva] essere regolato con accordo tra il governo francese e il Consiglio Nazionale cecoslovacco". Il riferimento al governo francese stupì il ministro, che lo intese come un'inopportuna imprecisione circa l'autorità del generale Foch in veste di Comandante delle Forze Armate Interalleate, considerato che l'esercito cecoslovacco era riconosciuto come subordinato al Comando Interalleato. Sonnino tenne a precisare il suo punto di vista in proposito: nella convenzione si sarebbe dovuta utilizzare una formula che garantisse l'impossibilità di spostare i reparti formati in Italia dal fronte italiano e che qualsiasi decisione a loro riguardo dovesse essere presa dal Comando Supremo italiano, d'accordo con il Consiglio ceco . Lo scarso entusiasmo di Sonnino per l'intesa quasi raggiunta era ribadito dalla notazione in cui si sottolineava come l'Italia stesse mettendo a rischio di rappresaglia i prigionieri caduti in mano agli austroungheresi "senza compenso alcuno" . Se ancora una volta il ministro degli Esteri dimostrava la sua estraneità alla nuova politica estera che sembrò trionfare in Italia nei mesi primaverili, il suo scetticismo gli permetteva però di focalizzare alcuni aspetti ambigui nei rapporti che il Consiglio ceco stava instaurando con la Francia.



2.4 Le nazionalità oppresse si alleano: il Patto di Roma


Il maggiore ostacolo al successo della politica delle nazionalità in Italia era l'aspirazione italiana ad occupare i territori della costa adriatica che erano stati pattuiti con gli Alleati nel marzo del 1915, rivendicati anche dagli slavi del sud. Inoltre, dopo che i termini del Patto di Londra furono noti all'opinione pubblica italiana, si diffuse la speranza che un successo militare avrebbe permesso di ottenere anche la città di Fiume, ritenuta inequivocabilmente italiana dal punto di vista etnico e culturale.

L'atteggiamento nei confronti della possibile costituzione di uno Stato serbo-croato-sloveno, che avrebbe preteso l'applicazione del principio di nazionalità a scapito dell'Italia per definire l'assegnazione delle zone contese, divise l'opinione pubblica italiana favorevole a fornire sostegno alle popolazioni oppresse lungo una gamma di posizioni che differivano per la intensità e la sincerità dell'adesione alla politica delle nazionalità.

A parte chi, come Sonnino, non riteneva particolarmente desiderabile la scomparsa dell'Impero asburgico, per il suo ruolo sia di garante dell'equilibrio tra Potenze che di freno alle ambizioni delle piccole nazionalità nell'Europa centro-orientale, e chi, fedele al neutralismo, auspicava la fine della guerra a qualsiasi condizione, il restante fronte interventista parve, nella primavera del 1918, convincersi della necessità di un'alleanza con le popolazioni slave dell'Austria-Ungheria per affrettare la fine di quest'ultima. La situazione militare, che in quei mesi appariva ancora molto incerta, contribuiva a far accettare anche ai più scettici la necessità dell'aiuto che le nazionalità oppresse potevano offrire, sia al fronte, per mezzo delle legioni formate su base nazionale, sia con la resistenza più o meno passiva che conducevano, quando possibile, all'interno dell'Impero.

La diffidenza diffusa verso quei popoli slavi con cui si temeva di giungere ad uno scontro al momento della definizione di nuovi confini orientali condizionò sempre l'efficacia della politica estera italiana, facendole assumere spesso atteggiamenti contrastanti e mettendo in evidenza incertezze ed esitazioni che ne minarono la credibilità.

L'atteggiamento verso i cecoslovacchi, che pure si erano guadagnati larghe simpatie in Italia grazie alle notizie che il Consiglio Nazionale boemo diffondeva circa la loro presa di posizione contro gli Asburgo manifestata da atti e dichiarazioni, fu sempre condizionato dalle riserve che una "politica slava" suscitava negli ambienti nazionalisti e conservatori. Gli slavi del Sud che, così come i boemi, davano dimostrazioni di insofferenza verso il dominio asburgico, non poterono usufruire di altrettanta pubblicità positiva perché qualsiasi notizia riguardasse gli jugoslavi era accolta con diffidenza, quando non celata o stravolta dai sentimenti "slavofobi" dilaganti in Italia[68].

L'ignoranza di una ampia parte del pubblico italiano circa le differenze nazionali tra i vari gruppi slavi dell'Impero austroungarico rendeva più difficile guadagnare il favore degli italiani alla causa cecoslovacca. Così, chi in quei mesi appoggiava la causa boema, pubblicizzandola a mezzo di conferenze, articoli e pamphlets, riteneva utile informare che i cecoslovacchi, slavi del nord, erano un popolo diverso dagli jugoslavi, slavi del Sud, e che gli slovacchi non andavano confusi con gli sloveni[69].

Anche quelle associazioni che avevano aderito al programma dei cecoslovacchi perché lo avevano ritenuto utile alla guerra italiana, sottolineavano la maggiore partecipazione di questi ultimi, rispetto agli jugoslavi, alla lotta contro l'Austria-Ungheria. L'opinione pubblica aveva, in alcuni casi, rilevato questa sorta di incoerenza che guidava le scelte delle organizzazioni di ispirazione nazionalista, motivando la mancata adesione ai movimenti a favore della indipendenza della Boemia con l'incompletezza del programma, che prendeva in considerazione solo una delle tante nazionalità soggette agli Asburgo[70]. D'altro canto, il Comitato italiano per l'indipendenza cecoslovacca era molto esplicito nelle direttive alle sezioni, quando le invitava ad attenersi strettamente alle finalità di intesa italo-ceca nelle loro attività, astenendosi dall'assumere alcun tipo di impegno per i movimenti nazionali affini a quello boemo . Lo stesso Comitato, per giustificare il limite autoimpostosi, ritenne utile trattare diffusamente delle nazioni jugoslave, rilevando il loro presunto lealismo alla Duplice Monarchia, l'esiguità del fenomeno del fuoriuscitismo antiasburgico e l'incapacità dimostrata da questo movimento di creare una struttura solida, complessa e legata agli ambienti politici dell'Intesa come il Consiglio Nazionale ceco. Dai termini del discorso, però, si evince che la ragione fondamentale di dissenso con i popoli slavi del Sud era da ricercarsi nella loro naturale opposizione alle rivendicazioni italiane, particolarmente in Dalmazia .

Il Comitato italiano per l'indipendenza cecoslovacca era nato in stretto collegamento con le maggiori associazioni nazionaliste, come la Dante Alighieri, la Trento-Trieste o la Pro Dalmazia italiana. L'enfasi nazionalistica che informava alcune sue iniziative e lo rendeva scettico nei confronti dei progetti di sostegno alle popolazioni jugoslave, costituiva l'elemento che lo differenziava dall'interventismo democratico, con il quale condividevano il favore per una generica "politica delle nazionalità".

Oltre ai portavoce più estremisti delle teorie democratiche applicate alla sistemazione postbellica dell'Europa, anche a costo di limitare le pretese italiane su zone etnicamente non italiane, come Bissolati e Salvemini, altri personaggi che aderivano alle idee dell'interventismo di sinistra si trovavano nella redazione del "Corriere della sera". La testata, diretta da Luigi Albertini, fu la prima a proporre un salto di qualità alla politica estera italiana attraverso un avvicinamento agli jugoslavi[73]: solo il superamento della diffidenza verso le popolazioni slave che si affacciavano sull'Adriatico avrebbe reso la politica antiasburgica efficace. I democratici mettevano in evidenza che la collaborazione con tutte le nazionalità oppresse avrebbe fatto riconoscere all'Italia il primato morale per aver contribuito direttamente alla lotta per la libertà delle popolazioni dell'Impero. Oltre al prestigio, utile per rinsaldare la posizione italiana rispetto alla Francia, rivale diretta nel ricercare l'amicizia delle nazionalità slave, e alla Gran Bretagna, quella collaborazione avrebbe avvicinato sul piano ideale l'Italia agli Stati Uniti, che diffidavano degli scopi di guerra italiani resi noti con la pubblicazione del Patto di Londra compiuta dai nuovi dirigenti della Russia rivoluzionaria.

Per giungere ad un accordo italo-jugoslavo che permettesse una cooperazione amichevole e sincera, seppure non fosse ritenuto necessario definire dettagli territoriali, era necessario che l'Italia riconoscesse il diritto di serbi, croati e sloveni di costituirsi in un unico Stato indipendente e che entrambe le parti accettassero delle limitazioni di massima tali da permettere una composizione equa degli interessi[74]. Tale accordo avrebbe permesso la conduzione di una politica estera omogenea, dunque più democratica e più lineare, nei confronti di tutte le nazionalità soggette agli Asburgo. Di più, sarebbe stato possibile, per esempio, attuare misure tali da chiarire a chi, come Wilson o Lloyd George, aveva manifestato di non ritenere la dissoluzione dell'Impero asburgico una necessaria conseguenza della guerra, la volontà unanime delle nazionalità dell'Austria-Ungheria di smembrare l'organismo sovranazionale per liberarsi. Un segnale in questo senso sarebbe potuto essere la convocazione di un convegno al quale avrebbero partecipato rappresentanti di tutte le nazionalità dell'Impero. La proposta venne sollevata sia in Francia, da Benes, sia in Italia, da Giuseppe Antonio Borgese, un collaboratore del "Corriere". In occasione di un convegno del 2 febbraio organizzato a Milano dal "Fascio parlamentare di difesa nazionale" si ebbe una formulazione più compiuta del progetto per merito dei promotori, che ritenevano necessario cercare l'adesione di tutte le forze interventiste e nazionaliste che concordavano nei propositi di smembramento dell'Austria-Ungheria. Non si coinvolsero nei preparativi gli esponenti della democrazia radicale e di tendenze bissolatiane , poiché probabilmente si temevano da quei personaggi delle aperture eccessive verso le richieste jugoslave, creando condizionamenti alle trattative che, prima o poi, avrebbero avuto luogo per decidere i confini orientali dell'Italia. La scelta di non contattare i "campioni" della politica delle nazionalità è una testimonianza del fatto che il fronte antiasburgico, composto da svariate componenti che agivano d'intesa su un programma minimo, si sarebbe dissolto se non si fosse prestata la massima attenzione a non radicalizzare le posizioni. Peraltro, in quei mesi, sembrò che l'interventismo democratico si facesse superare in attivismo da quello conservatore che, seppure si sarebbe mosso nel senso di cercare un accordo con le altre nazionalità, in particolare con gli jugoslavi, lo avrebbe fatto in termini più moderati rispetto a quelli auspicati dai democratici, che intendevano il raggiungimento di un' intesa con le altre nazionalità come un modo per invalidare il Patto di Londra e superare la correlata politica estera di stampo sonniniano .

Il 15 febbraio venne così fondato il Comitato per l'accordo fra nazionalità soggette all'Austria-Ungheria[77], che aveva come suoi fini quello di sostenere la propaganda antiaustriaca nelle fila nemiche e indurre alla rivolta le nazionalità soggette per facilitare l'attività bellica dell'esercito, convincere della necessità dello smembramento della Duplice Monarchia i governi alleati, i quali solo il mese precedente rivolgevano al nemico assicurazioni sulla sua sopravvivenza, ottenere per l'Italia la direzione del movimento delle nazionalità, con i conseguenti vantaggi politici e morali da sfruttare anche dopo il termine del conflitto . Il primo obiettivo da raggiungere era quello di realizzare le condizioni affinché il progettato congresso delle popolazioni sottomesse agli Asburgo potesse realizzarsi, rimuovendo i maggiori ostacoli alla collaborazione tra le nazionalità oppresse. Per ottenere lo scopo fu deciso di inviare il parlamentare Torre a Londra per tentare nuovamente di raggiungere un accordo di massima con i rappresentanti degli slavi del Sud.

Le trattative, condotte da Torre non senza aver prima ottenuto il consenso del presidente del Consiglio[79], furono coronate dal successo quando si giunse all'accordo su un testo che, lasciando da parte l'esame delle questioni territoriali così come desiderato dagli italiani, enunciava i principi che avrebbero guidato la composizione della controversia e rappresentava un'esplicita approvazione italiana alla formazione di uno Stato jugoslavo indipendente, una volta ottenuta la vittoria militare sull'Impero asburgico. L'intesa, detta Torre-Trumbić dai nomi dei due rappresentanti, era inficiata nella sua efficacia dal fatto che, se per la parte jugoslava era stata sottoscritta dal leader del Comitato nazionale, che con il suo nome aveva impegnato il massimo organo nazionale, l'italiano agiva in nome di un comitato senza alcuna veste ufficiale od ufficiosa che si sarebbe potuto anche sciogliere, liberando da qualunque vincolo anche i suoi rappresentanti. Il risultato immediato dell'accordo fu, comunque, quello di permettere la convocazione del Congresso delle nazionalità soggette all'Austria-Ungheria, assicurandosi la partecipazione di tutte le rappresentanze.

Un progetto molto simile a quello dei liberali interventisti italiani era stato formulato anche da Benes che aveva avanzato la sua proposta nell'ambiente politico francese per una riunione, con lo stesso significato politico, da tenersi a Parigi. I promotori italiani riuscirono però a far prevalere Roma come sede del convegno, grazie all'argomentazione che, attuato nella capitale della Potenza che era più direttamente impegnata nella lotta contro l'Impero asburgico, il convegno avrebbe avuto una maggiore risonanza ed un superiore valore morale. Naturalmente, non si trascurava che se, come ci si aspettava, la manifestazione avesse avuto successo, l'Italia avrebbe potuto attestarsi alla guida del movimento nella lotta contro l'Austria-Ungheria. L'impegno a promuovere la collaborazione tra le nazionalità oppresse avrebbe cercato di dimostrare, inoltre, che le illazioni sull'imperialismo degli obiettivi di guerra italiani erano false[81].

Nell'ambito dei contatti e delle iniziative che condussero al Congresso di aprile, la posizione di Sonnino rimase di profonda diffidenza verso la possibilità di instaurare un dialogo che non fosse basato sul Patto di Londra con le popolazioni slave che si affacciavano sull'Adriatico. Egli non incoraggiò nessun passo, anzi spesso si dissociò con dichiarazioni ufficiali dalle attività dei connazionali come quando, dopo che si ebbe notizia del raggiungimento dell'accordo Torre-Trumbić, comunicò all'ambasciatore italiano a Londra, Imperiali, che l'"on. Torre non ha avuto alcun incarico dal ministero degli Affari Esteri e che [riteneva] inopportuna assemblea irredentistica a Roma"[82]. Il disconoscimento che Sonnino compiva di ogni azione mirante a rinsaldare la posizione italiana tra le nazionalità oppresse e gli alleati privava quelle iniziative di autorevolezza e rendeva palese agli osservatori esterni la diversità di vedute che divideva sempre di più i due maggiori responsabili della politica estera italiana, il ministro degli Esteri e il presidente del Consiglio. Anche il Congresso delle nazionalità soggette all'Austria-Ungheria diede occasione di notare la differenza di atteggiamenti dei due uomini politici.

Il Congresso, organizzato in Campidoglio, si tenne nei giorni dall'8 al 10 aprile 1918 e vide la partecipazione, oltre che della delegazione italiana, di quelle cecoslovacca, rumena, polacca e jugoslava. Ad assistere ai lavori c'erano poi personalità francesi, inglesi e l'ambasciatore americano a Roma. La delegazione italiana era composta dalla rappresentanza del Comitato per l'accordo tra le nazionalità, che comprendeva politici di orientamenti vari, e da quella del Comitato di propaganda per l'intesa italo-jugoslava, che raggruppava gli esponenti della sinistra radicale, della tendenza di Salvemini, che avevano preferito formare un gruppo a parte piuttosto che unirsi ai nazionalisti[83].

I discorsi tenuti dagli invitati al Congresso sancirono l'accordo dei popoli sottomessi circa la disgregazione dell'Impero danubiano, la loro volontà di ricostituirsi come nazionalità indipendenti, cosicché questa riunione poté essere ricordata come un momento altamente simbolico per il "risorgimento" delle nazioni dell'Europa centro-orientale. Il Congresso produsse un atto mediante il quale le nazionalità oppresse si impegnavano a collaborare nella lotta contro il comune oppressore, l'Impero asburgico, che costituiva l'ostacolo al compimento dell'unità e al raggiungimento dell'indipendenza nazionale. A questo, che verrà ricordato come il Patto di Roma, si aggiunse la dichiarazione italo-jugoslava che riprendeva i principi sanciti dagli accordi di Londra tra Torre e Trumbić[84], rimandando ulteriormente la definizione di questioni territoriali nel dettaglio, anche perché la delegazione italiana non avrebbe avuto alcun titolo per farlo.

In effetti, il Congresso ebbe un riconoscimento dal governo, poiché il 12 aprile Orlando ricevette le delegazioni delle nazionalità soggette all'Austria-Ungheria a nome dell'esecutivo italiano e tenne un discorso in cui riconobbe ufficialmente le aspirazioni delle popolazioni oppresse.

Il Congresso, che sul momento entusiasmò tutti coloro vi parteciparono, ebbe un grandissimo risalto propagandistico, suscitò iniziative altamente significative, come la riunione delle rappresentanze delle nazionalità che provocatoriamente si incontrarono all'interno dell'Impero, il 16 maggio a Praga[85], e divenne l'emblema della nuova politica estera democratica dell'Italia. Nei giorni successivi furono diffuse le comunicazioni degli Stati Uniti e dei tre governi alleati che manifestavano la loro simpatia per le aspirazioni nazionali emerse durante la riunione.

La rilettura degli avvenimenti di questo periodo sarebbe stata fatta da una parte degli stessi partecipanti nel 1919, quando, durante la Conferenza della pace, si ritenne responsabile la politica delle nazionalità, ed il Congresso che ne era divenuto il simbolo, della opposizione degli alleati a dare piena soddisfazione al Patto di Londra. Quelle correnti che erano confluite in una manifestazione unitaria nella primavera del 1918, sarebbero tornate a contrapporsi un anno dopo rimproverandosi reciprocamente del fallimento della politica estera italiana. Tra gli esponenti politici presenti al Congresso alcuni avrebbero accusato i promotori del Patto di Roma di aver abusato dei loro poteri, sostituendo in quell'occasione al Patto di Londra i nuovi accordi non sanzionati dal governo. Per tutta risposta gli attivisti del Comitato per l'accordo delle nazionalità rileveranno che il favore per gli accordi romani fu unanime; che non si ebbe mai né l'intenzione né il potere di annullare il Patto di Londra e che il risultato del Congresso delle nazionalità oppresse sarebbe potuto consistere in un cambiamento profondo del modo di condurre la politica internazionale. Se ciò non accadde, ma anzi, al contrario, quell'evento procurò dei danni alla politica estera italiana, fu perché il governo non seppe sfruttare tutte le implicazioni contenute nel Patto tra i popoli soggetti all'Austria-Ungheria[86].



2.5 Attività delle Legioni cecoslovacche in Italia


Il mese di aprile fu dunque caratterizzato da un grande e generale coinvolgimento per i temi della politica delle nazionalità e ciò non poté che facilitare l'opera di Stefánik, finalizzata ad ottenere dal governo italiano l'autorizzazione a costituire un esercito nazionale cecoslovacco in Italia. Il 18 aprile, il colonnello poté finalmente comunicare al segretario del Consiglio Nazionale dei Paesi cechi che le aspirazioni ceche avevano superato gli ostacoli posti dai politici italiani.

Il 21 aprile 1918, a coronamento di tutti queste iniziative intraprese per giungere ad un pieno riconoscimento del diritto cecoslovacco all'indipendenza ed a lottare accanto agli alleati per conquistarla, il governo italiano, rappresentato dal presidente del Consiglio Orlando e dal ministro della Guerra Zupelli, stipulò con il Consiglio Nazionale dei Paesi cecoslovacchi, nelle persone di Stefánik e Sychrava, una Convenzione per la costituzione di un esercito cecoslovacco in Italia. E' significativa l'assenza della firma del ministro degli Affari Esteri su un atto che modificava profondamente il tradizionale indirizzo di politica estera italiana; la mancata partecipazione di Sonnino alla stipula dell'accordo si può attribuire probabilmente allo scarso favore che dimostrò sempre nei confronti del progetto, che non diminuì quando una consistente parte del mondo politico italiano ritenne opportuno realizzarlo.

Questo risultato ebbe un grandissimo significato politico, poiché la formula usata sottolineava la "perfetta bilateralità" dell'atto in virtù del quale "una gente, ancora sotto il dominio di una sovranità che teneva in campo [.] milioni di uomini, era considerata quale Stato Sovrano"[87]. Viceversa la Francia autorizzando la costituzione di legioni boeme già nel dicembre dell'anno precedente, aveva compiuto un atto unilaterale, che non sottintendeva il riconoscimento del Consiglio ceco come governo de facto di un nuovo Stato. Il governo francese fu comunque il primo a compiere in seguito il passo successivo riconoscendo ufficialmente il Consiglio Nazionale come rappresentante e come base del futuro governo cecoslovacco.

Nella Convenzione italo-cecoslovacca, così come nel decreto francese del dicembre 1917, si riconosceva l'esistenza di un esercito nazionale cecoslovacco autonomo e unico che, per le esigenze di coordinamento sul fronte italiano, era posto sotto il comando militare italiano e dipendeva, dal punto di vista politico, giuridico e nazionale, dal Consiglio Nazionale di Parigi[88].

In seguito alla Convenzione italo-cecoslovacca, cominciò il reclutamento dei volontari boemi tra i prigionieri che, per essere addestrati, vennero radunati vicino Foligno dove si installarono il "centro di addestramento" e il "comando della divisione cecoslovacca"[89]. Il governo italiano si impegnò ad attrezzare ed equipaggiare i quattro reggimenti dell'esercito cecoslovacco d'Italia sostenendone le spese che sarebbero state rimborsate dal futuro Stato cecoslovacco. Ognuno dei quattro reggimenti era composto da tre battaglioni, ciascun battaglione da tre compagnie; il comando dell'esercito venne affidato al generale Andrea Graziani.

Il 24 maggio una manifestazione solenne a Roma celebrò la consegna della bandiera cecoslovacca, dono del Comitato italo-ceco, al nuovo esercito. A fine maggio i primi battaglioni vennero trasferiti vicino al fronte ed alcuni furono subito coinvolti nei combattimenti. Per la lealtà dimostrata nelle battaglie sul Piave, nei pressi di S. Donà, nella battaglia di Doss'alto, nell'attacco che sferrarono alle trincee nemiche presso Cima Tre Pezzi essi si meritarono alte onorificenze di guerra italiane, nonché frequenti elogi e ringraziamenti da parte dei vertici politici e militari. Il loro coraggio nei combattimenti va valutato anche alla luce del fatto che, se i cecoslovacchi venivano fatti prigionieri dagli austriaci, non godevano di alcuna della garanzie sancite dal diritto internazionale, perché erano immediatamente giustiziati come traditori.

Alcune delle preoccupazioni che avevano manifestato i comandi italiani circa l'opportunità di portare sulla linea del fronte i prigionieri si rivelarono fondate. Nel maggio si verificarono infatti vari casi di diserzioni[91] che ebbero conseguenze gravi nell'episodio del 12 giugno 1918. Dalla relazione dell'accaduto fatta da Graziani e comunicata alle autorità competenti sia italiane che cecoslovacche nonché dalle indagini svolte in seguito sull'accaduto si viene a conoscenza che, nei giorni tra l'8 e il 12 giugno, ben 40 militari di truppa della Divisione cecoslovacca avevano disertato, in un crescendo che era culminato con le 18 diserzioni avvenute tra la notte dell'11 e la mattina del 12. Da un'inchiesta svolta all'interno del campo era emerso che molti altri militari si accingevano a fuggire. Graziani aveva attribuito questa disposizione negativa delle truppe alla propaganda deleteria diffusa tra i soldati da un soggetto noto per la sua ambiguità ed all'incapacità del comandante di compagnia (italiano) di gestire le truppe. Radunata la 9a compagnia, alla quale appartenevano gli ultimi 18 disertori, e constatatone l' "atteggiamento irrispettoso", il generale Graziani decise di attuare una misura estrema per salvare la compagnia dalla dissoluzione per indisciplina, che stava diventando un fenomeno collettivo. Così, seduta stante, fece fucilare 4 degli 8 disertori che i Carabinieri, nel frattempo, avevano fermato mentre, spogliatisi delle mostrine e dei nastri nei colori nazionali cecoslovacchi che, aggiunti all'uniforme italiana, caratterizzavano la divisione, cercavano di allontanarsi dalla zona del fronte, dirigendosi verso l'interno del Paese. Questa risoluzione, avvenuta senza la convocazione di un tribunale, sebbene a detta dei due relatori non avesse destato particolare impressione nelle truppe, suscitò l'indignazione degli ufficiali cecoslovacchi. Le misure adottate dal generale per arginare l'indisciplina della divisione si completarono con l'ordine, diretto ai comandanti di reggimento, di fucilare immediatamente i disertori colti in flagrante e di comunicare a lui i nomi di quelli fermati successivamente alla fuga, affinché potessero essere giudicati da un Tribunale straordinario. A tal proposito lo stesso Graziani sollecitava l'invio di istruzioni circa l'amministrazione della giustizia militare nell'esercito cecoslovacco . Il capitano Seba, che rappresentava il Consiglio Nazionale dei Paesi cecoslovacchi presso l'esercito cecoslovacco d'Italia, aveva protestato per la fucilazione senza giudizio, visto che, a suo dire, l'istituzione di un Tribunale avrebbe comportato un ritardo di poche ore nell'esecuzione, ritardo accettabile dato che, non trovandosi in zona di guerra, non vi era necessità di un esecuzione immediata . Graziani gli aveva risposto di aver ritenuto necessario dare alle truppe un esempio immediato di fermezza per non compromettere l'immagine della divisione cecoslovacca .

Il generale comandante della divisione aveva però egli stesso evidenziato al presidente del Consiglio dei Ministri che quegli avvenimenti avrebbero potuto avere ripercussioni politiche[96].

In effetti Orlando riteneva che si sarebbero dovute evitare le esecuzioni senza giudizio, specialmente per soldati nello status particolare di ex prigionieri, come quelli cecoslovacchi, sotto il controllo politico di un organo, come il Consiglio Nazionale dei Paesi cechi, che era stato riconosciuto dall'Intesa come rappresentante di una nazione. Si pose, quindi, il problema di trovare una giustificazione formale, sul piano della correttezza giuridica, alla decisione di un generale italiano, responsabile di una grave punizione inflitta ad un milite dell'esercito di un'altra nazione. La delicata situazione era interpretata dal presidente del Consiglio nel senso di far apparire le repressioni non come un atto di autorità di un ufficiale dell'esercito italiano ma come un effetto della delegazione di poteri fatta dal Consiglio Nazionale cecoslovacco a favore dei comandi italiani, investendoli della responsabilità della disciplina delle truppe boeme[97].

Le autorità italiane temettero che l'episodio compromettesse i rapporti diplomatici con i boemi e si preoccuparono di scongiurare il rischio che si ripetessero situazioni del genere, disponendo la sospensione delle esecuzioni capitali fino a che non fosse stata comunicata la Convenzione, in via di stipulazione, tra il governo italiano e il Consiglio ceco e facendo revocare l'ordine con cui Graziani aveva delegato i comandanti di reggimento a provvedere alla fucilazione di disertori colti in flagrante[98].

L'accordo in materia di giurisdizione militare sui volontari dell'esercito cecoslovacco, che completava la Convenzione del 21 aprile, fu stipulato tra il governo italiano e i rappresentanti boemi il 15 giugno 1918 e sancì l'autorità dei tribunali di guerra cecoslovacchi sui cecoslovacchi che avevano prestato giuramento di fedeltà come militari dell'esercito nazionale e su quelli, estranei all'esercito, che avevano giurato fedeltà alla loro nazione. Tali accordi confermano l'importanza per la nazione slava di essere riuscita ad affermare il proprio diritto a battersi per l'indipendenza, organizzando, come prima struttura del futuro Stato, l'esercito, la cui autorità era riconosciuta dagli Stati dell'Intesa su tutti i connazionali che avessero espressamente manifestato di optare per la libertà nazionale, abbandonando la dinastia asburgica.

Le temute conseguenze negative nei rapporti con i leaders del movimento boemo non ci furono, anzi, l'indagine che le autorità militari ordinarono per fare luce sull'episodio rese noto che il Consiglio Nazionale dei Paesi Cechi aveva protestato contro l'abuso sui combattenti cecoslovacchi non per mettere in difficoltà il governo italiano, ma solo per sfruttare l'occasione di far riconoscere una volta di più da uno Stato estero l'autorità del Consiglio e delle sue leggi sui futuri cittadini dello Stato[99].

L'episodio risultò increscioso per l'Italia anche perché rese nota l'esistenza di un numero preoccupante di disertori tra truppe che avevano scelto volontariamente di ritornare sul fronte. Il fatto che alcuni volontari si sottraessero ai doveri delle armi gettava un'ombra sulla spontaneità dell'adesione alla causa boema, facendo sorgere il sospetto che le autorità italiane, che per le leggi del diritto internazionale erano responsabili dei prigionieri e del loro trattamento, avessero esercitato qualche forma di costrizione per indurli a tornare a combattere.

Negli scambi di opinioni riguardo la vicenda, la prima causa di incidenti come quelli verificatisi nella divisione cecoslovacca poté essere rintracciata nell'arruolamento affrettato dei prigionieri durante il quale la volontà dei singoli era stata forzata dall'entusiasmo collettivo[100].

L'occasione che l'episodio forniva all'Austria-Ungheria per sollevare in ambito internazionale la questione dell'impiego bellico dei prigionieri da parte dell'Italia fu sfruttata nel luglio, quando vennero inoltrate, attraverso l'Ambasciata spagnola d'Italia, reiterate proteste per la propaganda svolta dalle autorità militari italiane con lo scopo di convincere i prigionieri ad arruolarsi nella legione cecoslovacca[101].

In seguito alla denuncia da parte del governo imperial-regio, il presidente del Consiglio dei ministri fu sollecitato ad appurare presso la Commissione per i prigionieri di guerra quali metodi fossero usati per la propaganda. Dalle risposte che ottenne ricavò l'impressione che "coercizione non è stata effettivamente esercitata, almeno come sistema; e che qualche caso speciale che fosse potuto avvenire indipendentemente dalla nostra volontà, fu subito rimediato"[102]. I termini di questa risposta non eliminano il sospetto che non tutti i prigionieri che tornarono al fronte lo fecero spontaneamente ed il riferimento alla "nostra volontà" potrebbe essere inteso sia nel senso più limitato di volontà dei responsabili politici rispetto alle autorità militari, ma anche nel senso di volontà italiana, il che starebbe ad indicare che responsabili delle pressioni sui detenuti fossero i cecoslovacchi che volevano a tutti i costi realizzare un progetto che avrebbe avuto un importanza fondamentale nell'affermazione dell'indipendenza nazionale.

L'intraprendenza dei cecoslovacchi nell'affrontare le questioni militari fu confermata dalla misura richiesta da Stefánik per arginare il rischio di esecuzioni capitali di volontari boemi, quando questi fossero caduti nelle mani degli austriaci sul fronte italiano. Egli propose la concentrazione dei prigionieri austroungarici catturati da truppe cecoslovacche in un campo amministrato dai cecoslovacchi stessi, in modo che i comandi asburgici sapessero che i boemi erano nella condizione di reagire alle esecuzioni di loro connazionali per alto tradimento con rappresaglie sui prigionieri austriaci sotto la loro responsabilità[103]. Il Comando Supremo accordò questa concessione agli ufficiali cecoslovacchi con la clausola, imposta anche dalle autorità politiche italiane, che tale sistema dovesse valere solo come deterrente e che le minacce cecoslovacche verso gli austriaci non dovessero mai essere messe in pratica . Nonostante non si verificarono rappresaglie, l'Italia aveva assunto una posizione diplomatica delicata attuando la "cessione" dei prigionieri austroungarici. Le proteste asburgiche coinvolsero perciò il governo italiano: esso fu considerato complice dei cecoslovacchi nel minacciare ritorsioni contro quello che sarebbe stata l'applicazione di un diritto riconosciuto a tutti gli Stati, di punire i disertori e i traditori della patria, e fu minacciato a sua volta di rappresaglie verso i propri sudditi prigionieri degli austriaci . Nell'analizzare la questione Orlando mise in evidenza l'ambiguità della posizione italiana: il principio della liceità di uno Stato di punire i propri sudditi che si schieravano contro la patria era stato riconosciuto dall'Italia, a suo discapito, in varie occasioni, ad esempio per l'uccisione di Cesare Battisti, per la quale l'Italia non aveva attuato nessuna rappresaglia. D'altro canto non si riteneva opportuno negare l'autorizzazione ai cechi, compromettendo una collaborazione che si stava rivelando efficace e promettente per il futuro .



2.6 Le fasi più acute della polemica sulla politica estera italiana


Con il Congresso delle nazionalità soggette all'Austria-Ungheria e la Convenzione italo-cecoslovacca che riconosceva l'esercito nazionale cecoslovacco, le manifestazioni del nuovo indirizzo di politica estera italiana toccarono il loro culmine. Questi avvenimenti, che ebbero una notevole ripercussione all'esterno tra le popolazioni dell'Impero e tra i loro rappresentanti residenti nei Paesi dell'Intesa, furono anche un'affermazione dell'intenzione italiana di giungere ad una vittoria totale sull'Austria-Ungheria, affermazione diretta agli alleati che ancora non manifestavano una volontà ferma ed unanime in tal senso. Si stava quindi realizzando l'agognato progetto dei promotori della politica delle nazionalità di riuscire a portare l'Italia all'avanguardia del fronte antiasburgico. La realizzazione di questi piani avveniva però senza la partecipazione del massimo sostenitore della politica conservatrice, il ministro degli Esteri che, se smise di opporsi attivamente alle misure messe in atto dagli interventisti, non dimostrò alcun appoggio al nuovo indirizzo. Nei giorni immediatamente successivi al convegno romano da parte francese fu lanciata la proposta di una dichiarazione ufficiale dell'Intesa che riconoscesse gli atti prodotti dal Congresso. Già in tale occasione Sonnino ribadì la sua estraneità, e quindi quella del suo ministero, alle iniziative palesemente antiasburgiche dichiarando che, nonostante la simpatia nei confronti delle nazionalità oppresse, non riteneva opportuna una dichiarazione collettiva degli Alleati perché avrebbe riguardato anche un tema, come quello dell'accordo italo-jugoslavo, che interessava solo le due parti in causa e non doveva in nessun modo influire sugli accordi preesistenti tra Italia, Francia e Gran Bretagna[107]. La preoccupazione del ministro, manifestata in ogni sua mossa, era di garantire la massima efficacia al Patto di Londra, che egli considerava l'unica certezza italiana, a cui poter fare appello in ogni eventualità, e perciò non accettava il rischio che comportava l'adesione alla politica delle nazionalità ed all'idea dello smembramento dell'Impero asburgico.

I successi dell'aprile del fronte antiasburgico italiano furono inficiati dalla dichiarazione interalleata concordata a Versailles il 1° giugno 1918, con la quale si riconosceva il diritto dei polacchi di costituirsi in Stato indipendente, e ci si limitava ad una espressione di simpatia nei confronti delle aspirazioni nazionali di cecoslovacchi e jugoslavi. Inoltre, dopo che era stato trovato l'accordo sulla dichiarazione da rendere pubblica, si stabilì che i governi che avessero voluto impegnarsi maggiormente con una o con l'altra nazionalità, sarebbero stati liberi di farlo singolarmente. Questo modo di procedere avrebbe permesso alle diplomazie che non erano soddisfatte della dichiarazione interalleata del 1° giugno di completarla, ed avrebbe comunque garantito, per Sonnino, l'intangibilità del Patto di Londra, che un ulteriore accordo collettivo avrebbe potuto far considerare decaduto.

La voce che si diffuse indicava come responsabile della ritrosia a considerare su un piano di parità le tre nazioni il ministro degli Esteri italiano, che avrebbe convinto alla prudenza gli alleati per la ben nota diffidenza italiana verso la possibilità, che come controparte nelle controversie adriatiche, ad un Impero in decadenza si sostituissero gli Stati nazionali slavi, piccoli ma ultranazionalisti. Sia che la dichiarazione, considerata troppo fredda anche da Orlando, fosse dovuta alle resistenze di Sonnino[108], sia che piuttosto egli fosse stato vittima dell'abilità diplomatica degli alleati, che ebbero buon gioco a farne ricadere la responsabilità sul ministro italiano , il risultato fu che l'insoddisfazione di cecoslovacchi e jugoslavi si riversò contro l'Italia.

La campagna contro la politica italiana venne condotta, in Gran Bretagna, dal "Times", diretto da Wickahm Steed, paladino della liberazione nazionale dei popoli nell'Impero asburgico, che non si limitava a esprimere insoddisfazione per la dichiarazione, ma sottolineava come essa non fosse in consonanza con l'attitudine favorevole alla politica delle nazionalità manifestata recentemente da Orlando[110], mettendo in evidenza la scarsa omogeneità di vedute tra gli esponenti del governo italiano.

La posizione equivoca in cui l'Italia si manteneva era notata anche dai più sinceri sostenitori della politica delle nazionalità, come Bissolati, che si lamentava del fatto che la Consulta sostenesse economicamente alcune associazioni nazionaliste che, con la loro propaganda estremista, eccitavano la reazione jugoslava, distruggendo lo spirito di amicizia e collaborazione che faticosamente si cercava di costruire come arma contro l'Austria-Ungheria[111].

Dalla Francia giunse dunque la notizia che tra gli elementi cechi e jugoslavi si era diffusa la voce che la dichiarazione interalleata sarebbe stata più favorevole alla loro causa se non fosse stato per l'opposizione del governo italiano. Gli esponenti dei Comitati nazionali si stavano adoperando affinché il governo francese desse assicurazioni più ampie. Questa situazione permetteva alla Francia di recuperare il terreno perduto rispetto all'Italia nei mesi precedenti e minacciava di minare la simpatia delle nazionalità oppresse nei confronti dell'Italia, con il rischio di ripercussioni sull'atteggiamento dei soldati slavi che combattevano sul fronte italiano nelle legioni nazionali[112].

Lo stesso Benes confermò, nei suoi contatti con le personalità italiane, che le notizie sulle negoziazioni che avevano condotto a stilare il documento diffuso il 1° giugno dagli alleati, stavano arrecando un grave pregiudizio all'Italia nella considerazione che di essa avevano gli ambienti che perseguivano la politica delle nazionalità. Per arginare i danni, Benes consigliava di emanare una dichiarazione che proclamasse, in modo netto e preciso, il favore del governo italiano per l'indipendenza cecoslovacca, affinché non andassero sprecati i risultati ottenuti con il Congresso di Roma[113].

L'impegno profuso dai rappresentanti delle nazionalità in Francia non tardò a dare i suoi frutti e, in occasione della consegna della bandiera al battaglione ceco che stava per essere inviato al fronte, il governo francese diede il suo riconoscimento ufficiale al Consiglio Nazionale dei Paesi cechi quale organo supremo del movimento cecoslovacco nei Paesi dell'Intesa, promettendo a Benes l'aiuto francese per realizzare, quando le circostanze lo avessero permesso, le massime aspirazioni cecoslovacche[114].

I giorni precedenti alla manifestazione, l'ambasciatore italiano a Parigi, nell'informare circa i programmi francesi, che prevedevano l'invio di un telegramma alla Gran Bretagna e all'Italia per sollecitare dichiarazioni altrettanto ampie verso le aspirazioni cecoslovacche, si raccomandava di rispondere in modo caloroso "perché disposizioni nostro governo non appaiano meno favorevoli di quelle francesi"[115]. La notizia del progettato scambio di telegrammi tra le Potenze alleate era stata accolta da Sonnino in maniera estremamente negativa, poiché egli lo ritenne un'imposizione che contraddiceva gli accordi conclusi alla Conferenza interalleata di Versailles dei primi di giugno, circa il rispetto della libertà di ogni governo nello scegliere il momento più opportuno per procedere a riconoscimenti più ampi. Lo scambio di telegrammi proposto in occasione della manifestazione francese a favore dei cecoslovacchi, però, non sarebbe stato altro che una dichiarazione collettiva, meno evasiva della precedente, in forma diversa. Sonnino aveva cercato di scoraggiare prese di posizione nettamente favorevoli alle nazionalità oppresse per il timore che l'impegno preso con i più fedeli e ormai decisamente antiaustriaci cecoslovacchi avrebbe presto condotto, necessariamente, ad allargare le assicurazioni agli jugoslavi ed ai rumeni. Anche in questo caso perciò sarebbe stata valida la sua solita argomentazione secondo la quale un eccessivo ampliamento dei fini della guerra, quale sarebbe stato l'impegno preso con le nazionalità di renderle libere ed indipendenti, avrebbero rinvigorito il fronte dei pacifisti. Il ministro degli Esteri decise così di non aderire all'iniziativa francese , nonostante Bonin avesse messo in evidenza che l'astensione italiana sarebbe stata interpretata come se l'Italia fosse uno Stato non amico delle nazionalità oppresse, mentre sarebbe dovuto essere quello più direttamente interessato al trionfo delle nazionalità. Inoltre egli era ben consapevole del modo in cui ogni passo italiano che non fosse coerente con la politica delle nazionalità era sfruttato a Parigi per far prevalere l'influenza francese su quella italiana sui Consigli Nazionali. Egli notava, poi, come non fosse prossima l'eventualità di un riconoscimento dei Comitati jugoslavo e rumeno, data la loro minore organizzazione rispetto a quello ceco . Sonnino non si lasciò convincere da questi argomenti ed i membri del Consiglio Nazionale ceco dovettero, per il momento, abbandonare l'idea di ottenere un riconoscimento collettivo.


Le ripercussioni che la mancata partecipazione italiana allo scambio di telegrammi produsse riguardarono sia le relazioni internazionali, sia la politica interna. La Gran Bretagna, che aveva aderito alla proposta francese non si lasciò sfuggire l'occasione per sottolineare le già evidenti difficoltà della situazione diplomatica italiana, sollecitando gli alleati affinché riconoscessero quanto prima diritti e meriti nella guerra contro l'Austria-Ungheria pure a polacchi e jugoslavi[118].

Anche il risalto dato in terra francese alla lettera con la quale Masaryk ringraziava Pichon dell'atto ufficiale che aveva compiuto, venne interpretato come una risposta politica indiretta alle ritrosie dell'Italia, indicando nella Francia lo Stato che in quel momento svolgeva la funzione di leader delle nazionalità oppresse[119]. In Italia si temette, inoltre, che tale campagna ad essa avversa intendesse speculare sul risentimento dei boemi per ottenere che le truppe ceche sul fronte italiano venissero concentrate in Francia. Se fosse stata richiesta una misura del genere, le autorità italiane, dopo uno scontato rifiuto, non avrebbero potuto far altro che disarmare i volontari e rinviarli nei campi di prigionia, con il danno morale che ciò avrebbe comportato .

Il timore che il rigido atteggiamento italiano, imposto dal ministro degli Esteri, annullasse i successi ottenuti in primavera dalla diplomazia italiana, ufficiale e non, spronò i sostenitori della politica delle nazionalità a riprendere la propaganda a favore di una scelta decisamente antiaustriaca, che chiarisse la posizione italiana nei confronti delle nazioni che anelavano a costituirsi in Stati indipendenti e scagionasse l'Italia dalle accuse di doppiezza che gli stessi rappresentanti delle nazionalità ormai formulavano[121]. Lo stesso Orlando, forse ritenendo controproducente la linea perseguita dal ministro degli Esteri, propose di contrastare le voci, che erano amplificate tendenziosamente anche in Austria-Ungheria, circa l'opposizione di Sonnino alle dichiarazioni dell'Intesa in favore della formazione dello Stato cecoslovacco, con una smentita ufficiale da parte del ministro, nonché con la nomina di un rappresentante ufficiale italiano presso il Consiglio dei Paesi Cechi . Tale atto avrebbe avvalorato la tesi del presidente del Consiglio, secondo la quale il governo italiano avrebbe riconosciuto il Consiglio Nazionale ceco come governo in nuce della nazione cecoslovacca già il 21 aprile 1918, quando, firmando la Convenzione, nella quale si faceva riferimento all'autorità politica del Consiglio sul costituendo esercito cecoslovacco, si era considerato l'organo di Parigi come controparte valida di un atto di diritto internazionale. Le intenzioni del presidente del Consiglio, comunicate al ministro degli Esteri in forma riservata, dunque in modo tale da non renderle pubbliche senza prima aver guadagnato l'adesione di Sonnino, dimostrano la disponibilità sincera di Orlando a procedere sulla strada, ormai intrapresa, dell'appoggio alle nazionalità soggette all'Austria-Ungheria. A lui venne però rimproverato di non essere riuscito ad imporre la propria idea per paura di perdere l'appoggio parlamentare dei nazionalisti, che continuavano a vedere in Sonnino il migliore interprete delle rivendicazioni italiane. Sembrava che egli volesse fare una politica contraria al ministro degli Esteri, pur mantenendolo al potere, sperando di convincerlo gradualmente ad associarsi al "nuovo" indirizzo delle relazioni internazionali. L'atteggiamento ambivalente di Orlando suscitava, però, le critiche di tutti coloro che avevano riposto le speranze nella sue capacità di orientare le scelte del governo. La politica estera italiana che il contrasto tra le due personalità produceva, si caratterizzava per l'indecisione e i ripensamenti e rendeva insofferenti anche i più stretti collaboratori del presidente del Consiglio, che non ne condividevano le diffidenze .

Gli addetti alla propaganda sul nemico, ad esempio, i quali avevano occasione di frequenti contatti con gli emigrés boemi, sollecitavano il governo ritenendo che l'Italia dovesse perlomeno completare il riconoscimento del Consiglio Nazionale ceco con quello del Comitato Nazionale sorto in luglio in Boemia. Quest'ultimo organo, per la sua sede, pareva avere quel connotato del diritto effettivo sul territorio, ritenuto da molti l'elemento mancante per considerare il Consiglio di Parigi come un governo provvisorio.

La situazione di guerra frequentemente comportava l'esistenza di situazioni in cui il diritto territoriale di un esecutivo era usurpato da un occupante nemico, che costringeva il governo all'esilio, per condurre la sua legittima esistenza al di fuori dei confini nazionali. Altre volte, nelle fasi culminanti delle rivoluzioni, si verificavano casi in cui si instaurava un potere effettivo sul territorio, anche se non legittimo. Le perplessità legate alla questione boema erano date dal fatto che i fuoriusciti avevano creato un organo rivoluzionario, poiché non ritenuto legale dall'autorità fino ad allora universalmente riconosciuta, e neppure effettivamente esercitante un potere sulla nazione[124]. Tale situazione era stata modificata dalla proclamazione del Comitato Nazionale in Boemia, il cui riconoscimento era da considerarsi logicamente conseguente a quello del Consiglio Nazionale di Parigi, in quanto quest'ultimo non era, secondo Benes, altro che un'emanazione del primo e non ritenere legittimo il Comitato boemo avrebbe inficiato anche l'autorità del Consiglio di Parigi, che ne era una sorta di "mandatario"

Nel frattempo, le trattative diplomatiche di Benes con il governo britannico, note anche a Roma, rendevano ancora più urgente la necessità di definire una volta per tutte la linea diplomatica del governo, se l'Italia non voleva rimanere indietro non solo alla Francia ma, addirittura, alla Gran Bretagna, che tra gli alleati, si era sempre dimostrata la più incline a garantire la sopravvivenza dell'Austria-Ungheria, in considerazione delle sue funzioni di controllo e contenimento degli attriti tra le popolazioni dell'Europa centro-orientale.

Nella sua pressione diplomatica nei confronti del governo inglese, Benes ritenne opportuno mettere in evidenza che il regime di semisovranità nel quale operava il Consiglio Nazionale, aveva prodotto degli effetti dannosi: per esempio, la costituzione di legioni boeme non indipendenti ma poste sotto il comando degli Stati che le avevano autorizzate, poneva queste truppe in condizione di poter essere sfruttate dallo Stato ospitante per i suoi scopi politici, e non per perseguire obiettivi utili per l'Intesa in generale, come stava avvenendo in Italia[126]. Invece il riconoscimento del Consiglio come governo e dell'esercito cecoslovacco come esercito belligerante indipendente avrebbe creato le basi per un'azione cecoslovacca conforme agli interessi inglesi. Gli argomenti che Lord Balfour, il primo ministro inglese, opponeva ai ragionamenti di Benes riguardavano la ambigua posizione dell'auspicato Stato cecoslovacco: egli osservava infatti che non si era mai verificata la proclamazione di un governo, e quindi la costituzione di uno Stato, il cui territorio fosse occupato dal nemico che, peraltro, dal punto di vista del diritto internazionale ne era ancora il governante legittimo . Inoltre Balfour continuava a nutrire dubbi sulla rappresentatività del Consiglio cecoslovacco. Superati questi ostacoli, Benes riuscì ad accordarsi sul testo della dichiarazione inglese del 9 agosto 1918 riassumibile in una formula con la quale l'Inghilterra proclamava di considerare i cecoslovacchi come una nazione alleata, ed il Consiglio Nazionale cecoslovacco quale organo supremo del movimento cecoslovacco nei Paesi alleati e rappresentante del futuro governo , con giurisdizione suprema sull'esercito, riconosciuto come un unicum, composto dalle tre formazioni cecoslovacche di Russia, di Francia e d'Italia.


In Italia la ritrosia manifestata da Sonnino nel procedere di pari passo con gli alleati sul percorso del riconoscimento delle nazionalità soggette, provocò un'ondata di indignazione negli ambienti in cui già da tempo il ministro degli Esteri era ritenuto inadeguato per il suo ruolo e dannoso, con la sua politica, all'immagine internazionale dell'Italia. Questi circoli intrapresero un tentativo di scalzare Sonnino, in modo deciso, con una campagna di stampa lanciata dal "Corriere della Sera", l'organo più rappresentativo dell'indirizzo democratico di politica estera. L'attacco al ministro fu iniziato alla metà dell'agosto 1918, nonostante i segnali contrastanti giunti da Orlando sulla sua disponibilità ad affrontare una crisi che avrebbe comportato un rimaneggiamento nella composizione del Gabinetto[129].

La polemica, che si svolse prevalentemente tra il "Corriere" e il "Giornale d'Italia", che difendeva la politica di Sonnino, non condusse al risultato sperato dai suoi promotori. La maggior parte dei politici ritenne che il "Corriere" non avesse scelto il momento opportuno - il solo Bissolati giudicò la campagna utile[130] - e le altre testate di orientamento simile a quello del "Corriere", primo fra tutti il "Secolo", organo delle idee democratiche, non manifestarono la solidarietà che il giornale milanese si attendeva . Inoltre, l'attacco diretto contro il ministro degli Esteri suscitò la reazione dei suoi sostenitori nonché di una vasta parte del Parlamento e dell'opinione pubblica, che non era stata informata adeguatamente degli obiettivi che i polemisti si proponevano e, dunque, non reagì caldamente: piuttosto, si strinse attorno a Sonnino che identificava come il garante degli interessi italiani, consolidando così la sua posizione di guida politica del Paese.

La campagna, comunque, servì a fare sentire meno isolato Bissolati, preparando il terreno alla misura da lui richiesta per superare l'impasse della politica estera italiana. Egli infatti insistette presso Orlando affinché venisse posta davanti al Consiglio dei ministri la questione del riconoscimento dei diritti degli jugoslavi a costituire uno Stato nazionale. Un tale atto, che avrebbe sconfessato il Patto di Londra, fu osteggiato da Sonnino che non riuscì però ad imporre la sua volontà al Consiglio. La dichiarazione, che lasciava il Patto intatto ma non più intangibile, venne approvata l'8 settembre 1918 dal Consiglio che, per la prima volta, manifestava la simpatia italiana nei confronti delle aspirazioni jugoslave[132]. Il successo di Bissolati, ottenuto sotto la minaccia di dimissioni che avrebbero aperto una crisi di governo, fu però svuotato dalla postilla aggiunta arbitrariamente dal Sonnino alla dichiarazione, nella quale si ribadiva l'assoluta efficacia del Patto di Londra. Ancora nel settembre 1918, il ministro dimostrava la sua ostinazione nel non voler accettare l'idea di uno smembramento dell'Austria-Ungheria, anche per paura che gli alleati non avessero abbandonato l'idea di stipulare una pace separata con l'Impero asburgico. Se si fosse verificata una condizione simile e l'Italia si fosse mostrata contraria alla pace, poiché i suoi obiettivi bellici si erano ampliati sino a comprendere la dissoluzione dell'Austria-Ungheria, gli alleati avrebbero indicato l'Italia come responsabile della continuazione della guerra agli occhi del pubblico. Egli inoltre rifiutava di far assumere all'Italia un simile impegno anche in considerazione della situazione militare ancora incerta, che avrebbe potuto creare la necessità di chiedere aiuto agli alleati, con una diminuzione di prestigio e l'instaurazione di una sorta di dipendenza per l'Italia . Nello stesso periodo, se Sonnino continuava a considerare realistica la possibilità che l'Impero sopravvivesse al conflitto, egli aveva comunque accettato l'idea della formazione di uno Stato cecoslovacco che, nella sua ottica, era un'ipotesi compatibile con la vita della Monarchia .

Nei primi giorni dell'ottobre 1918 Benes fu in Italia e colse l'occasione per trattare con il sottosegretario De Martino la proposta di un trattato di alleanza tra l'Italia e il governo cecoslovacco. Nel promemoria stilato da De Martino per riferire al ministro degli Esteri le conversazioni con il segretario del Consiglio Nazionale ceco, egli mise in evidenza che la risposta da dare a Benes era condizionata dalla scelta del governo italiano di ammettere o meno lo smembramento dell'Austria-Ungheria. Un accordo economico sarebbe stato utile all'Italia sia nel caso in cui la Cecoslovacchia si fosse costituita come Stato indipendente, sia nel caso in cui fosse riuscita ad ottenere solo un'ampia autonomia in seno alla Monarchia asburgica, poiché l'Italia avrebbe potuto garantirsi una posizione privilegiata come partner commerciale, orientando i traffici cecoslovacchi verso Trieste italiana, piuttosto che verso Fiume che, secondo gli accordi stipulati a Londra nel 1915 tra i governi dell'Intesa, sarebbe rimasta agli jugoslavi dell'Impero. L'accordo politico, invece, sottintendeva l'accettazione da parte italiana della scomparsa della cornice austroungarica; se si poneva tale premessa, De Martino considerava conveniente creare quanti più vincoli fosse possibile alla nuova formazione statale, affinché essa si sentisse impegnata a sostenere le aspirazioni adriatiche italiane: l'appoggio di una nazione slava avrebbe avuto un maggior valore morale nei confronti degli jugoslavi. Inoltre si metteva in evidenza che gli accordi italo-cecoslovacchi sarebbero potuti essere particolarmente vantaggiosi per l'Italia se stipulati in un momento in cui i boemi avevano ancora la necessità di concludere accordi politici, che sanzionassero ufficialmente la loro autorità. Peraltro, non si ponevano allora particolari ostacoli ad una alleanza con la futura Cecoslovacchia, dato che non vi erano motivi di contrasto tra le due nazioni, ma piuttosto molti interessi in comune. L'intesa, che avrebbe avuto il valore di una vera e propria alleanza politica ed economica, avrebbe potuto armonizzare la politica dei due Paesi nei confronti non solo del comune nemico, ma anche delle nazioni che sarebbero successe all'Impero, nonché del germanesimo[135]. Un trattato con gli esponenti cecoslovacchi sarebbe stato auspicabile per l'Italia anche in quell'ottica nazionalista che interpretava l'amicizia italo-cecoslovacca come un'arma da sfruttare nell'ambito delle questioni adriatiche. Inoltre avrebbe riaperto la "gara" tra l'Italia e la Francia per la conquista di posizioni influenti in Europa orientale che, al momento, sembrava volgere nettamente a favore della seconda, con la quale la Cecoslovacchia aveva firmato una convenzione il 28 settembre . Sonnino, però, giudicò prematuro qualsiasi progetto di accordo con i boemi .

Dagli stessi colloqui con De Martino, Benes ebbe comunque l'assicurazione che Orlando, con il discorso tenuto il 3 ottobre in Parlamento, aveva ufficialmente aderito alle dichiarazioni dei mesi precedenti che erano pervenute da Francia e Gran Bretagna, e aveva ribadito il concetto secondo il quale l'Italia aveva dato il massimo riconoscimento al Consiglio Nazionale per prima, con la Convenzione di aprile.


Gli emigrés erano ormai apertamente supportati dall'azione politica dei connazionali all'interno dei confini imperiali. Dopo la manifestazione del maggio ed i frequenti discorsi tenuti dai deputati cechi al Parlamento di Vienna, con i quali essi proclamavano la volontà boema di ottenere l'indipendenza completa dall'Austria-Ungheria, il 13 luglio 1918 si costituì una prima forma di governo indipendente all'interno delle regioni boeme, in cui erano rappresentate tutte le forze politiche ceche[138], che avrebbe agito in conformità alle indicazioni del Consiglio Nazionale di Parigi. La fondazione del comitato da parte dei politici che vivevano in Boemia, rappresentava un'assicurazione circa il favore con il quale i boemi dell'Impero guardavano all'attività diplomatica svolta, ormai da anni, dai fuoriusciti nei Paesi dell'Intesa.

Pochi giorni dopo, in un crescendo di dichiarazioni sempre più audaci, il deputato Stranski tenne un discorso al Reichsrat, in cui proclamava che ".l'Austria-Ungheria esisterà fin quando lo vorranno i suoi popoli.La fedeltà verso il nostro popolo e verso la corona di Boemia, essa ci autorizza tutti i tradimenti"[139].

Il governo austroungarico non sanzionava più in modo grave le espressioni di slealtà verso l'imperatore dei politici cechi, poiché era ormai orientato verso la ricerca di una conciliazione con le nazionalità dell'Impero, non essendo più pensabile di sottometterle con la forza, data la diffusione raggiunta tra la popolazione dagli ideali indipendentistici e considerato il continuo impegno profuso dalle autorità nelle attività belliche e nel cercare di arginare le defezioni dei militari al fronte, le quali avevano ripercussioni negative più immediate.

Gli esuli erano riusciti ad ottenere un riconoscimento anche da parte degli Stati Uniti che, dal 2 settembre 1918, considerarono il Consiglio cecoslovacco come un governo di fatto, in quanto era l'organo politico che era riuscito ad organizzare la lotta militare di un popolo al fianco degli Alleati per conquistare l'indipendenza. I principi perseguiti da Wilson sul diritto dei popoli all'autodeterminazione trovava una piena attuazione nel caso della nazionalità cecoslovacca, che dopo aver manifestato la sua volontà partecipando alla guerra contro il suo oppressore, non poteva vedersi negata l'agognata libertà.

Anche l'Italia, seppure senza procedere a dichiarazioni formali, aveva assunto misure che ponevano i cecoslovacchi nella posizione ufficiale di "alleati", in considerazione della completa autonomia che avevano guadagnato attraverso la lotta condotta durante gli anni della guerra contro il governo imperialregio, nemico dell'Intesa, di cui erano sudditi. Con una circolare del ministero dell'Interno, si rendeva noto a tutte le rappresentanze italiane all'estero che il ministero degli Affari Esteri aveva equiparato i passaporti rilasciati da qualsiasi Stato ai cecoslovacchi a quelli dei cittadini dei Paesi alleati[140].

Come conseguenza del nuovo status ottenuto grazie alle dichiarazioni dei governi dell'Intesa, il Consiglio Nazionale cecoslovacco comunicò agli Alleati la sua costituzione in governo provvisorio dei Paesi cecoslovacchi, avvenuta ufficialmente il 26 settembre 1918[141], nel quale Masaryk rivestiva le cariche di presidente del Consiglio e ministro delle Finanze, Benes quelle di ministro degli Esteri e dell'Interno, Stefánik quella di ministro della Guerra.


Il successo degli emigrés era completo ed era ormai subordinato solo al successo militare dell'Intesa. All'inizio dell'estate del 1918 l'offensiva tedesca in Francia e quella austriaca in Italia erano state fermate dagli eserciti dell'Intesa, alimentando le speranze di una vittoria che appariva però ancora lontana nel tempo. Nel settembre gli eventi si volsero inaspettatamente a favore dell'Intesa e crearono le condizioni per l'offensiva italiana, intrapresa il 24 ottobre, che avrebbe inferto il colpo decisivo all'Austria-Ungheria.

Nelle ultime fasi della guerra il contributo militare offerto da ex soldati asburgici fu sempre più consistente, per l'ingrossarsi delle legioni composte dagli appartenenti alle nazionalità oppresse[142], ma soprattutto grazie ai successi della propaganda alleata sul nemico che induceva alla diserzione centinaia di soldati austroungarici. Questi spesso raggiungevano il fronte italiano con informazioni strategiche, supportate da documenti e mappe sottratte ai comandi asburgici, che si rivelavano utilissime agli ufficiali italiani per prendere le misure adeguate a contrastare efficacemente le offensive austriache. Anche in autunno, nelle fasi decisive per il fronte italo-austriaco, le notizie sulle azioni che il nemico preparava fornite dai disertori furono prese in grande considerazione per organizzare l'attività bellica italiana. Lo stesso Orlando, a pochi giorni dall'offensiva finale italiana, analizzando la situazione militare, poteva affermare che l'Italia, in quel momento era salvata dalla "politica delle razze", facendo riferimento ai contributi morali, ma anche militari delle nazionalità oppresse .



Con il patto di Londra erano promessi all'Italia: il Trentino, il Tirolo cisalpino, Trieste, Gorizia e Gradisca, l'Istria fino al Quarnaro, la Dalmazia con alcune isole antistanti, Valona e il protettorato sull'Albania, La sovranità sul Dodecaneso, già occupato dall'Italia ed altri non ben definiti compensi coloniali in Asia Minore; Paolo Alatri, Nitti D'Annunzio e la questione adriatica (1919-1920), Milano, Feltrinelli, 1959, p. 17

Il Patto di Corfù, dall'isola in cui si trovava il governo serbo in esilio, del 20 luglio 1917, in Muriel Currey, Italian foreign policy 1918-1932, Washington, Ivor Nicholson and Watson L.T.D., 1932, p. 6; L. Valiani, op. cit., p. 311

La formula utilizzata nel X punto, facendo riferimento al concetto di autonomia, accoglieva le prospettive di riforma in senso federale dell'Impero asburgico, non ne minacciava l'esistenza e non impegnava l'Intesa con promesse di indipendenza alle nazionalità soggette. L'origine dei riferimenti wilsoniani a princìpi del mazzinianesimo, presenti nell'affermazione dei principi di nazionalità e nell'auspicio che i popoli potessero svolgere la loro esistenza in modo autonomo, è stata ricercata nella presenza tra i più stretti consiglieri del presidente degli Stati Uniti di Edward H. House, che aveva manifestato una forte consonanza con l'ideologia mazziniana; Richard A. Webster, Tra Mazzini e Wilson: il colonnello Edward H. House, in Il Mazzinianesimo nel mondo, a cura di G. Limiti, Pisa, Domus Mazziniana, 1996, vol. I, pp. 395-398

Umberto Zanotti-Bianco, Carteggio 1906-1918, a cura di V. Carinci, Bari, Laterza, 1987, p.263, il corsivo è nel testo. Il lavoro per la preparazione della collana cominciò già nel 1913 ed è testimoniato, tra l'altro, dalle lettere con le quali l'autore esponeva i suoi progetti e cercava la collaborazione di intellettuali italiani e delle varie nazionalità interessate, per esempio pp. 263, 332, 340, ecc. E' significativo notare come, fino al 1915, l'interesse degli autori che affrontavano le questioni polacca, rumena, albanese, russa non si soffermò sui popoli ceco e slovacco: ciò dimostra come, fino allo scoppio della guerra, essi non avessero manifestato in modo esplicito le loro rivendicazioni nazionali.

G. Stuparich, op.cit., pp. 111-112

Raffaele Colapietra, Leonida Bissolati, Milano, Feltrinelli, 1958, p.235

Leonida Bissolati, discorso del 29 ottobre 1916, in occasione della commemorazione di Cesare Battisti, tratto da Leonida Bissolati, La politica estera dell'Italia dal 1897 al 1920 - Scritti e discorsi, Milano, Treves, 1923, p. 371

Ibidem

Sebbene Sonnino non abbia espresso mai la sua teoria in forma sistematica, secondo Vittorio Emanuele Orlando, presidente del Consiglio dei Ministri dall'ottobre 1917 e, quindi, il più stretto collaboratore di Sonnino nei mesi che decisero le sorti della guerra e dell'Impero asburgico, essa costituiva il presupposto della sua visione politica; Vittorio Emanuele Orlando, Memorie (1915-1919), Milano, Rizzoli, 1960, pp. 582-583

Federico Chabod, L'Italia contemporanea 1918-1848,Torino, Einaudi, 1961, pp. 21-24

Gli emigrée erano consapevoli che una gran parte delle adesioni italiane alla causa ceca era dovuta alla necessità di indebolire la Monarchia per ottenere la cessione dei territori irredenti ed, eventualmente, la intermediazione cecoslovacca nei rapporti, presumibilmente difficili, con gli jugoslavi, nel caso di uno smembramento completo dell'Austria-Ungheria, E. Benes, My war., cit., p. 283

Secondo Gotti Porcinari vi aderirono 142 deputati e 57 senatori; quest'informazione dimostra come l'opera degli esuli politici boemi fosse riuscita a coinvolgere molti esponenti degli ambienti istituzionali, creando le basi per influenzare sempre più da vicino le politiche del governo; Giulio Cesare Gotti Porcinari, Coi legionari cecoslovacchi al fronte italiano e in Slovacchia, Roma, Comando del Corpo di Stato Maggiore, 1933, p. 32

. Franco Spada, L'idea italo-czeca, Spoleto, Premiata Tipografia dell'Umbria, 1920, p.170.Questa pubblicazione raccoglie lettere e documenti che ripercorrono l'attività del Comitato. Per organizzare la campagna di adesioni nel febbraio 1918, in un momento in cui poteva rivelarsi decisivo far giungere al governo, che si apprestava ad accordare ai cecoslovacchi l'autorizzazione a combattere sul fronte italiano, quante più manifestazioni possibili di approvazione per il progetto, il Comitato indirizzava al presidente del Comitato centrale della "Dante Alighieri" una richiesta di collaborazione per costituire sezioni del Comitato nei capoluoghi di provincia, dove già esisteva una sezione della "Dante Alighieri". La procedura di appoggiarsi ad associazioni di stampo nazionalista già esistente è confermata dalla partecipazione di Spada e di Scalea ai convegni dei presidenti dei Comitati della "Dante Alighieri", dei Fasci di Resistenza e del Fascio Parlamentare, per pubblicizzare gli scopi del loro comitato; ivi, pp.165, 170.

Manifesto del comitato italiano per l'indipendenza czecoslovacca in F. Spada, op. cit., p. 3. Dopo che lo scopo per il quale il Comitato era stato costituito si realizzò, con la creazione della divisione formata dai volontari cecoslovacchi nell'aprile 1918, l'associazione cambiò nome, trasformandosi in Lega italo-cecoslovacca, il cui fine era quello di incoraggiare i contatti e la conoscenza reciproca tra le nazioni italiana e boemo-slovacca, affinché l'amicizia nata da una necessità bellica si mutasse in una collaborazione continuativa tra l'Italia ed il costituendo Stato cecoslovacco.

F. Fejtő, op. cit., p. 359 che aderisce alla teoria di Leo Valiani secondo la quale il peso delle logge fu determinante per rompere la neutralità.

Ivi, pp. 353-354

Le conseguenze in Italia del Congresso di Parigi e delle polemiche suscitate in Italia da esponenti delle logge francesi sono descritte in Anna Maria Isastia, Ettore Ferrari, Ernesto Nathan e il Congresso massonico del 1917 a Parigi, in "Il Risorgimento", XLVII, 1995, 3, pp. 603-633

Ivi, pp. 607-608

Ivi, p. 611

E. Benes, La Boemia ., cit., p. 46. La polemica contro i magiari era particolarmente condivisa dall'opinione pubblica italiana nazionalista, che vedeva nei sudditi ungheresi, quali erano gli jugoslavi, i diretti contendenti per Fiume e le terre adriatiche. Un esempio dell'acceso antimagiarismo degli esponenti più radicali delle correnti nazionalistiche è lo scritto di Michelangelo Billia del 1918, nel quale l'Ungheria viene descritta con toni peggiori di quelli usati per l'Austria; Francesco Guida, Il compimento dello Stato nazionale rumeno e l'Italia, in: "Rassegna Storica del Risorgimento", LXX, 1983, n. 4, p. 454

Tali resoconti, che furono molto diffusi nei mesi in cui si svolse l'azione diplomatica finalizzata ad ottenere l'autorizzazione a far combattere legioni boeme al fronte italiano, sono state ritenute da coloro che hanno considerato con scetticismo la vicenda dei cecoslovacchi, uno strumento di politica interna usato dal governo austriaco per sminuire l'apporto slavo nella guerra e giustificare la condizione di minorità delle popolazioni slave che non avevano intenzione di mutare dopo la guerra; A. Tamaro, op. cit p.

Emo Egoli, I legionari cecoslovacchi in Italia 1915-1918, a cura dell'Associazione italiana per i rapporti culturali con la Cecoslovacchia, Roma, 1968, p. 25

Ivi, p. 28

Si veda K. Pichlík, B. Klípa, J. Zabloudilová, op. cit., pp. 127 e segg. nelle quali sono anche descritte le più significative visite ricevute dai volontari: quella del delegato del Consiglio Nazionale Ceco, Plesinger-Bozinov, quella, foriera di illusioni ed equivoci di Pučálka, suddito russo di nazionalità ceca, che giunse come delegato dell'Unione delle associazioni cecoslovacche di Russia, con il compito di procedere all'arruolamento di prigionieri in Italia per inserirli in unità russe, ma che si rivelò privo del mandato del Consiglio Nazionale di Parigi, fino a quella di Benes, del settembre 1917.

L. Valiani, op. cit., p.186, che, per presentare Stefánik usa l'elogio funebre composto da Leo Sychrava, che affiancò lo slovacco nella lotta per l'indipendenza nazionale, in onore del generale.

ACS (Archivio Centrale dello Stato), PS (Pubblica Sicurezza)-UCI (Ufficio Centrale d'Investigazione) 1916/1919, b. 31, f. 648. L'inventario dell'UCI riportava l'indicazione anche di un fascicolo intitolato a Stefánik del 1918 (Ivi, b. 47, f. 1101, ma tale fascicolo è risultato introvabile.

ASMAE, AP 1916/1919 Cecoslovacchia, b. 50, Comando Supremo a Ministero degli Affari Esteri, Roma 23 luglio 17, n.6694/S, con cui si comunica un rapporto dell'Ufficio Informazioni a Parigi relativo al Movimento Nazionale Ceco. Se l'informazione riporta correttamente il pensiero di Benes tale documento costituirebbe una conferma ulteriore ad una caratteristica della sua tecnica diplomatica che sfruttava la concorrenza tra le Potenze dell'Intesa per guadagnare spazi di influenza tra le nazioni che si stavano affacciando sullo scenario europeo, per spingere gli statisti a compiere passi sempre un poco più lunghi, pur di non perdere il primato di nazione amica. In particolare verrà notata dallo stesso Benes la rivalità tra la Francia e l'Italia, che sarà un elemento costantemente presente nei rapporti tra l'Intesa e le nazionalità soggette all'Austria-Ungheria; E. Benes, My war memoirs, cit., p. 287

Ivi, p. 204

ACS, PCM (Presidenza del Consiglio dei Ministri) Guerra europea, f. 19.4.3, sf. 7/9, Ministero dell'Interno a Boselli, Roma, 25 settembre 1917, T. 12100.I.II/158425. Benes aveva perfezionato i dettagli di tale questione direttamente con il Ministro dell'Interno Orlando.

E. Egoli, op. cit., p. 30

E. Benes, My war memoirs, cit., p. 206

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.4.3, sf. 7/9, Sonnino a Boselli, Roma, 15 settembre 1917, T. n. 12944

Il Consiglio Nazionale cecoslovacco aveva in un primo momento ordinato al rappresentante boemo a Roma, Hlavácek, di non collaborare con i comandi italiani nella organizzazione dei reparti di lavoratori, in modo da ritardare la realizzazione del progetto e di dare tempo all'azione diplomatica che Stefánik si accingeva a svolgere a Roma di ottenere risultati più soddisfacenti; E. Benes, My war memoirs, cit., p. 289

J. F. N. Bradley, Czechoslovakia: a short hirstory, Edimburgh, Edimburgh University Press, 1971, p. 144

Questa possibilità fu propugnata da Lloyd George alla Conferenza interalleata tenutasi a Parigi dal 27 novembre al 3 dicembre 1917; L. Valiani, op. cit., p.340

G. Stuparich, op. cit., p.133

Ivi, p.134

Sidney Sonnino, Diario 1916-1922, a cura di P. Pastorelli, Bari, Laterza, 1972, p. 241

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.4.3, sf. 7/9, Hlavaček a Orlando, Roma, 3 gennaio 1918, lettera. Le lettere dei prigionieri furono diffuse anche a cura del Comitato italiano per l'indipendenza cecoslovacca; F. Spada, op. cit., p. 5-6

Sáva Svatoň, I cecoslovacchi in Italia negli anni 1915-1918, Roma, Ambasciata Cecoslovacca - Ufficio Stampa - Arti Grafiche Visigalli, p. 9

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.4.3, sf. 7/20 - Movimento in Italia per l'indipendenza cecoslovacca 

"Il Giornale d'Italia", 10 febbraio 1918, Anno XVIII, n. 41, Le polemiche sulla politica estera dell'Italia

Sidney Sonnino, Carteggio 1916-1922 a cura di P. Pastorelli, Bari, Laterza, 1975, p. 394

Tale assicurazione era contenuta nella lettera con cui il ministro della Guerra Giardino rendeva noto al segretario del Consiglio nazionale boemo la prossima costituzione delle squadre da lavoro semimilitarizzate con i prigionieri di nazionalità cecoslovacca: ACS, PCM Guerra europea, f. 19.4.3, sf. 7/9, Ministero della Guerra a Benes, Roma, 4 ottobre 1917, n. 11649 G

Ivi, Sonnino a Orlando, Roma, 23 gennaio 1918, T. 1081

G. Benzoni, op. cit., p.88

V. E. Orlando, op. cit., p.347. L'allora presidente del Consiglio manifestò nelle sue memorie l'impressione di aver compiuto una scorrettezza nei confronti di Sonnino quando si era discostato dall'indirizzo politico indicato dal ministro degli Esteri; contemporaneamente egli polemizzava con Wickham Steed che in una sua pubblicazione aveva lanciato accuse verso la scarsa determinazione mostrata da Orlando nell'opporsi alle scelte compiute da Sonnino.

G. benzoni, op. cit., p. 88

Stefánik si era conquistato la fiducia di Cadorna anche grazie alla notizia comunicatagli dell'avvistamento di movimenti di truppe austroungariche avvenuto durante un suo volo per la diffusione di volantini propagandistici oltre le linee austriache.

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.4.3, sf. 7/9, Orlando a Giardino, Roma, 21 febbraio 1918, T. 4609

Documenti diplomatici italiani, serie V, vol. X, doc. n. 310, Orlando a Giardino, Roma, 23 febbraio 1918

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.4.3, sf. 7/12, Giardino a Orlando, Parigi, 27 febbraio 1918, T. 361

K. Pichlík, B. Klípa, J. Zabloudilová, op. cit., p. 171

Leonida Bissolati, Diario di guerra, Torino, Einaudi, 1935, pp. 102-104

ACS, Carte Bissolati, b. 2, f. 7, taccuino 4

Ugo Ojetti, Lettere alla moglie (1915-1919), Firenze, Sansoni, 1964, p. 498

Ibidem

F. Guida, Il compimento dello Stato nazionale rumeno., cit., p. 438

Ivi, p. 443

ACS, Carte Bissolati, b. 2, f. 7, taccuino 4

Questa soluzione era ritenuta auspicabile dallo stesso Orlando, conformemente alle idee di Sonnino, prima che il presidente del Consiglio si convincesse del tutto, così come avvenne nel marzo, sull'opportunità di utilizzare anche i circa 30.000 prigionieri in Italia, ACS, PCM Guerra europea, f. 19.4.3, sf. 7/9, Orlando a Giardino, 18 febbraio 1918

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.4.3, sf. 7/12, Giardino a Orlando, Versailles, 27 marzo 1918, T. 355G

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.4.3, sf. 7/1, Giardino a Orlando, Versailles, 27 marzo 1918, T. 3665: <<Prof. Gallavresi pregami trasmettere "Consiglio Nazionale cecoslovacco considera con più simpatia il progetto di utilizzazione sul fronte italiano dei reparti cecoslovacchi, ora che Ministro Affari Esteri ha tolto pregiudiziale su impiego ex prigionieri cecoslovacchi, nell'incontro con Stefánik .">>

L'alternativa proposta da Stefánik alla costituzione di legioni in Italia era l'invio di prigionieri volontari in Francia per completare l'esercito che si stava costituendo oltralpe.

La nota di Stefánik è molto significativa perché tira le somme di un lungo dibattito, opponendo alle note obiezioni di Sonnino risposte che lasciavano ben poche possibilità di una replica negativa, a meno di non manifestare esplicitamente la mancanza di volontà a procedere nell'attuare misure che sottintendevano la scomparsa della Monarchia asburgica. Il testo del memoriale è in V. Kybal, op cit., pp. 153-167

In un documento indirizzato dal capo della commissione per i prigionieri di guerra si deduce che l'accordo formale, che avrebbe rappresentato un ulteriore riconoscimento all'autorità del Consiglio cecoslovacco era considerato dai boemi come un presupposto per l'utilizzazione dei reparti cecoslovacchi, nella chiara consapevolezza che l'Italia contava ormai sul supporto di quelle truppe; ACS, PCM Guerra europea, f. 19.4.3, sf. 7/9, Spingardi a Comando Supremo, Roma, 6 aprile 1918, T. 9621

S. Sonnino, Diario ., cit., p.263

Ibidem

L. Valiani, op. cit., p. 338. Con la stessa diffidenza erano accolte dagli ambienti nazionalisti le manifestazioni a favore delle nazionalità oppresse provenienti dai politici e intelletuali italiani, che erano stati definiti dal nazionalista Michelangelo Billia "slavemini", con un audace calembour sul nome di Salvemini, campione della politica "slava"; F. Guida, op. cit., p. 454

Confusioni di questo tipo vennero notate anche nei giorni più intensi della attività filoboema del Comitato italiano per l'indipendenza cecoslovacca e, il I luglio 1918, la segreteria del Comitato inviava una circolare alle sezioni in cui si mettevano in guardia gli attivisti da simili errori; F. Spada, op. cit., p.330. La pubblicistica dell'epoca annovera moltissimi lavori, firmati dai personaggi che credevano nell'utilità della cooperazione italo-boema contro l'Austria-Ungheria, in cui si narrava la storia dei cecoslovacchi, giustificando le loro rivendicazioni sulla base del diritto storico del Regno di S. Venceslao, e si informava circa la loro attività antiaustriaca durante la guerra. Oltre a F. Spada, op. cit. che riferisce varie occasioni pubbliche nelle quali i promotori del Comitato italiano per l'indipendenza cecoslovacca tennero conferenze sull'argomento, si vedano La nazione cecoslovacca, Edizioni Zona di guerra, 1918; La nazione cecoslovacca, opuscolo pubblicato a cura de "La voce dei popoli", 1918; La nazione cecoslovacca nella guerra mondiale, a cura del Comitato Italiano per l'indipendenza cecoslovacca, Roma, Ausonia, 1918; Pietro Silva, I problemi fatali all'Austria-Ungheria. Il problema cecoslovacco. Il problema jugoslavo, Milano, Treves, 1918; Arnaldo Agnelli, I cecoslovacchi al fronte italiano, Milano, Treves, 1918; Ugo Dadone, La Boemia e l'Italia contro l'Ausria-Ungheria, Roma, L'Agave, 1918 ed altri.

F. Spada, op. cit., p. 401 riporta la lettera dell'incaricato di formare una sezione del Comitato per l'indipendenza cecoslovacca in Massa dove, nonostante fosse stata riunita un'adunanza, i convenuti non ritennero di aderire all'associazione, a causa del disinteresse nei confronti delle altre nazionalità oppresse che caratterizzava il Comitato.

Ivi, p. 195

Ivi, pp. 37, 149. E' piuttosto singolare che l'autore, se giustifica il malanimo del movimento jugoslavo nei confronti dell'Italia a causa del Patto di Londra, "poco rispettoso dei loro diritti", ritenga, qualche pagina dopo, che il dissidio sia dovuto alla disinformazione jugoslava circa la misura delle rivendicazioni italiane in Dalmazia; ivi, pp. 37-38

L. Valiani, op. cit., p. 332

Dai contatti più volte intrapresi da esponenti delle due nazionalità, gli osservatori compresero che la piattaforma minima per intraprendere trattative era la rinuncia italiana alla Dalmazia, però con la costituzione di Zara in città libera, e quella jugoslava al Carso e all'Istria; ivi, p. 343

Giovanni Amendola, Il patto di Roma e la "polemica", in: Il patto di Roma, Roma, Soc. An. Ed. La voce, 1919, p.16

R. Colapietra, op. cit., p. 252

Ferdinando Martini, che era fortemente critico nei confronti della attività che si svolgeva nel Parlamento, sede della politica ufficiale, ricordava nelle pagine del suo diario la fondazione del Comitato come un'occasione che si dava alla politica italiana per mostrare una rinnovata vitalità. L'ex ministro delle Colonie fu uno degli esponenti più rappresentativi dell'associazione, al punto che fu il primo nome proposto per la presidenza del Congresso delle nazionalità oppresse dell'aprile; Ferdinando Martini, Diario, 1914-1918, Verona, Mondadori, 1966, pp.1108, 1126

G. Amendola, op. cit., p. 28

L. Valiani, op. cit., p. 352

Ante Trumbić, leader croato del movimento jugoslavo durante gli anni della guerra era stato circondato dalla diffidenza italiana ed era stato sottoposto ad uno stretto controllo dalle autorità civili. Su di lui esiste un fascicolo in ACS, PCM Guerra europea, f. 19. 4. 3, sf. 7/3 -Trumbić Ante Presidente del Comitato jugoslavo

L'impressione di una scarsa democraticità delle aspirazioni italiane era stata combattuta dagli interventisti che avevano partecipato alla Conferenza socialista interalleata, svoltasi a Londra dal 21 al 23 febbraio 1918, nella quale i delegati italiani avevano presentato un memoriale che spiegava le aspirazioni italiane e terminava dichiarando la necessità, per una pace duratura, della dissoluzione dell'Impero austroungarico e della conseguente formazione di una Cecoslovacchia e di una Jugoslavia indipendente. Al termine dei lavori le dichiarazioni esplicite degli italiani a favore delle due nazioni furono considerate un segno dell'attitudine positiva dei socialisti italiani nei confronti delle nazionalità oppresse; L. Valiani, op. cit., pp. 356, 358

Ivi, p. 349

Ivi, p. 361. Un'altra suddivisione dei delegati italiani al Congresso era stata compiuta da Salvemini che aveva evidenziato la presenza di tre gruppi: il primo capeggiato da Amendola, Ruffini e Albertini, che credeva nei risultati che il Congresso poteva ottenere nella lotta antiaustriaca; quello dei nazionalisti, che leggevano la politica che si stava svolgendo in quei giorni come una necessità dettata dalla situazione di guerra ma non volevano che si raggiungessero risultati durevoli sulla base dei principi di democrazia e autodeterminazione dei popoli; il gruppo de "l'Unità", per il quale il Congresso costituiva un primo momento per definire più dettagliatamente le questioni relative alla frontiera italo-jugoslava; ivi, p. 362

Martini ricorda come si giunse alla formulazione delle dichiarazioni finali del Congresso, che furono stilate da Torre; F. Martini, op. cit., pp. 1145-1146

Un secondo convegno era stato proposto all'attenzione dei politici in Boemia da Benes, che aveva colto il valore morale di tali manifestazioni, soprattutto se provenivano dall'interno dell'Impero, e si svolse in occasione dell'anniversario della fondazione del Teatro Nazionale Boemo di Praga, simbolo delle conquiste ceche nel campo dei diritti nazionali. Cinquanta anni prima era stato concesso dal governo imperialregio di mettere in scena rappresentazioni in lingua ceca, cosa che fino ad allora non era consentite.

Un accenno della polemica che coinvolse il Congresso e il patto di Roma si ha in Andrea Torre, La storia del patto di Roma, in Il patto di Roma, cit., pp. 139-153

V. E. Orlando, Prefazione a Kybal, op. cit., 17

Il testo della convenzione è pubblicato integralmente in V. Kybal, op. cit., pp. 168-172

Sáva Svatoň, op. cit., p. 10. Le autorità locali mostrarono preoccupazione per l'arrivo dell'ingente numero di prigionieri poiché temevano che tra essi si annidassero spie ed emissari del nemico. Tale evenienza sarebbe stata particolarmente preoccupante in Umbria dove si trovavano stabilimenti industriali che fabbricavano materiale bellico, i quali sarebbero potuti diventare obiettivi di attentati da parte di sabotatori. La prefettura dell'Umbria raccomandava pertanto alle autorità militari di esercitare un'attenta vigilanza sulle truppe di ex prigionieri; ACS, PS, Cat. A5G I guerra mondiale, b. 133, f.233/11, Prefettura dell'Umbria - Ufficio Provinciale di Pubblica Sicurezza a Comando Divisione boemo-slovacche a Foligno, Perugia, 29 aprile 1918

Nel giugno 1918 gli arruolati ammontavano a circa 10.000 unità; nel settembre del 1918, quando fu aggiunto un ulteriore reggimento, "esploratori cecoslovacchi", avevano raggiunto le 16000 unità, negli ultimi mesi di guerra i prigionieri costituirono un ulteriore reggimento, "milizia nazionale cecoslovacca", ed al momento della proclamazione della Repubblica cecoslovacca i componenti delle legioni boeme in Italia raggiungevano il numero di 19.476; S. Svatoň, op. cit., p. 11

La documentazione su svariati episodi di allontanamento dalla divisione, decisi dai comandi militari, di taluni soggetti poiché ritenuti dannosi alla causa ceca per la scarsa volontà di combattere dimostrata al fronte o per via di dichiarazioni ritenute manifestazioni di scarso patriottismo, è conservata presso AUSSME (Archivio dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito), E5 b. 260

Si trattava di un caporalmaggiore sul cui nome Graziani, nella sua relazione, e Tommasi, responsabile dell'indagine effettuata sull'accaduto, non concordano - Potoreh per il comandante della divisione, Pokorny per Tommasi - ma che entrambi definiscono individuo noto sin da quando, nel campo di addestramento di Foligno, era stato allontanato poiché sospetto. Graziani spiegherà ad Orlando che i contatti dei soldati con agenti della propaganda austriaca costituivano l'unico motivo per spiegare le diserzioni; Documenti diplomatici italiani, serie V, vol. XI, doc. n. 57, Graziani a Orlando, Barbarano, 13 giugno 1918

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.4.3, sf. 7/18, Graziani a Orlando, (Barbarano), 12 giugno 1918, n. 717 R.; Documenti diplomatici italiani, serie V, vol. XI, doc. n. 57, cit.

Ivi, Seba a Graziani, Origiano, 12 giugno 1918, lettere

Ivi, Graziani a Seba, Barbarano, 13 giugno 1918, n. 719 RP

Documenti diplomatici italiani, serie V, vol. XI, doc. n. 57, cit.

Orlando comunicò al Capo di Stato Maggiore dell'esercito Diaz il modo secondo lui più consono di interpretare la questione per controbattere eventuali accuse di abuso di potere ed evitare contrasti politici con il Consiglio Nazionale Cecoslovacco in Documenti diplomatici italiani, serie V, vol. XI, doc. n. 61, Orlando a Diaz, 14 giugno 1918

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.4.3, sf.7/18, Zupelli (Ministro della Guerra) a Graziani, 15 giugno 1918, T. 72348

Lo stesso Stefánik aveva approvato l'operato del generale della I divisione cecoslovacca ed aveva assicurato al Comando Supremo italiano che le proteste indirizzate al Ministero della Guerra erano dirette a dimostrare e confermare formalmente l'autorità del Consiglio Cecoslovacco sui militari di tale nazionalità come riferì il Comandante Supremo incaricato delle indagini sull'episodio; ACS, PCM Guerra europea, f. 19.4.3, sf.7/18, Tommasi a Diaz, 24 luglio 1918, n. 99678

Tale lettura della situazione delle truppe boeme si trova, ad esempio, in AUSSME, E5 b. 260, Lapienza (Colonnello Brigadiere del Comando 2a Brigata speciale) a Comando I divisione cecoslovacca, 12 giugno 1918, n. 273 prot. ris., e concorda con la situazione, descritta da Stefánik nella nota del 20 marzo 1918 al governo italiano, dei prigionieri cecoslovacchi (si veda paragr. 2.3) tra i quali, se non mancavano i patrioti entusiasti di poter combattere per affermare i diritti della propria nazionalità, vi era anche un largo numero di uomini pronti a tornare al fronte, non tanto perché animati da grandi idealità quanto perché lo ritenevano un modo per sconfiggere l'apatia che li opprimeva nel campo di prigionia.

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.4.3, sf. 7/12, Ambasciata spagnola di Roma a Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 22 luglio 1918, n. 3383/1259. Nella nota i comandi italiani erano accusati di infliggere privazioni e punizioni corporali ai prigionieri cechi per costringerli a ritornare al fronte. La protesta fu rinnovata, con la denuncia di altri episodi di violazione delle leggi che garantivano i diritti dei prigionieri ; ivi, Ambasciata spagnola di Roma a Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 21 agosto 1918, n.3944/1354.

Ivi, Orlando a Sonnino, Roma, I settembre 1918, T. 2600

Il capo di Stato Maggiore dell'esercito informa della richiesta di Stefánik il presidente del Consiglio dei Ministri in Documenti diplomatici italiani, serie V, vol. XI, doc. n. 257, Diaz a Orlando, (Abano), 22 luglio 1918

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.4.3, sf. 7/10, Orlando a Diaz, Roma, 23 luglio 1918, copia s.n.

E. Egoli, op. cit., p. 58 riporta il testo del volantino lanciato dagli aerei austriaci nel quale si preannunciavano ritorsioni nei confronti di italiani, se questi si fossero resi complici dei cecoslovacchi che minacciavano di giustiziare dieci soldati di nazionalità tedesca e dieci di nazionalità ungherese per ogni cecoslovacco ucciso dalle autorità militari asburgiche con l'accusa di tradimento. Egoli aggiunge in nota che "non risultano nel modo più assoluto che Stefanik o altri cecoslovacchi abbiano mai annunziato e posto in atto rappresaglie". I succitati documenti inducono invece a ritenere che il colonnello di nazionalità slovacca avesse utilizzato questo strumento per scoraggiare le ritorsioni austroungariche contro i disertori boemi e slovacchi.

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.4.3, sf. 7/10, Orlando a Sonnino, Roma, 4 settembre 1918, lettera. La scelta di comunicare con il ministri degli Esteri in forma privata fu adottata da Orlando perché una comunicazione ufficiale sarebbe stata "molto imbarazzante", per sua stessa ammissione. L'accettare il rischio di essere considerati contravventori del diritto internazionale per non deludere una richiesta dei cechi, dimostra l'importanza che aveva assunto per gli italiani l'amicizia cecoslovacca, dalla quale ci si attendeva il sostegno e la collaborazione per raggiungere gli obiettivi di guerra nazionali.

S. Sonnino, Diario., cit. p. 265

L. Valiani, op. cit., p. 394. Anche Orlando aveva ritenuto che la dichiarazione avesse suscitato il risentimento degli slavi a causa delle resistenze opposte dal rappresentante italiano; ACS, Carte Orlando, b. 68, f. 1573, sf. 1, Orlando a Bonin, Roma, 22 giugno 1918.

Secondo alcuni osservatori della vicenda, gli alleati capirono che la figura del ministro degli Esteri, nota per la sua "slavofobia", si sarebbe prestata allo scopo di deteriorare la nuova immagine dell'Italia come sostenitrice delle nazionalità per sottrarle il primato e per giustificare con le resistenze italiane alla dissoluzione della Monarchia la conduzione di una doppia linea diplomatica, una di sostegno alle popolazioni oppresse, per sfruttarne l'appoggio morale e militare, l'altra vagamente filoaustriaca, per non abbandonare definitivamente la possibilità di concludere più rapidamente la guerra mediante una pace di compromesso con l'Austria-Ungheria, garantendone la sopravvivenza. Tale è la teoria di Colapietra, che ritiene Sonnino, in quest'episodio, vittima degli alleati; R. Colapietra, op. cit., p. 256. Nello stesso senso si esprime Albertini che comunica a Guglielmo Emanuel la sua impressione circa lo scarso impegno applicato di proposito dagli alleati nel convincere Sonnino ad osare una dichiarazione più favorevole alle nazionalità oppresse. "Se essi avessero voluto, la dichiarazione sarebbe stata ben diversa; invece si sono comportati così per ragioni evidenti, per quanto incresciose."; Luigi Albertini, Epistolario 1911-1926, Verona, Mondadori, 1968, Vol. II La Grande Guerra, p. 939

Documenti diplomatici italiani, serie V, vol. XI, doc. n. 27, Imperiali a Sonnino, Londra, 7 giugno 1918

Bissolati esprime le sue rimostranze ad Orlando in una lettera citata in R. Colapietra, op. cit., p. 255

Documenti diplomatici italiani, serie V, vol. XI, doc. n. 38, Bonin a Orlando, Parigi, 10 giugno 1918

Benes espresse la sua insoddisfazione per la dichiarazione interalleata all'ambasciatore italiano a Parigi; E. Benes, My war memoirs, cit., p. 380, in cui egli riferisce dell'incontro avuto con Orlando, Sonnino e Bonin, dal quale ha avuto un'ulteriore conferma dell'opposizione del governo ad assumere posizioni più avanzate, tali da pregiudicare gli interessi italiani se sfruttate dagli jugoslavi come un precedente. Il presidente del Consiglio ci tenne, comunque, a far conoscere a Benes che l'Italia era ormai risoluta ad appoggiare le massime aspirazioni cecoslovacche; ivi, p. 381. Una lettera di Benes, indirizzata ad Amendola, in cui il segretario generale del Consiglio Nazionale ceco riferisce le dichiarazioni ottenute da Orlando, è pubblicata in appendice in L. Albertini, op. cit., pp. 1063-1064

V. Kybal, op. cit., pp. 71-72

Documenti diplomatici italiani, serie V, vol. XI, doc. n. 150, Bonin a Orlando, Parigi, 29 giugno 1918

Ivi, doc. n. 142, Sonnino a Bonin, Roma, 28 giugno 1918

Ivi, doc. n. 160, Bonin a Sonnino, Parigi, 30 giugno 1918

E. Benes, My war memoirs, cit., p. 386

ACS, PCM Guerra europea, f. 19.4.3, sf. 7/9, Gallenga a Orlando, Parigi, 16 luglio 1918,

S. Sonnino, Carteggio., cit., p.436

".questo dissenso [tra Orlando e Sonnino], che è la favola dell'Intesa e per il quale a Parigi noi siamo balcanicamente accusati di far due politiche": Ojetti ad Albertini, 14 luglio 1918; L. Albertini, op. cit., p. 950

Documenti diplomatici italiani, serie V, vol. XI, doc. n. 248, Orlando a Sonnino, Roma, 21 luglio 1918

Ojetti, incaricato da Orlando di dirigere la propaganda per il nemico , riteneva che la sua posizione, nata per svolgere i compiti che l'adesione alla politica delle nazionalità dettava, fosse diventata poco chiara in seguito "all'altalena Orlando-Sonnino"; U. Ojetti, op. cit., p. 560

V. E. Orlando nell'Introduzione a V. Kybal, op. cit., pp. 21, 22

ACS, Guerra europea, f. 19.4.3, sf. 7/21, Marchetti (capo del servizio informazione del Comando Supremo) a Orlando, 5 agosto 1918, n. 10602A prot. ris., nel quale riferisce le idee di Benes, conosciute durante un colloquio.

Questo argomento (in V. Kybal, op. cit., pp. 75 e segg.) utilizzato per spingere la Gran Bretagna a compiere dei passi per i quali mostrava ancora una forte ritrosia, mette in evidenza la spregiudicatezza di Benes nel portare avanti la sua strategia diplomatica. Egli, infatti, sembra pronto a sfruttare le inevitabili conflittualità tra gli Alleati, per convincerli dell'opportunità di concedere maggiore prestigio e autonomia ai rappresentanti della nazionalità boema. Anche l'ambasciatore italiano a Londra confermava la tesi secondo la quale il governo britannico si era deciso a riconoscere maggiore autorità al Consiglio nazionale affinché questo avesse gli strumenti politici necessari per contrastare l'influenza delle potenze alleate sull'esercito cecoslovacco, solo che ne dava una lettura in chiave antifrancese; ASMAE, AP 1916-1919, Cecoslovacchia, b. 50, f. 2, Imperiali a ministero degli Affari Esteri, Londra, 3 agosto 1918, T. n. 299 r.

V. Kybal, op. cit., p. 77

Benes non riuscì ad ottenere che nella dichiarazione si usasse la formula "governo provvisorio"; ivi, p. 84

F. Martini, op. cit., p. 1218; Amendola comunicò l'8 agosto ad Albertini l'esito di un suo colloquio con il presidente del Consiglio, che si era mostrato favorevole ad affrontare una crisi (L. Albertini, op. cit., p. 951); il 16 agosto Ojetti scriveva al direttore del "Corriere della sera" che il segretario di Orlando aveva recato ad Amendola il messaggio di Orlando, di cessare qualsiasi atto di ostilità, anche latente, contro Sonnino (ivi, p. 958). Negli ambienti politici si diffuse così la sensazione che Albertini ed Amendola fossero furiosi per il voltafaccia compiuto da Orlando, quando era ormai pronta la campagna a sfavore di Sonnino, ma che la discrezione e la correttezza impediva loro di rendere noto il suo comportamento; F. Martini, op. cit., p. 1215

Tali sono le impressioni raccolte da Amendola sulla sua iniziativa; L. Albertini, op. cit., p.980

Ojetti manifestava nelle sue lettere la delusione per i mancati risultati della polemica che non aveva avuto l'effetto di sollecitare nei politici una reazione tale da provocare la crisi del governo, con la conseguente estromissione di Sonnino; U. Ojetti, op. cit., p. 578; Ojetti a Zanotti-Bianco, in U. Zanotti-Bianco, op. cit., p. 646

Sebbene la dichiarazione non facesse decadere il Patto di Londra, il riconoscimento di uno Stato jugoslavo implicava di riesaminare le rivendicazioni italiane nei confronti dell'Austria-Ungheria alla luce della nuova situazione internazionale che si delineava nell'Europa orientale; R. Colapietra, op. cit., p. 262

In seguito al dibattito del 7-8 settembre in Consiglio dei Ministri sul riconoscimento dei diritti nazionali degli jugoslavi Sonnino annotava sul suo diario: "Se in queste condizioni militari ci mettiamo a fare duelli speciali tra l'esistenza dell'Austria-Ungheria e noi, sarebbe fatale per noi, gli alleati dandosi l'apparenza di salvarci"; S. Sonnino, Diario., cit., p. 294

ibidem, "Domani viene una proposta di pace, senza distruggere l'Austria (toglierle una provincia, Boemia, non è distruggerla), alleati diranno: è l'Italia che non vuol far pace". Da quest'affermazione si deduce che l'idea di uno Stato cecoslovacco era stata ormai pienamente accettata da Sonnino ed era pensata come compatibile con il mantenimento della cornice imperiale; l'ammettere che i cecoslovacchi si costituissero in Stato non comportava, nelle vedute del ministro, che ciò dovesse valere anche per gli jugoslavi.

V. Kybal, op. cit., p. 96

Ivi, p. 95

S. Sonnino, Carteggio., cit., p. 499

Il presidente era Kramář, nazionalista, i suoi vice erano Klofač, del partito radicale, e Svehla, di quello agrario, il segretario generale era Soukup, un socialista; G. Stuparich, op. cit., p. 170

Tratto dal Discorso al Parlamento di Vienna del deputato Stranski; ibidem

ASMAE, AP 1916-1919, Cecoslovacchia, p. 50, Circolare del ministero dell'Interno del 10 settembre 1918, n. 11900. 23.3.B di prot., a ministero degli Affari Esteri.

E. Benes, My war memoirs, cit., p. 421

Come i cecoslovacchi, anche polacchi, rumeni e jugoslavi ambivano a costituire legioni di volontari, disertori e prigionieri. La minore fortuna diplomatica degli esuli di queste nazionalità, nonché le resistenze italiane a compiere passi che rappresentavano un primo riconoscimento ad un futuro Stato jugoslavo, che contribuirono ad ingigantire gli ostacoli che si frapponevano alla soluzione della questione, fecero sì che si giunse alla formazione di altri legioni di nazionalità oppresse solo poco tempo prima della fine della guerra. I comandi militari erano però consapevoli dell'utilità degli esploratori delle varie nazionalità; alcune squadre di avvicinamento vennero quindi formate con volontari in modo quasi illegale, poiché non sanzionato dal governo italiano, né dai Consigli Nazionali.

L. Valiani, op. cit., p. 371, in cui è riportato ciò che Orlando scriveva a Bissolati il 21 ottobre 1918.




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