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CARL SCHMITT E THOMAS HOBBES

politica



CARL SCHMITT E THOMAS HOBBES


1.Dallo stato di natura al Leviatano

L'analisi del decisionismo schmittiano passa necessariamente attraverso quella del pensiero politico di Thomas Hobbes, che ha rappresentato un costante ( e controverso ) punto di riferimento per il politologo tedesco.

In Hobbes Schmitt rinviene il nucleo essenziale della sua interpretazione della modernità come crisi, del potere come forza coercitiva capace di fronteggiare situazioni estreme 454b17e che mettono in pericolo la sua stessa esistenza, del politico come pòlemos, criticando o ignorando volutamente gli altri aspetti . Con il pensatore di Malmesbury condivide il pessimismo antropologico e la conseguente necessità di un ordine che salvi l'uomo dai pericoli dell'anarchia.



Hobbes, inoltre, come si è già avuto modo di accennare, è esplicitamente indicato da Schmitt come il decisionista per eccellenza ( suo è, infatti, il motto "auctoritas non veritas facit legem" ), tanto che anche la sua lettura 'cristiana' risulta comunque coerente con quella decisionistica . Potremmo dire che il decisionismo schmittiano si apparenta a quello hobbesiano che sembra esserne il paradigma, che costruisce un sovrano bifronte perché "rappresenta tanto la sola fonte legislativa legittima quanto l'arbitro unico ed ultimo. E' in questa duplice veste che risiede il suo potere assoluto" che rappresenta l'essenza della sovranità del capo politico.

Ma il richiamo ad Hobbes non è sempre coerente, né conduce necessariamente in un senso piuttosto che in un altro: egli è per Schmitt il pensatore tanto dell'azione concreta, della decisione puntuale che crea l'unità della forma politica, quanto della deriva per cui l'unità politica razionale si fa astratta e meccanica, tecnica e legalistica, per essere poi distrutta dai conflitti che non riesce più a controllare perché non sa più riconoscere ed interpretare. Schmitt si rifà continuamente al pensiero di Hobbes, all'inizio soltanto con riferimenti più o meno frequenti, poi dedicando al pensiero dell'inglese saggi di una certa importanza.

Nel 1938 verrà pubblicato Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes in cui Schmitt, prendendo in considerazione quasi esclusivamente l'Hobbes del Leviatano, affronta direttamente il grande maestro e, contemporaneamente, se stesso ed il proprio pensiero che vive, proprio in quegli anni, una profonda crisi. Nel '38, infatti, si è già consumata la rottura col regime nazista e Schmitt appare intento ad elaborare giustificazioni delle proprie posizioni che ad alcuni ambienti ufficiali sono parse non propriamente ortodosse e, contemporaneamente, a prendere le distanze da un'esperienza politica come quella nazista che, sebbene salutata con entusiasmo, gli appare ormai fallimentare almeno dal punto di vista della produzione di un ordine politico che si dimostri veramente efficace.  

Il primo elemento che colpisce Carl Schmitt dei testi politici hobbesiani è la spregiudicatezza con cui l'autore del Leviatano parla del soggetto cui tale riflessione si riferisce: l'uomo.

Rompendo con una tradizione secolare Thomas Hobbes appare lucidamente consapevole della pericolosità di continuare a presupporre un modello di uomo idealizzato ed astratto. Questo era stato, a suo avviso, l'errore compiuto dal giusnaturalismo di Grozio. Per Grozio l'uomo è l'essere che, già prima della sua esperienza socio politica, appare dotato delle virtù della razionalità, della socievolezza, della conoscenza intuitiva delle fondamentali leggi della convivenza. La concezione di Hobbes è profondamente diversa. L'essere umano è una creatura sostanzialmente amorale, abitata da tutta una serie di istinti che lo rendono egoista e asociale. Questa concezione è il rovesciamento più radicale della classica posizione aristotelica. Lo Stagirita sosteneva, infatti, che l'uomo è un animale politico, costituito in modo tale che, per sua stessa natura, è fatto per vivere con gli altri in una società politicamente strutturata. Per Hobbes, invece, nella condizione naturale, l'uomo non riconosce in alcun modo il giusto e l'ingiusto ( categorie connesse solo con la condizione sociale ), ritiene di poter accampare diritti su qualsiasi cosa, non ammette limiti ai propri desideri.

Allorché l'obiettivo di tali desideri diviene comune a più individui, allora, inevitabilmente, sorgono sanguinose contese. E sono contese tanto più frequenti e cruente in quanto per Hobbes gli uomini sono fondamentalmente uguali tra loro. Lo scenario è drammatico: nello stato di natura ci sono solo timore e pericolo, la vita dell'uomo è solitaria, povera e brutale. Vista la considerazione che Hobbes ha degli uomini che riduce sostanzialmente a macchine istintive e asociali non dovrebbe esserci, a rigore, alcuna possibilità di uscire da uno stato in cui, per usare una celebre espressione hobbesiana, homo homini lupus. In realtà gli uomini hanno interesse ad uscire da questa condizione perché desiderano la pace e temono la morte: il diritto di natura va letto, dunque, come istinto di conservazione. Infatti "la legge di natura non vige nello stato di natura, ed è dettata dalla ragione al servizio della natura egoistica ed utilitaristica dell'uomo" : si tratta, né più e né meno, di un precetto della ragione che vieta all'uomo di agire in un modo che risulti nocivo alla sua stessa vita o che lo privi dei mezzi per conservarla.

Il passaggio mediato attraverso il patto[5] dallo stato di natura allo stato sociale affonda le sue radici, dunque, nella naturale mancanza di socievolezza dell'uomo. Il patto si fonda sulla relazione tra la protezione da una parte e l'obbedienza dall'altra e costituisce "la pietra angolare dello Stato architettato da Hobbes"[6]. Questa considerazione individua il nocciolo della dottrina politica hobbesiana, per la quale appunto "la condizione della natura umana e le leggi divine ( sia naturali che positive ) richiedono un'osservanza inviolabile della mutua relazione tra protezione e obbedienza" . Una relazione, questa, che si fonda su "due postulati certissimi della natura umana, uno del desiderio naturale, per cui ciascuno esige l'uso esclusivo delle cose comuni, e il secondo della ragione naturale per cui ciascuno si sforza di sfuggire alla morte violenta come al sommo dei mali naturali" .

La lex naturalis scandisce il passaggio dallo ius naturale al pactum unionis/subiectionis; Hobbes non dimentica perciò il carattere formale della ragione e il valore 'condizionale' delle verità grazie ad essa acquisite: nello stato di natura esse sono ridotte a criteri di condotta inferiti proprio dal principio di autoconservazione personale.

La vita personale è, infatti, per Hobbes, il bene più prezioso, tanto che ciascuno è portatore dell'inalienabile diritto naturale di resistenza nei confronti di chiunque voglia attentarvi. Nella fase in cui non c'è un potere sopraindividuale, la sola protezione che l'uomo può esibire è il diritto di farsi giustizia da sé, di "ricorrere a tutti i mezzi e compiere tutte le azioni, senza cui non può conservarsi"[9]. Di qui, perciò, discende il pericoloso diritto naturale di tutti a tutto: nello stato di natura il singolo è autocompetente, cioè giudice ultimo di tutto ciò che lo riguarda e onnipotente, nel senso che il diritto si estende quanto la sua potenza e non ha altri limiti se non quelli intrinseci ad essa.

E' evidente che il diritto naturale finirebbe con l'essere illimitato se tutti gli uomini fossero buoni o, almeno, inclini alla pace, "non ci sarebbe allora, né sarebbe affatto necessario che ci fosse alcun governo civile o Stato, perché ci sarebbe la pace senza la soggezione"[10]. Come si è visto, le cose per Hobbes non stanno così: egli è infatti convinto che "l'indole naturale degli uomini è tale che, se non vengono trattenuti dal timore di una potenza comune, diffidano l'uno dell'altro, e si temono a vicenda; e che, potendo legittimamente provvedere a se stessi con la propria forza, ne hanno necessariamente la volontà" . Ma lo ius naturale, conseguenza del diritto inalienabile all'autodifesa e alla conservazione della vita personale finisce con il contraddire le sue premesse: invece che irrobustire la certezza all'autoconservazione, produce proprio la guerra di tutti contro tutti. Come scrive Hobbes: "non è stato affatto utile agli uomini l'aver avuto un simile diritto comune su tutte le cose. Infatti l'effetto di questo diritto è quasi lo stesso che se non esistesse alcun diritto" e, dunque, "chiunque pensa che si debba rimanere nello stato in cui tutto è lecito a tutti, contraddice se stesso" .

Soltanto con l'abbandono dello stato di natura, con la stipulazione del contratto, per dirla con le parole di Schmitt "tutti [.] trovano assicurata la propria esistenza fisica; qui regnano pace sicurezza e ordine"[13].

Le società umane, infatti, non potrebbero essere né pacificate né durare se non fossero rette col terrore ( "gli uomini si sottomettono a colui di cui hanno paura"[14] ) di un potere comune istituito da un patto che si fonda sulla relazione protezione/obbedienza: la seconda durerà finché sarà assicurata la prima ( "l'obbligo dei sudditi verso il sovrano s'intende che dura fino a che dura il potere, per il quale esso è in grado di proteggerli e non più lungo, poiché il diritto che gli uomini hanno per natura di proteggere se stessi, quando nessun altro può proteggerli, non può essere abbandonato con nessun patto [.]. Il fine dell'obbedienza è la protezione" ).

Pur di essere protetto, l'uomo si fa suddito e accetta volontariamente la servitù[16]: con la contrazione dello ius naturale si passa da un originario individualismo alla costituzione di una persona artificiale il cui potere è irresistibile sul piano socio politico. "Sebbene si possano immaginare molte cattive conseguenze da un potere così illimitato scrive Hobbes pure le conseguenze della mancanza di esso, la guerra di ognuno contro il suo vicino, sono di gran lunga peggiori"[17].

Nasce così lo Stato, l'esempio perfetto dello Stato assoluto, il "Dio mortale"[18] che non può essere indebolito da nessuna autorità spirituale in quanto esso è ad un tempo "ecclesiastico e civile". Hobbes, infatti, non può certo tollerare l'esistenza, accanto ad un potere così forte, di una Chiesa che tenti in qualche modo di limitarne il suo carattere assoluto.

La polemica con Bellarmino, contro cui sostiene la necessità che il potere della Chiesa dipenda interamente dal potere legale, dimostra, per Schmitt, come egli non possa considerarsi un sostenitore del totalitarismo anticristiano. Infatti, più che un mistificatore che utilizza religione e cristianesimo piegandoli ai suoi fini totalitari, Hobbes è da considerarsi l'antesignano del moderno positivismo giuridico e il più fulgido esempio della progressiva scristianizzazione della politica.

L'aspirazione di Schmitt di essere l'Hobbes del nuovo assolutismo riesce a peggiorare in senso autoritario la già drastica posizione del filosofo inglese.

La riflessione politica hobbesiana prende l'avvio, come abbiamo osservato, da premesse ed esigenze individualistiche destinate ad essere poi abbandonate, fatte salve le riserve del foro interno[19] e alla legittima difesa dell'autoconservazione.

Anche per Schmitt l'individualismo ( che egli semplicisticamente identifica con il liberalismo ) non è in grado di contribuire alla costruzione di un'idea veramente politica, infatti, "un individualismo che dà il potere di disporre sulla vita fisica dell'individuo ad un altro che non sia l'individuo stesso, sarebbe senza senso allo stesso modo di una libertà liberale nella quale fosse un altro, diverso dal titolare stesso della libertà, a decidere sul contenuto e sulla misura di quest'ultima" .

In ogni individualismo, infatti, è sempre presente la negazione del 'politico' da cui discende "una prassi politica della sfiducia nei confronti di tutte le forze politiche e le forme di Stato pensabili, ma mai una propria teoria positiva dello Stato e della politica"[21].

Non c'è da meravigliarsi: abbiamo già avuto modo di osservare come Schmitt conosca solo la logica del gruppo come "unità politica" che si autodetermina assumendosi la competenza a decidere sulla propria identità come raggruppamento di amici contrapposto ai nemici.

"La sostanza del politico scrive Schmitt non è l'inimicizia pura e semplice bensì il potere di distinguere tra fra amico e nemico e presupporre sia l'amico sia il nemico"[22]. Per comprendere appieno la struttura di questa "unità politica" va precisato che per Schmitt "il protego ergo obligo è il cogito ergo sum dello Stato" : dunque "la relazione fra protezione e obbedienza è decisiva per comprendere le idee politiche di Schmitt" .

L'unità politica, nel caso in cui si venga a scoprire che al suo interno non ci sono soltanto amici, si trasforma in un'unità poliziesca che usa qualunque mezzo pur di riportare l'ordine dell'omogeneità.

A tal proposito vale la pena di ricordare che, per Schmitt, "tutti i concetti, le espressioni e i termini politici hanno un senso polemico"[25], anche l'atto di costituzione dello Stato è, dunque, polemico per eccellenza. "Per Hobbes scrive Schmitt la decisione sovrana è la dittatura statale, creatrice di legge e di ordinamento, nella e sulla insicurezza anarchica di uno stato di natura pre e sub statale"[26]: questa dittatura viene esercitata dal sovrano protettore sia all'esterno, nei confronti del nemico che necessariamente deve esistere, sia all'interno, sui sudditi obbedienti.

La relazione protezione obbedienza[27] diviene, dunque, la pietra angolare anche della teoria giuridico politica di Schmitt, oltre che di quella hobbesiana e segna un'importante analogia tra i due pensatori.

Se, infatti, la decisione politica fondamentale del titolare del potere costituente si esplica, come abbiamo già avuto modo di osservare, nel caso d'eccezione, può accadere che essa sia necessaria per il superamento di una situazione di pericolo in cui venga a trovarsi l'unità politica. Ritorna qui, a giustificazione della decisione l'argomento hobbesiano dell' autoconservazione: infatti Schmitt scrive che "nel caso d'eccezione lo Stato sospende il diritto, in virtù, come si dice, di un diritto di autoconservazione"[28].

Il diritto di autoconservazione schmittiano e quello di legittima difesa hobbesiano finiscono con l'essere la stessa cosa, leggendo La dittatura, infatti, se ne ha una prova: "l'essenza del diritto di legittima difesa consiste nel fatto che l'azione coincide anche con il giudizio sulle condizioni, non essendo possibile creare un'istanza che esamini in sede giudiziaria, prima dell'esercizio di quel diritto, se effettivamente esistano le condizioni della legittima difesa; allo stesso modo, quando si verifica un vero e proprio caso di necessità, chi compie l'intervento non può essere distinto da chi giudica se si tratti effettivamente di uno stato di necessità"[29]. Se è vero che la decisione non ha fondamenti ( meno che mai normativi ) non si può sottovalutarne la valenza di estrema ( se necessario, violenta ) difesa. Hobbes lascia emergere nella sua opera il cono d'ombra non razionale che è all'origine della sua costruzione politica razionale. Se questa è esplicitamente l'esito di un patto tra individui atomizzati che però sono dotati di razionalità ( di quella razionalità che spinge alla legittima difesa, quindi, alla ricerca della sicurezza ) nondimeno Hobbes, contro la logica del patto, riconosce al sovrano la capacità di mettere giustamente a morte il cittadino, se da quest'atto dipende il fine per cui è stata ordinata la sovranità. Il che è, in buona sostanza, una definizione di sovranità: quando si verifica un caso di ostilità interna allo Stato, lo stesso può difendersi arrivando a mettere a morte il nemico interno.


2. La morte del Leviatano

L'Hobbes de La dittatura e della Teologia politica è un pensatore che riesce ad inaugurare la modernità in quanto capace di coglierne i due aspetti salienti.

Da una parte c'è la scientificità dell'ordine, dall'altra il suo contingente dipendere da una decisione personale. Schmitt, come si è sottolineato più volte, riprende il motto hobbesiano secondo cui "auctoritas non veritas facit legem" per dimostrare come "il rappresentante classico ( del pensiero decisionistico ) è Hobbes" . Il pensatore inglese, per Schmitt, ha anche portato un argomento decisivo riguardo al nesso esistente tra il proprio decisionismo e il personalismo e che verifica tutti i tentativi di sostituire alla concreta sovranità dello Stato un ordinamento avente validità astratta.

All'affermazione secondo cui il potere statale debba essere sottoposto a quello spirituale poiché quest'ultimo costituisce un ordinamento superiore, Hobbes risponde criticando il ragionamento che sottende l'affermazione: dire che un potere deve essere sottoposto ad un altro significa soltanto che la persona che esercita il primo deve essere sottoposta a quella del che esercita il secondo. "Ciò che gli è incomprensibile scrive Schmitt riferendosi ad Hobbes è che si parli di sopra ordinato e sub ordinato preoccupandosi però nello stesso tempo di rimanere sul piano astratto [.], ( Hobbes ) illustra ciò con una di quelle metafore che lui solo sa portare così convincentemente, nella sconcertante crudezza della sua sana comprensione degli uomini: un potere o un ordinamento può essere subordinato ad un altro allo stesso modo in cui l'arte del sellaio è subordinata a quella del cavaliere"[31].

L'Hobbes di questa interpretazione è tutto decisionista, personalista, il suo pensiero è per questo concreto: egli da giurista vuole descrivere, per Schmitt, la realtà effettiva della vita sociale nella stessa misura in cui, come filosofo e scienziato naturale, si occupava della realtà della natura. La concretezza di Hobbes ha la grande capacità di realizzare l'unità politica. Il Leviatano è, almeno in potenza, una neutralizzazione attiva poiché pone fine alle guerre civili di religione e crea l'unita politico religiosa che sottrae alle sette protestanti il monopolio delle decisioni su verità, eresia, e persino sul miracolo. "Hobbes il grande decisionista scrive Schmitt esegue anche in questo caso la tipica svolta decisionista: 'auctoritas non veritas facit legem'. Nulla qui è vero: qui tutto è comando. E' miracolo ciò che il potere sovrano dello Stato comanda che si creda come miracolo; ma vale anche il contrario [.]: i miracoli cessano quando lo Stato li vieta"[32]. Nel suo Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes, Schmitt, pur con tutte le riserve sull'esito storico del pensiero hobbesiano, vede nel Leviatano di Hobbes la possibilità di forma concreta perché è un'entità polimorfa: Dio mortale, grande uomo, animale mitico e macchina razionale. L'unità concreta è appunto il coesistere non pacificato di queste quattro dimensioni. Il Leviatano, per questo, non è solo il frutto di un calcolo razionale ma si apre sulla natura e sull'artificio, sull'abisso del mito e sulla trascendenza ed è capace di decidere e di rappresentare grazie al sovrano. Nella prima parte del saggio Schmitt si sofferma lungamente sull'analisi dell'elemento mitico e del suo fallimento come simbolo politico. Ciò sarebbe stato dovuto alla origine biblica del mostro: i nemici teologici di Hobbes hanno operato una distorsione simbolica che ha finito col trasformare l'immagine originaria in un animale mostruoso, simbolo di empietà e persecuzione, e col deformare l'interpretazione del testo . Hobbes, però, non fece imprimere sul frontespizio del suo libro un'immagine mostruosa o che potesse suscitare un timore violento ma solo quella di un "uomo grande e maestoso" perché, secondo Schmitt, la sua idea di Stato non aveva nulla di mostruoso. Ma più che nella dimensione mitica, il Leviatano di Hobbes rivela per Schmitt la sua 'concretezza' nella scissione fra il suo essere macchina e persona. Hobbes, infatti, da una parte pensa ad una costruzione giuridica e razionale dell'ordine, dall'altra però lascia la sua struttura aperta ad un che di irrazionale: la sovranità rappresentativa personale non è in realtà di origine pattizia, né si esaurisce nella protezione della vita del singolo ma è trascendente rispetto ai contraenti.

Lo scarto tra la situazione di partenza, estremamente individualistica, e il punto di arrivo, l'ordine, è colmato dalla decisione sovrana: è infatti la persona del sovrano che, rappresentandola, crea l'unità politica.

Hobbes, in quest'interpretazione, è l'autore in cui la struttura rappresentativa della forma politica si dispiega con maggiore evidenza: il rappresentante, il sovrano, è quello che crea il rappresentato che, prima di allora semplicemente non esiste. Il rappresentante, a sua volta, non è dedotto dal patto tra consociati ma è creato solo in occasione di questo: la sovranità, come il decisionismo insegna, conserva sempre un'ulteriorità, un momento di 'trascendenza' laica, rispetto a ciò che, grazie alla sua azione, viene ad esistere.

"La persona sovrano rappresentativa scrive Schmitt che si origina oltre e al di là di questo patto sociale e che è l'esclusiva garante della pace, non viene a costituirsi attraverso l'accordo, ma soltanto in occasione di esso, ed incomparabilmente superiore a quanto potrebbe operare la forza sommata di tutte le volontà individuali separate"[35]. Ma Schmitt non può ignorare il fatto che la struttura polimorfa del Leviatano di Hobbes è, per sua stessa origine, destinata ad una inesorabile deriva passiva dovuta al prevalere della dimensione scientifica di macchina tecnico razionale che assorbe e neutralizza il tanto esaltato elemento personalistico.

Il Leviatano diventa così interamente macchina, questa tecnicizzazione però e Schmitt non manca di sottolinearlo è iscritta nelle sue logiche originarie, nella sua pretesa di creare una forma perfetta, razionale, calcolabile. Da questo punto in poi la deriva passiva diventa inarrestabile: da questa macchina, apparentemente onnipotente, si svilupperà in seguito la passività dello Stato di diritto con le sue leggi, impersonali ed i suoi esiti giuspositivistici. In questa ricostruzione Schmitt è costretto ad ammettere che proprio il 'suo' Hobbes, l'Hobbes decisionista e personalista, è anche il padre del moderno Stato di diritto.

Di fondamentale importanza è, a questo punto, chiarire cosa intenda Schmitt quando parla di neutralità passiva rispetto alla nascita dello Stato di diritto: "la 'neutralità' chiarisce Schmitt è qui soltanto una funzione di realizzazione della tecnica amministrativa statuale"[36]. Il valore dello Stato neutrale, la sua verità e la sua giustizia stanno solo nella perfezione della tecnica, "tutte le altre idee di verità e di giustizia sono assorbite dalla decisione del comando legale" . Di grande interesse è, a questo punto, la riserva introdotta da Hobbes per assicurare ai comandi del sovrano il valore di leggi formali e neutrali, la riserva della libertà privata ed interiore di pensiero e di fede. In questo spazio interiore, privato, lasciato libero dalla hobbesiana ragione pubblica, Schmitt vede 'il grande punto d'irruzione del liberalismo'. Ma il suo discorso appare, a questo punto, inaccettabile. Con una ricostruzione strumentale ed intellettualmente disonesta, egli addossa ai pensatori ebrei, Spinoza in primo luogo, la colpa di aver fatto leva sulla riserva interiore per distruggere la compagine statuale, proclamando la libertà di critica, la superiorità dell'interno sull'esterno, sino al punto in cui "per quanto disparate, per quanto naturalmente diverse l'una dall'altra, logge massoniche, conventicole, sinagoghe e circoli letterari, già nel XVIII secolo si incontrano tutte, quanto al risultato politico, nell'ostilità contro il Leviatano elevato al simbolo dello Stato" .

Spinoza, il 'filosofo ebreo', come specifica uno Schmitt palesemente antisemita[39], pur dipendendo il suo pensiero da quello di Hobbes, compie, rispetto allo stesso, un ulteriore passo in avanti: "ora, in Spinoza, la libertà di pensiero individuale si rovescia in principio informativo, mentre le esigenze della pace pubblica, così come il diritto del potere statale sovrano, si trasformano in semplici riserve" .

In una situazione siffatta in cui la distinzione tra fede interiore e confessione esteriore si schiude irresistibilmente e diventa una convinzione prevalentemente egemonica portando con sé la libertà di pensare, di sentire, di esprimere opinioni lo stato assoluto risulterà depotenziato in quanto potrà ancora pretendere tutto ma solo esteriormente.

Non meraviglia il tono di Schmitt: la sua visione del 'politico', essenzialmente orientato alla lotta alla diversità, che vuole preservare la preziosa omogeneità dell'unità politica, non può postulare il popolo come un insieme di individui ragionanti ma, più semplicisticamente, come una sorta di corpo mistico traversato da fremiti istintuali ed emotivi che è solo capace di "acclamare" il suo capo. Il potere politico, allora, sarà rassicurato soltanto quando giungerà a controllare ogni aspetto della vita dei sudditi, quando nulla gli sfuggirà, quando, gettata la maschera paternalistica, si sedimenterà in un regime totalitario. La sua critica al liberalismo, al dualismo di Stato e società libera , la sua riflessione su questo 'pericoloso' dualismo, ci fornisce la possibilità di chiarire un punto di estremo interesse: il fatto che allo Stato, nella sua ricostruzione, venga sottratta anche la sfera privata e consegnata ai poteri 'liberi' ( nella terminologia di Schmitt, 'incontrollati' ed 'invisibili' ) non può che essere visto negativamente. Ne Il Leviatano leggiamo che "appartiene all'essenza di un potere indiretto offuscare la inequivoca convergenza di comando statale e rischio politico, di potere e responsabilità, di protezione ed obbedienza: così, grazie all'irresponsabilità di un dominio soltanto indiretto ma non per questo meno intenso , si ottengono tutti i vantaggi del potere politico e se ne evitano i rischi"[42].

Anche questa considerazione risulta essere di estrema importanza per valutare, in rapporto ad Hobbes, la vera essenza del potere per Schmitt: il potere statale, sembra affermare implicitamente il politologo tedesco, è autoritario perché è necessario che sia così, solo in questo modo, infatti, esso garantisce la protezione che i sudditi si aspettano in cambio della loro obbedienza.

Un dominio siffatto, totale e 'forte', però, presuppone da parte di chi lo esercita, una piena assunzione di responsabilità che si manifesta infatti nella capacità di decidere del sovrano.

I rapporti protezione/obbedienza e dominio/responsabilità sono, a suo avviso, necessari all'esistenza stessa dello Stato. Con il liberalismo, invece, la situazione è completamente stravolta: il dominio resta e non meno intenso ed è un dominio irresponsabile perché mascherato dal suo essere indiretto.

Le stesse istituzioni e concetti del liberalismo, su cui si fonda lo Stato di diritto, divengono armi e posizioni di potere per potenze supremamente illiberali. Le espressioni utilizzate da Schmitt divengono, nelle ultime pagine del saggio, ancora più apocalittiche: colpisce soprattutto l'immagine delle innumerevoli organizzazioni politiche che, come coltelli delle potenze antindividualiste, macellano il Leviatano agonizzante, spartendosene le carni. "Così conclude Schmitt è morto per la seconda volta"[43].






3. Hobbes 'cristiano' e decisionista

L'interpretazione schmittiana di Hobbes, registra, con il saggio del 1965, Il Compimento della Riforma, un orientamento completamente diverso da quello fin qui analizzato.

Il fine di Schmitt ora non è quello di rivalutarne il decisionismo in quanto tale ma di sottolineare, una volta di più, la concretezza del pensatore di Malmesbury, che ne fa un esempio di grandezza e consapevolezza politica.

Il fatto che Schmitt riveda il proprio Hobbes decisionista in un Hobbes teologo politico non è in realtà una contraddizione: egli vuole solo sottolineare come la sovranità decisionista hobbesiana esibisca anche una possibile concretezza originaria, una consapevolezza teologico politica delle strutture originarie della politica moderna. Il Compimento della Riforma rappresenta, in tal senso, l'ultimo grande confronto con Hobbes e, al contempo, un'altra occasione per investigare ancora sull'origine della politica moderna.

Il saggio prende l'avvio dalla contrapposizione di due studi, pubblicati in quel periodo su Hobbes, che corrispondono a due diverse impostazioni: l'uno a quella 'cristiana', l'altro a quella 'atea'. Schmitt sembra da subito più vicino alla prima e, nel corso del suo scritto, ciò si palesa ancor più: il suo intento sembra essere, in una prima fase, quello di confutare la tesi secondo la quale Hobbes sarebbe soltanto il cinico mascheratore di un totalitarismo anticristiano. Ciò non ci meraviglia più di tanto, visto che anche nei suoi lavori precedenti Schmitt esclude vivacemente che Hobbes sia un pensatore della totalità[44]. Nel saggio del '38 egli chiarisce che l'interpretazione secondo la quale Hobbes sarebbe il fautore del totalitarismo, nel senso occidentale del termine, è profondamente scorretta in quanto trae da Hobbes solo gli aspetti della costruzione logica e che alla dialettica di tale logica si affida, senza considerare la "ratio" pratica e concreta che sottende il suo pensiero.

Diversamente da quanto affermato nel saggio del '38, in cui veniva giudicato inadeguato, l'elemento mitico del Leviatano appare come una cosciente appropriazione polemica, da parte di Hobbes, dell'immagine mostruosa del corpus unum dei malvagi che Giovanni di Salisbury contrapponeva, nel suo Policraticus, alla Chiesa di Roma.

Hobbes non avrebbe sbagliato simbolo, nello scegliere il Leviatano, perché sarebbe stato guidato da un coerente spirito antiromano. L'anticattolicesimo di Hobbes viene sottolineato favorevolmente da Schmitt perché esso non è rivolto contro la Chiesa e la sua capacità di creare una forma attraverso la complexio oppositorum ma alla Chiesa come potestas indirecta. Si badi, il suo anticattolicesimo non cozza contro l'interpretazione 'cristiana' di Hobbes che l'ultimo Schmitt propone. Per comprendere questa nuova impostazione è necessario fare riferimento alla seconda rettifica interpretativa di Schmitt che, infatti, nel saggio in questione, afferma che in realtà Hobbes non è un liberale, né un tecnocrate, né un funzionalista, ma, e soltanto involontariamente, un positivista giuridico.

La sua riflessione politica non si conclude in una neutralizzazione passiva ( conclusione a cui era giunto già nel saggio del '38 ) perché l'ordine a cui egli tende è caratterizzato dalla 'concretezza' che nasce dal suo sapere epocale, teologico politico. In sostanza, per Schmitt, il fatto che il pensiero di Hobbes affondi le sue radici nelle guerre di religione ( che inaugurano la modernità ) non è un caso: è dal proprio consapevole rapporto con le guerre di religione, infatti, che la decisione sovrana cioè la sedimentazione del dogma 'Gesù è Cristo' nel suo valore politico ( che genera neutralizzazione attiva ) e non salvifico è resa tecnica, ma, allo stesso tempo, concretamente ordinativa.

L'Hobbes di Schmitt, infatti, risulta essere sempre più convinto, visto l'esito drammatico della Riforma, che si debba procedere non ad una restaurazione del vecchio ordine ma al compimento della Riforma stessa.

Hobbes, così, prende atto dell'orizzonte conflittuale in cui nasce e si sviluppa la modernità e, soprattutto, dell'infondatezza della politica.

E' di fondamentale importanza, per lui, che si decida su chi sia l'interprete sovrano delle Scritture in generale e, in particolare, del nesso tra religione e politica. Fatte queste premesse, la formula sovrana che neutralizza attivamente il conflitto 'Gesù è Cristo' non implica una fondazione teologica del potere politico ma, semplicemente, dà ad Hobbes la misura della dipendenza della propria scienza politica dall'eccezionale crisi dell'Occidente cristiano.

Questo cristianesimo, dunque, è la consapevolezza dell'origine della politica moderna, ovvero del fatto che la sfida politica da risolvere è una guerra civile interna alla Cristianità.

Quando, nell'esaminare il 'cristallo di Hobbes' egli parla di 'apertura alla trascendenza' ciò non significa che colleghi in qualche modo Dio alla politica ma, piuttosto, che vede la politica fondata sull'assenza di Dio, un'assenza che, nello stesso tempo, spinge a realizzare, artificialmente in terra, la Sua parola che si sedimenta in una legge che impone di vivere in pace.

La 'modernità' di Hobbes consiste nel riconoscere che la politica si fonda quindi sull'assenza di Dio e sulla sua nostalgia, nell'assumere l'ordine come fondato su questa assenza e per questo incompiuto.

Tuttavia, il pensatore di Malmesbury si sforza di evitare o di frenare questa tendenza a realizzare il pieno compimento della forma politica in una chiusa ed inerte tautologia razionalistica.

Il processo, però, è irreversibile e accelerato dall'oblio dell'origine teologico politica del Moderno.

Il discorso teologico di Hobbes è legato per questo a doppio filo con quello decisionistico: la sovranità decisionistica è allora essa stessa non esclusivamente meccanicistica, ma, piuttosto, un brano della teologia politica.

La decisione non è solo un utilizzo strumentale della religione, ma, soprattutto, monopolio dell'interpretazione ( quis judicabit? ), è l'unico modo di fare chiarezza, superata la confusione che è all'origine del Moderno. Dato che il contrasto tra il potere spirituale e quello temporale è pur sempre di natura politica e che l'autorità spirituale era quella che, con o senza metodi indiretti, era la sola abilitata alla decisione, Hobbes assegna allo Stato il compito di capovolgere il "monopolio della decisionale della Chiesa cattolica" con un "antitesi statale" che rappresenta "l'espressione del Compimento della Riforma"[45].

L'utilizzo del potere decisionale in Hobbes nasce dalla consapevolezza che le classiche soluzioni del problema politico moderno sono inadeguate e finiscono solo con l'aggirarlo: Schmitt apprezza di Hobbes lo sforzo di creare una forma politica che sia in grado di frenare, anche grazie alla consapevolezza della propria origine, le contraddizioni del Moderno e possa esibire legalità e legittimità.

Se la politica di Hobbes nasce, come si è detto, dall'assenza del fondamento trascendente della politica, è possibile evidenziare un altro importante punto di contatto tra lui e Schmitt: entrambi consapevoli della mancanza di Dio provano a creare un ordine politico.

Si noti come nel saggio del '65 Schmitt sottolinei più volte l'importanza della tematica del sovrano che interpreta, perché il problema è "chi sia la persona che decide sovranamente in ultima istanza"[46].

L'interpretazione è la vera forma della sicurezza, mentre quest'ultima con la sua pretesa di una felicità 'astratta' prefigura il proprio esito nella perdita di differenze propria del panorama della terra 'elettrificata'.

L'interpretazione costituisce adesso l'unico freno allo scivolamento automatico dello Stato macchina e viene applicata alla ricerca di un ordine che cancelli unilateralmente le differenze logiche dello Stato.

In questo senso come atto di concretezza l'interpretazione pertiene al dominio ideologico politico, specificato nel 'cristallo'.

Il Leviatano è, ragionando in questo senso, un vero e proprio trattato di teologia politica, la prefigurazione scientifica di un regno artificiale e provvisorio, quale solo è possibile in questo 'tempo dell'attesa' che è la storia dell'umanità da Saul in poi.

Quella di Hobbes non è l'adorazione del Principe di questo mondo, di un idolo che si contrappone alla divinità ma rappresenta il sottrarre alla Chiesa cattolica, oltre che all'arbitrio privato, il monopolio dell'interpretazione, ed è, contemporaneamente, la consapevolezza della necessità che lo Stato moderno si strutturi in modo analogo alla Chiesa che, in passato, era capace di creare una forma.

L'unione fra gli uomini non avverrà più attraverso l'istituzione ecclesiastica ma attraverso il suo sostituto politico, lo Stato.

Ma Hobbes, pur essendo il fautore, per Schmitt, del moderno positivismo giuridico, "poiché apparteneva a un popolo cristiano conservò, da quel 'vir probus' che era, la fede cristiana"[47], ragion per cui sia gli illuministi che i credenti ortodossi, non comprendendone la complessità, lo liquidano come un "ipocrita e mentitore" . La posizione di Hobbes si presenta, quindi, emblematica, diviene una sorta di modello da riprendere perché rappresenta un eccezionale punto di equilibrio: quel momento di costituzione del Moderno, in cui però non sono ancora implicate quelle conseguenze che, attraverso la secolarizzazione e sdivinizzazione, conducono all'universo della tecnica.

"La posizione di Schmitt, a sua volta, è caratterizzata come una critica del Moderno in cui il riferimento al trascendente muove dal punto di vista dell'immanenza, ovvero dall'ottica di un orientamento alla concretezza"[49]: il loro rapporto può, per questo, considerarsi genealogico.

"Anche se quello di Schmitt non è certo il vero Hobbes ( come non è vero il suo Spinoza ), quanto piuttosto un pretesto per riflettere sullo Stato e sulla politica, siamo di fronte ad un Hobbes non manifestamente improbabile, anche se molto modernizzato ed elevato a paradigma della modernità"[50].

Ma anche se l'Hobbes di Schmitt è un Hobbes più attuale di quello solo meccanicistico o solo individualista o solo teorico della razionalità strategica, resta tuttavia un Hobbes dimezzato: in lui questo non può essere ignorato non c'è più traccia in positivo di quel ruolo centrale, anche se non originario, che all'individuo spetta nel suo pensiero politico, per di più, mentre la sovranità di Hobbes è soprattutto istituzionalizzata e costruttiva, quella di Schmitt è invece una funzione dell'indeterminatezza.

L'elemento di eccezione presente nella costruzione leviatanica è marginale rispetto al forte momento ordinativo e normativo del pensiero di Hobbes, mentre, come abbiamo già avuto modo di osservare, in Schmitt l'eccezione domina la norma.

Ma a Schmitt, nonostante l'attenzione alla sua 'cristianità' degli ultimi scritti, interessa soprattutto il decisionismo hobbesiano , da cui il politologo tedesco fa ricavare il proprio: Hobbes ha compreso, per Schmitt, che essendo lo Stato "una guerra civile continuamente impedita da un grande potere" è necessario perché Behemoth sia scacciato, che il soggetto sovrano, il principe artista eroe della tecnica politica, goda di una piena autonomia nella gestione di questo grande potere nel decidere il cosa, il come, il perché.

Il suo dispotismo meccanico ritiene infatti che "scelta, discrezione e libertà" possano sussistere "solo in alto, solamente nella persona del principe"[53]che diviene signore e padrone dei suoi sudditi.

In cambio della protezione egli godrà di una incondizionata obbedienza che gli consentirà di rafforzare ulteriormente il suo potere. Si crea così la forzata identificazione tra sovranità astratta e governo di fatto, ogni opposizione ( anche legittima ) dovrà essere sedata per il bene dello Stato, la forza e la violenza finiranno con l'identificarsi con il potere perché, "gli uomini si sottomettono a colui di cui hanno paura"[54].

Diversamente da Schmitt, dunque, che si scaglia contro chi ha voluto vedere di Hobbes solo l'aspetto autoritario[55], non ci meravigliamo se egli è stato considerato come il fautore della tirannide, vero momento forte del potere.

La Arendt arriva addirittura ad affermare polemicamente che egli voglia "semplicemente giustificare la tirannide, che pur avendo imperato molte volte nella storia dell'occidente non vi è mai stata onorata con una dottrina filosofica"[56]. Ma uno Stato siffatto, in cui i cittadini sono ridotti a sudditi e si tende ad appiattire le pericolose differenze attraverso metodi coercitivi per garantire una stabilità fittizia e momentanea ( perché ottenuta con la forza ), in cui è stato realizzato un totale accentramento del potere , si scopre che non vi è altra differenza tra ordine e disordine, tra legittimo sovrano ed effettivo usurpatore se non variazioni dei livelli di 'forza': il Leviatano finisce allora con l'essere anche Behemoth .

E' questo il motivo per cui Matteucci ha definito quella di Hobbes una "teologia rovesciata"[59]: se la teologia politica, infatti, è nostalgia del fondamento trascendente dell'ordine, è nostalgia di Dio, quella di Hobbes ( che intende l'espressione biblica del regno di Dio in senso strettamente politica, per il quale la teologia politica è assenza del trascendente ) la nostalgia laica è quella del 'puro' potere di "comandare, giudicare, punire"[60], insomma di decidere. E' questa radicalità del pensiero hobbesiano che attrae tanto Schmitt, che gli fa considerare Hobbes come suo "maestro".

Dello stesso avviso è un altro grande autore contemporaneo che, pur lontanissimo da Schmitt, come lui, secondo le sue stesse parole, ha inserito il Leviatano nella sua "Bibbia ideale": si tratta di Elias Canetti che, parlando di Hobbes, afferma: "Soltanto pochi dei suoi pensieri mi sembrano giusti [.]. Perché allora mi colpisce tanto la sua rappresentazione? Perché mi compiaccio dei suoi pensieri più falsi, purché siano formulati con sufficiente radicalità? Io credo di aver trovato in lui la radice spirituale di ciò contro cui voglio più di tutto combattere. Fra tutti i pensatori che conosco, è l'unico che non maschera il potere, il suo peso, la sua posizione centrale in ogni comportamento umano; ma neanche lo esalta, lo lascia semplicemente dov'è"[61].



In tal senso risulta orientato l'approccio di A. BIRAL, Schmitt interprete di Hobbes, in La politica oltre lo Stato cit.. , p. 115, secondo cui: "il modello decisionistico non può che cancellare o far fraintendere il ruolo fondamentale che, nel primo Hobbes, svolge la teoria della rappresentanza e della natura essenzialmente rappresentativa del sovrano".

V. infra par. 3.

A. PALUMBO, Il problema dell'autorità assoluta nei modelli neohobbesiani della scelta razionale, in "Teoria politica", 1997, p. 153.

A. SARUBBI, Manuale di storia delle dottrine politiche, Torino, Giappichelli, 1991, p. 270.

Secondo S. VECA, Politica, in "Enc. it. Einaudi", Torino, Einaudi, 1980, vol. X, p. 860, il patto è " il fiat della creazione ".

C. SCHMITT, Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes. Sinn und Fehlschlag eines politischen Simbols, Hohenheim Verlag, Köln Lövenich, 1938; trad. it. a cura di Carlo Galli, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes. Senso e fallimento di un simbolo politico in ID. , Scritti su Thomas Hobbes, Milano, Giuffrè, p.121.

T. HOBBES, Il Leviatano, a cura di G. Micheli, Firenze, La Nuova Italia, 1976, p. 700.

T. HOBBES, De Cive, a cura di T. Magri, Roma Editori Riuniti, 1981, p. 67.

Ibidem; p. 84.

T. HOBBES, Leviatano cit. , p. 165.

T. HOBBES, De Cive cit. , p. 71.

ibidem; pp. 86

C. SCHMITT, Il Leviatano nella dottrina dello Stato cit. , p. 82. "Questa continua Schmitt è notoriamente una definizione della polizia. Stato moderno e moderna polizia sono sorti insieme, e l'istituzione più essenziale di questo Stato di sicurezza è la polizia".

T. HOBBES, Leviatano cit. , p.194.

ibidem; p.216.

Polemicamente E. DE LA BOETIE, Le discours de la servitude volontaire, Paris, Payot, 1976, p.106, si chiede per quale motivo "l'uomo nato libero, rinunci poi volontariamente alla sua libertà e si faccia servo di un tirannello qualsiasi". La risposta di Hobbes è nota: la ragione dell'obbedienza è la protezione. Non si tratta però, data la natura umana e date le malattie che affliggono gli Stati nella loro esistenza storica, di una protezione assoluta.

T. HOBBES, Leviatano cit. , p. 203.

ibidem; p. 167.

V. infra, par. 3.  

C. SCHMITT, Il concetto di 'politico' cit. , p. 157.

ibidem; p. 156.

C. SCHMITT, Theorie des Partisanen. Zwischenbemerkung zum Begriff des Politischen, Berlin, Duncker & Humblot, 1963; trad. it. a cura di A. De Martinis, Teoria del partigiano. Note complementari al concetto di politico, Il Saggiatore, Milano, 1981, p. 73.

C. SCHMITT, Il concetto di 'politico' cit. , p 136.

G. SCHWAB, Carl Schmitt e la sfida dell'eccezione cit. , p. 212.

C. SCHMITT, Il concetto di 'politico' cit. , p. 130.

C.SCHMITT, I tre tipi di pensiero giuridico cit. , p. 264.

Secondo l'interpretazione di A. LAGANA', Riflessioni su Thomas Hobbes, Max Stirner e Carl Schmitt, in Tradizione e Modernità cit. , la relazione protezione obbedienza è il fondamento della decisione. A nostro avviso essa ne rappresenta piuttosto la motivazione.

C. SCHMITT, Teologia politica cit. , p. 39.

C. SCHMITT, Die Diktatur, München Leipzig, Duncker & Humblot, 1921; trad. it. a cura di F. Valentini, La dittatura, Laterza, Roma Bari, 1975, p. 188.

C. SCHMITT, Teologia politica cit. , p. 57.

ibidem; p. 57.

C. SCHMITT, Il Leviatano cit. , p. 103.

Concorda con lui F. RIGOTTI, Rassegna introduttiva sulle metafore storico politiche, in "Annali dell'Istituto storico italo germanico di Trento", XV, 1989, p. 77, secondo il quale: "questo Leviatano è uno dei rari casi in cui persino l'illustrazione del frontespizio contribuisce al destino del testo".

C. SCHMITT, Il Leviatano cit. , p. 74.

ibidem; p. 40. Si noti ciò che evidenzia giustamente R. RACINARO, Interpretazione e decisione in Carl Schmitt, in Tradizione e Modernità cit. ,p. 40: "L'interpretazione che Schmitt dà alla persona sovrano rappresentativa apre una prospettiva attraverso cui, emblematicamente, s'intuisce la struttura dell'interpretazione/decisione. La decisione non può non costituirsi altrimenti che come interpretazione: essa non cade dal nulla nel nulla ma è sempre 'situata'. Ma l'interpretazione, a sua volta, non può costituirsi altrimenti che come decisione, dal momento che non si fonda su nulla di già dato, su nulla di pre esistente. Interpretare non significa affatto applicare le regole di una tecnica già perfetta o dedurre le conseguenze di una realtà già data".

C. SCHMITT, Il Leviatano cit. , p. 94. E' evidente che diversa è la 'neutralizzazione attiva' di cui è capace la decisione efficace.

ibidem; p. 95.

ibidem; pp.111

Così C. GALLI, Genealogia della politica cit. , p. 797.

C. SCHMITT, I L Leviatano cit. , p. 112.

Secondo M. NIGRO, Carl Schmitt e lo Stato amministrativo, in "Riv. Trim. dir. Proc. Civ.", 1986, p. 793, a Schmitt andrebbe comunque riconosciuto il merito di "aver colto con grande anticipo e vera genialità questo processo di fusione di Stato e società nella duplice forma di statalizzazione della società e della socializzazione dello Stato, e riconosciuti come esistenti e diffusi i fenomeni di confusione e di impotenza che lo Stato attuale esibisce, proprio in ragione del pluralismo e del sempre maggiore sviluppo di questo, anche se, in realtà, il pluralismo va visto non come l'antitesi e l'elemento di corruzione dello Stato amministrativo, ma come la correzione dialettica di esso".

C. SCHMITT, Il Leviatano cit. , p. 123.

ibidem; p. 124.

C. GALLI, Introduzione a C. SCHMITT, Scritti su Thomas Hobbes cit. , p.5.

C. SCHMITT, Il Compimento della Riforma cit. , p.182.

ibidem; p. 181.

C. SCHMITT, Il Leviatano cit. , p. 129.

Ibidem.

C. GALLI, Introduzione a Scritti su Thomas Hobbes cit. , p. 26.

ibidem; pp. 27

Di diverso avviso è A. CATANIA, Hobbes e il diritto moderno in "Materiali per una storia della cultura giuridica", 1996, vol. 26, n. 2, p. 271, il quale scrive che: "nell'interprete hobbesiano più dirompente e originale del nostro secolo, Carl Schmitt, gli elementi decisionistici sono ad arte ingigantiti: Hobbes qui in tema di sovranità è certamente un esponente del pensiero decisionista per usare la terminologia schmittiana. Se volessimo tentare un'analisi filosofica del suo pensiero politico generale, probabilmente il suo decisionismo alla fin fine potrebbe risultare molto meno marcato di quanto non traspaia della interpretazione schmittiana".

C. SCHMITT, Il Leviatano cit. , p. 77.

L. MUMFORD, La condizione dell'uomo, Milano, 1967, p. 215.

T. HOBBES, Leviatano cit. , p. 194.

Si noti in proposito che l'appassionata difesa di Hobbes è anche implicitamente la difesa estrema di sé e della propria politologia.

H. ARENDT, Le origini del totalitarismo, (1951); trad. it. Milano, 1967, p. 202.

Ma, secondo N. BOBBIO, Hobbes e le società parziali, in "Rivista di Filosofia", LXXII, (1982), Hobbes non è solo "il teorico dello stato assoluto" ma anche il pensatore che ha offerto, con la sua "concezione atomista" della rappresentanza , qualche spunto per la "democrazia moderna".

Così F. NEUMANN, Behemoth, (1942); trad. it. Milano, !977, p. 21.

N. MATTEUCCI, Alla ricerca dell'ordine politico cit. , p. 131.

T. HOBBES, Leviatano cit. , p. 569.

E. CANETTI, Dic.Provinez des Menschen, Munchen 1973; trad. it. Milano, 1978, p. 158.




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