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"L'Alleanza Inevitabile"
DALLA FINE DELLA STORIA ALLA FINE DEL MONDO
Senza più nemici?
Il 9 novembre del 1989,in Germania ha luogo l'abbattimento del famoso "Muro di Berlino"(costruito nel 1961). Il suo crollo segna l'inizio della fine per il dominio sovietico sopra i popoli dell'Europa centr 747c27h o-orientale. In seguito a tale evento, cadranno tutti i regimi comunisti che tra il 1945 e il 1948 erano stati instaurati da Mosca nelle regioni occupate durante il secondo conflitto mondiale. Nonostante il forte ottimismo dilagante in quel periodo, di lì a poco si dovrà prendere atto che la fine della contrapposizione tra democrazie e regimi comunisti darà l'avvio ad un'altra differente storia. Il crollo dell'Unione Sovietica trasformerà alcune delle sue ex-province in zone franche e basi d'appoggio per il terrorismo fondamentalista, a matrice islamica, che in seguito porterà un attacco mortale nel cuore del mondo. La fine della Guerra Fredda è la fine della storia perché è la fine dello scontro tra due sistemi che erano riusciti ad inglobare tutte le altra fratture al loro interno, e così facendo, si erano illusi di poter integrare il mondo, nel segno della tradizione europea.
L'attenzione ossessiva per il conflitto Est-Ovest non ha consentito di cogliere i pericolosissimi fermenti nascosti che sarebbero sorti poi in altre aree del pianeta. In realtà, la frattura interna al mondo occidentale garantiva tre risultati.
Uno dei motivi della crisi odierna della relazione transatlantica sta proprio nella minor rilevanza che gli U.S.A. attribuiscono all'Europa nella loro strategia globale. Agli occhi degli americani essa ha perso la sua posizione centrale. Oggi si ha sempre più la percezione di essere entrati in una nuova "età dell'incertezza". Si è precipitati alla constatazione di vivere in un pianeta sempre più aspramente diviso da fattori culturali, religiosi ed economici, prima ancora che politici.
Benché l'America abbia saputo combattere con successo il terrorismo, si ha la sensazione che essa stia combattendo priva di una adeguata strategia. Si ha il timore che da una posizione di forte vantaggio essa possa trovarsi in una situazione di forte vulnerabilità.
"Una politica estera che è sia immorale sia non di successo, non è semplicemente stupida, è sempre più pericolosa per coloro che la attuano o la favoriscono"
Gli Stati Uniti oggi si trovano in una situazione di insicurezza diffusa. Ciò è in parte dovuto alla mancanza di una nuova "grand strategy" da parte delle diverse Amministrazioni americano dal 1991 ad oggi.
Uno dei problemi fondamentali attualmente è che le categorie occidentali non sono mai state messe alla prova in un ambito esterno al Nord del mondo. Quando ci si confronta con rivalità od ostilità provenienti dai paesi esterni alla cultura europea, l'unica risposta è sempre stata la guerra. Bisognerebbe lavorare su tale concetto per far sì che la guerra torni a essere una possibile scelta politica e non una necessità di sopravvivenza, la prosecuzione della politica con altri mezzi.
Due sono le caratteristiche inedite del sistema politico internazionale contemporaneo.
Le due paci della guerra fredda
Il secondo conflitto mondiale si è concluso con due intese distinte. La prima, stretta tra Stati Uniti ed Unione Sovietica, è sfociata nel bipolarismo e nella guerra fredda. La seconda, che ha coinvolto l'America, le nazioni dell'Europa occidentale e il Giappone, ha dato vita a un complesso di istituzioni di sicurezza, politiche ed economiche, che hanno creato una "comunità di sicurezza", cioè una area nella quale la guerra come strumento non fosse neppure ipotizzabile. La pace "d'equilibrio Est-Ovest è stata una delle più militarizzate. Mentre la pace egemonica intraoccidentale è stata una delle più istituzionalizzate.
Dopo Desert Storm. L'America potenza senza rivali.
La seconda guerra del Golfo (1990-1991) sembrò sancire che un "nuovo ordine mondiale" fondato sulla sicurezza, la libertà, la giustizia, fosse davvero possibile. Il concatenarsi degli eventi successivi a tale guerra: la schiacciante vittoria degli U.S.A. ed alleati, l'indubbio successo politico che arrise agli Stati Uniti, allora guidati da Gorge Bush, l'uscita di scena di Gorbacev e la ascesa di Eltsin ai vertici della nuova Russia, la fine del comunismo e l'autoscioglimento dell'Unione Sovietica, diede avvio a un'epoca di speranze, di illusioni. La situazione internazionale di quel periodo si presentava ottimale per l'intenzione americana di esportare in tutto il mondo l'insieme dei loro valori culturali, politici ed economici. Peccato che quella coerente direzione del progresso del genere umano verso la liberal-democrazia e la modernità incorpori valori, che in talune concezioni, sono considerati semplicemente disvalori.
NYC,911:guerra asimmetrica e guerra preventiva.
Il sogno americano di un nuovo ordine mondiale crolla insieme alle Twin Towers. Da lì in poi gli S.U. si vedranno costretti a ricorrere ad una nuova strategia di autodifesa, la cosiddetta "dottrina della guerra preventiva", elaborata da Paul Wolfowitz, attualmente segretario di Stato alla Difesa. Il nuovo contesto della sicurezza, molto diverso da quello dell'epoca del bipolarismo, presenta un mondo nel quale il nazionalismo e il fanatismo religioso sostituiscono il comunismo come fonte di pericolo. Gli S.U. devono quindi costruire alleanze ad hoc, per contrastare le minacce, e riuscire a trasformare il proprio status di unica superpotenza militare in una effettiva leadership globale. Anche lo scenario delle minacce cambia. Le minacce odierne sono nascoste, poco chiare, non immediatamente percepibili e altamente rischiose dal punto di vista dell'utilizzo del nucleare o chimico-battereologico. Mutati così radicalmente scenario geopolitica e tipo di minacce, è maturata la necessità di una nuova, diversa dottrina dell'uso della forza. Essa prevede un uso integrato di alta, media e bassa tecnologia, e uno sforzo per rendere più totale, massiccia ed effettiva la proiezione della potenza degli Stati Uniti, che deve essere ricollocata all'interno del territorio nazionale e contare sulle proprie forze anche per il sostegno logistico e per sforzi prolungati. E' venuta quindi ad essere ridotta la rilevanza strategica dei tradizionali alleati e, di conseguenza, la loro capacità di pressione su Washington. L'adozione della dottrina della guerra preventiva è una risposta al nuovo tipo di guerra "asimmetrica" lanciata da Bin Laden e dalla sua organizzazione terroristica.
Due colonnelli dell'Armata Popolare Cinese:
"Gli eserciti professionisti, rispetto a tali avversari, sono giganteschi dinosauri ai quali, in questa nuova era, manca una forza commisurata alle loro dimensioni. I loro avversari, invece, sono roditori dalla straordinaria capacità di sopravvivenza, in grado di usare i loro denti affilati per tormentare la parte migliore del mondo."(1999)
Stati falliti e stati canaglia
Dopo il bipolarismo, a partire dal 1989, assieme al processo di globalizzazione, avanzava parimenti una crescente segmentazione del sistema politico internazionale in una serie di "sistemi secondari" e, soprattutto, sistemi in cui la statualità è spesso solo un elemento di facciata. Sulla scena internazionale comincia ad affacciarsi una serie di clamorosi "buchi neri", quegli stati falliti che non a caso forniscono poi le necessarie riserve in cui il terrorismo fondamentalista transnazionale di matrice islamica può organizzarsi e crescere, indisturbato nell'ombra. La Somalia rappresenta in maniera eclatante uno di questi buchi neri. (In seguito:Burundi, Ruanda, Liberia, Costa d'Avorio, Congo e Zaire).
Lo stesso Afghanistan dei talebani può essere considerato un caso ancora più clamoroso di stato fallito abbandonato per anni al suo destino. Perché:
Si sapeva della guerra civile interna, della guerra mossa alle loro donne; si sapeva che l'Afghanistan era uno dei principali produttori di oppio e cocaina, si sapeva che era una delle centrali ideologiche del fondamentalismo islamico e della jihad militare, si conosceva l'intransigente follia che animava il governo talebano; si sapeva anche che ospitava le basi e la struttura dell'organizzazione terroristica di Bin Laden. Si sapeva tutto di Afghanistan e della minaccia che da anni rappresentava per il mondo intero, ma la risposta a tale problema è giunta troppo, troppo tardiva. Solo dopo quel 11 settembre 2001.
2. FORZA, DIRITTO E ORDINE INTERNAZIONALE
Un mondo, molti sistemi.
Spesso tanti attori partecipano ai diversi sottosistemi e mutano il proprio costume politico adeguandolo alle regole del sottosistema in cui stanno operando. Ma è soprattutto nel caso degli S.U. che la partecipazione ai diversi sottosistemi rende la situazione complessa. Ciò accade sia per il rapporto di natura egemonica che gli S.U. hanno con tutti gli altri attori, sia per la loro sovente partecipazione di carattere militare, sia per il fatto che l'unidirezionalità del medesimo intervento rafforza l'idea che solo alla potenza egemone è consentito allacciare connessioni tra i diversi sottosistemi.
La frammentazione del sistema politico internazionale in più sistemi esplicita alcune caratteristiche dell'ordine internazionale:
Iraqi freedom, ovvero la solitudine dell'egemone.
Il 20 marzo 2003 è partita l'offensiva anglo-americana contro l'Iraq, e il 1° maggio, dopo 43 giorni dall'inizio delle ostilità, il presidente G.Bush l'ha dichiarata ufficialmente finita. La guerra in Iraq segna una novità nel rapporto tra il potere dei media e il potere militare. Non solo il regime di Bagdad ha fatto un sistematico ricorso alla propaganda e alla controinformazione, ma anche la quantità delle notizie comunicate e poi smentite, o sostanzialmente rettificate dai portavoce anglo-americani è a dir poco imbarazzante. La campagna irachena segna, a un tempo, un aumento della potenza americana e una crisi della leadership degli Stati Uniti.
La democrazia si può esportare?
La questione irachena ha fatto emergere la domanda se sia possibile esportare la democrazia con le armi e, soprattutto, se tale operazione sia legittima.
Angelo Panebianco sostiene che, come è avvenuto nel caso del Giappone e della Germania, la "denazificazione", ovvero lo smantellamento della presa del regime sull'apparato burocratico e sulle strutture della società, sia un passaggio necessario, nonostante l'Iraq non abbia ancora i requisiti base per un regime democratico. Tuttavia, conclude Pannebianco, l'imposizione di regole che definiscano l'uguaglianza giuridica tra i cittadini e la progressiva transizione verso una economia di mercato, potrebbero avviare il paese sulla buona strada.
Ralf Dahrendorf svolge considerazioni molto simili. Egli sostiene che il processo di denazificazione sia fondamentale, ma questo deve fare i conti con la memoria e il rapporto del paese con il suo proprio passato. La possibilità di far attecchire una democrazia in Iraq deve passare dall' "instaurazione dello stato di diritto".
Nulla impedisce l'esportazione della democrazia manu militari. Gli effetti benefici del vivere sotto un regime democratico sono talmente evidenti e profondi da consentire di sostenere che il relativismo culturale debba cedere il passo all'universale dignità umana. Senza voler affermare la legittimità di tale atto, bisogna riconoscere che la volontà di democratizzare un nemico faccia la differenza tra guerra e guerra, giacché in tal mondo si fa del nemico vinto "uno come noi". Tale intenzione, per quanto riguarda la questione irachena, è estremamente ambiziosa, perché in tal caso si tratta di portare democrazia, diritti umani, modernizzazione, laicizzazione e parità di genere.
Un altro punto a sfavore della democratizzazione in Iraq, è il fatto che, a differenza del Giappone e della Germania, in cui l'annichilimento delle sorgenti ideologiche del regime abbattuto, li aveva privati di fonti ideologiche alternative, in Iraq esiste già una forte ideologia sostitutiva: il fondamentalismo islamico. Quindi lo specifico caso iracheno deve essere inquadrato nella più ampia questione del rapporto tra democrazia e mondo islamico, la cui malattia è quella di non volersi misurare con il presente in tutta la sua complessità, di pensare che se le cose vanno male, è sempre colpa del nemico:l'Occidente, gli americani o l'entità sionista.
"Senza se senza ma". Il ritorno del pacifismo.
La scelta della guerra da parte degli S.U., che hanno deciso di forzare il passo nella direzione di una conduzione sempre più assertiva e unilaterale della propria politica internazionale, ha attirato su di se l'opposizione di una quota crescente di opinione pubblica. Manifestazioni pacifiche si sono susseguite ovunque - fuori dagli Stati Uniti - assumendo sempre più i toni di manifestazioni antiamericane. Le polemiche si sono alternate tra due fronti opposti, quello del "no alla guerra senza se e senza ma"e quello della "guerra come ultima risorsa disponibile".
Per quanto il movimento pacifista sia stato strumentalizzato per fini politici impropri e per quanto si possano ritenere troppo semplificanti le ricette proposte per evitare la guerra, non si può ignorare la dimensione di massa del fenomeno e il suo dato transnazionale. Il pacifismo ha testimoniato una frattura tra due modi di pensare la politica internazionale. La guerra ha indotto a interrogarsi sulle radici di una spaccatura che sembra riproporre quella che negli anni tra le due guerre mondiali contrappose una concezione legalistica della politica internazionale ad un realismo liberale. Anche allora i sostenitori della "forza del diritto" e quelli del "diritto della forza" erano orientati alla pura testimonianza della propria assoluta ragione, contro ogni ragionevolezza.
E' vero che le democrazie non si fanno reciprocamente la guerra, tendono a limitare il ricorso alla forza e appaiono più propense a esplorare strade negoziali e a ricorrere a forme di arbitrato per la risoluzione pacifica delle controversie, perché è insito in loro il rispetto per la vita umana e la tolleranza. Ma è altrettanto vero che la medesima cosa non vale per i regimi non democratici, i quali sono pronti a ricorrere alla guerra esterna almeno quanto sono disponibili alla guerra interna, alla repressione violenta nei confronti dei propri popoli.
"Il tramonto della sovranità"
La terza guerra del Golfo ha messo in evidenza la pluralità di posizioni circa le caratteristiche che dovranno formare il nuovo ordine nascente. Purtroppo, le Nazioni Unite, cioè l'istituzione che rappresenta per eccellenza il vecchio ordine, è fondata sul principio dell'inviolabile sovranità degli stati nazionali. Ma nel mondo globalizzato odierno questa concezione della sovranità non può più garantire la sovranità di nessun paese, in quanto le stesse forze che promuovono la globalizzazione hanno anche prodotto il terrorismo transnazionale, le catastrofi climatiche e la miseria globale.
La natura apolide e transnazionale dei fenomeni attuali ci porta a ritenere moralmente inaccettabile ciò che l'inviolabile sovranità comporta: il diritto assoluto di ogni governo sovrano di violare i diritti dei propri cittadini.
Alla sovranità assoluta, inesistente ormai da tempo, si è sostituita progressivamente una sovranità "attenuata",che si è sempre rivelata molto versatile ogni qual volta gli S.U. ne hanno fatto uso.
Negli anni successivi alla guerra fredda, si è spesso ricorso al "diritto di intervento", che viene generalmente concepito come il diritto o il dovere, da parte dei soggetti che dominano l'ordine mondiale, di intervenire in altri territori per prevenire e risolvere problemi umanitari, garantendo il rispetto degli accordi e imponendo la pace. Gli interventi, legittimati dal consenso, si attuano in occasione di ogni genere di emergenza e di eccezionalità e sono giustificati dall'appello a valori universali. Proprio sotto l'insegni questa universalità si sono effettuati, nel corso degli anni, interventi che andavano ben oltre la pura urgenza umanitaria.
Dopo l'11 settembre, gli Stati Uniti hanno, da un lato, ridefinito il loro potere come "potere di ultima istanza". In sostanza, pretendono di dare giudizi sovrani su che cosa è giusto o meno o rispetto all'uso della forza, e di esentare se stessi da tutte le regole che proprio loro proclamano ed applicano agli altri. Dall'altro hanno affermato un nuovo principio: la concreta partecipazione alla lotta antiterrorista sostituisce il concetto di sovranità, il quale cessa di costituire il pilastro dell'ordine internazionale.
Il declino della sovranità, che oggi diventa sempre più relativa, deriva dal fatto che essa non sembra di grande utilità, quando non è tra "simili" che si combatte. Nel momento in cui il riconoscimento dell'eguale sovranità di ogni stato non contribuisce più a garantire la sicurezza dello stato egemone, anzi, quando sembra addirittura renderlo più vulnerabile, perché stupirsi che esso ricerchi nuove regole per un nuovo sistema? Il problema per ogni egemone è come riconciliare la realtà del suo dominio con l'utile finzione dell'eguaglianza tra gli stati.
Il rapporto degli Stati Uniti con il mondo è sempre stato determinato dall'irrisolta questione se la propria politica estera dovesse muoversi con modalità rivoluzionarie rispetto alla sovranità o dovesse accrandi ettarla come un vincolo ineliminabile. Non c'è dubbio che l'Amministrazione Bush prediliga la seconda prospettiva. Secondo molti osservatori, la politica estera degli S.U. è guidata da un gruppo di neoconservatori di sinistra, approdati successivamente alla destra. Uno dei loro capisaldi intellettuali è il dovere degli S.U. di esportare democrazia, economia di mercato e libertà in tutto il mondo, anche con l'uso della potenza militare. Questo gruppo è di tradizione wilsoniana, ma non ripone alcuna fiducia nelle istituzioni internazionali e non è a favore di una politica fondata sull'equilibrio. I neoconservatori americani sono contrari ad ogni usurpazione della loro sovranità, ma assolutamente favorevoli all'intervento contro gli altri.
"Cambiare l'ONU per salvare l'ONU"
Riformare radicalmente l'ONU potrebbe costituire l'estremo tentativo di rivitalizzarlo. All'interno dell'ONU convivono due principi:
Con la fine della guerra fredda, il dibattito sulla necessità di riformare l'ONU ha ripreso vigore in direzione di una sua sostanziale democratizzazione e di una sua maggior aderenza alla nuova distribuzione internazionale del potere. In tale dibattito, accanto a chi auspica uno sforzo di "creatività istituzionale e idealismo politico" c'è chi richiama a un più duro realismo, mettendo in luce il fatto che nessuna riforma istituzionale è in grado per sé sola di sostituire la mancanza di accordo politico che oggi regna tra le principali potenze del sistema.
In sostanza, si illude chi spera di poter ridurre per via legalistica-formale il potere sostanziale degli Stati Uniti. Se un tentativo del genere fosse portato avanti, quest'ultimi non potrebbero che trarne le doverose conseguenze, "sfilandosi" in termini sostanziali dall'organizzazione e paralizzandone il Consiglio di Sicurezza con una raffica di veti. Chi ha a cuore la sopravvivenza dell'ONU, farebbe meglio ad abbandonare sia la retorica di maniera sia un idealismo nobile ma astratto.
La novità della crisi irachena non è che l'America ha deciso di agire anche in assenza dell'approvazione formale dell'ONU. L'ha sempre fatto. La novità è rappresentata dal fatto che questa volta la gran parte dei suoi alleati ha deciso di non seguirla. L'America ha agito ugualmente, ma ha agito da sola. E' proprio la rottura di solidarietà politica tra gli stati membri della comunità internazionale a mettere in crisi l'istituzione che tale comunità rappresenta.
Quale che sia la soluzione che si adotterà, è fondamentale fare di tutto perché le Nazioni Unite non muoiano. Se ha fallito nella sua missione impossibile di garantire la pace nel mondo, ha anche collezionato una serie di successi importantissimi.
QUEL CHE RESTA DELL'OCCIDENTE
"Atlantici o europeisti?
La guerra in Iraq ha fatto crescere la sensazione che Stati Uniti ed Europa sempre meno vedano il mondo con gli stessi occhi e condividano la stessa impostazione circa le questioni fondamentali della politica internazionale. Tuttavia se, nonostante l'incrinarsi dei rapporti euro-americani, la comunità di sicurezza transatlantica continua ad esistere, dobbiamo chiederci in che misura l'alleanza permanente tra Europa ed USA goda ancora di buona salute. Per rispondere a questa domanda, occorre guardare alle "tre I" che spiegano le aspettative di pace reciproca tra i membri di una comunità di sicurezza: identità collettiva condivisa, istituzioni in grado di governare la relazione e interdipendenza economica.
In termini di identità condivisa, per quanto riguarda la questione irachena, l'America ha commesso alcuni errori di valutazione circa l'utilizzo della propria potenza. Ha dato per scontato che un'America più potente avrebbe visto il resto del mondo allinearsi sulle sue posizioni. Ha sottovalutato l'importanza delle istituzioni internazionali. Ha sovrastimato la autonomia che la supremazia militare è in grado di offrire.
Certo, europei e americani continuano a condividere una medesima appartenenza occidentale. C riconosciamo in una comune tradizione giudaico-cristiana e nei valori della modernità illuminista, ma il modo in cui tale tradizione e tali valori vengono vissuti e interpretati e radicalmente differente. Abbiamo entrambi solide istituzioni democratiche, ma non condividiamo i modelli altrui di società, di economia e di partecipazione politica. Siamo divisi sulla pena di morte e sul ruolo della forza nella politica interna ed internazionale, abbiamo sguardi diversi su mondo e abbiamo ricette diverse, talvolta opposte, per risolverne i problemi.
"Gli europei vedono la fiducia dell'America nell'uso della forza come semplicistica, utile solo a loro e frutto del suo eccessivo potere; gli americani vedono il fermo impegno dell'UE nelle istituzioni multilaterali come naif, autolegittimante e frutto della sua debolezza militare" (Kupchan).
"Un oceano sempre più largo"
A far divergere sempre più l'America dall'Europa è, per alcuni, il ritorno di un idealismo assertivo alla guida della politica estera americana, per altri, il ritorno di un a politica che sembra pura politica di potenza. In tal senso l'unilateralismo americano, che sia motivato da idealismo o da mera politica di potenza, mette in crisi la principale delle istituzioni della comunità di sicurezza, cioè la NATO.
La vicenda della NATO dopo la fine della guerra fredda è davvero singolare. Dopo il terribile attentato alle Twin Towers, nonostante il Consiglio Atlantico arrivi per la prima volta ad invocare l'articolo 5 del Trattato, in base al quale ogni attacco militare condotto contro uno dei suoi membri sarà considerato un attacco contro tutti gli altri alleati, l'Amministrazione Bush respinge - di fatto - le future possibili profferte di aiuto da parte dei suoi storici alleati. Il rifiuto americano di agire nell'ambito dell'Alleanza evidenzia la determinazione di avere libera scelta nel tipo di risposta da fornire all'attacco, esercitando il proprio diritto sovrano all'autodifesa. Tale decisione ha immediatamente gravi ripercussioni sull'Alleanza, perché ne sottolinea l'irrilevanza politica in un momento cruciale. Inoltre segna il passaggio da una concezione per cui the coalition determines the mission a quella opposta secondo la quale the mission determines the coalition. In sostanza, l'intenzione di Bush si contrappone per antitesi a quella di Clinton durante la guerra fredda.
Gli eventi odierni non posso più nascondere il fatto che americani ed europei sono sempre più spesso divisi non solo e non tanto sul "come" fare le cose ma persino sul "cosa" fare. Appaiono sempre meno concordi non solo sulle soluzioni con cui affrontare e risolvere i problemi, ma persino sull'individuazione dei problemi e sulla loro gerarchia.
Oggi ad essere messa in dubbio è anche la stessa definizione di sicurezza comune. Paradossalmente il terrorismo internazionale di matrice islamica, è in realtà uno dei campi in cui le divergenze sono più "limitate". L'America tende a prediligere una risposta di carattere militare e di intelligence volta a eliminare fisicamente le strutture delle organizzazioni terroristiche e le loro basi logistiche, L'Europa promuove una politica di più ampio respiro, che mira a combattere le cause economiche e culturali del terrorismo fondamentalista. Su le altre questioni, la divergenza riguarda l'individuazione dei problemi. Nella questione del proliferare delle armi di distruzione di massa, la lotta a questo fenomeno è una priorità strategica per USA, mentre non lo è affatto per l'Europa. L'Europa non si sente minimamente minacciata, mentre l'America è ossessionata da tale pericolo. Per l'Europa, l'ONU è un bene prezioso da conservare. L'America pensa che l'ONU sia un ingombrante relitto della guerra fredda,più di intralcio che di utilità. (stronzi di merda!)
"Vecchia Europa, nuova Europa"
Negli Stati Uniti, che tutti sappiamo essere nati da una netta frattura con la vecchia Europa, da Gorge Washington in poi ha inizio una tradizione che appare più utile definire dell' "eccezionalismo" che dell' isolazionismo. Con questo termine si intende l'idea che gli Stati Uniti siano i portatori di un messaggio e di un destino diverso e migliore rispetto a tutte le altre comunità politiche. La fede nell'eccezionalità dell'America è la vera costante della politica estera americana in tutte le epoche. La stessa dottrina Monroe del 1825 "l'America agli americani" rifletteva l'idea che l'esempio nordamericano potesse essere paradigmatico per l'intero continente. Successivamente sarà Roosevelt a riportare la nazione nell'agone della grande politica internazionale, ma solo all'inizio del Novecento le due sponde dell'Atlantico riannodano il filo politico spezzato da ben più di un secolo. E persino nel momento in cui America ed Europa si accorgeranno di avere in comune l'enorme patrimonio delle istituzioni democratiche, gli americani non smetteranno di considerarsi differenti e migliori.
Scegliere il concetto di eccezionalismo come categoria interpretativa della vicenda politica americana, consente di cogliere anche il fatto del perché essi abbiano deciso di perseguire un unilateralismo sempre più assertivo. Per l'America è "normale" che il proprio potere abbia incontrato solo limiti derivanti dalle proprie capacità e dalla propria volontà. Mai gli americani hanno pensato che una potenza esterna fosse in grado di bloccare il loro proposito di risolvere i problemi, eliminare le minacce e riformare, per il meglio, il mondo. Solo con la guerre fredda, per la prima volta nella loro storia, devono sperimentare quel senso del limite imposto dall'esterno, che è invece "normale" per l'Europa.
Il principale punto di incomunicabilità e di differenziazione politico-culturale tra Europa e America deriva dal fatto che, mentre la storia europea nasce da un sanguinoso "fallimento", la loro storia di americani nasce da uno straordinario "successo". Si potrebbe dire poi che, paradossalmente, mentre il problema dell'America è sempre stato quello di riuscire a pensare e costruire una politica estera e internazionale coerente e all'altezza di tale successo, la recente storia europea è stata contrassegnata dal merito di essere riusciti a trasformare quel originario fallimento in una straordinaria innovazione della politica tra gli stati.
Il riaccostarsi delle due sponde atlantiche è stato reso possibile grazie a due elementi.
"L'Unione Europea alla ricerca della sua identità"
Durante la campagna irachena, abbiamo assistito ad una lacerazione inaspettata tra i più importanti paesi dell'UE. I mass media hanno presentato la realtà nella versione semplificata di un "partito americano" contrapposto ad un "partito europeo". Per la prima volta, si delineano con chiarezza due sottostanti concezioni:
Gli europei devono essere consapevoli che non solo la secessione fisica, ma nemmeno quella politica tra le due sponde dell'Atlantico può oggi rappresentare una risposta alle tensioni euro-americane, anzi, gli europei potranno rafforzare la propria comune identità continentale solo restando ancorati al rapporto transatlantico. Non esistono altre strade percorribili per chi abbia davvero a cuore il futuro dell'Europa.
Lo spazio politico dell'UE è uno dei più fittamente popolati in termini di istituzioni che la storia abbia mai prodotto. Proprio in ciò consiste il problema del "deficit democratico", in cui si incrociano sia l'intasamento di istituzioni nessuna delle quali responsabile di una specifica funzione, sia il fatto che al crescere l'effettivo potere decisionale si fa più indiretta la legittimazione democratica.
Per ovviare alla realtà di un corpo politico fortemente istituzionalizzato, si è giunti alla decisione di dare avvio ad un processo costituente, fondato su due elementi:
Contro di essa gioca il fattore che le istituzioni europee restano lontane dai cittadini e assai poco responsabili di fronte all'opinione pubblica. Il deficit democratico non appare facilmente risolvibile. La sua struttura iperburocratica rende tutto più complesso.
La sopravvivenza degli stati nazionali costituisce il secondo ostacolo al processo di realizzazione di un'effettiva comunità politica europea. L'europeità, che esiste in termini culturali, è sempre convissuta come una pluralità di assetti politici ed istituzionali. Oggi l'identità politica europea è insufficiente per trasformarsi in un'identità politica condivisa, senza un passaggio costituzionale.
"L'UE: da spazio istituzionale ad attore politico globale"
Oggi i cambiamenti che provengono dal regno hobbesiano dell'anarchica arena internazionale mettono a dura prova l'identità e l'anima della repubblica kantiana che finora è stata l'Unione. In questi 15 anni dall'esterno non è giunto alcun aiuto, ma solo sfide, alle quali si è risposto con arditi e necessari rilanci, sfide che hanno distratto e allontanato l'Europa da quello che da tempo è assurto come il suo obiettivo principale: il diventare un soggetto di politica internazionale, con ambizioni e responsabilità commisurate alla sua tradizione, alla sua economia, alla sua cultura. Oggi l'Europa è chiamata a diventare un attore politico dall'arena globale. E' chiamata a diventarlo dalle "sfide esterne"al suo spazio, ma anche dalle "sfide interne".
"Europa e Stati Uniti per un'idea di occidente plurale"
Oggi l'Europa che cerca di unirsi in forme diverse ed inedite deve comunque fare i conti con la permanenza della sovranità degli stati. Non solo bisogna evitare di mettere disegno europeo e sovranità degli statali in rotta di collisione, ma anche non consentire che i contrasti tra le diverse sovranità nazionali, tra i differenti interessi nazionali, tra la peculiari visioni di politica estera dei singoli membri, possano ostacolare qualunque avanzamento. Occorre invece "sfruttare" la politica degli stati, affinché essa possa arrivare a determinare delle posizioni politiche comuni.
Scontata l'inadeguatezza dell'asse franco-tedesco e verificata la sempre più probabile rottura con tra quest'ultimo e la Gran Bretagna, sarebbe opportuno che i paesi più popolosi si mettessero alla servizio della causa comune, per evitare che il tornare della "grande politica" sul teatro europeo produca una costante tensione tra Gran Bretagna, Francia e Germania. Italia, Spagna e Polonia possono aspirare a svolgere un ruolo decisivo in tal senso.
4.L'Europa si trova a fare i conti con la propria debolezza in termini di capacità di difesa e di politica estera. E finisce con l'oscillare tra la voglia di distinguersi dal potente alleato e la consapevolezza che il rapporto euro-atlantico resta fondamentalmente per l'Europa, la quale non ha risorse, esercito e industria degli armamenti comuni; non ha strumenti istituzionali appropriati ed efficaci e neppure una dottrina e politica comune di sicurezza. Nonostante l'Europa si caratterizzi meglio come potenza civile, è necessario che essa non ripudi completamente l'uso della forza, e che sia in grado di esercitarla con o senza gli S.U. L'Europa ha ancora bisogno degli Stati Uniti per potersi difendere da minacce che sono sempre più diffuse, più costose e più difficili da combattere. Gli Stati Uniti hanno ancora bisogno degli alleati europei per non minare alla base qualunque possibilità di fornire legittimità politica alla propria egemonia, ma anche per sconfiggere la minaccia del terrorismo transnazionale. L'America deve dimettere un unilateralismo soddisfatto, che non le si addice, non le fa onore ed è contrario al suo stesso interesse. L'Europa, dal canto suo, deve smetterla di cercare di definire il proprio ruolo e la propria identità in contrapposizione al ruolo e all'identità dell'America. (ved pag. 195)
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