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Diritto dell'impresa

economia




DIRITTO COMMERCIALE




Parte 1°:

Diritto dell'impresa
















CAP. 1: L'IMPRENDITORE


Il sistema legislativo. Imprenditore e imprenditore commerciale:


Secondo l'art. 2082 c.c. "è imprenditore chi esercita un'attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni e servizi".


Una puntualizzazione è tuttavia necessaria:

Secondo la NOZIONE ECONOMICA l'imprenditore è quel soggetto che svolge funzione intermediaria tra chi dispone di necessari fattori produttivi e chi domanda prodotti e servizi. Esso coordina, organizza e dirige il processo produttivo (produzione o scambio di beni e servizi) assumendo su di se il rischio relativo ( rischio di impresa)

Dal punto di vista dei REQUISITI GIURIDICI dall'art. 2082 c.c. si ricava che l'impresa è attività, ed attività caratterizzata da uno SPECIFICO SCOPO ( produzione o scambio di beni e servizi ), sia da specifiche MODALITA' DI SVOLGIMENTO ( organizzazione, economici, professionalità )


Il cod. civ. distingue diversi tipi d'impresa e imprenditori attraverso 3 CRITERI:

Oggetto dell'impresa: Imprenditore agricolo (art. 2135); imprenditore commerciale (art. 2195)

Dimensione dell'impresa: piccolo imprenditore (art. 2083); imprenditore medio- grande

Natura del soggetto: impresa individuale ; impresa in forma di società; impresa pubblica



FONTI:


Statuto generale dell'imprenditore che comprende:

Parte della disciplina dell'azienda (art. 2555- 2562);

Segni distintivi (art. 2563- 2574);

Disciplina della CONCORRENZA e dei CONSORZI (art. 2595- 2620);

Disposizioni in tema di contratti ( art. 1368, 1510 1° comma, 1722).


Applicabile a tutti gli imprenditori è anche la DISCIPLINA A TUTELA DELLA CONCORRENZA E DEL MERCATO ( legge 287/90).


E' poi identificabile uno Statuto dell'imprenditore commerciale che comprende:

L'iscrizione nel registro delle imprese (art. 2188- 2202) con effetti di pubblicità legale;

Disciplina della RAPPRESENTANZA COMMERCIALE (art. 2203- 2213);

SCRITTURE CONTABILI (art. 2214- 2220);

FALLIMENTO e le altre procedure concorsuali ( r.d. 16.3.1942, n°267 e legge 3.4.1979, n°95).


Poche e scarsamente significative sono invece le disposizioni del cod. civ. riferite all'imprenditore agricolo e al piccolo imprenditore (anche commerciale): questi sono infatti esonerati dalla tenuta delle scritture contabili e dall'assoggettamento alle procedure concorsuali, mentre l'iscrizione al registro delle imprese, originariamente esclusa, è stata estesa anche a tali imprenditori è ha oggi anche funzione di PUBBLICITA' LEGALE.

Le società diverse dalla società semplice (società commerciali) sono tenute all'iscrizione nel registro delle imprese con effetti di PUBBLICITA' LEGALE anche se l'attività svolta non è commerciale ( art. 2200). Inoltre le società non sono mai considerate piccoli imprenditori quindi sono sempre esposte al FALLIMENTO se esercitano attività commerciale.



L'attività produttiva:


L'impresa è attività (serie di atti coordinati) finalizzata alla produzione o allo scambio di nuovi beni o servizi. ATTIVITA' PRODUTTIVA (in senso lato) è anche l'attività di scambio in quanto volta ad incrementare l'utilità dei beni spostandoli nel tempo e/o nello spazio.


Non è impresa l'attività di MERO GODIMENTO, che non dà luogo alla produzione di nuovi beni o servizi (es. proprietario di immobili ceduti in locazione). Non vi è però incompatibilità fra attività di godimento e impresa, che possono coesistere (es. proprietario di un immobile che lo adibisce ad albergo).

Gli atti di investimento, speculazione e finanziamento, quando siano coordinati insieme in modo da configurare un'attività unitaria, possono dar vita ad impresa (commerciale) se ricorrono gli ulteriori requisiti dell'organizzazione e della professionalità.

Sono quindi imprese commerciali:

Le SOCIETA' DI INVESTIMENTO che impiegano il proprio patrimonio per la compravendita di titoli ed offrono ai soci un dividendo costante;

Le SOCIETA' FINANZIARIE che erogano credito con mezzi propri o comunque non raccolti tra il pubblico.


Imprese commerciali devo essere infine qualificate le cosiddette HOLDING che sono società che acquistano e gestiscono partecipazioni di controllo in altre società (gruppo di società) con finalità di direzione, coordinamento e finanziamento della loro attività.

Ad una eguale conclusione si giunge nel caso queste attività siano svolta da una PERSONA FISICA, basta che si tratti di attività coordinate e che rivestono carattere professionale e organizzato



L'organizzazione:


Non è concepibile attività d'impresa senza l'impiego di fattori produttivi propri e/o altrui.

Normale è che la funzione organizzativa dell'imprenditore si concretizzi nella creazione di un apparato produttivo stabile e complesso, formato da persone e beni strumentali ( questo aspetto è sottolineato dal legislatore quando parla di attività organizzata).

Non è necessario che la funzione organizzativa dell'imprenditore abbia per oggetto anche altrui prestazioni lavorative autonome o subordinate: è imprenditore anche chi opera utilizzando SOLO il fattore capitale ed il proprio lavora senza dar vita ad alcuna organizzazione intermediatrice del lavoro (es. lavanderie automatiche a gettoni senza dipendenti).

L'organizzazione imprenditoriale può essere anche di soli capitali e del proprio lavoro intellettuale e/o manuale.


Inoltre non è necessario che l'attività organizzativa si concretizzi nella creazione di un apparato strumentale fisicamente percepibile: è ben vero che l'impresa necessita dell'impiego ed organizzazione di mezzi materiali, ma questi possono anche essere mezzi finanziari propri o altrui (es. attività di investimento o finanziamento). Ciò che qualifica l'impresa è l'utilizzazione di fattori produttivi (ed anche il capitale finanziario è un fattore produttivo .) ed il loro coordinamento da parte dell'imprenditore per un fine produttivo (che ricorre anche quando esso consista nel far circolare titoli o denaro).



Impresa e lavoro autonomo:


Si è posto il problema se si possa parlare d'impresa anche quando il processo produttivo si fonda esclusivamente sul lavoro personale del soggetto agente ,quando cioè non vengono utilizzati né lavoro altrui né capitali (propri o altrui) e perciò faccia difetto la cosiddetta ETEROORGANIZZAZIONE:

Secondo una 1° TEORIA la semplice organizzazione ai fini produttivi del proprio lavoro non può essere considerata organizzazione di tipo imprenditoriale e in mancanza di un coefficiente minimo di "eteroorganizzazione" deve negarsi l'esistenza di impresa, sia pure piccola;

Secondo una 2° TEORIA parte della dottrina perviene ad opposte conclusioni facendo leva sulla nozione legislativa di piccolo imprenditore, che considera imprenditore anche chi svolge attività "organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia" (art. 2083)e anche chi si limita ad organizzare il proprio lavoro, senza impiegare né lavoro altrui né capitale. Imprenditore sarebbe perciò, sempre e comunque, il lavoratore autonomo e il requisito dell'organizzazione richiesto dall' art. 2082 andrebbe perciò considerato uno "pseudo-r 919c28j equisito".


Ma quest'ultima tesi non è condivisibile in quanto altro è organizzare il proprio lavoro, altro è organizzare un'attività d'impresa. Piccola impresa è quella organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei familiari (che è pur sempre lavoro altrui). Inoltre il requisito dell'organizzazione è richiesto per l'imprenditore e per il piccolo imprenditore, ma NON per il LAVORATORE AUTONOMO (art. 2222). Però un minimo di organizzazione di lavoro altrui o di capitale è pur sempre necessario per aversi impresa, sai pure piccola. In mancanza si avrà lavoro autonomo (prestatori d'opera manuale, mediatori, agenti di commercio, ecc .).



Economicità dell'attività:


Nell'art. 2082 c.c. l'economicità è richiesta in aggiunta allo scopo produttivo dell'attività ed al concetto di "attività economica" può e deve essere dato un proprio ed autonomo significato. Ciò che qualifica un'attività come economica non è solo il fine (produttivo) cui essa è indirizzata, ma anche il MODO e il METODO con cui essa è svolta: l'attività produttiva è svolta con metodo economico quando è tesa al procacciamento di entrate remunerative dei fattori produttivi utilizzati e consente nel lungo periodo la copertura di costi con i ricavi.

Per aversi impresa è perciò essenziale che l'attività produttiva sia condotta con metodo economico: questo è da valutarsi oggettivamente, sulla base di indici esteriori percepibili dai terzi e con riferimento all'attività nel suo complesso e non ai singoli atti di impresa.



La professionalità:


PROFESSIONALITA' significa esercizio abituale e non occasionale di una data attività produttiva.

Ciò non implica che l'attività imprenditoriale debba essere necessariamente svolta in modo CONTINUATO o SENZA INTERRUZIONE: per le attività cicliche o stagionali (alberghi in località di villeggiatura, stabilimenti balneari, rifugi alpini) è sufficiente il costante ripetersi di atti di impresa secondo le cadenze proprie di quel dato tipo di attività.


La professionalità non implica neppure che quella d'impresa sia l'unica attività o la principale: è possibile anche il contemporaneo esercizio di più attività d'impresa (es. agricola e commerciale) da parte dello stesso soggetto.


Impresa si può infine avere anche quando si opera per il compimento di un "unico affare", che per la sua rilevanza economica implichi il compimento di operazioni molteplici e complesse e l'utilizzo di un apparato produttivo idoneo ad escludere il carattere occasionale e non coordinato dei singoli atti economici (es. costruzione di un singolo edificio).


La professionalità va accertata in base ad indici esteriori e oggettivi, non sempre è però necessario che si abbia reiterazione degli atti d'impresa e che l'attività si sia già protratta nel tempo: indice espressivo di professionalità può essere anche la creazione di un complesso aziendale idoneo allo svolgimento di una attività potenzialmente stabile e duratura.



Attività d'impresa e scopo di lucro:


Un punto controverso è quello se costituisce REQUISITO ESSENZIALE dell'attività d'impresa l'intento di conseguire un guadagno o un profitto personale: lo SCOPO DI LUCRO.

Il CAMPOBASSO dice di NO se lo scopo lucrativo si intende come movente psicologico dell'imprenditore (c.d. lavoro soggettivo) poiché l'applicazione della disciplina deve fondarsi su dati esteriori ed oggettivi. Questa affermazione è condivisa anche da chi proclama la necessità di scopo di lucro: è essenziale che l'attività venga svolta secondo modalità oggettive astrattamente lucrative. Irrilevante è la circostanza che un profitto venga realmente conseguito, o il fatto che l'imprenditore devolva integralmente a fini altruistici il profitto conseguito.


sufficiente che l'attività venga svolta secondo modalità oggettive tendenti al PAREGGIO tra costi e ricavi (metodo economico)oppure è ulteriormente necessario che le modalità di gestione tendano alla realizzazione di ricavi eccedenti i costi (metodo lucrativo)? Molteplici indici legislativi inducono ad optare per la sufficienza del solo metodo economico.


La nozione di imprenditore è nozione unitaria, comprensiva sia dell'impresa privata sia dell'impresa pubblica (art. 2093 c.c.), è ciò implica che REQUISITO ESSENZIALE può essere considerato solo ciò che è comune a tutte le imprese e a tutti gli imprenditori. E l'impresa pubblica è si tenuta ad operare secondo criteri di economici, ma non è necessariamente, né di regola, preordinata alla realizzazione di un profitto.


È vero però che lo scopo di lucro caratterizza il contrasto di società (art. 2247 c.c.): esse sono tenute ad operare con metodo lucrativo e l'attività d'impresa deve essere rivolta al conseguimento di utili (LUCRO OGGETTIVO) e l'utile deve essere devoluto ai soci (LUCRO SOGGETTIVO).

Le società sono però anche le società cooperative, la cui attività d'impresa è caratterizzata dallo scopo mutualistico (art. 2511 ) e cioè di realizzare un vantaggio patrimoniale dei soci operando per fornire beni e servizi ed occasioni di lavoro direttamente ai membri dell'organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che otterrebbero al mercato. Questo tipo di impresa non si può però ritenere istituzionalmente finalizzata al conseguimento di ricavi eccedenti i costi.


Si può affermare chiaramente che requisito minimo essenziale  dell'attività d'impresa è l'ECONOMICITA' DELLA GESTIONE E NON LO SCOPO DI LUCRO.



I problemi dell'impresa per conto proprio:


Può essere considerato imprenditore chi produce beni o servizi destinati ad uso o a consumo personale? È impresa anche la cosiddetta IMPRESA PER CONTO PROPRIO?


1° OPZIONE: la destinazione al mercato della produzione non è in verità richiesta da alcun dato legislativo. L'art. 2082 afferma testualmente che è imprenditore chi esercita attività organizzata al fine della produzione o dello scambio e sostiene quindi che anche l'imprenditore in conto proprio è imprenditore.


2° OPZIONE: tuttavia è largamente prevalente l'opinione contraria: al riguardo è importante la concezione economica dell'imprenditore che svolge funzione intermediaria fra i proprietari dei fattori produttivi e i consumatori. La destinazione dello scambio e della produzione è implicitamente richiesta dal carattere professionale dell'attività d'impresa ovvero della natura economica della stessa o della funzione della speciale disciplina dell'impresa (tutela dei terzi). In conclusione l'impresa per conto proprio non è impresa anche se per l'acquisto della qualità di imprenditore basta una destinazione parziale o potenziale della produzione al mercato.

3° OPZIONE: una tesi minoritaria più corretta non considera la destinazione al mercato requisito essenziale dell'attività d'impresa.

Comunque non possono essere considerate imprese per conto proprio:

La società cooperativa in quanto è oggetto di diritto DISTINTO dai socie che la compongono, e c'è un rapporto di scambio tra cooperativa e soci;

Le aziende costituite dallo Stato o da altri enti pubblici per la produzione di beni o servizi da fornire dietro CORRISPETTIVO esclusivamente all'ente di pertinenza perché rapporti di scambio possono intercorrere fra autonome strutture organizzative del medesimo ente pubblico.


Vere e proprie imprese in conto proprio sono invece:

La coltivazione del fondo finalizzato al soddisfacimento dei bisogni dell'agricoltore e della sua famiglia. Il coltivatore del proprio fondo sarà o meno imprenditore agricolo quale che sia la destinazione data ai prodotti;

La costruzione di appartamenti non destinati alla rivendita (c.d. COSTRUZIONE IN ECONOMIA). Questa figura dimostra che non vi è incompatibilità fra impresa per conto proprio ed economici, dato che l'attività produttiva può ritenersi svolta con metodo economico anche quando i costi sono coperti da un risparmio di spesa o da un incremento del patrimonio del produttore. Il costruttore in economia deve però essere qualificato imprenditore commerciale, dato che tale è di regola anche chi costruisce un singolo immobile ; in ogni caso è irrilevante accertare se la sua intenzione sia quella di vendere l'immobile, di locarlo o di destinarlo a propria abitazione.



Il problema dell'impresa illecita:


Illecita è ogni attività di impresa svolta  in violazione di norme imperative che subordinano l'accesso all'attività a cessione, autorizzazione o licenza.(art. 2084).


I terzi meritevoli di tutela possono esistere anche quando l'attività d'impresa è illecita e perciò l'esposizione al fallimento di chi eserciti attività commerciale illecita non appare più del tutto ingiustificata.

Nei casi di IMPRESA ILLEGALE, l'illiceità è determinata dalla violazione di norme imperative che ne subordinano l'esercizio a concessione o autorizzazione amministrativa (banca di fatto, commercio senza licenza). Questo illecito non impedisce la qualità di imprenditore con pienezza di effetti (il titolare è esposto al fallimento).

Diverso è per l'IMPRESA IMMORALE: quando illecito sia l'oggetto stesso dell'attività (contrabbando, fabbricazione di droga). Si nega l'esistenza di impresa perché si teme che per tutelare anche chi dell'illecito è stato autore o complice. La preoccupazione è tuttavia ingiustificata in quanto esiste un principio generale dell'ordinamento che prevede che da un comportamento illecito non possono mai derivare effetti favorevoli per l'autore o per chi ne è stato parte.

Perciò chi esercita attività commerciale illecita è imprenditore e potrà fallire al pari di tutti gli altri. Non potrà però avanzare le pretese del titolare di un'azienda o agire in concorrenza sleale contro altri imprenditori, in applicazione del principio della "non violabilità della qualificazione per la non invocabilità del proprio illecito"

Identici principi possono essere applicati per l'impresa MAFIOSA nonostante la liceità all'oggetto dell'attività (impresa per il riciclaggio del denaro di provenienza illecita).

Impresa e professioni intellettuali:


Esistono attività produttive per le quali la qualifica imprenditoriale è esclusa in via di principio dal legislatore.

È questo il caso della professionalità intellettuale. I liberi professionisti (avvocati, ingeneri, notai) non sono mai in quanto tali imprenditori. Si desume dall'art 2238 1° comma c.c. , che le disposizioni in tema di d'impresa si applicano alle professioni intellettuali solo se l'esercizio della professione costituisce elemento di una attività organizzata in forma di impresa (medico che gestisce una clinica privata nella quale opera, ecc .).

Il professionista intellettuale che si limita a svolgere la propria attività non diventa mai imprenditore: non solo nell'ipotesi in cui in cui operi avvalendosi di mezzi strettamente necessari alla esplicazione delle proprie energie intellettuali e non superi quindi la soglia della autoorganizzazione del proprio lavoro, ma anche nell'ipotesi in cui si avvalga di una vasta schiera di collaboratori.


Si desume dall'art 2238 2° comma, che al professionista intellettuale che impieghi sostituti o ausiliari "si applicano solo le norme che disciplinano il lavoro nell'impresa, ma non la restante disciplina dell'impresa".


Non è facile spiegare perché i professionisti intellettuali non diventino in alcuna caso imprenditori, dato che i requisiti propri dell'attività d'impresa possono ricorrere tutti. Infatti è un'attività produttiva di servizi, di regola condotto con metodo economico ed anzi a scopo di lucro (ma ciò non è necessario). Qui l'organizzazione di capitale e di altrui prestazioni lavorative può assumere rilievo preminente rispetto alla prestazione d'opera intellettuale del professionista (es. lo studio del radiologo o del dentista e il centro di analisi cliniche).


È gioco forza perciò concludere che i professionisti NON SONO IMPRENDITORI PER LIBERA SCELTA DEL LEGISLATORE. C'è una considerazione particolare e speciale che circonda le professioni intellettuali e che ha indotto il legislatore del '42 a dettare uno specifico statuto (art. 2229-2238):

potere disciplinare degli ordini professionali anche per quanto riguarda le tariffe e gli onorari;

Divieto di esercizio per i non iscritti agli albi;

esecuzione personale della prestazione;

particolare criterio di determinazione del complesso adeguato all'importanza dell'opera e al decoro della professione ( art. 2233, 2° comma)


In questo contesto si inserisce anche l'ESONERO dei professionisti intellettuali dallo statuto dell'imprenditore, con i suoi vantaggi (sottrazione al fallimento) ma anche con i suoi svantaggi

(inapplicabilità della disciplina dell'azienda, dei segni distintivi e della concorrenza sleale, divieto per i professionisti di farsi pubblicità).




CAP. 2: LE CATEGORIE DI IMPRENDITORE


A. IMPRENDITORE AGRICOLO E IMPRENDITORE COMMERCIALE:


Il ruolo della distinzione:


Imprenditore agricolo (art. 2135) ed imprenditore commerciale ( art. 2195) sono le due categorie che il cod. civ. distingue in base all'OGGETTO dell'attività:


L'imprenditore commerciale è destinatario di un'ampia ed articolata disciplina fondata sull'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese (con funzione di PUBBLICITA' LEGALE), sull'obbligo della tenuta delle scritture contabili, sull'assoggettamento al fallimento e alle altre procedure concorsuali.


La nozione di imprenditore agricolo restringe l'ambito di applicazione della disciplina dell'imprenditore commerciale: chi è imprenditore agricolo è sottoposto alla disciplina prevista per l'imprenditore in generale. È invece esonerato dalla tenuta delle scritture contabili (art. 2214) e dall'assoggettamento alle procedure concorsuali. Dal 1993 l'iscrizione nel registro delle imprese è obbligatoria anche per l'imprenditore agricolo, dapprima con semplice funzione di PUBBLICITA' NOTIZIA, ora anche di PUBBLICITA' LEGALE. L'imprenditore agricolo gode perciò, sotto più profili, di un trattamento di favore rispetto all'imprenditore commerciale.




L'imprenditore agricolo. Le attività agricole essenziali:


Il testo originario dell' art. 2135 stabilisce che "è imprenditore agricolo chi esercita un'attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame e attività connesse".(comma 1°), e specifica (comma 2°) che "si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all'alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura".


Le attività agricole possono perciò essere classificate in 2 grandi CATEGORIE:

Attività agricole essenziale;

Attività agricole per connessione.

Questa distinzione è stata mantenuta anche dalla nuova nozione di imprenditore agricolo introdotta dal d.lgs. 228/2001, che ha ampliato rispetto al testo originario sia le une che le altre.




L'EVOLUZIONE DELL'AGRICOLTURA:

Coltivazione del fondo, silvicoltura ed allevamento del bestiame hanno subito un'evoluzione dal '42 con il progresso tecnologico. Ora si parla di AGRICOLTURA INDUSTRIALIZZATA, che utilizza prodotti chimici (concimi, diserbanti, mangimi) per accrescere la produttività naturale della terra e che controlla ed accelera i cicli biologici naturali. Il progresso tecnologico consente oggi di ottenere prodotti "merciologicamente" agricoli con metodi che prescindono del tutto dallo sfruttamento della terra e dei suoi prodotti. Esempio ne sono le coltivazioni ARTIFICIALI o FUORI TERRA (funghi e ortaggi), svolte al chiuso collocando spore o semi in soluzioni chimiche con l'ausilio di apparecchiature che creano le condizioni favorevoli ad un rapido sviluppo, o gli ALLEVAMENTI IN BATTERIA (bovini e pollame), condotti in capannoni industriali e con mangimi chimici che permettono il rapido accrescimento del peso corporeo. In breve, oggi l'attività agricola può dar luogo ad ingenti investimenti di capitali e sollevare sul piano giuridico esigenze di tutela del credito pari a quelle delle imprese commerciali. Che l'imprenditore agricolo sia SEMPRE e COMUNQUE esonerato da tale disciplina e sottratto al fallimento, è una scelta legislativa non condivisa dai più. In dottrina c è un netto contrasto di opinioni:

Chi ritiene che l'impresa agricola fosse ogni impresa che produce specie vegetali o animali; ogni forma di produzione fondata sullo svolgimento di un CICLO BIOLOGICO NATURALE;

Chi all'opposto riteneva di dare rilievo al MODO DI PRODUZIONE tipico dell'agricoltore (sfruttamento della terra e delle due risorse) e , quindi, era imprenditore commerciale e non agricolo chi produce specie vegetali o animali in modo del tutto svincolato dal fondo agricolo e dallo sfruttamento della terra (CAMPOBASSO)


LA NUOVA NOZIONE:

Con la recente riforma il legislatore ha optato per la prima impostazione: l'attuale formulazione dell'art. 2135 ribadisce infatti che "è imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse". Subito specifica però che si intendono "le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria di un ciclo, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine" (2° comma nuovo testo).


Ciclo biologico: la produzione di specie vegetali e animali è sempre qualificabile giuridicamente come attività agricola essenziale, anche se realizzata con metodi che prescindono del tutto dallo sfruttamento della terra e dei suoi prodotti.


Selvicoltura: deve essere concepita come attività caratterizzata dalla cura del bosco per ricavarne i relativi prodotti. È esclusa l'estrazione di legname disgiunta dalla coltivazione del bosco.


Allevamento di animali: è la forma di attività agricola essenziale più ricca e quindi in passato ha determinato contrasti. Il criterio del ciclo biologico porta a riconoscere attività agricola essenziale anche zootecnica svolta fuori dal fondo o utilizzando questo come mero sedimento dell'azienda di allevamento ( allevamento in batteria).

Per allevamento di animali non si deve intendere solo quello diretto ad ottenere prodotti TIPICAMENTE agricoli (carne, latte, lana, animali da lavoro): oggi nella nozione rientra anche l'allevamento di cavalli da corsa o di animali da pelliccia, nonché l'attività cinotecnica e l'allevamento di gatti.


Allevamento da cortile

Acquicoltura: la sostituzione del termine "bestiame" con "animali", qualifica come impresa agricola essenziale, non solo l'allevamento di animali TRADIZIONALMENTE allevati sul fondo all'epoca della codificazione (bovini, ovini, caprini, equini e suini), ma anche l'allevamento di ANIMALI DA CORTILE (polli, conigli,ecc .) e ACQUACOLTURA (pesci) già ricompresi dal legislatore del '92.


Infine all'imprenditore agricolo (essenziale) è stato equiparato l'imprenditore ITTICO, che "esercita un'attività diretta alla coltura o alla raccolta di organismi acquatici in ambienti marini, salmastri e dolci", nonché le attività a queste connesse.




Le attività agricole per connessione:


L'attuale nozione di imprenditore agricolo realizza un significativo ampliamento rispetto a quella previgente che le individuava:

a.   In quelle dirette alla trasformazione o all'alienazione di prodotti agricoli che rientravano nell'esercizio normale dell'agricoltura;

b.  In tutte le altre attività esercitate in connessione con la coltivazione del fondo, la silvicoltura e l'allevamento del bestiame, per le quali si riteneva che le stesse dovessero rivestire carattere accessorio.


Questa distinzione oggi scompare in quanto in base all'art. 2135 3° comma, si intendono connesse:

a.  Le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di prodotti ottenuti PREVALENTEMENTE da un'attività agricola essenziale;

b.  Le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione PREVALENTE di attrezzature o risorse normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, comprese quella di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, e le attività agrituristiche.


Le une e le altre sono attività OGGETTIVAMENTE commerciali; sono però considerate per LEGGE attività agricole quando esercitate in connessione con una delle tre attività agricole essenziali. Per qualificarle come tali sono però necessarie 2 CONDIZIONI:

Connessione soggettiva: è necessario che il soggetto che la esercita sia già imprenditore agricolo in quanto svolge in forma di impresa una delle 3 attività agricole tipiche e inoltre attività COERENTE con quella connessa (es. il viticoltore che produce vino). La qualificazione è però estesa alle cooperative di imprenditori agricoli ed ai loro consorzi (cantine sociali, oleifici sociali) quando utilizzano prevalentemente prodotti dei soci, ovvero forniscono prevalentemente ai soci beni o servizi diretti alla cura ed allo sviluppo del ciclo biologico. E ciò sebbene non vi sia identità soggettiva fra chi produce l'uva o le olive (soci) e chi produce il vino e l'olio (società);

Connessione oggettiva: l'attuale nozione innova sensibilmente rispetto alla precedente, infatti non si richiede più che le attività di trasformazione e alienazione dei prodotti agricoli rientrino nell'esercizio normale dell'agricoltura, né che le attività connesse diverse da queste ultime abbiano carattere accessorio.


PREVALENZA:

Entrambi i criteri sono stati sostituiti da quello della prevalenza. Necessario e sufficiente è infatti solo che si tratti di attività aventi ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dall'esercizio dell'attività agricola essenziale, ovvero di beni e servizi forniti mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda agricola (i prodotti devono provenire dal mio fondo e dalle mie attrezzature). In breve è sufficiente che le attività connesse non prevalgono, per rilievo economico, sull'attività agricola essenziale.




L imprenditore commerciale:


È imprenditore commerciale colui che esercita una o più delle seguenti categorie di attività, elencate nell'art. 2195 1° comma:

INDUSTRIA: "attività industriale diretta alla produzione di beni e servizi". E' questo il vasto settore delle imprese industriali (automobilistiche, chimiche, edili, tessili);

COMMERCIO: "attività intermediaria nella circolazione dei beni". Il commerciante acquista beni e li rivende ad altri intermediari (commercio all'ingrosso) o ai consumatori ( commercio al minuto), dando vita ad una serie di generazioni di scambio. Ogni attività di scambio deve realizzare INTERMEDIAZIONE nella circolazione di beni e servizi;

TRASPORTI: "attività di trasporto per terra, per acqua o per aria" sia di persone che di cose da un luogo all'altro. Questa può essere considerata specificazione dell'attività produttiva di servizi n°1;

BANCHE E ASSICURAZIONI: "attività bancaria o assicurativa". L'impresa bancaria ha per oggetto tipico la raccolta del risparmio tra il pubblico e l'esercizio del credito. In sostanza è attività di intermediazione nella circolazione del denaro, ricompresa nel 2°. Anche l'impresa di assicurazione produce specifici servizi (art. 1882), può essere ricompresa nel 1°;

IMPRESE AUSILIARIE: "altre attività ausiliari alle precedenti". Imprese commerciali dai contorni più elastici, criterio di identificazione è l'AUSILIARIETA'. Vi rientrano le IMPRESE DI AGENZIA (art. 1731), di SPEDIZIONE (art. 1737), di PUBBLICITA' COMMERCIALE, di MARKETING. Possono considerarsi imprese di servizi ricomprese nel n°1


Le attività indicate nei n°3,4 e 5 costituiscono specificazione delle prime due categorie ed in queste possono essere ricomprese in quanto hanno per oggetto o la produzione di servizi o l'intermediazione nella circolazione. Perciò, gli elementi che individuano e distinguono l'impresa commerciale dall'impresa agricola, sono tutti racchiusi nelle prime due categorie: il CARATTERE INDUSTRIALE dell'attività di produzione di beni e servizi e il CARATTERE INTERMEDIARIO dell'attività di scambio.




Il problema dell impresa civile:


Questa categoria non è prevista da alcun dato legislativo. L'imprenditore civile (appunto perché né agricolo né commerciale) sarebbe sottoposto solo allo statuto generale dell'imprenditore, perciò non fallirebbe.


TESI FAVOREVOLE ALL'IMPRESA CIVILE:

Il requisito dell'industrialità deve essere inteso nel suo significato tecnico- economico di attività che implichi l'impiego di materie prime e la loro trasformazione in nuovi beni ad opera dell'uomo.

Sarebbero quindi imprese commerciali e perciò civili;

Le imprese che producono beni senza trasformare materie prime, quali le IMPRESE MINERARIE e le IMPRESE DI CACCIA e PESCA;

Le imprese che producono servizi senza trasformare materie prime e che rientrino fra quelle produttrici di servizi espressamente previste dai n°3 (imprese di trasporto), 4 (imprese di assicurazione) e 5 (imprese ausiliari) dell'art. 2195. Ad esempio: imprese di PUBBLICITA' SPETTACOLI, AGENZIE MATRIMONIALI, INVESTIGATIVE e per il COLLOCAMENTO DI DOMESTICI. Più in generale, dato il n°5, sarebbero imprese civili tutte le imprese ausiliare di attività non commerciali (mediatori o agenti in affari agricoli o civili).

La tesi in esame ritiene inoltre che attività intermediaria nella circolazione (n°2) è solo quella nella quale ricorre SIA L'ACQUISTO SIA LA VENDITA di beni. Imprenditore civile sarebbe invece chi aliena dietro corrispettivo beni propri, in quanto in tal caso si avrebbe si attività di scambio ma non attività intermediaria nello scambio. Imprenditore civile sarebbe perciò l'imprenditore che eroga credito con mezzi propri (impresa finanziaria) e che perciò non integra i caratteri propri dell'attività bancaria.


TESI CONTRARIA:

La teoria dell'impresa civile non è però condivisa dalle dottrina prevalente in quanto si ritiene che l'espressione "attività industriale" altro non significhi che attività non agrario . Inoltre il concetto di intermediazione deve essere inteso in senso elastico, quale equivalente di scambio. In conclusione l'art. 2195 va letto come si dicesse: è attività commerciale quella diretta alla produzione di beni o servizi non agricoli (n°1) e quella rivolta alla circolazione di beni non qualificabili come agricoli per connessione (n°2). Per le imprese civili non resta più alcuno spazio.


SOLUZIONE PREFERIBILE:

Vi è una serie di altri indici che depone contro l'ammissibilità delle imprese civili.

È PREFERIBILE interpretare il requisito della industrialità come sinonimo di attività non agricola e quindi sono qualificate come imprese commerciali anche quelle che producono beni e servizi senza dar luogo a trasformazione di materie prime (imprese minerarie, di caccia e pesca, di pubblicità spettacoli, ecc .). le imprese ausiliarie di attività non commerciali (agricole e civili) dovranno pur sempre qualificarsi come commerciali in base al n°1, in quanto non aventi ad oggetto la produzione, trasformazione o alienazione di prodotti agricoli.


È altresì PREFERIBILE interpretare il requisito della INTERMEDIAZIONE nella CIRCOLAZIONE di beni come sinonimi di scambio. Perciò sarà impresa commerciale ogni attività che comporti circolazione di beni (o di denaro) non inquadrabili fra quelle agricole per connessione (es. attività di finanziamento non svolta congiuntamente alla raccolta di risparmio fra il pubblico, e perciò non bancaria).

Sarà commerciale ogni impresa che non è agricola, indipendentemente dall'inquadramento in una delle 5 caselle previste dall'art. 2195.





B. PICCOLO IMPRENDITORE. IMPRESA FAMLIARE



Il criterio dimensionale. La piccola impresa:


La DIMENSIONE dell'impresa è il 2° criterio di differenziazione della disciplina degli imprenditori, il cod. civ. individua al riguardo la figura del PICCOLO IMPRENDITORE.

Il piccolo imprenditore è sottoposto allo statuto generale dell'imprenditore (vedi esenzione art.1330), è invece esonerato, anche se esercita attività commerciale, dalla tenuta delle scritture contabili (art. 2214, 3° comma) e dall'assoggettamento al fallimento e alle altre procedure concorsuali, mentre l'iscrizione nel registro delle imprese, originariamente esclusa (art. 2202), ha solo funzione di pubblicità notizia. Anche questa nozione ha rilievo essenzialmente negativo: serve per restringere ulteriormente l'ambito di applicazione dello statuto dell'imprenditore commerciale.


Diverso discorso vale invece per la LEGISLAZIONE SPECIALE, ricca e articolata disciplina che ha lo scopo di favorire la sopravvivenza e lo sviluppo attraverso molteplici agevolazioni finanziarie e tributarie della piccola impresa.




Il piccolo imprenditore nel codice civile:


Art. 2083: "sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia

La PREVALENZA del lavoro proprio e familiare costituisce il carattere distintivo di tutti i piccoli imprenditori in quanto consente di ricomprendere nella categoria figure diverse da quelle espressamente menzionate (es. piccoli allevatori di bestiame, piccoli mediatori).


Per aversi piccola impresa è perciò requisito necessario che:

a.  L'imprenditore presti proprio lavoro nell'impresa;

b.  Il suo lavoro e quello degli eventuali familiari che collaborano nell'impresa prevalgono sia rispetto al LAVORO ALTRUI , sia rispetto al CAPITALE (proprio o altrui) investito nell'impresa. Non è perciò mai piccolo imprenditore chi investe ingenti capitali nell'impresa (es. gioielliere) anche se non si avvale di alcun collaboratore.


La prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi deve intendersi in senso QUALITATIVO- FUNZIONALE e non quantitativo. È necessario cioè accertare se l'apporto personale dell'imprenditore e dei suoi familiari abbiano rilievo preminente nell'organizzazione dell'impresa e caratterizzino i beni o servizi prodotti (es. sarto su misura, piccolo commerciante ambulante).



Il piccolo imprenditore nella legge fallimentare:


L' art 1, 2° comma legge fall. ribadisce che i piccoli imprenditori commerciali non falliscono e stabilisce che "sono considerati piccoli imprenditori, gli imprenditori esercenti un'attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, titolari di un REDDITO INFERIORE AL MINIMO IMPONIBILE. Quando è mancato l'accertamento ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un'attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a lire 900.000". "In nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali". Che una società non possa essere titolare di una piccola impresa è desumibile già dall'art. 2083, dato che il criterio della prevalenza del lavoro familiare è applicabile sono all'imprenditore come persona fisica.


PROBLEMI DI COORDINAMENTO TRA COD. CIV. E LEGGE FALL. :

Il piccolo imprenditore individuale nella LEGGE FALL. è individuato esclusivamente in base a parametri monetari (reddito di R.M. accertato o capitale investito), mentre nel C.C. è individuato con la prevalenza del lavoro familiare.

Questo rebus è venuto meno per le modifiche apportate al sistema normativo:

L'imposta di R.M. (ricchezza mobile) è stata soppressa l'01/01/1974 ed al suo posto, per le persone fisiche, c'è l'IRPEF;

Il criterio del capitale investito non superiore a lire 900.000 è stato dichiarato incostituzionale nel 1989, in quanto non più idoneo per la svalutazione monetaria.


In definitiva: è piccolo imprenditore il titolare di un'impresa in cui prevale il lavoro familiare (art. 2083). In nessun caso sono però piccoli imprenditori le società commerciali (art. 1, comma 2° legge fall.). Una società titolare di un'impresa commerciale sarà perciò sempre esposta al fallimento, anche se l'attività d'impresa si caratterizzi per la prevalenza di lavoro personale dei soci (es. SNC fra due modesti mediatori).






L impresa artigiana:


È una delle figure tipiche di piccola impresa. La legge 25/07/1956, n°860 afferma espressamente che l'impresa rispondente ai requisiti fondamentali nella stessa fissati, era da considerarsi "a tutti gli effetti di legge". La nozione speciale sostituiva perciò quella del codice ( e della legge fall. ) e delineava un modello di impresa artigiana non conciliabile con quello del codice. Infatti il dato caratterizzante risiedeva nella natura "ARTISTICA o USUALE" dei beni o servizi prodotti e non più nella prevalenza del lavoro familiare nel processo produttivo.


La qualifica artigiana era riconosciuta anche alle imprese costituite in forma di società, purché si trattasse di società cooperative o SNC, ed alla condizione che "la maggioranza dei soci partecipi personalmente al lavoro e, nell'impresa, il lavoro abbia funzione preminente su capitale".

Le società artigiane devono considerarsi esonerate dal fallimento, posto che la qualifica artigiana operava "a tutti gli effetti di legge".

Questa situazione è stata superata quando la legge del '56 è stata abrogata dalla "legge quadro per l'artigiano" dell' 08/08/1985, n°443. Essa contiene una definizione basata:

Sull'OGGETTO dell'IMPRESA, cioè qualsiasi attività di PRODUZIONE DI BENI, anche semilavorati, o di PRESTAZIONI DI SERVIZI, sia pure con alcune limitazioni ed esclusioni;

Sul RUOLO dell'ARTIGIANO nell'impresa, che deve svolgere "in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo", ma non è richiesto che il suo lavoro prevalga sugli altri fattori produttivi.


È però riaffermato che il personale dipendente deve essere personalmente diretto dall'artigiano ed è stabilito che l'imprenditore artigiano può essere titolare di una sola impresa artigiana. Continuano ad essere imposti limiti per quanto riguarda i dipendenti utilizzabili, ma il numero massimo- variabile da settore a settore- è generalmente + elevato di quello fissato dalla legge del '56, per assecondare la crescita dimensionale delle imprese artigiane.


La legge dell'85 riafferma la qualifica artigiana delle imprese costituite in forma di società cooperativa, alle snc, alle srl ed alle sas purché ricorrano determinate condizioni (leggi 133/97 e 57/2001). La categoria risulta quindi notevolmente ampliata per tipologia e dimensioni.


Tuttavia, ed è questo il punto fondamentale, la legge dell'85 non afferma più che l'impresa artigiana è definita a tutti gli effetti di legge.

Oggi perciò il riconoscimento della qualifica artigiana in base alla legge quadro non basta per sottrarre l'artigiano allo statuto dell'imprenditore commerciale. È necessario che sia rispettato altresì il criterio della prevalenza fissato dell'art. 2083. In mancanza l'imprenditore sarà artigiano ai fini delle provvidenze regionali, ma dovrà qualificarsi imprenditore commerciale NON PICCOLO ai fini civilistici e quindi potrà fallire. Né costituisce ostacolo alla dichiarazione di fallimento il riconosciuto carattere COSTITUTIVO dell'iscrizione nell'albo delle imprese artigiane.


Anche l'esonero delle società artigiane dal fallimento si deve ritenere oggi cessato: una società godrà delle provvidenze di cui godono le altre imprese artigiane, ma in caso di dissesto fallirà al pari di ogni altra società che esercita attività commerciale.


Oggi l'imprenditore artigiano non è che un piccolo industriale e quindi, giuridicamente, rientra nella categoria degli imprenditori commerciali, come del resto emerge dal fatto che alcune delle attività esercitabili dall'impresa artigiana sono espressamente ricomprese nell'elenco delle attività commerciali di cui all'art. 2195 (es. trasporto).

Perciò al pari di ogni imprenditore commerciale, l'imprenditore artigiano individuale, sarà esonerato dal fallimento solo se in concreto ricorre la prevalenza del lavoro familiare. L'impresa artigiana in forma societaria sarà invece sempre esposta al fallimento in applicazione della parte restante in vigore dell'art. 1, 2°comma, legge fall.




L impresa familiare:


Secondo l'art. 230-bis c.c. è impresa familiare l'impresa nella quale collaborano il coniuge, i parenti entro il 3° grado (fino ai nipoti) e gli affini entro il 2° grado (fino ai cognati) dell'imprenditore (c.d. FAMIGLIA NUCLEARE). Questo articolo ha consentito il frazionamento del reddito d'impresa fra i parenti dell'imprenditore.

L'impresa familiare non va comunque confusa con la piccola impresa.

Nessun diritto particolare (patrimoniale o amministrativo) era riconosciuto a chi lavorava nell'impresa, sia nei confronti del congiunto imprenditore, sia rispetto agli altri membri della famiglia: il legislatore ha voluto perciò predisporre una tutela minima e inderogabile del lavoro familiare nell'impresa..

Sono stati riconosciuti ai membri della famiglia nucleare, che lavorino in MODO CONTINUATO nella famiglia o nell'impresa (il lavoro domestico è equiparato a quello dell'impresa e il lavoro della donna è equiparato a quello dell'uomo), determinati diritti patrimoniali ed amministrativi.


Sul PIANO PATRIMONIALE:

DIRITTO AL MANTENIMENTO, anche se non dovuto ad altro titolo;

DIRITTO DI PARTECIPAZIONE AGLI UTILI, in proporzione alla quantità di lavoro prestato nell'impresa o nella famiglia;

DIRITTO SUI BENI ACQUISTATI CON GLI UTILI (non esiste un diritto alla distribuzione periodica degli stessi) e sugli INCREMENTI DI VALORE DELL'AZIENDA, anche dovuti ad avviamento;

DIRITTO DI PRELAZIONE sull'azienda in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda stessa. La prelazione è esercitabile anche individualmente (art. 732 c.c.) ed ha perciò carattere REALE.



Sul PIANO AMMINISTRATIVO:

Le decisioni in merito alla GESTIONE STRAORDINARIA e altre decisioni di particolare rilievo (impiego degli utili e degli investimenti, fissazione degli indirizzi produttivi, cessazione dell'impresa) sono adottate, a maggioranza dai familiari che partecipano all'impresa stessa. Si deve ritenere che ciascun familiare abbia diritto ad un solo voto e che alle decisioni non prende parte l'imprenditore in quanto destinatario delle decisioni adottate dagli altri membri della famiglia.

Il diritto di partecipazione è trasferibile solo a favore degli altri membri della famiglia nucleare e con il consenso UNANIME dei familiari già partecipanti. È inoltre liquidabile in denaro qualora cessi la prestazione di lavoro ed in caso di alienazione dell'azienda.


L'impresa familiare resta un'impresa individuale, sia pure caratterizzata da una particolare disciplina delle prestazioni lavorative dei familiari dell'imprenditore:

I beni aziendali restano di proprietà esclusiva dell'imprenditore-datore di lavoro;

I diritti patrimoniali dei partecipanti all'impresa familiare costituiscono semplici diritti di credito nei confronti del familiare imprenditore;

Gli ATTI DI GESTIONE ORDINARIA rientrano nella competenza esclusiva dell'imprenditore.


L'imprenditore agisce nei confronti dei terzi IN PROPRIO e non quale rappresentante dell'impresa familiare, sicché solo a lui saranno imputabili gli effetti degli atti posti in essere nell'esercizio dell'impresa e solo lui sarà responsabile nei confronti dei terzi delle relative obbligazioni contratte. Infine, se l'impresa è commerciale ( e non piccola) solo il capo famiglia-datore di lavoro sarà esposto al fallimento in caso di dissesto.






C. IMPRESA COLLETTIVA. IMPRESA PUBBLICA:



L impresa societaria:


Il terzo ed ultimo criterio di differenziazione è rappresentato dalla NATURA GIURIDICA del soggetto titolare dell'impresa. Tre sono le figure contemplate dal legislatore: impresa INDIVIDUALE, impresa SOCIETARIA ed impresa PUBBLICA.


Quando titolare dell'impresa è una PERSONA FISICA (imprenditore INDIVIDUALE) e si tratta di imprenditore commerciale non piccolo, vi è l'applicazione degli istituti del registro delle imprese (con effetti di pubblicità legale), delle scritture contabili e delle procedure concorsuali.




TIPI SOCIETARI E IMPRESA:

Le società sono forme associative tipiche, previste dall'ordinamento per l'esercizio collettivo di attività d'impresa.

Esistono diversi TIPI di società: la SOCIETA' SEMPLICE è utilizzabile solo per l'esercizio di attività non commerciale, mentre gli altri tipi di società possono svolgere sia attività agricola sia attività commerciale (art. 2249).

Le società diverse da quella semplice si definiscono SOCIETA' COMMERCIALI e potranno essere imprenditori agricoli o commerciali, a seconda dell'attività svolta. Si distingue perciò fra società di tipo COMMERCIALE CON OGGETTO AGRICOLO (es. s.p.a. costituita per l'allevamento del bestiame) e società di tipo COMMERCIALE CON OGGETTO COMMERCIALE (es. s.p.a. costituita per la fabbricazione di automobili)



REGOLE APPLICATE ALLE SOCIETA' COMMERCIALI:

A)    Parte della disciplina propria dell'imprenditore commerciale si applica alle società commerciali QUALUNQUE SIA L'ATTIVITA' SVOLTA. E cioè l'obbligo d'iscrizione nel registro delle imprese (art. 2136 e 2200) e la tenuta delle scritture contabili. Resta invece fermo l'esonero delle società commerciali che gestiscono un'impresa agricola dal FALLIMENTO e dalle altre procedure concorsuali (art. 2221 e art. 1, 1° comma l. fall.);

B)    Le società non sono mai piccoli imprenditori (art. 1, 2°comma, legge fall.). Perciò, per le società commerciali che esercitano impresa commerciale non opera l'esonero delle procedure concorsuali fondato sulle dimensioni dell'impresa;

C)    Nelle s.a.s. e nelle s.n.c. parte della disciplina dell'imprenditore commerciale trova poi applicazione SOLO o ANCHE nei confronti dei soci a responsabilità illimitata: tutti i soci accomandatari nelle s.a.s. e tutti i soci nelle s.n.c.


Trovano applicazione solo nei confronti dei soci, le norme che regolano l'esercizio d'impresa commerciale da parte di un INCAPACE (art. 2294).

Trova invece applicazione anche nei confronti dei soci la sanzione del fallimento in quanto il fallimento della società comporta AUTOMATICAMENTE il fallimento dei singoli soci a responsabilità illimitata (art. 147 legge fall.).




Le imprese pubbliche:


Attività d'impresa può essere svolta anche dallo STATO e dagli altri ENTI PUBBLICI (art. 41 e 43 Cost.). Tre possibili forme di intervento diretto dei pubblici poteri nel settore dell'economia:

Lo Stato o altro ente pubblico territoriale (regioni, province e comuni) possono svolgere DIRETTAMENTE attività d'impresa avvalendosi di proprie strutture organizzative, prive di distinta soggettività, ma dotate di una più o meno ampia autonomia decisionale e contabile. In questi casi l'attività d'impresa è per definizione SECONDARIA e ACCESSORIA rispetto ai fini istituzionali dell'ente pubblico: IMPRESE ORGANO (es. Anas);

La pubblica amministrazione dà vita ad enti di diritto pubblico il cui compito istituzionale ESCLUSIVO o PRINCIPALE è l'esercizio di attività d'impresa. Sono questi i c.d. ENTI PUBBLICI ECONOMICI (banche pubbliche, es. Banco di Napoli e Banco di Sicilia, INA, ENEL, ecc .). Oggi quasi tutti gli enti pubblici economici sono stati trasformati in s.p.a. a partecipazione Statale (c.d. privatizzazione formale) quando non sono stati posti in liquidazione. Inoltre, in tempi più recenti è stata avviata la discussione delle partecipazioni pubbliche di controllo (c.d. privatizzazione sostanziale) in molte di tali società;

Lo Stato e gli altri enti pubblici possono infine svolgere attività d'impresa servendosi di strutture di diritto privato: attraverso la costituzione di (o la partecipazione in) società, generalmente per azioni. È questa la c.d. partecipazione pubblica che può essere totalitaria, di maggioranza o di minoranza. In tal caso l'impresa si presenta FORMALMENTE come un'impresa societaria privata, anche quando tutte le azioni o quote appartengono allo Stato o ad altro ente pubblico.



IMPRESA PUBBBLICA E STATUTO DELL'IMPRENDITORE COMMERCIALE:

Gli Enti Pubblici Economici sono sottoposti allo STATUTO GENERALE dell'imprenditore e - se l'attività è commerciale- allo STATUTO PROPRIO dell'imprenditore commerciale, con una sola eccezione: l'esonero dal fallimento e dalle procedure previste in leggi speciali.




Attività commerciali delle associazioni e delle fondazioni:


Le associazioni (riconosciute e non), le fondazioni e in generale tutti gli enti privati con fini ideali o altruistici possono svolgere attività commerciali qualificabile come attività d'impresa. Essenziale è che l'attività produttiva venga condotta con metodo economico e tale metodo può ricorrere anche quando lo scopo perseguito sia ideale.

L'esercizio di attività commerciale da parte di tali enti, può costituire anche l'oggetto ESCLUSIVO o PRINCIPALE. In tali casi l'ente acquista la qualità d'imprenditore commerciale e resta esposto a tutte le relative conseguenze, comprese l'esposizione al fallimento in caso di insolvenza (es. fondazione che svolge attività editoriale).

È più frequente però che l'attività commerciale presenti carattere ACCESSORIO rispetto all'attività ideale costituente l'oggetto principale dell'ente. Perciò essi acquistano la qualità d'imprenditore commerciale con PIENEZZA DI EFFETTI anche se l'attività commerciale ha carattere accessorio o secondario. Anche tali enti saranno quindi esposti al fallimento (es. ente religioso che gestisce una scuola privata).

Parte minoritaria ha cercato di sottrarre al fallimento gli enti di diritto privato diversi dalle società quando l'attività d'impresa ha carattere accessorio, sostenendo che agli stessi debba applicarsi il medesimo regime dettato per gli enti pubblici titolari d'impresa organo.

La tesi non può però essere condivisa: l'esonero dal fallimento delle imprese organo è chiaramente disciplina eccezionale e trova fondamento nella struttura pubblicista dell'ente. Non può essere perciò estesa ad enti di diritto privato quali le associazioni o le fondazioni.



CAP. 3: L'ACQUISTO DELLA QUALITA' DI IMPRENDITORE



A. L IMPUTAZIONE DELL ATTIVITA D IMPRESA:


Esercizio diretto dell attività d impresa:


PRINCIPIO DELLA SPENDITA DEL NOME: è principio generale del nostro ordinamento che gli effetti dei singoli atti giuridici ricorrono sul soggetto il cui nome è stato validamente speso nel traffico giuridico: solo questi è obbligato nei confronti del terzo committente.


Questo criterio di imputazione degli effetti attivi e passivi degli atti negoziali (spendita del nome) risponde ad esigenze di certezza giuridica ed è chiaramente enunciato in tema di MANDATO SENZA RAPPRESENTANZA. Il mandatario è un soggetto che opera nell'interesse di un altro soggetto e può porre in essere i relativi atti giuridici sia spendendo il proprio nome sia spendendo il nome del mandante, se questi gli ha conferito il potere di rappresentanza (MANDATO CON RAPPRESENTANZA), (art. 1704).

Quando il mandatario agisce in nome del mandante tutti gli effetti negoziali si producono direttamente nella sfera giuridica di quest'ultimo. Per contro, il mandatario che agisce in proprio nome "acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, anche se questi hanno avuto conoscenza del mandato. I terzi non hanno alcun rapporto col mandante" (art. 1705).


Diventa imprenditore colui che esercita personalmente l'attività d'impresa compiendo in proprio nome gli atti relativi. Non diventa invece imprenditore il soggetto che gestisce l'altrui impresa quando operi spandendo il nome dell'imprenditore. Perciò quando gli atti di impresa sono compiuti tramite rappresentante (volontario o legale), imprenditore diventa il rappresentato e non il rappresentante, e ciò quand'anche il rappresentante abbia ampi poteri di decisione in merito agli atti di impresa e di tali poteri sia invece privo il rappresentato, sicché è possibile affermare che l'attività d'impresa è sostanzialmente esercitato dal rappresentante (es. genitore che gestisce l'impresa quale rappresentante legale del figlio minore, il quale è l'imprenditore).




Esercizio indiretto dell'attività d'impresa. La teoria dell'imprenditore occulto:


Fenomeno, largamente diffuso, è quello dell'esercizio tramite interposta persona.

L' IMPRENDITORE PALESE o PRESTANOME è il soggetto che compie in proprio nome i singoli atti d'impresa; altro è il DOMINUS dell'impresa, che somministra i necessari mezzi finanziari, dirige in fatto l'impresa e fa propri tutti i guadagni, pur non palesandosi come imprenditore di fronte ai terzi: c.d. IMPRENDITORE INDIRETTO o OCCULTO.

Questo modo di agire non solleva particolari problemi fin quando gli affari prosperano e i creditori sono regolarmente pagati dall'imprenditore palese. Ne solleva invece quando gli affari vanno male ed il soggetto utilizzato dal DOMINUS una persona fisica nullatenente o una s.p.a. con capitale irrisorio (c.d. SOCIETA' DI COMODO o ETICHETTA).

È fuori dubbio che i creditori potranno provocare il fallimento del prestanome: questi ha agito in proprio nome ed ha perciò acquisito la qualità di imprenditore commerciale. Ma data l'insufficienza del relativo patrimonio, essi ben poco potranno ricavare dal fallimento di questi, con la conseguenza che il rischio d'impresa non sarà sottoposto al reale dominus, ma trasferito sui creditori più deboli.


QUALI I RIMEDI?Parte della dottrina esclude che il principio della spendita del nome sia requisito necessario ai fini dell'imputazione della responsabilità per i debiti d'impresa. Per l'attività d'impresa opererebbero che imputano anche al reale dominus i debiti contratti dall'imprenditore palese e, secondo una tesi più spinta (Bigiavi), consentirebbero altresì di sottoporre il primo al fallimento.



LA TEORIA DEL POTERE D'IMPRESA:

La responsabilità cumulativa dell'imprenditore palese e del dominus (con esclusione però del fallimento per quest'ultimo) dipende dal fatto che "nel nostro ordinamento giuridico è espressamente sanzionata la inscindibilità del rapporto potere-responsabilità".

Chi esercita il potere di direzione di un'impresa se ne assume necessariamente anche il rischio e risponde alle relative obbligazioni.

Questo principio consentirebbe perciò di affermare che, quando l'attività d'impresa è esercitata tramite prestanome, responsabili verso i creditori sono sia il prestanome sia il dominus, per quanto solo il primo acquisti la qualità di imprenditore e, quindi, sia senz'altro esposto al fallimento, dato che solo il suo nome è stato speso nel traffico giuridico.



LA TEORIA DELL'IMPRENDITORE OCCULTO:

Secondo tale teoria il dominus di un'impresa formalmente altrui non solo risponderà insieme a questi, ma fallirà sempre e comunque qualora fallisca il prestanome. La piena parificazione sul piano della responsabilità d'impresa di chi agisce di fronte ai terzi e di chi sta dietro le quinte sarebbe giustificata da una norma delle legge fall. art 147, 2°comma.



1° ipotesi: FALLIMENTO DEL SOCIO OCCULTO DI SOCIETA' PALESE:

Il fallimento della società si estende anche ai soci la cui esistenza sia scoperta dopo la dichiarazione di fallimento della società e dei soci palesi.



2° ipotesi: FALLIMENTO DEL SOCIO OCCULTO DI SOCIETA' OCCULTA:

Ipotesi in cui i soci abbiano occultato l'esistenza stessa della società di persone; all'ipotesi cioè in cui chi contratta con i terzi si presenta come imprenditore individuale mentre ha in realtà alle spalle uno o più soci occulti.


Fra le due ipotesi la differenza potrebbe essere solo quantitativa, cioè determinata solo dal numero dei soci.

Ma, e fallisce la società occulta è inevitabile che fallisca anche l'IMPRENDITORE OCCULTO, dato che "sul piano giuridico la situazione è infatti la stessa, nulla importando il fatto che chi rimane fra le quinte sia soltanto un socio di chi appare in pubblica o sia, invece, l'esclusivo titolare dell'impresa gestita dal prestanome".

In conclusione si arriva ad affermare la responsabilità e l'esposizione al fallimento di chiunque domini un'impresa a lui formalmente non imputabile.



SOCIO TIRANNO:

È così affermata la responsabilità del socio tiranno di una s.p.a. , ossia l'azionista che non è titolare dell'intero pacchetto azionario e che perciò non può essere chiamato a rispondere illimitatamente, ma che di fatto fa uso della società come cosa propria e ne dispone a suo piacimento con l'assoluto disprezzo delle regole fondamentali del diritto societario. Regole violate anche attraverso la confusione di rispettivi patrimoni: il socio utilizza il patrimonio della società per scopi personali e, viceversa, impiega il proprio patrimonio per pagare i debiti della società o per finanziarla indirettamente attraverso la concessione di garanzie ai creditori della società.



SOCIO SOVRANO:

È affermata anche la responsabilità dell'azionista o degli azionisti sovrani che, pur rispettando le regole funzionamento della società, in fatto domini l'impresa societaria in forza di un pacchetto azionario di controllo




Critica. L'imputazione dei debiti d'impresa:


Entrambe le tesi si fondono sulla presunta esistenza nel nostro ordinamento di due criteri di imputazione della responsabilità per debiti d'impresa:

a.  Il CRITERIO FORMALE della spendita del nome, in base al quale acquista la qualità di imprenditore, con pienezza di effetti, la persona fisica o la società nel cui nome l'attività d'impresa è svolta;

b.  Il CRITERIO SOSTANZIALE del potere di direzione, in base al quale risponderebbe e fallirebbe anche il reale interessato.


VALIDITA' DEL SOLO CRITERIO FORMALE:

Nelle società di capitali è sempre individuabile un socio o un gruppo di soci che di fatto controlla e dirige la società. Ma l'azionista o gli azionisti di comodo non sono, in quanto tali, chiamati dal legislatore a rispondere personalmente dei debiti della società. E non possono essere chiamati a rispondere per non andare contro la liceità dell'esercizio dell'attività d'impresa in regime di responsabilità limitata attraverso l'utilizzo di una società di capitali, purché si rigettino le regole che nella s.p.a. prevedono la perdita del beneficio della responsabilità limitata solo quando ricorre la situazione formale ed oggettiva della concentrazione di TUTTE le azioni nelle mani di un solo soggetto (art. 2362). D'altro canto, a partire dal 1993 nella s.r.l. unipersonale, neppure la qualità di unico socio comporta di per sé l'assunzione di responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali (art. 2497, nuovo testo).


CONCLUSIONI: nel nostro ordinamento il dominio di fatto di un'impresa individuale o di una società di capitali non è condizione sufficiente per esporre a responsabilità e fallimento né, tanto meno, determina di per se l'acquisto della qualità di imprenditore.




Una tecnica per reprimere gli abusi:


L'IMPRESA FIANCHEGGIATRICE:

È frequente che il socio di comodo di una società di capitali tratti la società "come cosa propria" e ne disponga a suo piacimento con assoluto disprezzo delle regole societarie (es. finanziamento delle società con prestiti o con la concessione di garanzie a suo favore, sistematica ingerenza negli affari sociali, direzione di fatto secondo un disegno unitario di una o più società paravento).

Questi comportamenti possono dar vita ad un'AUTONOMA ATTIVITA' D'IMPRESA: un'impresa di finanziamento e/o di gestione diversa e distinta dall'attività d'impresa della o delle società di capitali dominante. Pertanto (se ricorrono i requisiti dell'art. 2082) il socio che ha abusato dello schermo societario risponderà come titolare di un'autonoma impresa commerciale individuale per le obbligazioni da lui contratte nello svolgimento dell'attività fiancheggiatrice della società di capitali ed in quanto tali potranno fallire, sempre che si accerti l'insolvenza della sua impresa.





B. INIZIO E FINE DELL'IMPRESA:


L inizio dell impresa:


La qualità d'imprenditore si acquista con l'effettivo inizio dell'esercizio dell'attività d'impresa (PRINCIPIO DI EFFETTIVITA'). L'iscrizione nel registro delle imprese non è condizione né necessaria né sufficiente per l'attribuzione della qualità di imprenditore commerciale.

Questo principio è valido per le persone fisiche. È invece convincimento diffuso che le società acquisterebbero la qualità di imprenditore FIN DAL MOMENTO DELLA LORO COSTITUZIONE e, quindi, prima ed indipendentemente dall'effettivo inizio dell'attività produttiva.

L'ipotizzata diversità di trattamento non è però da condividere, perché la costituzione di una società non è che una dichiarazione programmatica e tale resta fin quando non si dia inizio alla fase attuativa .

Attività di organizzazione ed attività di esercizio:


L'effettivo inizio dell'attività d'impresa è spesso preceduto da una fase preliminare di ORGANIZZAZIONE più o meno lunga e complessa (affitto di locali, acquisto di macchine, assunzione di lavoratori, ecc .). da qui il problema se si diventa imprenditori già durante la fase preliminare e prima del compimento del primo atto di gestione

RISPOSTA AFFERMATIVA: anche gli atti di organizzazione faranno acquistare la qualità di imprenditore quando per il loro numero e/o per la loro significatività indirizzano l'attività verso un determinato fine produttivo (professionale).

Perciò un singolo atto di organizzazione non sarà sufficiente perché una persona fisica diventi imprenditore.


È diverso quando gli stessi atti vengono compiuti da una società: anche un solo atto di organizzazione imprenditoriale, soprattutto se particolarmente qualificato, potrà essere sufficiente per affermare che l'attività d'impresa è iniziata (es. società alberghiera che acquista un'area fabbricabile).




La fine dell impresa:


La qualità di imprenditore si perde solo con l'effettiva cessazione dell'attività (PRINCIPIO DI EFFETTIVITA')

L'esatta determinazione del giorno di cessazione dell'attività d'impresa ha poi particolare rilievo per l'imprenditore commerciale, poiché l'art. 10, legge fall. prevede che lo stesso può essere dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell'attività.


La fine dell'impresa è di regola preceduta da una FASE DI LIQUIDAZIONE (regolata per le società ma non per l'imprenditore individuale) più o meno lunga durante la quale l'imprenditore completa i cicli produttivi iniziati, vende le giacenze di magazzino e gli impianti, licenzia i dipendenti e definisce i rapporti pendenti. La fase di liquidazione costituisce ancora esercizio dell'impresa e perciò la qualità di imprenditore si perde solo con la CHIUSURA DELLA LIQUIDAZIONE, la quale si verifica con la definitiva DISGREGAZIONE DEL COMPLESSO AZIENDALE. Non è però necessario che siano stati pagati tutti i debiti contratti durante l'esercizio dell'impresa.


LA FINE DELL'IMPRESA SOCIETARIA:

Per le società la cancellazione dal registro delle imprese presuppone non solo la disgregazione dell'azienda, ma anche l'integrale pagamento delle passività e la fine dei rapporti fra i soci, dunque la fine dell'impresa. Per oltre 50 anni si è ritenuto che la società, benché cancellata dal registro delle imprese, deve ritenersi ancora esistente ed esposta al fallimento, fin quando non sia stato pagato l'ultimo debito.

Invece la Corte Costituzionale è intervenuta nel 2000 affermando che per le società, l'anno per la dichiarazione di fallimento decorre dalla cancellazione dal registro delle imprese.



C. CAPACITA E IMPRESA:


Incapacità e incompatibilità:


La capacità all'esercizio di attività d'impresa si acquista con la piena capacità di agire e quindi al compimento del 18° anno di età. Si perde in seguito ad interdizione o inabilitazione.

Il minore che ha con raggiri occultato la sua minore età, o l'incapace, che esercita attività d'impresa non acquista la qualità di imprenditore, anche se i contratti da lui conclusi non sono annullabili.


INCOMPATIBILITA':

Costituiscono INCOMPATIBILITA' i divieti di esercizio d'impresa commerciale posti a carico di coloro che esercitano determinati uffici (es. impiegati civili dello Stato, avvocati, notai). La violazione di tali divieti non preclude l'acquisto della qualità di imprenditore commerciale, ma espone solo SANZIONI amministrative e ad un aggravamento delle sanzioni penali per la bancarotta in caso di fallimento.




L impresa commerciale dell incapace:


È possibile l'esercizio di attività d'impresa per conto e nell'interesse di un INCAPACE (minore o interdetto) da parte dei rispettivi rappresentanti legali (genitori esercenti la potestà familiare o tutore), o da parte di soggetti limitatamente capaci di agire (inabilitato o minore emancipato).

Il codice non prevede regole particolari per l'attività agricola, una specifica disciplina è invece prevista per l'attività commerciale.


L'amministrazione del patrimonio degli incapaci è regolata in modo da garantirne la conservazione e l'integrità: il rappresentante legale è legittimato a compiere solo gli atti di ordinaria amministrazione, mentre quelli di straordinaria amministrazione possono essere compiuti solo in caso di necessità o di utilità evidente, accertata dall'autorità giudiziaria con autorizzazione concessa atto per atto.


INIZIO: in nessun caso è consentito l'inizio di una nuova impresa commerciale in nome e nell'interesse del minore (o per l'interdetto o l'inabilitato).

CONTINUAZIONE: salvo che per il minore emancipato è pertanto consentita solo la continuazione dell'esercizio di un'impresa commerciale preesistente, quando cioè sia utile per l'incapace e purché autorizzata dal tribunale.

POTERI: l'autorizzazione del tribunale ha carattere generale e comporta un sensibile ampliamento dei poteri del rappresentante legale dell'incapace o del limitatamente incapace.




MINORE-INTERDETTO:

Intervenuta l'autorizzazione alla continuazione dell'esercizio d'impresa, chi ha la rappresentanza legale del minore o dell'interdetto può compiere tutti gli atti che rientrano nell'esercizio dell'impresa, di ordinaria e straordinaria amministrazione. La richiesta di specifica autorizzazione sarà necessaria solo per quegli atti estranei alla gestione d'impresa (es. vendita dell'immobile in cui ha sede l'impresa).


INABILITATO:

L'inabilitato è un soggetto la cui capacità di agire è limitata agli atti di ordinaria amministrazione.

Intervenuta l'autorizzazione alla continuazione, l'inabilitato eserciterà personalmente l'impresa, sia pure con l'assistenza del curatore e con il consenso di questi per gli atti di straordinaria amministrazione.


MINORE EMANCIPATO:

Può essere autorizzato dal tribunale anche ad iniziare una nuova impresa commerciale. Con questa autorizzazione acquista la piena capacità di agire, può esercitare l'impresa senza l'assistenza del curatore e può "compiere da solo gli atti che eccedono l'ordinaria amministrazione anche se estranei all'esercizio dell'impresa.

I provvedimenti autorizzativi del tribunale e i provvedimenti di revoca dell'autorizzazione sono soggetti ad iscrizione nel registro delle imprese (art. 2198).



















CAP. 5: L AZIENDA



La nozione di azienda. Organizzazione ed avviamento:


Secondo l'art. 2555 c.c. "l'azienda è il complesso di beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa".

L'azienda costituisce l'apparato strumentale (locali, macchinari, merci, ecc.) di cui l'imprenditore si avvale per lo svolgimento della propria attività.


BENI AZIENDALI E PROPRIETA': non possono essere considerati beni aziendali i beni di proprietà dell'imprenditore che non siano da questi effettivamente destinati allo svolgimento dell'attività d'impresa (es. abitazione di proprietà dell'imprenditore). Viceversa, sono beni aziendali anche i beni di proprietà di terzi di cui l'imprenditore può disporre in base ad un valido titolo giuridico, purché attualmente impiegati nell'attività d'impresa (es. locali dell'impresa presi in affitto o macchinario in leasing).


L'azienda è un insieme di beni eterogenei, ma è e resta anche un complesso caratterizzato da UNITA' FUNZIONALE per il coordinamento fra i diversi elementi costitutivi realizzato dall'imprenditore e soprattutto per l'unitaria destinazione ad uno specifico fine produttivo.

Organizzazione e destinazione ad un fine produttivo attribuiscono ai beni e all'azienda nel suo complesso specifico e particolare RILIEVO ECONOMICO.


Sul piano statico l'azienda si risolve nei beni che la compongono; sul piano dinamico essa è un nuovo "valore", per l'attitudine alla produzione di nuova ricchezza che l'organizzazione le conferisce.


AVVIAMENTO:

Il rapporto di strumentalità e di complementarietà fra i singoli elementi costitutivi dell'azienda, fa si che il complesso unitario acquisti di regola un valore di scambio maggiore della somma dei valori dei singoli beni che in un dato momento lo costituiscono. Tale maggior valore si definisce AVVIAMENTO.

È AVVIAMENTO OGGETTIVO quello ricollegabile a fattori suscettibili di permanere anche se muta il titolare dell'azienda in quanto insisti nel coordinamento funzionale esistente fra i diversi beni.

Si definisce invece AVVIAMENTO SOGGETTIVO quello dovuto all'abilità operativa dell'imprenditore sul mercato, ed in particolare alla sua abilità nel formarsi, conservare ed accrescere la clientela.


RILIEVO NORMATIVO:

L' unità economica dell'azienda e gli interessi, sia individuali sia generali, al mantenimento di tale unità trovano oggi significativo riconoscimento nella disciplina dettata dal C.C. per il trasferimento dell'azienda (art. 2556-2562).

Il trasferimento a titolo definitivo (es. vendita) o temporaneo (es. usufrutto ed affitto) dell'azienda comporta infatti peculiari effetti ex lege (divieto di concorrenza del cedente, successione nei contratti aziendali, ecc.) per favorire la conservazione dell'unità economica e del valore di avviamento dell'azienda, a tutela di quanti su tale misura e su tale valore hanno fatto affidamento (acquirente dell'azienda, lavoratori e creditori in primo luogo)




La circolazione dell'azienda. Oggetto e forma dei negozi traslativi:


L'azienda può formare oggetto di atti di disposizione di diversa natura: può essere venduta, conferita in società, donata e su di essa possono essere altresì costituiti diritti reali (usufrutto) o personali (affitto) di godimento a favore di terzi. Inoltre l'imprenditore può compiere anche atti di disposizione che riguardano uno o più beni aziendali.

Per aversi TRASFERIMENTO di azienda non è necessario che l'atto di disposizione comprenda l'intero complesso aziendale. In particolare la disciplina del trasferimento è applicabile anche quando l'imprenditore trasferisca un ramo particolare della sua azienda, purché dotato di organicità operativa.

NECESSARIO e SUFFUCIENTE è che sia trasferito un insieme di beni POTENZIALMENTE IDONEO ad essere utilizzato per l'esercizio di una determinata attività d'impresa (non necessariamente la stessa svolta del trasferente); e ciò quand'anche il nuovo titolare debba integrare il complesso con ulteriori fattori produttivi. È però necessario che i beni esclusi dal trasferimento non alterino l'unità economica e funzionale di quella data azienda.


Le FORME NEGOZIALI sono fissate dall'art. 2556, modificato dalla legge 310/93:


Forme per la validità del trasferimento:

Disciplina identica per ogni tipo di azienda (agricola e commerciale). I contratti sono validi se stipulati con l'osservanza "delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l'azienda o per la particolare natura del contratto". Ad esempio per il trasferimento in proprietà all'acquirente degli immobili aziendali di proprietà dell'alienante sarà necessaria la forma scritta a pena di nullità. Il conferimento dell'azienda in una società di capitali dovrà sempre avvenire per atto pubblico.


Forma per fini probatori e per l'opponibilità ai terzi:

Solo per le imprese soggette a registrazione con effetti di pubblicità legale è previsto che ogni atto di disposizione dell'azienda deve essere PROVATO PER ISCRITTO (art. 2556, 1° comma).

Per tutte le imprese soggette a registrazione è previsto che i relativi contratti di trasferimento devono essere iscritti nel registro delle imprese entro 30 giorni.

Solo l'iscrizione nella sezione ordinaria, se dovuta, produce gli effetti di pubblicità legale (opponibilità ai terzi).






La vendita dell'azienda. Il divieto di concorrenza dell'alienante:


DIVIETO DI CONCORRENZA DELL'ALIENANTE (ART. 2557):

Chi aliena un'azienda commerciale deve astenersi, per un periodo massimo di 5 anni dal trasferimento, dall'iniziare una nuova impresa che possa sviare la clientela dell'azienda ceduta.

Se l'azienda è agricola, il divieto opera solo per le attività ad essa connesse e sempre che rispetto a tali attività sia possibile lo sviamento della clientela.


Le RGIONI sono 2

Quella dell'acquirente dell'azienda di trattare la clientela dell'impresa e quindi di godere dell'avviamento (soggettivo) del quale di regola si è tenuto conto nella pattuizione del prezzo di vendita;

Quella dell'alienante a non vedere compressa la propria libertà di iniziativa economica oltre un determinato arco di tempo, ritenuto sufficiente per consentire all'acquirente di consolidare la propria clientela.


Le parti possono anche ampliare la portata dell'obbligo di astensione, purché non sia impedita ogni attività professionale all'alienante (art. 2557, 2°comma). È in ogni caso vietato prolungare oltre i 5 anni la durata del divieto (art. 2557, 3°comma).


VENDITA COATTIVA:

Il divieto è da ritenersi applicabili non solo alla vendita volontaria di azienda, ma anche quando la vendita è coattiva. Il divieto graverà perciò in testa all'imprenditore fallito nel caso di vendita in blocco dell'azienda da parte di organi fallimentari.

Pur essendosi dei casi controversi, è indubbio che in sede di divisione ereditaria o nello stabilire la quota di liquidazione spettante a ciascun socio, si tiene di regola conto anche del valore di avviamento dovuto alla clientela. Perciò si applica il divieto di concorrenza a favore dell'erede o del socio che subentra nell'azienda ed a carico degli altri eredi o degli altri soci.

È indubbio altresì che la vendita dell'intero pacchetto azionario o di una partecipazione di controllo permettano di raggiungere un risultato economico sostanzialmente coincidente con la vendita dell'azienda, quindi si applica il divieto di concorrenza per il socio alienante quando possa dar inizio ad attività idonea a determinare uno sviamento della clientela.




La successione nei contratti aziendali:


Per il mantenimento dell'unità economica è agevolato il subingresso dell'acquirente nei contratti in corso di esecuzione, che l'alienante ha stipulato con fornitori, finanziatori, lavoratori e clienti per assicurarsi i fattori produttivi necessari allo svolgimento dell'attività d'impresa, nonché per dare sbocco ai suoi prodotti.


Ci sono significative DEROGHE alla disciplina generale della cessione dei contratti (art. 1406 e ss):

È previsto che "se non è pattuito diversamente, l'acquirente dell'azienda subentra nei contratti stipulati per l'esercizio dell'azienda stessa che non abbiano carattere personale".

Al terzo contraente è riconosciuto il diritto di recedere dal contratto "entro 3 MESI dalla notizia del trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell'alienante". Inoltre per diritto comune la cessazione del contratto non può avvenire senza il consenso del contraente ceduto (art. 1406). Ma, quando il contratto è stipulato con un imprenditore ed ha per oggetto prestazioni (non personali) inerenti all'esercizio dell'impresa, il consenso del terzo contraente non è più necessario per il trasferimento del contratto e l'effetto successorio si produce ex lege con il trasferimento dell'azienda.


DIRITTO DI RECESSO:

È vero che il terzo contraente può recedere dal contratto e sciogliersi dal vincolo contrattuale con l'acquirente. Però il recesso potrà essere validamente esercitato solo se sussiste una GIUSTA CAUSA e gli spetterà quindi provare che l'acquirente dell'azienda si trova in una situazione oggettiva tale da non dare affidamento sulla regolare esecuzione del contratto. In caso di recesso il contratto si ESTINGUE definitivamente ed il terzo contraente può chiedere il risarcimento dei danni all'alienante dando la prova che questi non ha scelto con cautela l'acquirente.



Si favorisce quindi la circolazione di taluni rapporti contrattuali quali: contratto di lavoro subordinato (art. 2112), di consorzio (art. 2610), di edizione (art. 132 legge 22/4/1941, n°633), di locazione di immobili per l'esercizio di attività industriale, commerciale o artigiana.


I CONTRATTI PERSONALI:

Per il trasferimento di tali contratti occorre una ESPRESSA PATTUIZIONE CONTRATTUALE tra alienante ed acquirente, più il consenso del contraente ceduto.



I crediti e i debiti aziendali (art. 2559 e 2560):


Se l'imprenditore ha già adempiuto le obbligazioni a suo carico, residuerà un credito a suo favore nei confronti del terzo (es. ha venduto merci con pagamento differito). Viceversa residuerà un debito dell'imprenditore qualora il terzo contraente abbia integralmente eseguito le proprie prestazioni (es. l'imprenditore ha acquistato materie prime ma non ha ancora pagato).


CREDITI:

Per le imprese soggette a registrazione con effetti di pubblicità legale vale la sola ISCRIZIONE DEL TRASFERIMENTO DELL'AZIENDA NEL REGISTRO DELLE IMPRESE.

Da tale momento la (eventuale) cessione dei crediti relativi all'azienda ceduta ha effetto nei confronti dei terzi, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione. Tuttavia, "il debitore ceduto è libero se paga in buona fede all'alienante". Negli altri casi si applica la disciplina generale della cessione dei crediti.

DEBITI:

Vale il principio generale per cui non è ammesso il mutamento del debitore senza il consenso del creditore: l'alienante non è liberato da tali debiti se non risulta che i creditori vi hanno acconsentito.

Invece per le sole aziende commerciali "risponde dei debiti anche l'acquirente dell'azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori". Perciò, anche se manca un patto di accollo, l'acquirente di un'azienda commerciale risponde in solido con l'alienante nei confronti dei creditori che non abbiano consentito alla liberazione di quest'ultimo.


DEBITI DI LAVORO:

L'acquirente dell'azienda risponde in solido con l'alienante anche se non risultano dalle scritture contabili; ed oggi anche se l'acquirente non ne ha avuto conoscenza all'atto del trasferimento (nuovo art. 2112), (anche per aziende o ramo d'azienda non commerciale).

Non essendo disposto null'altro, prevale comunque negli orientamenti più recenti la tesi che crediti e debiti non passino automaticamente in testa all'acquirente, ma sia a tal fine necessaria un'espressa pattuizione.




Usufrutto e affitto dell azienda:


L'azienda può formare oggetto di un diritto reale o personale di godimento. Può essere costituita in usufrutto o può essere concessa in affitto.


USUFRUTTO:

Comporta il riconoscimento in testa all'usufruttuario di particolari POTERI-DOVERI (art. 2561):

Deve esercitare l'azienda sotto la ditta che la contraddistingue;

Deve condurre l'azienda senza modificarne la destinazione ed in modo da conservare l'efficienza dell'organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte.


La violazione di tali obblighi o la cessazione arbitraria della gestione dell'azienda determinano la cessazione dell'usufrutto per abuso dell'usufruttuario.

L'usufruttuario non solo può godere dei beni aziendali, ma ha anche il POTERE DI DISPORNE nei limiti segnati dalle esigenze della gestione.

Al termine dell'usufrutto l'azienda perciò risulterà composta in tutto o in parte da beni diversi da quelli originari. È pertanto previsto che venga redatto un INVENTARIO all'inizio ed alla fine dell'usufrutto e che la differenza fra le due consistenze venga regolata in denaro, sulla base dei valori correnti al termine dell'usufrutto.


AFFITTO:

L'affitto di azienda è contratto diverso dalla locazione di un immobile destinato all'esercizio di attività d'impresa: nel primo caso, oggetto del contratto è un complesso di beni organizzati, eventualmente comprensivo dell'immobile; nel secondo caso, il contratto ha per oggetto il locale in quanto tale.


La disciplina prevista per l'usufrutto si applica anche all'affitto (art. 2562).

Usufrutto ed affitto d'azienda sono regolati dalle norme in tema di vendita. Si applicano ad entrambi il divieto di concorrenza e la disciplina della successione nei contratti aziendali.

Il nuovo proprietario ed il locatore sono perciò tenuti a non iniziare una nuova impresa idonea a sviare la clientela per la durata dell'usufrutto e dell'affitto. Si applica invece solo all'usufrutto la disciplina dei crediti aziendali.

Dei debiti aziendali anteriori alla costituzione dell'usufrutto o dell'affitto risponderanno esclusivamente il nuovo proprietario o il locatore, salvo che i debiti di lavoro espressamente accollati anche al titolare del diritto di godimento.
































CAP. 6: I SEGNI DISTINTIVI



Il sistema dei segni distintivi:


La DITTA, l'INSEGNA ed il MARCHIO sono i tre principali segni distintivi dell'imprenditore:


A. La DITTA contraddistingue la persona dell'imprenditore nell'esercizio dell'attività d'impresa (c.d. nome commerciale);

B.    L'INSEGNA individua i locali in cui l'attività d'impresa è esercitata;

C.    Il MARCHIO individua e distingue i beni o i servizi prodotti.


I segni distintivi favoriscono la formazione ed il mantenimento della clientela in quanto consentono ai consumatori di distinguere fra i vari operatori economici e di effettuare scelte consapevoli: sono dei "collettori di clientela".



PRINCIPI COMUNI:

a.  L'imprenditore gode di ampia libertà nella formazione dei propri segni distintivi. È tenuto però a rispettare determinate regole, volte ad evitare inganno e confusione sul mercato: verità, novità e capacità distintiva;

b.  L'imprenditore ha diritto all'uso esclusivo dei propri segni distintivi. Si tratta però di un diritto non assoluto ma RELATIVO e STRUMENTALE, alla realizzazione della funzione distintiva rispetto agli imprenditori concorrenti. Il titolare di un segno distintivo non può perciò impedire che altri adottino il medesimo segno distintivo quando, per la diversità delle attività d'impresa o per la diversità dei mercati serviti, non vi è pericolo di confusione e di sviamento della clientela.

c.  L'imprenditore può trasferire ad altri i propri segni distintivi.



Da tutto ciò emerge che i tre segni distintivi tipici dell'imprenditore sono sì tutelati sul piano patrimoniale, ma in modo non pieno ed assoluto ed infatti il carattere relativo e funzionale della tutela rende controverso se i segni distintivi possono essere inquadrati o meno nella categoria dei beni immateriali e, quindi, se si possa parlare di un vero e proprio diritto di proprietà su un bene immateriale.

(Il CAMPOBASSO è per il concetto di proprietà limitata e funzionale).




P.S. Esistono segni distintivi ATIPICI: i segni distintivi non costituiscono un n° chiuso e l'imprenditore può avvalersi di altri simboli di identificazione sul mercato.



A. LA DITTA:



Formazione della ditta e contenuto del diritto sulla ditta:


La DITTA è il nome commerciale dell'imprenditore, lo individua come soggetto di diritto nell'attività d'impresa. Ed è segno distintivo NECESSARIO in quanto in mancanza di diversa scelta essa coincide con il nome civile dell'imprenditore.

Non è però necessario che la ditta corrisponda al nome civile: essa può essere liberamente prescelta dall'imprenditore (art. 2563 c.c.). la scelta dell'imprenditore incontra però due limiti rappresentati dal rispetto dei principi di VERITA' e NOVITA':


VERITA': assume un contenuto diverso a seconda che si tratti di DITTA ORIGINARIA o DITTA DERIVATA .

La DITTA ORIGINARIA è quella formata dall'imprenditore che la utilizza. Essa deve contenere almeno il cognome o la sigla dell'imprenditore. Tanto è necessario e sufficiente perché sia soddisfatto il requisito della verità, restando poi l'imprenditore libero di completare come vuole la propria ditta;

La DITTA DERIVATA è quella formata da un dato imprenditore e poi trasferita ad un altro imprenditore insieme all'azienda. L'art. 2563 nel porre il principio della verità della ditta fa salvo quanto è disposto nell'art. 2565 (trasferimento della ditta): non impongono a chi utilizzi una ditta derivata di integrarla col proprio COGNOME o SIGLA.


NOVITA': (Art. 2564 c.c.). La ditta non deve essere uguale o simile a quella usata da altro imprenditore e tale da creare confusione per l'oggetto dell'impresa o per il luogo in cui questa è esercitata. Chi ha adottato per primo una data ditta ha perciò diritto all'uso esclusivo della stessa, e tale diritto è acquisito per il solo fatto dell'uso della ditta.

Chi successivamente adotti ditta uguale o simile può essere costretto ad integrare o modificare con indicazioni idonee a differenziarla, e ciò quand'anche la ditta utilizzata corrisponde al nome civile dell'imprenditore (c.d. DITTA PATRONICA).




Per le IMPRESE COMMERCIALI trova applicazione il criterio della priorità dell'iscrizione nel registro delle imprese. La recente attuazione del registro delle imprese rende applicabile il 2°comma dell'art. 2564 in base al quale "per le imprese commerciali l'obbligo dell'integrazione e modificazione spetta a chi ha iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore".

Il diritto all'uso esclusivo è quindi DIRITTO RELATIVO perché è possibile l'anonimia fra ditte che non creano confusione sul mercato, non potendosi imporre la differenziazione a chi produce beni e servizi destinati a soddisfare bisogni diversi dei consumatori, né a chi opera in un diverso ambito territoriale.




Il trasferimento della ditta:


La ditta è trasferibile, ma solo insieme all'AZIENDA (art. 2565 c.c.). Se il trasferimento avviene per atto fra vivi, è necessario il consenso espresso dell'alienante. Regola opposta vale se l'azienda è acquisita per successione a causa di morte: la ditta si trasmette al successore, salvo diversa disposizione testamentaria.

Si ritiene che chi ha trasferito l'azienda è responsabile in solido con l'acquirente per i debiti da questo contratti spendendo la ditta derivata, qualora il 3° contraente abbia potuto ragionevolmente ritenere di trattare con il cedente.

Il risultato pratico è che si addossa all'alienante l'onere di portare a conoscenza dei terzi, con mezzi idonei, l'avvenuto trasferimento dell'azienda e della ditta se si tratta di impresa non commerciale, ovvero e comunque di imporre all'acquirente di integrare la ditta con indicazioni non equivoche.




Ditta e nome civile. Ditta e nome delle società:


Il NOME CIVILE è attribuito per legge ed è a struttura fissa, risultando composto dal prenome e dal cognome; è inoltre unico e non liberamente modificabile.

Il nome civile è un attributo della personalità e come tale è tutelato nei limiti fissati dagli art. 7/9 c.c. (è INDISPONIBILE e INTRASMISSIBILE).


La DITTA è tutelata come mezzo di attrazione della clientela e come valore patrimoniale (bene immateriale). Perciò mentre l'omonimia fra nomi civili è sempre ammessa, non è invece consentita fra ditte di imprenditori in rapporto di concorrenza, quand'anche entrambe corrispondenti ai rispettivi nomi civili.


La distinzione fra NOME CIVILE e NOME COMMERCIALE (DITTA) è valida anche per le società (art. 2567 c.c.): la norma stabilisce che la ragione sociale della società di persone e la denominazione sociale delle società di capitali e delle cooperative, sono regolate dalle norme specificamente dettate per le società, ma si applicano anche ad esse le disposizioni dell'art. 2564 : il DIVIETO di utilizzare ditta uguale o simile a quella di altro imprenditore concorrente. Non valgono invece gli art. 2563 e 2565 c.c.



RAGIONE SOCIALE e DENOMINAZIONE SOCIALE non vanno identificate con la DITTA, ma vanno poste sullo stesso piano del NOME CIVILE.



CONCLUSIONI:

Le società devono avere una ragione sociale o denominazione sociale formata rispettando le norme specificatamente dettate;

Il nome di una società non può essere uguale o simile a quello prescelto da altra società concorrente e non è trasferibile;

Le società possono avere una ditta originaria formata rispettando le norme sulla ditta (dovrà includere la ragione e la denominazione sociale);

Ditte rimangono distinte dal nome e potranno essere trasferite con l'azienda.





B. IL MARCHIO:



Nozione e funzioni del marchio:


Il marchio è il segno distintivo dei prodotti o dei servizi d'impresa, non è un segno distintivo ESSENZIALE ma è il più importante.

Il marchio è disciplinato:

Nell'ordinamento nazionale dagli art. 2569 e 2574 del cod.civ. e dalla legge Marchi 929/42, modificati dal d.lgs 480/92 e dal d.lgs 198/86.

Nell'ordinamento internazionale dalla Convenzione dell'Unione di Parigi 1883 e dall'Accordo di Madrid 1891. Entrambe le normative, imperniate sull'istituto della registrazione del marchio, riconoscono al titolare del marchio, rispondente a diversi requisiti di validità: il diritto all'uso esclusivo dello stesso, così permettendo che il marchio assolva pienamente la sua funzione di identificazione del prodotto sul mercato. Non esiste il divieto di circolazione del marchio separatamente dall'azienda e soprattutto è riconosciuta la legittimità del COUSO di uno stesso marchio da parte di più imprenditori concorrenti, sulla base di una licenza di marchio NON esclusiva concessa dal titolare stesso.



Fra le funzioni del marchio giuridicamente riconosciute e protette non può riconoscersi quella di GARANZIA della qualità dei prodotti.



I tipi di marchio:


MARCHIO DI FABBRICA marchio di cui si serve il fabbricante del prodotto. Infatti i beni che subiscono diverse fasi di lavorazione possono presentare più marchi di fabbrica .


MARCHIO DI COMMERCIO: è quello apposto da un commerciante, sia esso un distributore intermedio (grossista) o il rivenditore finale. Il rivenditore può apporre il proprio marchio ai prodotti che mette in vendita, ma non può sopprimere il marchio del produttore.


MARCHIO DI SERVIZIO: marchio utilizzato da imprese che producono servizi.


MARCHIO GENERALE SPECIALE: l'imprenditore può utilizzare un solo marchio per tutti i suoi prodotti (marchio generale), ma può anche servirsi di più marchi.


MARCHIO DENOMINATIVO: è costituito solo da parole e può coincidere con la ditta o il nome civile dell'imprenditore, quand'anche questo non faccia parte della ditta.


MARCHIO FIGURATIVO: formato solo da figure, lettere, cifre, disegni e colori.


MARCHIO DI FORMA: è costituito dalla forma del prodotto stesso.


MARCHIO COLLETTIVO: si distingue nettament dai marchi d'impresa in quanto titolare del marchio collettivo è un soggetto che svolge la "funzione di garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi". Questi marchi (es. PURA LANA VERGINE, PROSCIUTTO DI PARMA), sono utilizzati in aggiunta a quelli individuali e assolvono una limitata funzione di garanzia.




I requisiti di validità del marchio:


Per essere tutelato giuridicamente il marchio deve rispettare 4 requisiti di validità:

LICEITA

VERITA

ORIGINALITA

NOVITA



LICEITA

Il marchio non deve contenere segni contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume; stemmi o altri segni protetti da convenzione internazionale; segni lesivi di un altrui diritto d'autore o di proprietà industriale.

Se si vuole usare come marchio il nome di una persona che ha acquisito notorietà o anche il suo pseudonimo, è necessario il consenso dell'interessato o dei suoi eredi.

Per le persone non note resta la regola originale: il nome altrui può essere inscritto nel marchio anche senza il consenso dell'interessato.


2) VERITA':

Questo principio vieta di inserire nel marchio "segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità di prodotti o servizi.


3) ORIGINALITA':

Per assolvere la sua funzione il marchi deve essere ORIGINALE. Deve cioè essere composto in modo da consentire l'individuazione dei prodotti contrassegnati fra tutti i prodotti dello stesso genere immessi sul mercato.




Il legislatore predetermina i tipi di segni privi di tale capacità distintiva:

a.  Le denominazioni generiche del prodotto ad esempio un marchio di calzature non potrà essere esclusivamente costituito dalla parola "scarpe";

b.  Le indicazioni descrittive dei caratteri essenziali delle perstazioni e (salvo che per i marchi collettivi) della provenienza geografica del prodotto;

c.  I segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente, come le parole "super", "extra", "lusso".


MARCHI DEBOLI: è infine possibile usare come marchio denominazioni generiche o parole di uso comune modificate o combinate fra loro in modo fantasioso. Quindi basterebbero lievi modifiche per escludere la confondibilità con altri marchi.


MARCHI FORTI: quelli dotati di accentuata capacità distintiva e sono tali, in genere, i marchi di pura fantasia.


SECONDARY MEANING: si verifica quando un marchio, inizialmente dotato di scarsa capacità distintiva diventa poi forte a seguito della notorietà acquisita verso il pubblico.

Può:    1) far acquistare carattere distintivo ad un segno che originariamente ne era privo, rendendo poi possibile la registrazione come marchio

2) può trasformare un marchio nullo in un marchio valido.



4) NOVITA':

La legge Marchi introduce al riguardo una distinzione tra:

Marchi ordinari: non sono i segni che possono determinare un rischio di confusione per il pubblico, perché identici o simili ad un segno già noto come marchio, ditta o insegna di altro imprenditore concorrente o comunque già registrato da altri come marchio per PRODOTTI IDENTICI o AFFINI;

Marchio celebre: non è necessario il rapporto di affinità se il marchio già registrato è diventato un marchio celebre. Infatti, è ex lege non nuovo il marchio confondibile da altri successivamente utilizzato per prodotti o servizi "non affini", se chi lo usa trarrebbe indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del segno anteriore, o recherebbe pregiudizio agli stessi.


Esistono però 2 eccezioni:

La nullità del marchio per difetto di NOVITA' non può essere più dichiarata quando chi ha richiesto la registrazione non era in mala fede ed il titolare del marchio anteriore ne abbia tollerato l'uso per 5 anni. È questo l'istituto della CONVALIDA del marchio che comporta in ogni caso la coesistenza dei 2 marchi confondibili;

La nullità del marchio per difetto di ORIGINALITA' non può essere dichiarata nel caso di sopravvenuta SECONDARY MEANING.








Il marchio registrato:


Il titolare di un marchio ha diritto all'uso ESCLUSIVO del marchio prescelto. La tutela del marchio è sensibilmente diversa a seconda che si tratti di un marchio registrato o meno presso l'Ufficio Italiano Brevetti e Marchi.

La registrazione attribuisce al titolare del marchio il diritto all'uso esclusivo dello stesso su tutto il territorio nazionale, quale che sia l'effettiva diffusione territoriale dei suoi prodotti. Il diritto di esclusiva sul marchio registrato copre non solo i prodotti identici ma anche quelli AFFINI.


Per i MARCHI CELEBRI è vietato l'uso anche per merci del tutto diverse, infatti oltre a costituire "usurpazione dell'altrui fama", può facilmente determinare equivoci sulla reale fonte di produzione, per la spontanea tendenza a riferire qualsiasi prodotto contrassegnato da un marchio celebre allo stesso fabbricante.


DECORRENZA:

Il diritto di esclusiva sul marchio registrato decorre dalla data di presentazione della relativa domanda all'Ufficio Brevetti. Il titolare di un marchio registrato è tutelato ancor prima che inizi ad utilizzare il marchio stesso e quindi anche nella fase di lancio pubblicitario di un nuovo prodotto.

Una volta presentata la domanda di registrazione ogni marchio uguale o simile è ex lege nullo per difetto del requisito di NOVITA'.


DURATA:

La registrazione Nazionale dura 10 anni e non più 20, è però rinnovabile per un numero infinito di volte, sempre con efficacia decennale. La registrazione assicura una tutela perpetua salvo che non sia successivamente dichiarata la nullità del marchio per difetto di uno dei requisiti essenziali o non sopravvenga causa di decadenza.

Dal marchi si DECADE, anche parzialmente, per:

VOLGARIZZAZIONE: si ha quando il marchio è divenuto nel commercio denominazione generica di quel dato prodotto (es. aspirina, cellophane, ecc.);

SOPRAVVENUTA INGANNEVOLEZZA dello stesso;

MANCATA UTILIZZAZIONE entro 5 anni dalla registrazione o se l'utilizzazione è stata sospesa per egual periodo.



AZIONE DI CONTRAFFAZIONE:

È l'azione che il titolare del marchio registrato può promuovere contro il concorrente che ha leso il diritto all'uso esclusivo dello stesso. È un'azione volta ad ottenere l'INIBITORIA alla continuazione degli atti lesivi de proprio diritto e la rimozione degli effetti degli stessi, attraverso la distruzione delle cose materiali per mezzo delle quali è stata attuata la contraffazione. Resta fermo il diritto del titolare del marchio al risarcimento dei danni se sussiste dolo o colpa del contraffattore.

Il marchio di fatto:


L'ordinamento tutela anche chi usi un marchio senza registrarlo: secondo l'art. 2571 "chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la facoltà di continuare ad usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è avvalso".

La tutela del diritto di esclusiva sul marchio non registrato si fonda perciò sull'USO DI FATTO dello stesso e sull'effettivo grado di notorietà raggiunto.


NOTORIETA' NAZIONALE: Il titolare di un marchio non registrato, diventato noto su tutto il territorio nazionale, potrà impedire che altri usi in fatto lo stesso marchio per gli stessi prodotti, ma non per prodotti affini.

Può anche ottenere che sia dichiarato nullo, per difetto del requisito di NOVITA', un marchio confondibile successivamente registrato.


NOTORIETA' LOCALE: il titolare di un marchio non registrato con notorietà locale non potrà impedire che altro imprenditore usi di fatto lo stesso marchio per gli stessi prodotti in altra zona del territorio nazionale.

Non potrò inoltre impedire che un concorrente registri validamente lo stesso marchio ed in questo caso potrà solo continuare ad usare il proprio marchio nei limiti della diffusione locale.




Il trasferimento del marchio:


Il marchio è TRASFERIBILE, e può essere trasferito sia a titolo definitivo sia a titolo temporaneo (c.d. LICENZA di MARCHIO).

Il marchio può essere trasferito o concesso in licenza, per tutti o per parte dei prodotti per i quali è stato registrato, senza che sia necessario il contemporaneo trasferimento dell'azienda o del corrispondente ramo produttivo. Resta però ferma la regola che il trasferimento del marchio non costituito dalla ditta originaria si presume quando è trasferita l'azienda.



LICENZA DI MARCHIO NON ESCLUSIVA:

Uno stesso marchio può essere contemporaneamente utilizzato dal titolare originario e da uno o più concessionari, sia per la totalità sia per una parte dei prodotti per i quali il marchio è stato registrato.

La licenza non esclusiva è inoltre subordinata alla condizione che il licenziatario si obblighi ad utilizzare il marchio per prodotti con caratteristiche qualitative uguali a quelle dei corrispondenti prodotti messi in commercio dal concedente, pena la DECADENZA.






C. L INSEGNA:


Nozione e disciplina:


La disciplina dell'insegna si esaurisce nell'art. 2568, che dichiara applicabile alla stessa il 1° comma dell'art. 2564. L'insegna contraddistingue i locali dell'impresa, non potrà perciò essere uguale o simile a quella già utilizzata da altro imprenditore concorrente qualora possa generare confusione nel pubblico, con l'obbligo quindi di differenziazione (NOVITA').


L INSEGNA dovrà quindi :

essere lecita;

Non dovrà contenere indicazione idonee a trarre in inganno il pubblico circa l'attività o i prodotti (VERIDICITA');

Dovrà avere sufficiente capacità distintiva (ORIGINALITA').



Per quanto riguarda il TRASFERIMENTO dell'insegna vale la stessa disciplina applicata al marchio, quindi l'insegna non può essere trasferita.
























CAP. 8: LA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA



A. LA LEGISLAZIONE ANTIMONOPOLISTICA:


Concorrenza perfetta e monopolio:


MODELLO IDEALE DI MERCATO (c.d. CONCORRENZA PERFETTA):

Contemporanea presenza sul mercato di una pluralità di operatori economici in competizione fra loro per rispondere alla domanda di beni e servizi proveniente dalla collettività, con conseguente frazionamento dell'offerta fra più imprese nessuna delle quali sia singolarmente in grado di condizionare il prezzo delle merci vendute.

Questo però è solo un modello IDEALE e TEORICO. Infatti la non omogenea distribuzione territoriale delle risorse naturali, gli ingenti investimenti di capitali richiesti dalla moderna produzione industriale di massa, la scarsa mobilità della mano d'opera, l'impossibilità in certi settori di produrre a costi competitivi se non si raggiungono dimensioni aziendali cospicue, sono tutti fattori che limitano la libertà di accesso al mercato di nuovi operatori e spingono le imprese ad accrescere le proprie dimensioni, a concentrarsi ed a collegarsi.


[Le imprese dedite alla produzione industriale di massa diventano perciò sempre meno numerose e sempre + grandi dando così vita in taluni settori a situazioni di OLIGOPOLIO (mercato caratterizzato dal controllo dell'offerta da parte di poche grandi imprese. Si può anche arrivare al punto in cui tutta l'offerta di un dato prodotto è controllata da una sola impresa o da poche grandi imprese coalizzate (c.d. MONOPOLIO DI FATTO).]


L'art. 2595 c.c. dispone che "la concorrenza deve svolgersi in modo da non ledere gli interessi dell'economia nazionale", mentre l'art. 41 cost. ribadisce che l'iniziativa economica privata è si libera, ma "non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale".



DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA:

Fissato il principio guida della libertà di concorrenza, il legislatore italiano:


Consente limitazioni legali della stessa per fini di utilità sociale ad anche la creazione di monopoli legali in specifici settori di interesse generale;


Ricollega alla stipulazione di determinati contratti divieti di concorrenza fra le parti, finalizzati al corretto svolgimento del rapporto cui accedono ed alla tutela degli interessi patrimoniali del beneficiario del divieto stesso;


Consente limitazioni negoziali della concorrenza, ma ne subordina nel contempo la validità al rispetto di condizioni che non comportino un radicale sacrificio della libertà d'iniziativa;


Assicura l'ordinato e corretto svolgimento della concorrenza attraverso la repressione degli atti di concorrenza sleale.



A partire dalla metà degli anni '50 la lacuna dovuta alla mancanza di una normativa antimonopolistica è stata parzialmente colmata dalla diretta applicabilità nel nostro ordinamento della disciplina ANTITRUST, dettata dai Trattati istitutivi della Comunità Economica Europea, che però consentiva e consente di colpire solo le pratiche che possono pregiudicare il regime concorrenziale del mercato comune europeo. Da qui l'esigenza di colmare tale vuoto affiancando alla normativa comunitaria una normativa antimonopolistica nazionale. Tale vuoto è stato colmato dalla LEGGE 10-10-1990 N°287, che ha introdotto una disciplina antimonopolistica nazionale a carattere generale.




La disciplina Italiana e comunitaria:


PRINCIPIO CARDINE: la libertà d'iniziativa economica e la competizione fra imprese non possono tradursi in atti e comportamenti che pregiudicano in modo rilevante e durevole la struttura concorrenziale del mercato (DISCIPLINA COMUNITARIA).

È questo il principio cardine della legislazione antimonopolistica dell'unione Europea. Questa disciplina è volta a preservare il regime concorrenziale del mercato comunitario e a reprimere le pratiche anticoncorrenziali che pregiudicano il commercio fra gli stati membri.


DISCIPLINA ITALIANA:

Lo stesso principio viene recepito oggi dalla legislazione italiana, grazie alla legge 287/90 (ANTITRUST) volta a preservare il regime concorrenziale del mercato nazionale e a reprimere i comportamenti anticoncorrenziali.

Questa legge ha istituito un apposito organo pubblico indipendente, l'AUTORITA' GARANTE della CONCORRENZA e del MERCATO, che vigila sul rispetto della normativa antimonopolistica generale.

L'Autorità garante è investita di ampi poteri di indagine ed ispettivi, adotta i provvedimenti antimonopolistici necessari ed irroga le sanzioni amministrative pecuniarie previste dalla legge. Contro i provvedimenti amministrativi dell'autorità può essere preposto ricorso giudiziario per il quale è competente esclusivamente il TAR LAZIO. Le azioni di nullità e di risarcimento dei danni, nonché i ricorsi diretti ad ottenere provvedimenti di urgenza vanno invece promossi dinnanzi alla CORTE DI APPELLO competente per territorio. Si omette quindi il primo grado di giudizio dinnanzi al tribunale.


PRINCIPIO DELLA BARRIERA UNICA:

Rende applicabile la normativa interna solo se tali fenomeni non ricadono nell'ambito di applicazione della normativa comunitaria. La competenza dell'Autorità italiana ha perciò carattere residuale: è circoscritta alle pratiche anticoncorrenziale che hanno rilievo esclusivamente locale e non incidono sulla concorrenza nel mercato comunitario. Per queste ultime è invece applicabile solo il diritto comunitario della concorrenza (c.d. principio della barriera unica).

Le singole fattispecie. Le intese restrittive della concorrenza:


Tre sono i fenomeni rilevanti per la disciplina antimonopolistica nazionale e comunitaria:

Le intese restrittive della concorrenza;

Gli abusi di posizione dominante;

Le concentrazioni.


1) INTESE:


Sono comportamenti concordati fra imprese volti a limitare la propria libertà di azione sul mercato. Sono considerate intese:

Gli accordi fra imprese;

Le deliberazioni di consorzi, di associazioni di imprese e di altri organismi similari;

Le pratiche concordate fra imprese.


VIETATE sono solo le intese che "abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza" all'interno del mercato o in una sua parte rilevante. La legge elenca 5 tipi di intese espressamente vietate:

Fissare direttamente o indirettamente i prezzi di acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali;

Impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico;

Ripartire i mercati e le fonti di approvvigionamento;

Applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza;

Subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte di altri contraenti di prestazioni supplementari che non abbiano alcun rapporto con l'oggetto dei contratti stessi.


Sono quindi LECITE le cosiddette intese minori, quelle intese cioè che per la struttura del mercato interessato, le caratteristiche delle imprese operanti e gli effetti sull'andamento dell'offerta non incidono sull'assetto concorrenziale del mercato.



SANZIONI:

Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto. Chiunque può agire in giudizio per farne accettare la nullità. L'Autorità accerta con apposita istruttoria le infrazioni commesse, adotta i provvedimenti per la rimozione degli effetti anticoncorrenziali già prodottisi ed irroga le sanzioni pecuniarie.


ESENZIONI:

L'Autorità può concedere esenzioni temporanee purché ricorrano le condizioni previste dalla legge. In particolare, si deve trattare di intese che migliorano le condizioni di offerta sul mercato e producono un sostanziale beneficio per i consumatori in termini di aumento della produzione, di miglioramento qualitativo della stessa o della distribuzione di progresso tecnico.





2) ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE:


Vietato è solo lo sfruttamento abusivo di tale posizione dominante, individuale o collettiva, con comportamenti lesivi dei concorrenti e dei consumatori capaci di pregiudicare la concorrenza effettiva.

Nella valutazione della posizione dominante un ruolo decisivo gioca l'individuazione merceologica e geografica del MERCATO RILEVANTE (comprende tutti i prodotti e/o servizi che sono considerati intercambiabili o sostituibili dal consumatore, in ragione delle caratteristiche dei prodotti, dei loro prezzi e dell'uso al quale sono destinati).

I comportamenti tipici che possono dar luogo ad abuso di posizione sono gli stessi delle intese (vedi i 5 punti sopra).

Il divieto di abuso di posizione dominante non ammette eccezioni. Accertata l'infrazione l'Autorità competente ne ordina la cessazione prendendo le misure necessarie. Infligge inoltre sanzioni pecuniarie identiche a quelle stabilite per le intese e l'Autorità italiana può anche disporre la sospensione dell'attività dell'impresa fino a 30giorni.





3) CONCENTRAZIONI:


Si ha concentrazione quando:

a.  Due o più imprese si fondono dando così luogo ad un'unica impresa (concentrazione giuridica);

b.  Due o più imprese pur restando giuridicamente distinte, diventano un'unica entità economica (concentrazione economica); sono cioè sottoposte con qualsiasi mezzo ad un controllo unitario che consente di esercitare un'influenza determinante sull'attività produttiva delle imprese controllate;

c.  Due o più imprese indipendenti costituiscono un'impresa societaria comune.


Le concentrazioni costituiscono un utile strumento di ristrutturazione e non sono di per sé vietate in quanto rispondono all'esigenza di accrescere la competitività delle imprese. Diventano però ILLECITE e VIETATE quando danno luogo a gravi alterazioni del regime concorrenziale del mercato, pericolo che sussiste solo per le concentrazioni di maggiori dimensioni.


È perciò stabilito che le operazioni di concentrazione che superano determinate soglie di fatturato, a livello nazionale o comunitario, devono essere preventivamente comunicate all'Autorità italiana o alla Commissione CEE, al fine di valutare se esse comportano la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante che elimina o riduce in modo sostanziale e durevole la concorrenza sul mercato nazionale o comunitario.


Se l'Autorità ritiene di dover indagare apre un'apposita istruttoria che si deve concludere entro 45giorni.

Terminata l'istruttoria, l'Autorità può vietare la concentrazione;

Se la concentrazione è già realizzata, prescrive le misure necessarie a ripristinare condizioni di concorrenza effettiva e ad eliminare gli effetti distorsivi;

Se le imprese non si adeguano o non pongono in essere comunque a concentrazione, si hanno pesanti sanzioni pecuniarie che possono giungere fino al 10% del fatturato delle imprese interessate.


Non sono NULLE le operazioni svolte dalle imprese. I terzi possono richiedere il risarcimento dei danni in via giudiziaria, fermo restando che l'Autorità può imporre il compimento di operazioni inverse a quelle che hanno determinato una concentrazione vietata (es. scissione o vendita totale o parziale della partecipazione azionaria).






B. LE LIMITAZIONI DELLA CONCORRENZA:


Limitazioni pubblicistiche e monopoli legali:


Art. 41 Cost. la libertà di iniziativa economica privata e la conseguente libertà di concorrenza sono libertà disposte nell'interesse generale e non possono svolgersi "in contrasto con l'utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà , alla dignità umana".

Sia la Costituzione (art. 41, 3°comma), sia il codice civile (art. 2595) consentono che tali libertà possono essere compromesse e limitate dai pubblici poteri che devono rispondere ai fini di utilità sociale e devono essere disposti da parte del legislatore ordinario (principio della RISERVA DI LEGGE).


LIMITAZIONI della LIBERTA' di CONCORRENZA:

A)    I controlli sull'accesso al mercato di nuovi imprenditori sono attuati subordinando l'esercizio di determinate attività a concessione o ad autorizzazione amministrativa (es. imprese bancarie);

B)    Ampi poteri di indirizzo e di controllo dell'attività riconosciuti alla Pubblica Amministrazione;

C)    Il CIP (Comitato interministeriale prezzi) fissa prezzi di imperio per beni e servizi strategici o di largo consumo. Oggi sono sottoposti ad un regime di prezzi amministrati: le fonti di energia, i medicinali, i giornali, ecc.



MONOPOLI LEGALI:

Interesse generale può legittimare la radicale soppressione della libertà di iniziativa economica privata e di concorrenza. L'art. 43 Cost. pone peraltro una serie di limiti, formali e sostanziali, al riconosciuto potere statale di creare monopoli pubblici. È necessario che la riserva di attività sia disposta con legge ordinaria e che il sacrificio della libertà di iniziativa risponda ai fini di utilità generale. Inoltre sono predeterminati in modo tassativo i settori nei quali può essere legittimamente istituito un monopolio pubblico.




Obbligo di contrarre del monopolista:


L'art. 2597 c.c. pone un duplice obbligo a carico di chi opera in regime di monopolio:


Obbligo di contrarre del monopolista con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto d'impresa. L'obbligo sussiste solo per le richieste che siano compatibili con i mezzi ordinari dell'impresa (art. 1679, 1°comma). Inoltre le richieste dovranno essere soddisfatte secondo il loro ordine cronologico;

Rispetto del principio della parità di trattamento comporta che il monopolista debba predeterminare e rendere note al pubblico le proprie condizioni contrattuali che sono in larga parte fissate in via legislativa o sottoposte a preventiva approvazione amministrativa, per ragioni di tutela dei consumatori.


La parità di trattamento non implica però che le condizioni contrattuali debbano essere necessariamente le stesse per tutti gli utenti. Potranno anche essere previste modalità e tariffe differenziate, purché predeterminati i relativi presupposti di applicazione e che ne possa godere chiunque si trovi nelle condizioni richieste.

Ogni altra DEROGA alle condizioni generali di contratto è NULLA e la singola clausola difforme è sostituita ex lege da quella prevista nelle condizioni generali.



Al MONOPOLISTA DI FATTO è applicabile invece la normativa introdotta dalla legge 287/90 (ANTITRUST): ciò consente di reprimere le pratiche discriminatorie e vessatorie poste in essere dallo stesso nei confronti di altri imprenditori. l'ingiustificato rifiuto di vendere i propri prodotti a determinati commercianti o l'imposizione di condizioni vessatorie ed arbitrarie (BOICOTTAGGIO) configurano un classico abuso di posizione dominante, e come tale può essere sanzionato.




I divieti legali di concorrenza:


Nel codice civile si rinvengono norme che pongono a carico di soggetti legati da particolari rapporti contrattuali l'obbligo di astenersi dal far concorrenza alla controparte (c.d. DIVIETI LEGALI DI CONCORRENZA):

A)    OBBLIGO DI FEDELTA': a carico dei prestatori di lavoro, fa divieto agli stessi di trattare affari in concorrenza con l'impresa fino a quando dura il rapporto di lavoro;

B)   DIVIETO DI ESERCITARE direttamente o indirettamente ATTIVITA' CONCORRENTE con quella della società: posto a carico dei soci a responsabilità illimitata di società di persone e degli amministratori di società di capitali;

C)   DIRITTO DI ESCLUSIVA RECIPROCA NEL CONTRATTO DI GARANZIA: né il proponente può servirsi contemporaneamente di più agenti per la stessa zona e per lo stesso ramo di attività, né l'agente può assumere l'incarico in una stessa zona per più imprese in concorrenza fra loro.




Limitazioni convenzionali della concorrenza:


L'art. 2596 c.c. consente la stipulazione di patti restrittivi della concorrenza e detta una disciplina di carattere generale degli stessi fondata su 3 regole:

Il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto;

Il patto stesso è valido solo se circoscritto ad un determinato ambito territoriale o ad un determinato tipo di attività;

Limite di durata massima di 5 anni.



È opportuno considerare separatamente due distinte categorie di patti anticoncorrenziali: PATTI AUTONOMI e PATTI ACCESSORI.


PATTI AUTONOMI:

Sono autonomi contratti che hanno come oggetto e funzione esclusivi la restrizione della libertà di concorrenza.

Un tale contratto può porre obblighi di non concorrenza a carico di una sola delle parti (c.d. RESTRIZIONI UNILATERALI), oppure obblighi di non concorrenza a carico di tutti gli imprenditori partecipanti all'impresa (c.d. RESTRIZIONI RECIPROCHE)

Questi ultimi contratti si definiscono CARTELLI o INTESE e prevedono impegni reciproci di vario tipo. Le finalità di un cartello possono essere realizzate anche attraverso la stipulazione di un contratto di CONSORZIO.



2) PATTI ACCESSORI:

Le restrizioni negoziali della concorrenza possono atteggiarsi come clausola accessoria di altro contratto avente diverso oggetto. Tali pattuizioni possono preveder sia restrizioni della concorrenza a carico di una sola delle parti, sia restrizioni reciproche, inoltre possono intercorrere sia fra imprenditori in diretta concorrenza fra loro sia fra imprenditori operanti a livelli diversi.

Il codice regola distintamente:

a.  La CLAUSOLA DI ESCLUSIVITA' che può essere convenzionalmente inserita in un contratto di somministrazione ( è espressamente prevista una durata corrispondente a quella del contratto base);

b.  Il PATTO DI PREFERENZA a favore del somministrante inseribile nello stesso contratto di somministrazione. Con tale patto, che non può eccedere la durata di 5 anni, il somministrato si obbliga a preferire, a parità di condizioni, lo stesso somministrante qualora intenda stipulare u successivo contratto di somministrazione per lo stesso oggetto;

c.  Il PATTO DI NON CONCORRENZA con il quale si limita l'attività del prestatore di lavoro per il tempo successivo alla cessazione del contratto;

d.  Il PATTO CON CUI SI LIMITA LA CONCORRENZA DELL'AGENTE dopo lo scioglimento del contratto di agenzia. Tale patto deve farsi per iscritto e non può durare più di 2 anni.


N.B.:Il limite di 5 anni posto dall'art. 2596 si applica solo alle clausole innominate che comportano limitazioni della concorrenza non funzionali al tipo di contratto cui accedono.






C. LA CONCORRENZA SLEALE:


Libertà di concorrenza e disciplina della concorrenza sleale:


Nel perseguimento degli obbiettivi di conquista del pubblico potenziale e del maggior successo economico, ciascun imprenditore gode di ampia libertà di azione e può porre in atto le tecniche e le strategie più proficue per attrarre a se la clientela e sottrarla ad altri. Il danno che un imprenditore subisce a causa della sottrazione della clientela da parte dei concorrenti non è danno ingiusto e risarcibile.

È tuttavia interesse generale che la competizione fra imprenditori avvenga in modo corretto.


Nell'ordinamento vigente vi è la disciplina della CONCORRENZA SLEALE (art. 2598-2601), i cui principi base possono essere così fissati: nello svolgimento della competizione fra imprenditori concorrenti è vietato servirsi di mezzi e tecniche non conformi ai "principi della correttezza professionale".

I fatti, gli atti e i comportamenti che violano tale regola sono:

ATTI di CONFUSIONE;

ATTI di DENIGRAZIONE;

ATTI di VANTERIA.

[sono atti di concorrenza sleale, c.d. ILLECITO CONCORRENZIALE].


Tali atti sono repressi e sanzionati anche se compiuti senza dolo o colpa e anche se non hanno ancora arrecato un danno ai concorrenti. Basta infatti il c.d. danno potenziale, vale a dire che "l'atto sia idoneo a danneggiare l'altrui azienda". tanto è necessario e sufficiente perché scattino le sanzioni tipiche dell'inibitoria alla continuazione degli atti di concorrenza sleale e della rimozione degli effetti prodotti (art. 2599), salvo il diritto al risarcimento dei danni in presenza dell'elemento psicologico (dolo o colpa) e di un danno patrimoniale attuale.

DIFFERENZE TRA CONCORRENZA SLEALE E ILLECITO CIVILE:

La concorrenza sleale:

a.  È svincolata dall'elemento soggettivo del dolo o della colpa;

b.  È svincolata dalla presenza di un danno patrimoniale attuale;

c.  È attuata attraverso sanzioni tipiche (inibitoria, rimozione).


Legittimati ad intervenire contro gli atti di concorrenza sleale sono SOLO gli imprenditori concorrenti o le loro associazioni di categoria (art. 2601), non invece il singolo consumatore o le relative associazioni. Il che implica che l'interesse dei consumatori è tutelato da questa disciplina solo in modo mediato e riflesso.




Ambito di applicazione della disciplina della concorrenza sleale:


L'applicazione della disciplina della concorrenza sleale postula il ricorso di un duplice presupposto:

La qualità di imprenditore sia del soggetto che pone in essere l'atto di concorrenza vietato, sia del soggetto che ne subisce le conseguenze;

L'esistenza di un rapporto di concorrenza economica fra i medesimi.



L'art. 2598 c.c. prevede che l'atto di concorrenza sleale può essere compiuto anche indirettamente, quindi con l'impresa nel cui interesse l'atto sleale è stato compiuto, risponderà solidamente anche l'autore materiale dello stesso.


La disciplina della concorrenza sleale è applicabile anche fra operatori che agiscono a livelli economici diversi. Necessario e sufficiente è che il risultato di entrambe le attività incida sulla stessa categoria di consumatori, anche se diversa è la cerchia di clientela direttamente servita (c.d. CONCORRENZA VERTICALE).




Gli atti di concorrenza sleale. Le fattispecie tipiche:


I comportamenti che costituiscono atti di concorrenza sleale sono definiti dall'art. 2598 c.c. La norma individua innanzitutto due ampie fattispecie tipiche:

Gli ATTI di CONFUSIONE;

Gli ATTI di DENIGRAZIONE e l'APPROPRIAZIONE DI PREGI ALTRUI.


Dispone poi che costituisce atto di concorrenza sleale "ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda".




1. ATTI DI CONFUSIONE:

È atto di concorrenza sleale ogni atto idoneo a creare confusione con i prodotti o con l'attività di un concorrente. È lecito attrarre a se l'altrui clientela, ma non è lecito farlo avvalendosi di mezzi che possono trarre in inganno il pubblico sulla provenienza dei prodotti e sull'identità personale dell'imprenditore.


Molteplici sono le tecniche poste in atto per realizzare la confondibilità dei prodotti, il legislatore ne individua 2:

L'uso di nomi o di segni distintivi "idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri" imprenditori concorrenti;

Imitazione servile dei prodotti di un concorrente. È tale la riproduzione delle forme esteriori dei prodotti altrui (es. involucro, confezione) attuata in modo da indurre il pubblico a supporre che i due prodotti provengano dalla stessa impresa.


Rientra infine nella categoria in esame ogni altro mezzo idoneo a creare confusione con i prodotti o con l'attività di un concorrente (es. imitazione dei mezzi pubblicitari, dei listini, dei cataloghi, dell'aspetto esteriore dei locali di vendita).




2. ATTI DI DENIGRAZIONE e APPROPRIAZIONE DI PREGI ALTRUI:

Gli atti di denigrazione consistono nel diffondere "notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinare il discredito". Con questa si tende a mettere in cattiva luce i concorrenti danneggiando la loro reputazione commerciale. Con la vanteria si tende invece ad incrementare artificiosamente il proprio prestigio attribuendo ai propri prodotti o alla propria attività pregi e qualità che in realtà appartengono ad uno o più concorrenti.


Diverse sono le pratiche riconducibili nello schema della concorrenza sleale per denigrazione:

Le denunzie al pubblico di pratiche concorrenziali illecite da parte di concorrenti specifici, e più in generale la divulgazione di notizie che possano screditare la reputazione commerciale di un concorrente;

La pubblicità iperbolica (o superlativa) con cui si tende ad accreditare l'idea che il proprio prodotto sia il solo a possedere specifiche qualità o determinati pregi, che invece vengono implicitamente negati ai prodotti dei concorrenti. Lecito è invece il puffi che consiste nella generica ed innocua affermazione di superiorità dei propri prodotti.



Anche l'appropriazione di pregi altrui può essere realizzata con modalità e tecniche diverse. Ne costituiscono forme tipiche la PUBBLICITA' PARASSITARIA (consiste nell'attribuzione a se stessi di qualità, pregi, riconoscimenti, premi e comunque caratteristiche positive che in realtà appartengono ad altri imprenditori) e la PUBBLICITA' PER RIFERIMENTO (tende a far credere che i propri prodotti siano simili a quelli di un concorrente, attraverso l'utilizzazione di espressioni come tipo, modello, sistema.


Non sempre costituisce atto di concorrenza sleale la PUBBLICITA' COMPARATIVA, cioè ogni pubblicità che identifichi in modo esplicito o implicito un concorrente, ovvero beni o servizi offerti da un concorrente. La comparazione è infatti LECITA quando non è ingannevole, confronta oggettivamente caratteristiche essenziali e verificabili di beni o servizi omogenei, non ingenera confusione sul mercato e non causa discredito o denigrazione del concorrente.




Gli altri atti di concorrenza sleale:


L'art. 2598 chiude l'elencazione degli atti di concorrenza sleale affermando che è tale "ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda"


PUBBLICITA' MENZOGNERA: falsa attribuzione ai propri prodotti di qualità o pregi non appartenenti ad alcun concorrente.


CONCORRENZA PARASSITARIA: consistente nella sistematica imitazione delle altrui iniziative imprenditoriali.


BOICOTTAGGIO ECONOMICO: è il rifiuto ingiustificato ed arbitrario di un'impresa in posizione dominante (boicottaggio individuale) o di un gruppo di imprese associate (boicottaggio collettivo) di fornire i propri prodotti a determinati rivenditori,in modo da escluderli dal mercato.


DUMPING: sistematica vendita sotto costo dei propri prodotti, solo però quando sia finalizzato all'eliminazione dei concorrenti e all'acquisizione di una posizione monopolistica.


SOTTRAZIONE AD UN CONCORRENTE DI DIPENDENTI: o anche di collaboratori autonomi, quando venga attuata con mezzi scorretti e col deliberato proposito di trarne vantaggio con danno dell'altrui azienda.


È vietata anche la VIOLAZIONE DI SEGRETI AZIENDALI, vale a dire le rivelazioni ai terzi e l'acquisizione o l'utilizzazione da parte di terzi, in modo contrario alla correttezza professionale, delle informazioni aziendali segrete.




Le sanzioni:


La repressione degli atti di concorrenza sleale si fonda su due distinte sanzioni: la sanzione tipica dell'INIBITORIA (art. 2599) e quella del RISARCIMENTO DANNI (art. 2600).



INIBITORIA: È diretta ad ottenere una sentenza che accerti l'illecito concorrenziale, ne inibisca la continuazione per il futuro e disponga a carico della controparte i provvedimenti reintegrativi necessari per far cessare gli effetti della concorrenza sleale.

L'azione inibitoria e le relative sanzioni prescindono dal dolo o dalla colpa del soggetto attivo dell'atto di concorrenza sleale.


RISARCIMENTO DANNI: il concorrente leso potrà ottenere anche il risarcimento dei danni. Fra le misure risarcitorie il giudice può disporre anche la pubblicazione della sentenza in uno o più giornali a spese del soccombente.



L'azione per la repressione della concorrenza sleale può essere promossa dall'imprenditore o dagli imprenditori lesi ed è riconosciuta anche alle associazioni professionali degli imprenditori e agli enti rappresentativi di categoria "quando gli atti di concorrenza sleale pregiudicano gli interessi di una categoria professionale".

Fra i soggetti legittimati NON sono invece menzionati né i singoli consumatori né le associazioni rappresentative dei loro interessi.




La pubblicità ingannevole e comparativa:


La disciplina della concorrenza sleale è oggi affiancata da una specifica disciplina contro la pubblicità ingannevole e la pubblicità comparativa illecita.


A partire dalla metà degli anni '60, i più importanti mezzi di pubblicità hanno dato vita ad un sistema di autodisciplina pubblicitaria, che li impegna a non diffondere messaggi pubblicitari che contrastino con le regole di comportamento fissate in un apposito codice privato, che fra l'altro espressamente vieta la pubblicità ingannevole.

Un organismo di giustizia privata (il Giurì di autodisciplina) con sede a Milano, vigila sul rispetto del codice e funge da organo giudicante. L'azione dinnanzi al Giurì può essere promossa da chiunque si ritenga pregiudicato da attività pubblicitarie contrarie al codice o su iniziativa del Comitato di controllo dallo stesso previsto. Le decisioni del Giurì sono insindacabili.


Con il d.lgs. 74/1992 all'autodisciplina si affianca la disciplina legislativa e al controllo del Giurì, il controllo pubblico dell'Autorità garante.


Enunciato il principio che la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta, nonché chiaramente riconoscibile come tale, la legge vieta qualsiasi forma di pubblicità ingannevole (è ingannevole "qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induce in errore o può indurre in errore" le persone alle quali è rivolta e che "possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero ledere un concorrente".


Norme specifiche sono poi dettate per la pubblicità dei prodotti pericolosi per i consumatori, per quella suscettibile di raggiungere bambini ed adolescenti ed infine è vietata ogni forma di pubblicità subliminale (cioè che stimoli l'inconscio).


Ogni interessato può chiedere all'Autorità garante che siano inibiti gli atti di pubblicità ingannevole o comparativa ritenuta illecita e che ne siano eliminati gli effetti.


Se ritiene fondato il ricorso, l'Autorità può anche disporre la pubblicazione della pronuncia, nonché di un'apposita dichiarazione rettificativa in modo da impedire che la pubblicità ingannevole o comparativa illecita continuino a produrre effetti. In caso di urgenza, l'autorità può disporre anche la sospensione provvisoria della pubblicità.





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