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CULTURA DEI CONTESTI E RELAZIONI INTERNAZIONALI TRA IMPRESE

economia



CULTURA DEI CONTESTI E RELAZIONI INTERNAZIONALI TRA IMPRESE


Quali sono i motivi che inducono ad affermare che lo studio della variabile culturale risulta un valido strumento di supporto alle analisi strategiche sull'internazionalizzazione? Quali sono i motivi che hanno portato allo sviluppo delle ricerche sul tema del cross-cultural management?


Nell'affrontare il processo di internazionalizzazione ogni impresa viene necessariamente in contatto con contesti ambientali diversi, ognuno dei quali richiede specifiche modalità di interazione, e spesso non si considera che tra le molteplici variabili che definiscono il contesto ambientale, è proprio la cultura a svolgere un ruolo determinante. Pertanto lo studio della variabile culturale risulta essere un valido strumento di supporto alle analisi strategiche di internazionalizzazione. La conoscenza della cultura dominante nei vari contesti ambientali, infatti, può contribuire a ridurre l'incertezza insita negli approcci ai mercati non familiari e può, inoltre, aiutare a trovare le soluzioni più idonee per il superamento dei contrasti che possono generarsi nei rapporti interorganizzativi. Ciò anche in considerazione del fatto che la portata delle differenze culturali può emergere pienamente durante l'implementazione delle alleanze internazionali, allorquando l'incrocio tra culture diverse può creare una sorta di shock culturale, tanto più elevato quanto più distanti sono le culture degli attori, spesso accompagnato da effetti negativi sul coinvolgimento organizzativo, sul clima di lavoro dei partner e sulle rispettive performance.



Il cross-cultural management descrive i comportamenti degli individui che provengono da culture diverse all'interno delle organizzazioni; studia anche, in un confronto comparativo, le diversità culturali esistenti tra organizzazioni di contesti culturalmente diversi.

Le ricerche sul tema del cross-cultural management si sono sviluppate come naturale conseguenza del processo di globalizzazione delle imprese, dei mercati e dei processi competitivi. Esse hanno rappresentato quasi una sorta di ribellione contro i paradigmi tecnologici dominanti fino alla fine degli anni '70, e sono state indirizzate verso la comprensione delle caratteristiche che influenzano le risposte di un certo gruppo sociale alle sollecitazioni esterne.


Descrivere almeno tre concetti, tra quelli proposti nel testo, di cultura delle organizzazioni. Nei contesti delle organizzazioni possono convivere più culture: quali sono queste culture per Martin e Siehl?


Tra le tante definizioni di cultura delle organizzazioni che sono presenti in letteratura, quelle che sicuramente appaiono come più significative sono:

Kroeber e Kluckholn (1952): la cultura è un insieme di pattern (modelli) di comportamento, trasmessi attraverso simboli, espressi attraverso artefatti. Questo evidenzia il fatto che la cultura non è qualcosa di naturale; essa artificialmente viene trasmessa attraverso modelli di comportamento che la tradizione tramanda di generazione in generazione. La cultura è dunque un qualcosa di costruito dall'uomo e che deriva dall' educazione;

Hofstede (1980): la cultura è una programmazione mentale collettiva. Individui che non hanno gli stessi geni, ricevendo identici insegnamenti ed essendo assoggettati alle stesse norme culturali, presenteranno valori, idee, comportamenti in gran parte comuni. Ad esempio, in America, nonostante la diversità delle origini genetiche della popolazione, è lampante una programmazione mentale collettiva comune a tutti (c.d. melting pot). L'enfasi è posta anche qui sul sistema educativo, artefice del melting pot (culture originariamente diverse che, per mezzo dell'educazione, si amalgamano);

Martin e Siehl (1986): la cultura d'impresa esprime, attraverso artefatti, l'insieme dei valori condivisi dalla "maggioranza". A Martin e Siehl dobbiamo le definizioni di sottocultura e controcultura. La cultura è l'insieme dei valori condivisi dalla maggioranza, però nella stessa area possono coesistere sacche di sottocultura, cioè una cultura che vive (e convive) al di sotto di quella dominante, portatrice di credi e valori diversi da quelli della cultura della maggioranza; la controcultura, invece, è una sottocultura che non convive con la cultura dominante, ma è in conflitto con essa. Il pensiero di Martin e Siehl è particolarmente importante perché con loro comincia a consolidarsi il concetto che nei contesti e nelle organizzazioni possono coesistere culture diverse, spesso il conflitto tra loro.


Descrivere il concetto di cultura per Schein, le espressioni visibili e le motivazioni invisibili sulla base delle quali essa viene analizzata (sempre secondo Schein):


Schein (1985) analizza la cultura nell'ottica delle relazioni che le organizzazioni hanno con il proprio ambiente: la cultura è vista come un insieme di assunti fondamentali che un dato gruppo ha scoperto o sviluppato, nel tentativo di adattare la propria organizzazione all'ambiente circostante, e nel tentativo di trovare forme di integrazione interna.

In questo senso la cultura è analizzata sulla base sia delle espressioni visibili (tecnologie, modelli di comportamento, pratiche manageriali), sia delle motivazioni invisibili (credi e valori interni alle aziende) che spingono le organizzazioni ad assumere determinati assunti.

Schein ha avuto il merito di aver dato le definizioni delle componenti della cultura d'impresa:

  • i valori sono le idee, i credi che 222j94c i membri dell'organizzazione condividono e che guidano i loro comportamenti;
  • i riti descrivono le attività compiute quotidianamente;
  • gli eroi sono la chiave di volta della cultura d'impresa. Sono i fondatori o i successori o coloro che svolgono funzioni coerenti con i valori-chiave della cultura d'impresa;
  • i miti fanno riferimento alla natura degli atteggiamenti che contraddistinguono i manager d'impresa. I miti sono di causalità interna quando i membri di un' organizzazione identificano in loro stessi le condizioni principali del successo ottenuto; di causalità esterna quando i manager sono portati ad imputare le eventuali situazioni di insuccesso a cause esterne di forza maggiore oppure al comportamento di parte del personale d'azienda o di altri imprenditori.

Quali analisi sono svolte nei filoni di studio nei quali si segmenta il tema del cross-cultural management? Quali metafore descrivono le diverse Nazioni per Tosi?


Essenzialmente le ricerche sul tema del cross-cultural management si sono canalizzate verso due filoni di studio: il cross-cultural research ed il cross-national research.

Il primo filone è centrato sullo studio delle diversità e delle somiglianze delle culture di macro-aree ambientali; esso ha dato luogo a diversi approcci, come quello di Tosi (1994) centrato sulle metafore (peraltro a Tosi dobbiamo anche l'approccio c.d. "high contest - low contest").

Secondo Tosi la metafora più idonea a rappresentare la cultura americana è il football, in quanto il solo menzionare questo sport porta a pensare a concetti quali agonismo, spirito di squadra, voglia di successo; la metafora dell'orchestra sinfonica è invece usata per rappresentare la cultura tedesca, in quanto esprime precisione, ordine, e la necessità di un leader forte che però consenta ad ognuno di esprimersi al meglio (come il direttore d'orchestra); il giardino giapponese, in quanto simbolo d'ordine, di lavoro di gruppo, di armonia degli elementi e di fiducia negli altri, è usato per rappresentare il Giappone; per rappresentare la cultura italiana è stata scelta l'opera, la quale simboleggia la passione, l'istinto, la creatività ed il coinvolgimento emotivo.

Passando al filone del cross-national research, va notato che esso è soprattutto orientato ad analizzare la cultura dei paesi occidentali, ponendo una maggiore enfasi sulla tesi dell'esistenza di una stretta correlazione tra il funzionamento delle organizzazioni e la cultura dell'ambiente in cui esse operano. Rientrano in questo filone gli studi volti ad individuare le variabili che possono contribuire a creare il vantaggio competitivo dei diversi contesti nazionali, considerando tra esse la cultura.


Descrivere l'approccio delle metafore di Trompenaars sulla cultura dei diversi paesi e delle imprese in essi operanti:


All'interno del filone di studi sul cross-cultural research, per Trompenaars (1993), la cultura delle imprese, analizzata sulla base di due dimensioni, uguaglianza-gerarchia e orientamento al singolo-orientamento al gruppo, è rappresentata dalle seguenti metafore:

la metafora della famiglia è utilizzata per rappresentare le culture orientate al singolo e, al tempo stesso, gerarchiche (Italia, Spagna, Giappone), nelle quali è importante il ruolo del "padre" o del "fratello maggiore";

la metafora della Torre Eiffel è utilizzata per quelle culture orientate al gruppo e gerarchiche (Germania, Danimarca, Paesi Bassi ed Austria), nelle quali il ruolo del "capo" è fondamentale e, nelle imprese, sono carenti le relazioni personali, ritenute fonte di favoritismi;

la metafora del missile teleguidato è espressione della cultura Anglo-sassone, in cui sono presenti orientamento al gruppo e spirito di uguaglianza;

la metafora dell'incubatrice è tipica dei paesi nordici in cui c'è orientamento al singolo e uguaglianza, e le imprese riconoscono che i fini dell'impresa devono essere subordinati al soddisfacimento degli individui.


Descrivere compiutamente le dimensioni del modello di Hofstede sulla cultura delle organizzazioni:


E' il modello più noto del filone del cross-cultural research. Le differenze delle culture nazionali vengono poste in evidenza attraverso quattro dimensioni:

il controllo dell'incertezza, che misura il modo in cui ciascuna società si sente minacciata da situazioni incerte e cerca di evitarle. Si ha "controllo debole dell' incertezza" in quei contesti in cui si è più propensi all'accettazione del rischio, dove si vede una correlazione diretta tra rischio e rendimento (U.S.A., paesi scandinavi, anglosassoni, in via di sviluppo); in Giappone e nei paesi latini, invece, esiste un "forte controllo dell'incertezza". In questi contesti non si è molto propensi al rischio, prevalgono le regole, si cercano verità assolute e incontrovertibili;

la distanza gerarchica, che misura il livello di accettazione del potere nelle istituzioni. L'accettazione è elevata quando gli individui di un'organizzazione accettano il potere anche se è distribuito in maniera ineguale. Questo accade nei paesi in cui una forte classe media ha creato condizioni di stabilità (Italia, Spagna), e nell'Africa Nera, dove, però, il potere viene accettato passivamente. In paesi quali U.S.A. e Germania esiste una bassa distanza gerarchica, vale a dire che vige il principio di uguaglianza, nel senso che tutti possono arrivare al potere;

l'individualismo-collettivismo, che è la variabile più famosa del modello di Hofstede, e che misura il livello di interazione che si viene a creare tra gli individui di un'organizzazione. Gli appartenenti a società individualiste (paesi anglosassoni) mostrano resistenza ad intraprendere delle relazioni, valorizzano il tempo utilizzato per sé e, spesso, si lasciano guidare dall'opportunismo. Se si pongono in essere interazioni con partner esterni, queste sono quasi sempre finalizzate alla mera appropriazione delle conoscenze altrui (fenomeno del cannibalismo). Nei contesti collettivisti, invece, si lavora insieme, c'è interazione tra i gruppi: tipica è la collettività delle conoscenze in Giappone dove ognuno impara dall'altro. L'Italia è mista: vi sono aree (Nord-Centro) in cui è presente una certa forma di collettivismo, mentre al Sud c'è una forma di individualismo che spesso sfocia nell'opportunismo;

la mascolinità-femminilità, che individua modelli di comportamento e stili manageriali delle organizzazioni. Nei paesi a cultura "maschile" (Inghilterra, Stati Uniti, Germania, Giappone e Italia) hanno forte presa le decisioni del singolo, e le imprese interferiscono anche nella vita privata del personale; nei paesi a cultura "femminile" (Svezia, Norvegia, Finlandia e Paesi Bassi), le decisioni spettano al gruppo, i lavoratori non tollerano ingerenze delle imprese nella loro vita privata e preferiscono la riduzione dell'orario di lavoro all'aumento del salario.


Cosa intende Trompenaars (nel suo approccio cultura-strategia) per universalismo/particolarismo e quali limiti discendono dalle due configurazioni? Descrivere almeno altre tre dimensioni considerate da Trompenaars, sempre nello stesso modello:


Dopo l'approccio basato sulle metafore (1993), Trompenaars, nel 1996, al fine di cercare una soluzione che potesse sanare i conflitti internazionali tra imprese, che discendono dal confronto tra diverse culture, ha individuato, nell'approccio c.d. "cultura- strategia", alcune dimensioni della cultura delle organizzazioni, di natura dicotomica.

Aspetto rilevante è che Trompenaars nella sua analisi, a differenza degli altri approcci rientranti nel filone del cross-cultural research, prende in considerazione non solo i paesi industrializzati, ma anche quelli sottosviluppati ed in via di sviluppo, pervenendo, così, a risultati diversi. Inoltre è notevole che l'Italia assume sempre posizioni intermedie: questo a riprova che l'Italia non è un contesto culturalmente omogeneo.

Le variabili dicotomiche analizzate da Trompenaars sono:

1. universalismo/particolarismo: il primo è l' accettazione di regole e norme astratte; il particolarismo, invece, è l'accettazione di specificità locali. L'universalismo è tipico dei low-contest, alla Tosi (contesti in cui le informazioni circolano in modo formale, freddo, impersonale, burocratico). Nei processi di internazionalizzazione il manager internazionale deve cercare di trovare il giusto trade-off tra universalismo e particolarismo:l'universalismo crea rigidità in quanto i manager, definendo e seguendo norme astratte valide per tutti, non hanno alcuna possibilità di alterare le pratiche operative; tuttavia, il particolarismo crea non pochi problemi. Un'assenza di coordinamento, presupposto del particolarismo stesso, crea delle patologie locali, come il caso, ad esempio, delle filiali che si fanno concorrenza fra loro;

2. individualismo/collettivismo: assume lo stesso significato che ha per Hofstede. Per Trompenaars, però, il paese collettivista per eccellenza è il Messico, quello più individualista la Nigeria;

emotività/neutralità: misura il livello di emotività presente negli approcci tra portatori di culture diverse. Si è emotivi quando si basa l'approccio prevalentemente sull'intuito e non sulla logica razionale; nelle società neutrali, invece, l'atteggiamento del valutatore si basa sulla logica razionale. I più neutrali sono i coreani, mentre gli iraniani non sanno nascondere le loro emozioni. Gli italiani sono nettamente più emotivi che razionali;

orientamento al risultato/orientamento all'attribuzione: l'orientamento al risultato è quello delle imprese i cui manager sono rivolti principalmente al profitto di breve periodo; l'orientamento all'attribuzione, invece, per le imprese, significa che non si guarda tanto ai profitti di breve periodo, ma si attribuiscono meriti particolari ai manager che riescono ad accrescere la quota di mercato, a creare le premesse per una permanenza duratura sul mercato. Gli U.S.A. sono orientati al risultato, mentre all'opposto si posiziona l'Egitto;

controllo interno/controllo esterno: misura il livello di subordinazione di un'impresa alle direttive che provengono dall'ambiente esterno. Il Canada e gli U.S.A. sono i paesi che presentano un maggior rifiuto del controllo esterno, come l'Italia; l'Egitto si posiziona, invece, all'estremo opposto.


Quali ricerche ed a quali risultati sono pervenuti alcuni studi posti in essere nel filone del cross-national research?


Van Den Bosch e Van Proijen (1993) hanno analizzato la cultura di una nazione attraverso l'integrazione del modello del diamante di Porter con quello di Hofstede. I risultati di questa ricerca dimostrano che la cultura è una variabile che esplicitamente può agire sul vantaggio competitivo di una nazione, in quanto il grado di controllo dell'incertezza e la tendenza al collettivismo (entrambe variabili dipendenti dalla cultura) possono determinare il livello di apertura al cambiamento ed all'interazione con i diversi paesi.

Porter (1993) ha dimostrato che l'avversione al rischio può rappresentare un deterrente allo sviluppo di alcuni settori dell'economia di un paese: l'avversione al rischio degli elvetici,ad esempio, ha costituito un deterrente alla crescita degli investimenti in attività che richiedevano una maggiore propensione al rischio (ad esempio, le biotecnologie). In questi contesti, però, se è presente un orientamento al collettivismo, gli individui tendono a stabilizzare le relazioni poste in essere nel loro ambiente (vedi il Giappone). L'interazione tra gli attori crea le premesse per una maggiore apertura al cambiamento innovativo, e ciò è determinante per il vantaggio competitivo delle nazioni.


Come può avvenire efficacemente un cambiamento culturale nelle organizzazioni (ricordare, al riguardo, anche il pensiero di Lakatos)? Come influiscono le diversità culturali sull'andamento delle collaborazioni?


Per cambiare la cultura d'impresa non si possono attuare rivoluzioni sic et simpliciter, come ad esempio, sostituendo il manager generale con uno portatore di una nuova cultura, ma la cultura deve cambiare attraverso cooperazioni esterne, attraverso un necessario tempo di assimilazione, non repentinamente (Gagliardi, 1986; Aoki, 1988; Bollinger e Hofstede, 1989), ma in modo incrementale. Questo concetto è stato approfonditamente studiato da Lakatos (1993), il quale afferma che un paradigma nuovo può nascere solo come risultato di ibridazioni successive del vecchio paradigma, cioè, quando nuovi valori si dimostrano migliori dei precedenti e si sommano a quelli vecchi, che rimangono tuttavia validi, dando vita ad un processo cumulato di crescita. Pertanto si può affermare che l'alleanza strategica tra imprese portatrici di culture diverse è il modo migliore per perseguire il cambiamento culturale. Lakatos inoltre afferma che il rifiuto del cambiamento viene dalla razionalità scientifica con la quale si è analizzata la storia creando verità/falsità da accettare o da respingere.


Quale legame (subordinazione o indipendenza) è emerso negli studi e nelle ricerche tra cultura nazionale e cultura d'impresa? Spiegare i concetti di neo-localismo e di radicamento (cui perviene Varaldo):


L'interazione tra cultura nazionale e cultura d'impresa è stata in passato sottostimata, al punto che alcuni autori (Hickson, 1974) sostenevano che la cultura d'impresa poteva affermarsi in qualsiasi contesto culturale.

Nel corso degli anni '80 Hofstede (1980) affermava una predominanza della cultura nazionale su quella d'impresa.

Successivamente Adler (1986) sosteneva che raramente la cultura nazionale si intravedeva nelle imprese, in quanto la cultura di un'organizzazione, filtrando o cancellando quella nazionale, rendeva simili tutti gli attori, anche se provenienti da contesti culturali diversi.

Solo successive analisi teoriche ed empiriche, nel supportare le ipotesi di Hofstede, hanno enfatizzato il ruolo svolto dai fattori culturali delle nazioni, nelle quali le imprese sono inserite. Alla base di queste ricerche c'era l'assunto che cultura nazionale e cultura d'impresa influiscono in modo interdipendente sul comportamento degli attori di un'organizzazione.

Partendo da quest'ultima considerazione sembra più giusto affermare, allora, che l'impresa non può essere considerata come un semplice recettore degli stimoli esterni, ma come un attore che crea la sua cultura insieme al contesto ambientale, interagendo con esso e contribuendo alla sua formazione ed al suo cambiamento. Se si accetta quest'approccio, l'impresa non deve essere semplicemente considerata come elemento costitutivo del contesto ambientale, ma anche come fattore che determina lo sviluppo di una certa area o paese (Calvelli, 1990).

Passiamo ora ad esaminare il pensiero di Varaldo (1994). Varaldo espose il concetto di "neo-localismo": ci si va a localizzare in una certa area, non per sfruttare le dotazioni fattoriali, ma per sfruttare la circolazione delle conoscenze, cioè la possibilità di apprendere grazie a tale circolarità. Tali vantaggi si chiamano "economie di agglomerazione". Per conseguire tali economie, le imprese dei distretti creano centri comuni (tramite investimenti comuni) per alcune attività della catena del valore. Il neo-localismo, dunque, nasce dalla capacità dell'impresa di interagire con la cultura del contesto. Le imprese, quindi, non si collocano necessariamente nei mercati captive, ossia nei mercati in cui c'è domanda, ma in quei mercati dove c'è la possibilità di accrescere l'apprendimento, di sfruttare le economie di agglomerazione. La natura delle risorse che l'impresa vuole acquisire è tale che un'impresa non può appropriarsene con mezzi tradizionali, ma solo attraverso un processo di interazione con l'ambiente. La relazione che si viene ad instaurare acquista un alto grado di progettualità e una specifica forma di "radicamento" (concetto che qualifica in modo innovativo quello di localismo), che è rappresentata dalle joint-venture, e l'interazione tra partner portatori di culture diverse è indispensabile per la crescita delle joint. Ma nelle partnership o nelle joint-venture spesso si creano conflitti. Allora è chiaro, visto che la collaborazione internazionale (partnership e joint-venture) è diventata il modello da prendere in considerazione per l' internazionalizzazione, che si crea un paradosso: le diversità culturali possono creare conflitti nelle collaborazioni fra attori di contesti culturalmente diversi, tuttavia esse rappresentano le premesse fondamentali per il cambiamento.


Negli anni '50-'60 vigeva nelle grandi multinazionali americane l'ipotesi di convergenza, o anche l'assunto "one size fits all". Spiegare questi assunti e le conseguenze cui essi portano:


Negli anni '50 e '60, l'eccessivo "etnocentrismo" delle multinazionali americane ha portato all'assunto "one size fits all" (una sola taglia che calza a tutti), vale a dire che l'attività manageriale potesse basarsi su principi universalmente validi e che le pratiche manageriali statunitensi potessero essere esportate con successo nelle economie di diversi contesti, contribuendo così alla creazione di società sempre più omogenee, caratterizzate da identiche norme socio- economiche e culturali. La realtà ha smentito tale ipotesi e le diversità culturali dei paesi e delle imprese hanno richiesto una differenziazione degli stili manageriali e dei meccanismi di governo delle attività imprenditoriali. In sintonia, dopo il diffuso fallimento dell'ipotesi etnocentrica, le moderne multinazionali si sono sempre più caratterizzate come ambienti policentrici, in cui è presente una più o meno elevata propensione all'accettazione delle diversità culturali, intese come presupposto di creatività ed innovazione.


Quali sono le determinanti dello spirito collettivista e quali caratteristiche della "cultura" giapponese portano ad enfatizzare lo sviluppo di forme collaborative all'interno del sistema- paese?


La nascita e lo sviluppo dei rapporti collaborativi presentano un certo grado di correlazione con le caratteristiche del sistema-paese di riferimento.

Le determinanti dello spirito collettivista dell'impresa giapponese sono da ricercarsi nella voglia di operare in un contesto omogeneo, sia dal punto di vista etnico che religioso, ma soprattutto nella cultura confuciano e nel concetto di dinamismo confuciano: Confucio dice che per crescere occorre che l'individuo sia permeato da alcune caratteristiche, quali la perseveranza (fissare un obiettivo senza mai abbandonarlo), la parsimonia (non sprecare risorse), il senso del pudore (valutare bene gli scopi perseguiti; infine, Confucio affermava che bisognava avere una scala di priorità negli obiettivi. Tutte queste caratteristiche sono legate da un orientamento al lungo termine.

Per i giapponesi, il buon esito di un rapporto collaborativo dipende dall'impegno, dalla fiducia, dalla buona fede dei partner e dalla reciproca convinzione che la collaborazione rende gli attori più forti, in quanto possessori di conoscenze e competenze complementari (Ohmae, 1990).

Il modello giapponese costituisce una solida base per lo sviluppo di forme collaborative, in quanto l'impresa è intesa come comunità, è forte lo spirito di gruppo e qualsiasi decisione è frutto di una concertazione collettiva.

I rapporti interni sono, quindi, informali, e questa informalità, se estesa anche all'esterno dell'impresa, può garantire il successo di un'alleanza.

In Giappone anche le istituzioni svolgono un ruolo decisivo per la creazione di un sistema di alleanze strategiche: il MITI favorisce direttamente accordi di cooperazione sia tra aziende nazionali, sia tra aziende nazionali ed estere.



Quali sono le determinanti dello spirito individualista e quali caratteristiche della "cultura" anglosassone portano ad enfatizzare lo sviluppo di forme collaborative all'interno del sistema- paese?


Le determinanti dello spirito individualista vanno ricercato nell'etica protestante, che esalta l'importanza del singolo individuo e le sue capacità di conseguire il profitto.

Per gli operatori anglosassoni occorre scegliere un partner compatibile, dal quale si possa imparare il più possibile, senza dover svelare i propri segreti.

Le imprese anglosassoni sono orientate per lo più al singolo e sono fortemente etnocentriche. Si tratta di un modello che prevede imprese fortemente gerarchizzate con relazioni interne esclusivamente di tipo top-down e con una limitata disponibilità sia a subordinare l'adozione di decisioni al consenso di altri soggetti, sia ad implementare manovre di crescita esterna, essendo maggiormente orientate verso una struttura organizzativa di tipo "monosocietaria e multidivisionale". Anche l'adozione della forma del gruppo plurisocietario, da parte delle grandi multinazionali, non è spesso il frutto di scelte deliberate, ma di una necessità indotta dall'operare in paesi diversi; in ogni caso, le multinazionali cercano di ottenere il controllo delle società esterne, acquisendo il capitale di maggioranza. Il risultato è che le forme di partnership con un'impresa anglosassone, soprattutto statunitense, sono spesso temporanee, in quanto destinate a trasformarsi, successivamente in acquisizioni.


Quali sono le possibile conseguenze negative che discendono da un comportamento opportunistico dei managers d'impresa? Descrivere almeno due esperienze in U.S.A., descrittive dell'individualismo e dell'instabilità delle relazioni:


E' opinione diffusa che l'individualismo e, spesso, l'opportunismo siano tipici dell'impresa manageriale statunitense, anche se non si può negare che forme di opportunismo sono riscontrabili nelle relazioni collaborative di ogni impresa e di ogni contesto, fortemente radicate nella mentalità imprenditoriale.

Le possibili conseguenze negative che discendono da un comportamento opportunistico dei manager d'impresa riguardano anzitutto la focalizzazione dell'attenzione sull'accrescimento degli utili per azione, anziché sul fatturato e sulle quote di mercato, trascurando gli investimenti che producono risultati solo nel medio-lungo periodo.

Questo comportamento crea, in primo luogo, una sorta di "tirannia dei contabili", per la quale i manager d'impresa operano sulla base di una radicata convinzione che i risultati di lungo periodo dipendano dai risultati a breve (da notare che questo sarebbe possibile solo se l'ambiente fosse di tipo meccanicistico, ovvero regolato da leggi prevedibili e da fenomeni ricorrenti); in secondo luogo, gli obiettivi delle imprese opportunistiche sono in genere fissati in modo da consolidare i vantaggi già acquisiti, non per cercare di raggiungerne di nuovi. Ecco perchè l'ottica contingente è, senza dubbio, un fattore che ostacola il mantenimento di relazioni collaboratve e che contribuisce alla conclusione anticipata del rapporto stesso.

Analizziamo ora alcune esperienze di imprese in U.S.A. quale testimonianza dell'individualismo e della instabilità delle relazioni che si sperimentano qualora si entri in contatto con eventuali partner americani:

INDIVIDUALISMO: la joint-venture, conclusa negli anni '50, tra l'americana Pfitzer e la Taito, principale zuccherificio giapponese, si sciolse appena la Pfitzer sviluppò una valida conoscenza del mercato farmaceutico giapponese. La Pfitzer acquisì totalmente le quote delle joint-venture diventando così una delle maggiori imprese farmaceutiche straniere presenti in Giappone;

INSTABILITA' DELLE RELAZIONI: 1. Il Pastificio Russo aveva stretto un'alleanza con un'importante impresa pastaia americana, la quale forniva il grano, mentre l'impresa italiana forniva la tecnologia e la manodopera. Il Pastificio Russo operò notevoli investimenti perchè, per il mercato americano. doveva essere prodotta una speciale pasta vitaminizzata, che richiedeva speciali tecnologie produttive ed un differente confezionamento. L'accordo durò solo pochi mesi, in quanto il partner americano, una volta eliminata la "bolletta di restituzione", non risultò più interessato all'accordo; 2. esistono problemi con le imprese americane non solo per il proseguimento di un rapporto già posto in essere, ma anche per la stipula dell'accordo sottostante una futura collaborazione. Il direttore amministrativo del Calzaturificio Moda Europa, allorquando ha cercato di effettuare accordi con analoghe imprese americane, difficilmente è riuscito ad avere contatti con l'imprenditore od i soci in persona, e quasi sempre le trattative si sono svolte con il responsabile commerciale oppure con l'amministratore, i quali hanno mostrato scarso interesse per i rapporti di tipo personale e per i dati qualitativi, ed hanno richiesto dati esclusivamente di natura quantitativa.


Descrivere le due esperienze giapponesi che aiutano a comprendere l'ottica proiettata verso il futuro delle imprese giapponesi:


L'impresa giapponese opera in un contesto omogeneo, sia dal punto di vista etnico che religioso, caratterizzato da una cultura collettivista, da un forte spirito nazionalista e da credi e valori di antica tradizione feudale. L'impresa è intesa come comunità duratura protesa al futuro e non come macchina da cash-flow orientata al breve periodo.

Analizziamo due esperienze che ci aiutano a comprendere l'ottica proiettata verso il futuro delle imprese giapponesi:

  • l'Hitachi negli ultimi anni ha investito notevoli risorse nella creazione di nuovi centri di ricerca a Dublino e a Cambridge e nell'apertura di un laboratorio nei pressi di Tokyo, con la specifica finalità di condurre ricerche su nuovi materiali e strumenti, su software e biotecnologie, che dovrebbero consentire la creazioni di nuovi prodotti non prima di 15-20 anni. Ciò è stato reso possibile dall'atteggiamento rivolto al futuro dei manager dell'impresa e dalla consapevolezza che solo investendo i profitti si possono acquisire posizioni più forti sul mercato nel medio-lungo periodo;
  • la Maddalena di Udine, azienda leader in Europa nella progettazione e nella fabbricazione di contatori di acqua, da quando ha stretto un'alleanza con la giapponese Toshiba per produrre misuratori elettromagnetici, è stata indotta, sulla scia del tipico comportamento relazionale dei giapponesi, orientato alla stabilità dei rapporti, a ridurre il numero dei fornitori da 13 a 3, ed a responsabilizzare quelli rimasti, dando maggiore importanza agli scambi reciproci di informazioni. La società italiana, inizialmente scettica circa tale soluzione, in quanto orientata a soluzioni più contingenti, riconosce, attualmente, i vantaggi di legami stabili con i fornitori, soprattutto in termini di migliore qualità dei componenti.

Descrivere le due esperienze giapponesi che aiutano a comprendere la stabilità delle relazioni poste in essere con imprese giapponesi:


La particolare struttura di controllo dell'impresa giapponese determina stabilità: il management, non dovendo di continuo legittimare la sua azione distribuendo elevati dividendi, può adottare decisioni di investimento orientate al medio-lungo termine e puntare ad obiettivi quali la crescita e l'ampliamento delle quote di mercato.

L'ingresso in una rete di rapporti consolidati non è un compito semplice per le imprese italiane, per l'importanza che le imprese giapponesi danno alla stabilità dei rapporti ed alla fiducia reciproca.

Analizziamo qualche esempio che ci aiuti a comprendere proprio quest'aspetto:

  • il Pastificio Russo opera in Giappone da diversi anni attraverso l'esportazione indiretta tramite un grande buyer, la giapponese Okura. Secondo l'imprenditore, avere rapporti con le imprese nipponiche è difficile, ma è anche vero che, una volta stipulato un accordo è molto improbabile che questo venga sciolto per una mera questione finanziaria (a differenza dei rapporti con le imprese americane); è più probabile che ciò accada per il mancato rispetto dei tempi di consegna o per il peggioramento qualitativo del prodotto;
  • nell'accordo stipulato dal Calzaturificio Moda Europa con un'impresa giapponese, i dati di natura economico-finanziaria sono passati in secondo piano rispetto ai rapporti personali. Prima di realizzare il contratto sono passati mesi e nel frattempo si sono avuti numerosi contatti diretti con il partner estero. Questi partecipava con una certa frequenza alle fiere italiane e l'azienda italiana partecipava sistematicamente alle fiere di Tokyo e di Osaka. L'azienda italiana, per riuscire a conquistare la piena fiducia del partner, ha effettuato esportazioni senza richiedere la lettera di credito irrevocabile e confermata sulla banca italiana (procedura normalmente seguita), ma richiedendo rimessa diretta e bonifici bancari (procedure applicate nei rapporti con i clienti di vecchia data e di provata affidabilità).

Descrivere le tipologie di contesti ambientali in funzione del livello di accettazione delle diversità e dei confronti tra culture (I chiave di lettura). Illustrare inoltre le situazioni di apertura al networking internazionale che possono configurarsi tra partners dei diversi contesti (II chiave di lettura) :


Sempre sui temi del cross-national research due importantissimi sociologi, Cox e Blake (1991), hanno analizzato la cultura all'interno delle organizzazioni, partendo dall'osservazione che all'interno delle organizzazioni americane esistevano situazioni diverse relativamente al problema dell' accettazione delle diversità.

L'analisi si svolge sulla base di alcune variabili discriminanti che sono il livello di interazione delle culture di cui sono portatori i diversi gruppi che operano nell'impresa, i valori dominanti entro le organizzazioni ed il diverso clima ambientale che dall'interazione discende.

Alla base della predisposizione all'integrazione tra gruppi culturalmente omogenei fra di loro, vi è la percezione che ogni gruppo ha delle diversità degli altri ed il livello di accettazione dell'insieme delle differenze, in termini di punti di vista, obiettivi, istanze e comportamenti degli altri gruppi (Triandis, 1972).

Sulla base di queste variabili la prima tipologia di ambiente culturale che ne deriva è la monolitica, caratterizzata da una forte omogeneità al suo interno e da una difficile propensione all'accettazione di modelli culturali diversi; il processo mentale che entra in atto in questo tipo di organizzazione porta ad una categorizzazione, in base alla quale schemi predefiniti e rigidi, portano ad escludere le diversità che, senza alcuno sforzo di interpretazione, sono generalmente valutate negativamente. La categorizzazione spesso si ispira alle teorie self-identity e self-categorization, per le quali l'accettazione degli altri si basa su ovvie caratteristiche fisiche, quali la razza, il colore della pelle e la lingua parlata, piuttosto che su credi e valori culturali (Turner, 1987). Secondo queste teorie, l'accettazione delle diversità fa diminuire il senso di identità in sé stessi, creando un forte stress psicologico.

All'opposto, gli ambienti multiculturali si caratterizzano per un fattivo dialogo tra portatori di diverse istanze e per un'assenza di pregiudizi e discriminazioni; viene enfatizzato il pluralismo delle idee e dei comportamenti manageriali; le diversità vengono interpretate secondo schemi aperti e flessibili al fine di cercare punti di integrazione.

Tra le due tipologie limite, gli ambienti pluriculturali si caratterizzano per essere contesti non permeati da categorizzazioni, in cui convivono diverse culture, in cui si accettano le diversità; però sono contesti in cui spesso accade che tale accettazione è solo formale, perchè o ci sono gruppi (le sottoculture di Siehl) che sono dominati dalla maggioranza, oppure mancano i meccanismi di assimilazione delle diversità. 


Fig.5: Tipologie di contesti ambientali


Questa prima chiave di lettura, però, non individua quali sono le variabili da esaminare per stringere relazioni a livello internazionale; lo scopo della seconda chiave di lettura, infatti, è proprio quello di indagare i contesti per capire se è facile stringere alleanze con imprese di quel determinato contesto.

In base a tale seconda chiave di lettura possiamo concludere che nei contesti monolitici gli individui che appartengono ad uno stesso gruppo tendono, spesso erroneamente, a considerare la loro cultura come universalmente valida. La categorizzazione presente nelle culture monolitiche, inoltre, porta ad interpretazioni distorte dei comportamenti diversi, mentre in un'epoca caratterizzata dalla globalizzazione dei mercati, il manager innovativo è solo colui che non si pone in una posizione conflittuale nei confronti delle culture diverse, e che è dotato di una buona dose di reattività culturale, è aperto al cambiamento, è pronto a recepire e sfruttare le diversità. Le culture monolitiche, pertanto, rappresentano un ostacolo alla realizzazione di rapporti interorganizzativi, resi addirittura impossibili, allorquando culture monolitiche vengono poste a confronto.

Difficili sono anche le relazioni interorganizzative che si instaurano nei contesti pluriculturali, sia nella fase di avvio che di sviluppo. In essi, l'assenza di una effettiva interazione tra credi e valori, ha spesso portato a conflitti interculturali che, irrisolti, hanno avuto conseguenze drammatiche.

Maggiormente spontanee e più semplici da gestire sono le collaborazioni che si instaurano con e tra contesti multiculturali, terreni fertili per lo sviluppo di iniziative più stabili e condivise. Nei contesti multiculturali è assente, o meno forte, lo spirito di appartenenza al gruppo (collettivismo da clan), fatto che rende più semplice l'apertura alle relazioni collaborative.


Fig.6: Apertura al networking internazionale



Perché si afferma che non esiste un modello unico e rappresentativo d'impresa europea? Quali caratteristiche contraddistinguono le imprese italiane?


Per le imprese europee non è possibile definire un modello unico e rappresentativo dell'area. Esistono ancora politiche industriali "nazionali" che contribuiscono all'isolamento dei singoli mercati, legislazioni non uniformi nei diversi paesi che finiscono col favorire accordi tra imprese europee ed extra-europee, piuttosto che contribuire a rafforzare la base collaborativa intra-europea (la Thomson, ad esempio, non è riuscita in passato a consolidare la propria posizione in Germania, a causa del veto posto nel 1983 dalla commissione anticoncorrenziale tedesca. Ciò ha impedito, secondo De Woot (1990), la realizzazione di una grande industria elettronica di consumo di stampo europeo).

All'interno dell'area europea, l'impresa britannica è assimilata a quella americana, mentre l'impresa tedesca presenta analogie con quella giapponese; inoltre, paesi quali Italia, Francia e Spagna, accomunati dal capitalismo familiare, presentano caratteristiche specifiche.

Pertanto, per studiare la cultura europea, bisogna frammentare l'area nei singoli paesi, e, spesso, in sub-aree degli stessi, come avviene per l'Italia.

Nel caso italiano, il principale ostacolo alle relazioni collaborative con partner, internazionali e non, è dato dalla scarsa disponibilità del proprietario-imprenditore a rinunciare al potere decisionale ed a delegare autorità e funzioni (la propensione alla collaborazione è presente maggiormente nelle aree caratteristiche dei distretti industriali, soprattutto nel nord-est del paese). L'ottica di breve periodo, la presenza conflittuale di gruppi culturali diversi, l'enfasi sull'individualismo e la visione atomistica dei sistemi che caratterizzano le piccole e medie imprese di alcune sub-aree italiane (Calvelli, 1990) portano a pensare che questi ambienti non possano costituire terreno fertile per lo sviluppo di una mentalità imprenditoriale aperta alle diversità culturali.

Un cambiamento di questa situazione è ipotizzabile allorquando attori interni al contesto o innesti culturali esterni riescano, da un lato, a coordinare le diversità ed a sviluppare una visione unitaria in termini di obiettivi da raggiungere; dall'altro, a far comprendere alle imprese l'utilità di queste iniziative in termini di ritorni economici e di miglioramenti dei vantaggi competitivi.


Quali sono le caratteristiche della "cultura" tedesca e come esse influiscono sullo sviluppo di forme collaborative all'interno del sistema- paese?


Per molti versi le imprese tedesche (modello capitalistico "renano") presentano parametri culturali vicini a quelli delle imprese giapponesi, soprattutto nelle relazioni che si instaurano tra le imprese nel mercato domestico.

Per quanto riguarda la scelta dei partner internazionali, le imprese tedesche differiscono da quelle nipponiche, in quanto sono orientate alla ricerca della qualità tecnica del prodotto.

Tale orientamento è favorito dalla sofisticazione della domanda interna che, entrando in contatto con un'offerta già di per sé orientata alla qualità tecnica del prodotto, finisce col generare un circolo virtuoso che determina un progressivo miglioramento del contenuto tecnico dei prodotti realizzati.

Da un'analisi di casi concreti, però, l'orientamento alla qualità tecnica appare un fattore che può sia ostacolare la nascita del rapporto collaborativo, sia determinare il fallimento di un rapporto già posto in essere e, in questo, ancora una volta, si evidenzia il ruolo svolto dalla cultura di un determinato contesto, allorquando essa è considerata nel suo rapporto interattivo con le altre determinanti dello sviluppo economico di un paese. E' chiaro che possono evidenziarsi situazioni conflittuali allorquando imprese italiane (l'Italia è nelle ultime posizioni tra i paesi occidentali circa l'innovazione e la R&S), gestite talvolta da un imprenditore-manager con scarsa preparazione tecnico-professionale, entrano in contatto con imprese tedesche, guidate da "tecnici".

D'altra parte, poiché la cultura di una nazione è da intendersi come il prodotto delle culture delle organizzazioni che in essa sono inserite, è ipotizzabile l'esistenza di un paradigma secondo cui la dimensione tecnica di una nazione nasce e si sviluppa grazie al concorso di fattori economici, istituzionali e, soprattutto, culturali.


Descrivere due casi d'impresa che aiutano a comprendere l'orientamento alla qualità tecnica dei prodotti delle imprese tedesche:


La Volkswagen è stata la prima azienda ad introdurre la settimana lavorativa di quattro giorni pur di evitare il licenziamento dei dipendenti e ad introdurre metodi di produzione meno meccanici e più partecipativi che, coinvolgendo il singolo, potevano permettere di sfruttarne la creatività. In particolare, nella fabbrica di Pamplona i fornitori realizzano i loro componenti nella stessa linea e controllano direttamente il veicolo. Inoltre, la proprietà del veicolo è assegnata ad un "maestro" (che segue il prodotto lungo l'intera linea di montaggio e lo prova) il quale, sentendosi emotivamente coinvolto, è incentivato a garantirne la massima qualità;

l'italiana Airbac, azienda che produce arredo bagno, nel'94 realizzò un accordo commerciale con la tedesca A&S, che praticava il franchising. L'accordo durò pochi mesi in quanto il partner tedesco contestava sistematicamente i prodotti inviati dall'Airbac. La società tedesca, pur apprezzando il design italiano, riteneva non soddisfacente la funzionalità del prodotto. Ad esempio, la A&S imponeva all'Airbac di installare per ogni sportello del peso di 500 grammi due cerniere in grado di reggere singolarmente 5 kg.(!!!), mentre uno sportello con quel peso normalmente richiede una sola cerniera, peraltro in grado di reggere un solo chilogrammo.












































DISPENSA INTEGRATIVA: LA DIMENSIONE EUROPEA NELLE STRATEGIE DI RIGHTSIZING DELLE IMPRESE INTERNAZIONALI


Il processo di rightsizing (letteralmente: "ricerca della giusta misura") delle attività d'impresa può essere ricondotto a due fenomeni paralleli e, tra loro, apparentemente contraddittori: un processo di ridimensionamento strutturale, realizzato attraverso l'esternalizzazione differenziata delle attività di impresa ritenute non centrali, e il contemporaneo sviluppo dimensionale dell'impresa concentrata a gestire le sole attività core.


In che misura la variabile di contesto condiziona le scelte di rightsizing effettuate sulle core activities o sui core business?


La ricerca dell'ubiquità del vantaggio competitivo, che interpreta un atteggiamento attivo delle imprese in un contesto privo di reali barriere territoriali, consente di leggere la variabile geografica sia come opportunità da cogliere sul piano globale, sia come un rischio economico- finanziario e competitivo più o meno elevato da affrontare. Inoltre, anche dall'esame della letteratura economico-aziendale si evince la non diretta influenza dei confini territoriali sulla scelta delle strategie d'impresa, grazie alla maggiore interrelazione dei mercati ed alla trasversalità delle tecnologie.

Tuttavia, alcuni autori hanno dimostrato che imprese che operano in cluster di paesi relativamente omogenei hanno maggiori opportunità di realizzare profitti stabili (Vachani, 1990). Allo stesso modo, Grant (1987) sostiene che le multinazionali che operano in paesi psicologicamente vicini incontrano minori costi di coordinamento e ciò consente loro di standardizzare alcune attività e politiche funzionali quali, ad esempio, quelle di marketing.

Se, dunque, le caratteristiche strutturali dell'ambito competitivo in cui le imprese operano non considerano il concorso della variabile geografica quale possibile componente del vantaggio competitivo, pare opportuno chiedersi se, in realtà, tale variabile non possa assumere il ruolo di fattore moltiplicativo delle potenzialità già insite nella dotazione di competenze distintive dell'impresa. Laddove, infatti, la scelta di rightsizing concentri gli sforzi dell'impresa sulle core activity alle quali applicare le core competence (intese soprattutto come capacità di combinare le risorse possedute in modo da rendere l'impresa unica sul proprio mercato - Grant, 1994), l'esistenza di un mercato integrato, culturalmente omogeneo, può accelerare la crescita cumulata delle competenze distintive dell'impresa, rafforzando indirettamente il suo vantaggio competitivo. Ed in tale ottica, quei mercati che presentano potenzialità di accelerare il processo di sviluppo delle core competence dell'impresa possono definirsi essi stessi come "core market" (mercati distintivi).


Descrivere le variabili tradizionali ed innovative che identificano i vantaggi di localizzazione. Quali caratteristiche connotano un core market? In che misura è possibile asserire che l'Unione Europea costituisca un potenziale core market?


Le variabili tradizionali di ordine macro- economico che concorrono a designare i core-market caratterizzano una specifica area geografica sul piano delle normative protezionistiche che la connotano, sul piano dei comportamenti settoriali che vi si realizzano e sul piano della cultura radicata nelle aree che la compongono.

Per quanto riguarda le normative protezionistiche, qui si fa riferimento a tutte le misure protezionistiche a diversi livelli che possono distinguere una determinata area, sia attraverso meccanismi di incentivazione mirata, sia attraverso vere e proprie forme di contingentamento.

Per quanto riguarda la seconda variabile, che attiene all'omogeneizzazione dei comportamenti di imprese appartenenti allo stesso settore, è indubbio che in Europa proprio il "settore" rappresenti un fattore unificante nell'interpretazione delle strategie di ricentraggio delle imprese e delle correlate modalità di attuazione. La tendenza, a livello di settore, è quella di creare gruppi integrati di imprese che concorrano a gestire mercati semi-oligopolistici.

La terza è ultima determinante macro-economica di crescita delle barriere all'ingresso in una specifica area è rappresentata dalla variabile culturale (Calvelli, 1997). Si tratta della eventualità che una forte omogeneità culturale, che assuma caratteristiche sovranazionali, di fatto possa erigersi a serio ostacolo all'ingresso di concorrenti non nazionali. Che l'Europa nel suo complesso costituisca un cluster di paesi culturalmente omogenei è tuttavia un'assunzione che trova scarso riscontro nella realtà; piuttosto l'Europa raccoglie omogeneità culturali diverse che caratterizzano alcune aree regionali, non necessariamente nazionali (Calvelli, 1998). Si può quindi associare la variabile culturale alla capacità di elevare barriere all'ingresso se si fa esplicito riferimento ai mercati regionali culturalmente omogenei: in questo senso l'Unione Europea va intesa non come un vero e proprio core market, ma come un potenziale core market, se il riferimento viene effettuato a quelle aree regionali, non necessariamente nazionali, in cui si realizzano fenomeni protezionistici, comportamenti settoriali e omogeneità culturale.

Dal punto di vista aziendale, le scelte innovative sul piano organizzativo possono riguardare un particolare assetto delle relazioni interfirm che consenta un efficace controllo ed una efficiente gestione.

Un esempio sono gli spin off europei, i quali, a differenza di quanto avviene nel mercato statunitense (opportunismo e speculazione finanziaria), si realizzano attraverso un processo di esternalizzazione ammorbidito dal mantenimento di solide relazioni con l'impresa madre. Si tratta di una soluzione organizzativa di tipo innovativo, ampiamente diffusa nel contesto europeo, che, di fatto, impedisce che imprese terze entrino in un mercato protetto. Si può parlare, in tal senso, di un meccanismo relazionale di protezione del mercato, direttamente imputabile all'azione dell'impresa.

Un secondo fenomeno riguarda la possibilità che si crei, in un'area, un circolo virtuoso tra immagine di successo delle imprese in esse operanti e, di riflesso, immagine dell'area di localizzazione sulla quale comportamenti attivi ed innovativi dell'impresa (nel contesto europeo si tratta di poche grandi imprese) possono fare continuamente leva. A volte le conseguenze di ciò sono pericolose in quanto portano ad associare l'immagine di un'area ad una specifica vocazione industriale, ed eventuali necessità di riconversione o di diversificazione dovranno risentire, oltre dei costi strutturali, anche dei costi di impatto sociale. Si crea, in questo modo, sia una barriera all'ingresso di nuovi concorrenti, sia anche una pesante barriera all'uscita.


Descrivere le dimensioni che identificano i processi di rightsizing sul core market. Quali caratteristiche connotano i processi di rightsizing conoscitivo-esplorativo? Per quali ragioni esso viene tipicamente perseguito dalle imprese?


Le riflessioni precedenti portano a suggerire uno schema interpretativo delle opportunità che fanno della variabile territoriale una variabile strategica.


Fig.7: I Core Market nelle strategie di rightsizing



Sull'asse delle ordinate è riportata la contendibilità dei core market. Tale variabile è composta prevalentemente da quegli elementi macro e microeconomici che descrivono la convenienza ad investire in una specifica area: una bassa contendibilità dei core market definisce una chiara opportunità economica per le imprese che appartengono a quell'area; viceversa un'alta contendibilità rappresenta un pericolo, nella misura in cui priva le imprese di una protezione strutturale.

Sull'asse delle ascisse sono riportate le tipologie di approccio al core market perseguibili dalle imprese: un approccio innovativo alla variabile territoriale descrive un atteggiamento fortemente competitivo dell'impresa. Essa, infatti, investe nei core market nella ricerca di possibilità di apprendimento, e per sfruttare l'esistenza di condizioni macroeconomiche favorevoli allo sviluppo. Tale condizione connota un atteggiamento proattivo delle imprese verso l'uso della variabile territoriale in chiave strategica e legittima occasioni di rightsizing sui core market.

Viceversa, una scarsa attenzione delle imprese verso le concentrazioni sui mercati core (approccio tradizionale al core market) si giustifica o con l'assenza di un interesse strategico delle imprese verso quelle specifiche aree, oppure con una scarsa attenzione verso i vantaggi da localizzazione percepiti.

Il quadrante (A) individua la condizione ottimale, nella quale è possibile riscontrare una scelta di rightsizing modellata sulla base di un mercato geografico di riferimento. In tale condizione, infatti, si verifica la coincidenza tra ragioni strutturali ed aziendali a difesa di un'area specifica. Tale situazione può essere di forte aiuto alle imprese in fase di disinvestimento in quanto legittima le scelte di core sulle quali far ruotare il processo di rightsizing, rendendo evidenti i vantaggi che da esso possono derivare.

Sul fronte opposto, si colloca il quadrante (C). In tal caso, infatti, non si riscontra né una vocazione territoriale né una particolare attenzione da parte delle imprese nel ricercare le condizioni per la creazione di core market. Tali condizioni escludono la possibilità di costruire percorsi di rightsizing che guardino alla variabile territoriale quale variabile critica sulla quale concentrarsi. Ne deriverebbe, infatti, una soluzione debole e scarsamente difendibile. Ciò non vuol dire che imprese di questo tipo non possano perseguire scelte di rightsizing, soltanto, però, legate a core factors diversi da quelli territoriali.

Di maggiore interesse si mostrano, invece, i quadranti (B) e (D), in quanto raccolgono situazioni anomale, o, quanto meno, non immediate nella loro lettura.

Il quadrante (B) si caratterizza per una bassa contendibilità del core market e una visione tradizionale della variabile territoriale quale fonte del vantaggio competitivo. Ciò implica l'esistenza di forti fattori di ordine normativo, economico-settoriale e culturale che legittimano una difendibilità strutturale del mercato, cui si combina una scarsa capacità/opportunità delle imprese di costruire una posizione competitiva forte. In questo quadrante si descrivono tutti i vantaggi di localizzazione imputabili alle caratteristiche dell'area, e non alle capacità dell'agire imprenditoriale. Si parla, in questo caso, di rightsizing di tipo speculativo, nel senso che non è deliberatamente scelto dall'impresa, ma risulta piuttosto il frutto di un insieme di condizioni esogene. Si tratta di un comportamento miope, se visto in un'ottica di medio-lungo periodo, in quanto affida la sopravvivenza dell'impresa a condizioni sulle quali essa può scarsamente influire. Tali comportamenti sono tipici dei settori maturi (Harrigan, 1990), nei quali la scarsa innovatività delle imprese, unitamente ad una consolidata condizione competitiva del mercato, impediscono alle imprese di costruire fonti innovative del vantaggio competitivo.

Il quadrante (D), infine, individua una condizione in cui è alta la contendibilità dei core market, mentre esistono elementi forti su cui fondare una posizione competitiva difendibile da parte dell'impresa (ecco le ragioni per cui il rightsizing esplorativo-conoscitivo viene tipicamente perseguito dalle imprese). Si tratta, in questo caso, di comportamenti fortemente innovativi, nei quali le imprese traggono lo spunto per costruire una solida posizione competitiva, attraverso una politica di costante attenzione alle istanze che derivano dal mercato finale e dal comportamento dei principali concorrenti. In un'ottica tradizionale, tale condizione si costruiva attraverso la realizzazione di forti investimenti in strutture e macchinari, che realizzavano economie altrove non riproponibili; in un'ottica più moderna, si può pensare ad un investimento costante in sapere tecnologico e scientifico che garantisca ad un'area una disponibilità di competenze altrove non riscontrabili.

E' un comportamento, questo, sicuramente vincente, pur se fortemente costoso e pericoloso sul piano della costante esposizione alla reazione dei maggiori competitor.

Una volta individuati i quadranti dello schema può essere utile immaginare i percorsi tipici cui le imprese sono sottoposte nella individuazione di una scelta strategica di rightsizing.

Sono ipotizzabili almeno due percorsi nei quali l'impresa può evolvere, mutando il proprio approccio al rightsizing.

Un primo percorso è imputabile alla diretta responsabilità dell'impresa e riguarda il percorso "B verso A". In tal caso, a parità di situazioni di contesto, l'impresa può interiorizzare le condizioni di vantaggio che il mercato offre per sommare ad esse una propria capacità competitiva. Si tratta di una trasformazione radicale dell'agire d'impresa, che sposta l'ottica di pianificazione dal medio al medio/lungo periodo, durante la quale, attraverso un processo di responsabilizzazione l'impresa procede ad investire in quelle attività che maggiormente contribuiscono a raggiungere una posizione competitiva difendibile.

Il secondo percorso è rappresentabile dalla direttrice "D verso A". Si tratta di un processo imputabile ad una mutazione esogena di ordine prevalentemente normativo o economico- settoriale; la variabile culturale, infatti, non consente evoluzioni traumatiche che legittimano un percorso del genere.

In tali casi il passaggio delle imprese da una condizione di rightsizing esplorativo-conoscitivo ad un puro rightsizing sul core market diventa quasi automatico, in quanto garantito dalla mutazione strutturale.

E' bene precisare che in quest'ultimo percorso è possibile individuare alcuni comportamenti patologici, quali quelli che possono spingere dal quadrante (D) al quadrante (B). Infatti, la realizzazione di una situazione di contesto favorevole può indurre le imprese innovative ad abbandonare la strada dei continui investimenti in innovazione, per approfittare di più comode rendite di posizione.




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