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Umberto Saba (1883-1957)

lettere



Umberto Saba (1883-1957)

«Eran due razze di un'antica tenzone» i genitori di Umberto Saba, nato nella Trieste di Svevo e Slataper, da un matrimonio non felice tra la madre Felicita Rachele Cohen ed il padre, Ugo Edoardo Poli. Lei, appartenente ad una famiglia ebraica di piccoli commercianti e tradizionalmente legata agli affari e alle pratiche religiose; lui, giovane «gaio e leggero» discendente da una famiglia della nobiltà veneziana, abbandonò la vita coniugale prima ancora che il figlio nascesse. Grazie al padre tuttavia Saba ottenne la cittadinanza italiana (pur essendo nato nella Trieste che apparteneva allora all'impero austro-ungarico).

Ben presto il bambino venne messo a balia presso una contadina slovena di nome Peppa Sabaz, che, avendo perso il proprio figlio, riversa sul piccolo Umberto tutto il suo affetto e la sua tenerezza. A lei Saba resterà profondamente legato lungo tutto il corso della sua vita, tanto che, il rifiuto del cognome paterno si risolverà in un omaggio alla madre naturale ed alla nutrice slov 949e43j ena (che si chiamava Sabaz, mentre "saba" in ebraico significa pane).

Trascorre grave la sua infanzia non felice: privo della figura paterna e diviso nel suo amore tra la madre adottiva ed una madre naturale austera e severa; emozioni che risuoneranno presto nella preziosa malinconia della raccolta Il piccolo Berto.

Demotivato dagli scarsi profitti scolastici, abbandona gli studi e trova un impiego presso una ditta triestina, continuando a costruirsi una discreta formazione culturale e letteraria da autodidatta. Invano la madre tenterà di contrastare il suo amore per Leopardi, instradandolo verso la letteratura pariniana, ritenuta più costruttiva al fine di combattere la sua tendenza troppo pessimistica. Il poeta dell'Infinito resterà molto presente nella sua formazione, insieme a Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso, Foscolo e Manzoni ed i contemporanei Pascoli e D'Annunzio (di cui guarda con maggiore attenzione il testo intimistico e precrepuscolare del Poema paradisiaco).

Da questo momento in poi, ancor più che precedentemente la letteratura e la poesia saranno destinate a divenire la sua sola forma di compensazione e di sfogo (le Poesie dell'adolescenza e giovanili risalgono agli anni tra il 1900 e il 1907).

Fra il 1905 ed il 1906 frequenta la Firenze impegnata nella battaglia di rinnovamento avviata dai giovani intellettuali pur non restandone coinvolto.

Particolarmente difficili risulteranno i suoi rapporti con la «Voce» che rifiuterà di pubblicare il suo saggio Quel che resta da fare ai poeti e con Slataper che stronca la sua prima raccolta di versi.

E' il prezzo da pagare per la sua collocazione di intellettuale periferico, aperto più ad una cultura mitteleuropea che verso quella nazionale talvolta troppo superficiale (stessa sorte aveva subito il concittadino Svevo).

Scarso interesse gli verrà riservato anche da parte della critica (tranne il numero unico di «Solaria» del 1928 dedicato a Saba con i saggi di Solmi, Montale e Debenedetti).

Nel frattempo l'esperienza militare del servizio di leva a Salerno (1907-1908) gli offre ulteriori spunti poetici che porteranno alla creazione di Versi militari, mentre il matrimonio con Carolina Woelfer (Lina) e la nascita della figlia Linuccia incideranno profondamente nella sua poesia successiva. Da Montebello, alla periferia di Trieste scrive le poesie di Casa e campagna (1909-1910) e Trieste e una donna (1910-1912). A queste seguiranno nell'1911 la prima raccolta delle Poesie e l'anno seguente Con i miei occhi.

Dopo la sua partecipazione al conflitto mondiale (di cui lascerà una testimonianza in Poesie scritte durante la guerra) Saba riesce a conciliare il suo amore per la letteratura e le tradizioni commerciali della sua famiglia integrandoli nella libreria antiquaria che apre a Trieste.

Il 1921 sarà l'anno in cui la sua precedente raccolta poetica verrà per la prima volta raccolta nell' unico volume del Canzoniere ( successivamente integrato con le poesie dei decenni successivi); risale invece al 1928 il suo incontro con la psicanalisi attraverso la quale Saba spera di riuscire a curare i suoi disturbi nervosi. Ad aiutarlo sarà un allievo di Freud, Edoardo Weiss, con il quale intraprenderà un percorso psicanalitico che gli offrirà strumenti più raffinati per smascherare "l'intimo vero" e per acquisire quella "chiarezza psicologica" che già caratterizzava la sua produzione poetica (alla quale infatti, in un primo momento avrebbe voluto dare il nome di Chiarezza).

Vittima della persecuzione razziale per via della sua origine ebraica, cerca rifugio prima a Parigi, poi a Roma sotto la protezione di Ungaretti ed infine a Firenze, ospite di Montale.

Nel 1945 viene pubblicata da Einaudi la seconda edizione del Canzoniere, quella definitiva uscirà postuma e notevolmente accresciuta nel 1961.

Le sezioni di cui risulterà composta l'opera oltre a quelle già indicate, sono: La serena disperazione (1913-1915), Tre poesie fuori luogo, Cose leggere e vaganti (1920), L'amorosa spina (1920), Preludio e canzonette (1922-1923), Autobiografia (1924), I prigioni (1924), Preludio e fughe (1928-1929), Parole (1933-1934), Ultime cose (1935-1943), Varie Mediterranee (1945-1946), Epigrafe (1947-1948), Quasi un racconto (1951) e Sei poesie della vecchiaia (1953-1954).

Il mancato riconoscimento della sua attività letteraria si traduce invece in un'opera in cui il poeta si farà interprete di se stesso: Storia e cronistoria del Canzoniere (1948).

Solo al periodo postbellico risalgono infatti le prime importanti attestazioni pubbliche; il Premio Viareggio (1946), il Premio dell'Accademia dei Lincei (1953) e la laurea Honoris causa conferitagli dall'Università di Roma.

Gli ultimi anni della sua vita sono resi difficili dalle continue e sempre più gravi crisi di depressione, di cui resterà vittima, e dalla malattia della moglie, che muore nel 1956. Appena nove mesi dopo (il 25 agosto del 1957) Saba la seguirà.

Postumo sarà quindi il volume complessivo delle Prose: Scorciatoie e raccontini (1946) e Ricordi-Racconti (1956), in cui una lucida, tagliente ironia traghetta la moralità racchiusa nella narrazione breve ed autobiografica.

Al 1957 risale invece la pubblicazione di Ernesto, romanzo incompiuto in cui l'atmosfera triestina, resa in un singolare impasto linguistico-dialettale fa da sfondo ai turbamenti erotici dell'adolescente protagonista






A mia moglie


Tu sei come una giovane

una bianca pollastra.

Le si arruffano al vento

le piume, il collo china

per bere, e in terra raspa;

ma, nell'andare, ha il lento

tuo passo di regina,

ed incede sull'erba

pettoruta e superba.

È migliore del maschio.

È come sono tutte

le femmine di tutti

i sereni animali

che avvicinano a Dio,

Così, se l'occhio, se il giudizio mio

non m'inganna, fra queste hai le tue uguali,

e in nessun'altra donna.

Quando la sera assonna

le gallinelle,

mettono voci che ricordan quelle,

dolcissime, onde a volte dei tuoi mali

ti quereli, e non sai

che la tua voce ha la soave e triste

musica dei pollai.


Tu sei come una gravida

giovenca;

libera ancora e senza

gravezza, anzi festosa;

che, se la lisci, il collo

volge, ove tinge un rosa

tenero la tua carne.

se l'incontri e muggire

l'odi, tanto è quel suono

lamentoso, che l'erba

strappi, per farle un dono.

È così che il mio dono

t'offro quando sei triste.


Tu sei come una lunga

cagna, che sempre tanta

dolcezza ha negli occhi,

e ferocia nel cuore.

Ai tuoi piedi una santa

sembra, che d'un fervore

indomabile arda,

e così ti riguarda

come il suo Dio e Signore.

Quando in casa o per via

segue, a chi solo tenti

avvicinarsi, i denti

candidissimi scopre.

Ed il suo amore soffre

di gelosia.


Tu sei come la pavida

coniglia. Entro l'angusta

gabbia ritta al vederti

s'alza,

e verso te gli orecchi

alti protende e fermi;

che la crusca e i radicchi

tu le porti, di cui

priva in sé si rannicchia,

cerca gli angoli bui.

Chi potrebbe quel cibo

ritoglierle? chi il pelo

che si strappa di dosso,

per aggiungerlo al nido

dove poi partorire?

Chi mai farti soffrire?


Tu sei come la rondine

che torna in primavera.

Ma in autunno riparte;

e tu non hai quest'arte.


Tu questo hai della rondine:

le movenze leggere:

questo che a me, che mi sentiva ed era

vecchio, annunciavi un'altra primavera.


Tu sei come la provvida

formica. Di lei, quando

escono alla campagna,

parla al bimbo la nonna

che l'accompagna.


E così nella pecchia

ti ritrovo, ed in tutte

le femmine di tutti

i sereni animali

che avvicinano a Dio;

e in nessun'altra donna.



Teatro degli Artigianelli


Falce martello e la stella d'Italia

ornano nuovi la sala. Ma quanto

dolore per quel segno su quel muro!


Esce, sorretto dalle grucce, il Prologo.

Saluta al pugno; dice sue parole

perché le donne ridano e i fanciulli

che affollano la povera platea.

Dice, timido ancora, dell'idea

che gli animi affratella; chiude: "E adesso

faccio come i tedeschi: mi ritiro".

Tra un atto e l'altro, alla Cantina, in giro

rosseggia parco ai bicchieri l'amico

dell'uomo, cui rimargina ferite,

gli chiude solchi dolorosi; alcuno

venuto qui da spaventosi esigli,

si scalda a lui come chi ha freddo al sole.


Questo è il Teatro degli Artigianelli,

quale lo vide il poeta nel mille

novecentoquarantaquattro, un giorno

di Settembre, che a tratti

rombava ancora il canone, e Firenze

taceva, assorta nelle sue rovine.



Il torrente


Tu così avventuroso nel mio mito,

così povero sei fra le tue sponde.

Non hai, ch'io veda, margine fiorito.

Dove ristagni scopri cose immonde.


Pur, se ti guardo, il cor d'ansia mi stringi,

o torrentello.

Tutto il tuo corso è quello

del mio pensiero, che tu risospingi

alle origini, a tutto il fronte e il bello

che in te ammiravo; e se ripenso i grossi

fiumi, l'incontro con l'avverso mare,

quest'acqua onde tu appena i piedi arrossi

nudi a una lavandaia,

la più pericolosa e la più gaia,

con isole e cascate, ancor m'appare;

e il poggio da cui scendi è una montagna.


Sulla tua sponda lastricata l'erba

cresceva, e cresce nel ricordo sempre;

sempre è d'intorno a te sabato sera;

sempre ad un bimbo la sua madre austera

rammenta che quest'acqua è fuggitiva,

che non ritrova più la sua sorgente,

né la sua riva; sempre l'ancor bella

donna si attrista, e cerca la sua mano

il fanciulletto, che ascoltò uno strano

confronto tra la vita nostra e quella

della corrente.



Trieste


Ho attraversata tutta la città.

Poi ho salita un'erta,

popolosa in principio, in là deserta,

chiusa da un muricciolo:

un cantuccio in cui solo

siedo; e mi pare che dove esso termina

termini la città.


Trieste ha una scontrosa

grazia. Se piace,

è come un ragazzaccio aspro e vorace,

con gli occhi azzurri e mani troppo grandi

per regalare un fiore;

come un amore

con gelosia.

Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via

scopro, se mena all'ingombrata spiaggia,

o alla collina cui, sulla sassosa

cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa.


Intorno

circola ad ogni cosa

un'aria strana, un'aria tormentosa,

l'aria natia.

La mia città che in ogni parte è viva,

ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita

pensosa e schiva.



Città vecchia


Spesso, per ritornare alla mia casa

prendo un'oscura via di città vecchia.

Giallo in qualche pozzanghera si specchia

qualche fanale, e affollata è la strada.


Qui tra la gente che viene che va

dall'osteria alla casa o al lupanare,

dove son merci ed uomini il detrito

di un gran porto di mare,

io ritrovo, passando, l'infinito

nell'umiltà.


Qui prostituta e marinaio, il vecchio

che bestemmia, la femmina che bega,

il dragone che siede alla bottega

del friggitore,

la tumultuante giovane impazzita

d'amore,

sono tutte creature della vita

e del dolore;

s'agita in esse, come in me, il Signore.


Qui degli umili sento in compagnia

il mio pensiero farsi

più puro dove più turpe è la via.



La capra


Ho parlato a una capra.

Era sola sul prato, era legata.

Sazia d'erba, bagnata

dalla pioggia, belava.


Quell'uguale belato era fraterno

al mio dolore. Ed io risposi, prima

per celia, poi perché il dolore è eterno,

ha una voce e non varia.

Questa voce sentiva

gemere in una capra solitaria.


In una capra dal viso semita

sentiva querelarsi ogni altro male,

ogni altra vita.





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