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Fondamenti di filologia classica (prof.ssa Passalacqua)

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Fondamenti di filologia classica (prof.ssa Passalacqua)

La filologia

Le opere degli antichi ci sono arrivate attraverso 2000-2500 anni ed una serie di difficoltà. Dall'invenzione della stampa (metà del XV sec.) ad oggi siamo in qualche modo garantiti circa la trasmissione dei testi. Si è passati dall'oralità (v. i poemi omerici) ad una fissazione per iscritto dei testi; nel mondo antico gli autori non scrivevano autografi, ma la messa per iscritto dei testi era demandata a scribi o schiavi, il che introduce la possibilità di errori. Anche il dettato interiore e i lapsus freudiani producono errori. Vi sono poi problemi di supporto: spesso nell'antichità si scriveva su tavolette ignee cerate con una punta d'osso 353d38d , o sul papiro (che è ampiamente prodotto in Egitto nella zona del delta del Nilo) con uno stilo e dell'inchiostro. La nostra ricchezza di papiri è dovuta alla conservazione di materiale di scarto nei cosiddetti "mondezzari" del Nilo, da cui si sono tratti pezzi di commedie di Menandro, frammenti inediti dei tragici e trattati di retorica. I papiri arrotolati e riposti in casse venivano conservati in biblioteche se ritenuti degni: era la fissazione del testo. Il papiro comportava la necessità di citare a memoria -che comportava errori. Ad un certo punto il papiro viene soppiantato dalla pergamena (pelle di capra, pecora, vitello), molto più diffusa, che veniva trattata, poi piegata in otto e tagliata: essa funziona benissimo con il passaggio al codice dal II al IV secolo a.C., che è estremamente più maneggevole del rotolo. Le rivoluzioni non hanno solo un motivo materiale ma nascono per delle idee: vi fu un fattore economico, però questo passaggio è coinciso con la rivoluzione cristiana, di una religione che si impone dal basso contro lo Stato e che in un primo momento ebbe una diffusione di tipo clandestino. Roma era la città "del visibile parlare", dove si leggeva molto in pubblico, ma quando i cristiani sono costretti a nascondersi e portare con sé il libro sacro la situazione cambia.



La calligrafia -per la necessità di rendersi comprensibili a tutti- era sottoposta a delle regole; anche il passaggio dalle maiuscole alle minuscole interviene sul testo (si pensi agli spiriti ed accenti in greco). O l'avvento dell'era carolingia con la sua scrittura. In tutti questi momenti si opera una selezione dei testi da trascrivere: alcuni autori hanno avuto fortuna ed altri no, per cause diversissime. Ovidio ha avuto fortuna per il suo latino elegante ed i contenuti intriganti, che potevano passare fingendo di essere interpretati in senso cristiano. Lucrezio è giunto solo attraverso due codici per il suo ateismo epicureo. Vi sono motivi ideologici o fisici. I testi presentano cambiamenti enormi dalla loro prima stesura alla prima edizione a stampa (editio princeps). Il filologo cerca di raggiungere la forma del testo più vicina all'originale tramite dei meccanismi razionali che lo spogliano degli errori, e poi interviene con le sue competenze linguistiche per capire l'usus scribendi (la lingua di un periodo e di un autore). E' un percorso affidato alla sola ragione, dunque in lotta con tutte le ideologie: per questo Canfora chiama la filologia "la più eversiva delle discipline". Essa si è scontrata dapprima con i testi sacri, che sono nati in ebraico e poi passati in greco alla Bibbia dei Settanta e poi in latino alla vulgata ed alla traduzione di Gerolamo, che si rende conto di molti errori degli scribi. Le chiese ufficiali, contro ogni evidenza, hanno difeso acriticamente dei testi fissi; per sfuggire alle persecuzioni della Chiesa gli studiosi si sono dedicati alla filologia profana e quindi classica.


La variante d'autore

Sono cambiamenti dovuti all'autore in diverse edizioni di una stessa opera, per autori da una certa epoca in poi abbiamo anche i manoscritti autografi. Poiché per i classici non siamo in possesso di autografi e tanti secoli ci separano dall'autore sono più probabili errori dei copisti che varianti d'autore, anche se plausibili.

Attico, amico ed editore di Cicerone, ne rivedeva gli errori prima della pubblicazione. Nell'Orator Cicerone confonde un passo degli Acarnesi di Aristofane con un passo dei Demoni di Eupoli, Attico glielo fa notare e Cicerone in una lettera lo ringrazia scherzosamente e gli chiede di far correggere le copie ai suoi scribi: nei codici che noi abbiamo c'è scritto Eupoli: è una variante d'autore. Nella Pro Ligario aveva citato tra gli astanti ad un processo un morto, anche in questo chiese ad Attico di correggere i testi, che però già circolavano.

Tertulliano, autore cristiano, scrisse l'Apologeticon che ci è arrivato in due differenti redazioni, la vulgata ed un codice di Fulda (monastero tedesco di copisti di età carolingia). Uno studioso svedere, Thörnell, si è reso conto che l'Apologeticon è rifacimento dell'Ad nationes, sicché la redazione più vicina all'Ad nationes è la più antica. Si è basato su argomenti di natura stilistica e grammaticale, ma c'è altro: ad un certo punto dell'Ad nationes viene citato un passo delle Historiae, in cui Tacito racconta che Mosé inseguendo degli asini trovò una fonte, e dice "Tacito, IV libro, Historiae"; la citazione è ripresa pari pari nell'Apologeticon fuldense. I codici della vulgata, invece, riportano una citazione corretta (V libro), necessariamente una variante d'autore, giacché Tacito era poco noto in antichità (ci è trasmesso da un solo codice di Montecassino).


La filologia presso gli antichi

Occorre capire se anche gli antichi si rendevano conto che i testi potessero subire delle modifiche. La critica alessandrina si accorse che il testo omerico era in movimento e costituito di pezzi giustapposti, che vi erano aporie e contraddizioni, ripetizioni etc. Questi studiosi, consapevoli della situazione magmatica ma anche della sacralità del testo omerico, decisero di intervenire con segni diacritici che indicassero gruppi di versi su cui dubitare. La critica alessandrina mira ad una razionalità del testo, alla sua correttezza formale e grammaticale, pur rispettandola (questa critica che mirava all'ortografia in senso lato proseguì a Roma con Valerio Probo).

Le leggi hanno un dettato scritto immutabile oltre che orale: questa concezione giuridica del linguaggio (che ha precedenti platonici e stoici) si ritrova nel concetto cristiano dell'immutabilità della parola di Dio. Girolamo, Agostino, Origene si resero conto della necessità di tramandare i testi sacri senza che subissero modifiche, attivando un controllo filologico, che quindi interviene per la prima volta a livello romano-cristiano in età imperiale.


Casistica degli errori più frequenti e codici

Dittografia: scrivere due volte la stessa sillaba o parola.

Aplografia: semplificare omettendo una sillaba o parola.

Le saut du meme au meme: saltare da una parola ad una uguale più avanti nel testo, o da un verso a quello che inizia con la stessa parola.

Il controllo della parentela tra due testi non si fa sulle cose giuste comuni, ma sugli stessi errori. Un archetipo avrà trasmesso a tutte le copie dipendenti da esso almeno un errore. Quando si riconduce una tradizione ad un archetipo la si chiama chiusa, quando restano linee parallele si dice aperta. Comunque gli archetipi medievali sono ancora separati da secoli dall'originale, quindi già l'archetipo è sfigurato da errori. Bisogna sempre confrontarsi con la dimensione umana e i suoi errori spesso meccanici. Il De reditu di Rutilio Namaziano, poema in distici elegiaci, s'interrompe a metà del II libro, a La Spezia anziché Marsiglia. Si è ipotizzato che l'autore sia morto a La Spezia o che abbia troncato l'opera per polemica con l'epica virgiliana; trent'anni fa si scoprirono su un pezzetto di pergamena usato come rappezzo di un altro codice dei versi del seguito del De reditu. I codici più vicini a noi sono meno corretti di quelli più antichi perché hanno più errori ed interpolazioni (degli umanisti), anche se talvolta si può avere un codice del XV secolo paradossalmente più antico nel testo dei testimoni conservati del XIII o XII secolo, perché figlio diretto di una lezione antica (spesso vera) riscoperta in una biblioteca: si tratta di un codice recentior ma non deterior.

Nel I libro delle Satire Orazio dice che quando il sole brucia forte di ricorda di dover fare il bagno e "fugio rabiosi tempora signi", tutta la tradizione dà questo verso, tuttavia la frase è pleonastica. Un manoscritto del XVI secolo, recentissimo, riporta "fugio campum lusumque trigorem": "trigor" era il gioco a palla, termine poi scomparso, che ci fa capire che il codice è optimus, copiato da uno antichissimo.

Un romanzo come il Satyricon di Petronio incontra difficoltà di trasmissione per la sua lunghezza e per l'immoralità. Nel 1600 nella Biblioteca di Tragù in Dalmazia fu trovato un manoscritto, detto traguriensis, che contiene intero lo spezzone della Cena Trimalchionis che non si aveva dagli altri excerpta e da un manoscritto purgato da un monaco dotto "tanto pio quando disgraziato". E' un manoscritto umanistico recentior di indubitabile autenticità, legato all'ambiente di Padova, da cui passò anche la biblioteca del Petrarca.

Solo un codice di età umanistica ci dice che un ponte sul Tevere fu dedicato al padre di Ammiano Marcellino, nel 1878 è stata scoperta un'epigrafe vicino a Ponte Sisto che ce lo conferma. Il recentior non è deterior quando è figlio diretto di un testimone, non conservato, più antico di quelli che possediamo, su cui possiamo costruire il nostro stemma codicum.

Grazie alla metrica è più difficile che si conservi errato un testo di poesia che di prosa. A volte il copista aggiungeva delle glosse che poi entravano nel testo, oppure lasciava uno spazio bianco (finestra) al posto di una parola incomprensibile, che in seguito veniva colmato o compresso. Quando nei monasteri mancava bestiame per fare pergamene nuove, si selezionavano codici non più interessanti, si mettevano a bagno nel latte e grattavano con la pietra pomice, i codici grandi venivano tagliati in due più piccoli, sulle cui pagine dunque la scrittura si rovesciava e si cambiava la distanza facendo in modo che la penna non tornasse sulle righe precedenti. Il De re publica  di Cicerone -scoperto da Angelo Mai- si trova in un palinsesto della Biblioteca Vaticana su un testo dei vangeli. La vecchia scrittura riemerge con dei reagenti chimici che però corrodono le pagine. Il monastero di Bobbio vicino Piacenza era ricco di palinsesti che furono portati via da due umanisti dei Visconti, di essi parte finirono alla Biblioteca Nazionale di Napoli, altri alla Biblioteca Ambrosiana di Milano per ordine di Federico Borromeo, altri a Roma alla Biblioteca Vaticana, altri a Torino dai Savoia dove finirono bruciati nel 1904, fortunatamente non senza essere prima stati fotografati.

Alcuni frammenti della Storia di Livio furono trovati come cartocci di alcune reliquie di santi.


Eliminatio codicum descriptorum e collatio

Un codice figlio di un altro codice si dice apografo, mentre il modello che il copista ha di fronte si dice antigrafo; si parla altrimenti di codex descriptus (describere è calco di apogravfein). Servono prove certe che un codice sia copiato da un altro: motivi esterni o interni ai testi.

Dell'Anabasi di Arriano abbiamo codici greci, forse scritti a Costantinopoli, del XIII secolo che presentano tutti una lacuna, conosciamo un codice vindobonense (di Vienna) in cui la lacuna capita tra un foglio e un altro, per cui si intuisce che è caduta una pagina, da questo deduciamo che gli altri tre codici sono suoi descripti. Gli antichi scriptoria (biblioteche dei monasteri) avevano degli inventari degli autori e delle opere, ma non degli specifici codici, che attribuiamo a una particolare biblioteca o grazie a delle note di possesso o perché nell'inventario si segnava la frase o il verso con cui iniziava la seconda pagina (non tutte le grafie occupano lo stesso spazio). L'osservanza dei fattori esterni è più importante per il mondo greco che per quello latino. Conoscendo i vari tipi di scrittura si può datare un codice, nei codici tardo-antichi, soprattutto latini, ci sono sottoscrizioni che indicano il console sotto cui si scrisse il codice. I codici greci, dopo il passaggio con Fozio alle minuscole nel IX secolo, sono tutti circa uguali; i copisti indicano solo il proprio nome e non il cognome e non danno alcuna indicazione temporale.

Delle opere di Gregorio di Nissa (un padre della Chiesa) abbiamo due testimoni in carta bombicina (quella povera degli intellettuali, mente si deve diffidare dei codici lussuosi, come quelli urbinati di Federico da Montefeltro), in cui troviamo pezzi di testo spostati, in uno nel mezzo delle pagine, nell'altro tra una pagina e l'altra. E' chiaro che il primo era stato rilegato male e l'altro ha recepito l'errore.

Fascicoli sciolti (come le pecie universitarie) venivano poi rilegati insieme. Un'altra prova è quella del contenuto: un codex descriptus ha tutti gli errori dell'antigrafo più qualcuno suo. I codices riconosciuti come descripti restano importanti per la storia della cultura, come prodotti della fatica umana ("tres digiti scribunt, totus corpus laborat" è un colofurnio medievale), ma da un punto di vista di ricostruzione del testo non hanno valore alcuno.

Un codex descriptus (latino), attraverso gli errori dello scriba, ci aiuta a capire in quale scrittura fosse l'antigrafo: ad esempio nella scrittura beneventana cc significa sia a che cc, a è t. Uno scriva con una certa educazione grafica, che copia un testo in una scrittura sconosciuta, fa degli errori.

Lectiones singulares si chiamano gli errori dei singoli copisti.

Dopo aver sfrondato dei codices descripti e delle lectiones singulares il proprio stemma, ci si avvicina all'archetipo.

Le opere minori di Tacito furono portate in Italia da Poggio Bracciolini, segretario del Papa (che ne monastero di Hersfeld aveva stilato una lista di opere interessanti, in cui è scritto "Cornelii Taciti Agricola, Cornelii Taciti Germania, Dialogus de oratoribus"), in un codice che finì per vie ereditarie a Pesaro nella biblioteca privata di alcuni conti, e adesso si trova nella Biblioteca Nazionale di Roma.


Molti testi non ci sono pervenuti direttamente ma ne conosciamo l'esistenza o frammenti da citazioni di autori posteriori e grammatici (700 versi di Ennio, commedie plautine da Aulo Gellio): è la tradizione indiretta. Talvolta ci sono discrepanze tra la tradizione diretta e indiretta di uno stesso passo.

Ai vv. 62-63 della IV ecloga di Virgilio la tradizione diretta scrive: "cui non risere parentes/ nec deus hunc mensa, dea nec dignata cubili est"; Quintiliano cita: "qui non risere parenti [...]". Sono due varianti adiafore (equivalenti).

Lucrezio (De rerum natura, III, 72) scrive: "Crudeles gaudent in tristi funere fratres"; Macrobio nei Saturnalia (6, 2, 25) cita: "[...] fratris", con più senso.


Chi cita può per errore sostituire un nome che gli è più familiare ad un altro o attribuire un verso di un autore ad un altro (falsa attribuzione, che può avere una certa fortuna, come nel caso di ennio e Nevio nell'Umanesimo).

Il settenario trocaico, molto ritmico, presente già in Aristofane, passò con successo al latino (Tarentilla, canzonette, carmina triumphalia), era detto "versus quadratus". Prisciano attribuisce l'espressione "septeno gurgite Nilus" a Lucano anziché a Claudiano.

Altre volte vi sono errori di attribuzione consapevoli: l'Antologia Palatina è organizzata per temi, il V libro sugli epigrammi erotici offre un gruppo di testi sul tema fondamentale del luxno (sul comodino e fuori dalla porta), di cui molti sono falsamente attribuiti al più famoso autore dell'epigramma precedente. Quando la lucerna si spegne l'amato se ne è andato (il cristianesimo ha capovolto questo concetto).


Edizione critica

Un'edizione critica riporta anche le lezioni dei manoscritti diverse da quelle che ha accettato lo studioso che l'ha curata. Si cerca di distinguere un albero genealogico dei rami che condividono alcuni errori, si restringe poi sino a risalire all'unico errore comune a tutti. Si ricostruisce il testo di ogni famiglia, poi quello dell'archetipo che si confronta con uno leggibile ipotizzabile, fornendo proprie congetture.

Di fronte a una corruzione o lacuna del testo insanabile si mette una crux desperationis.

Dove manca una parola si introduce quella ipotizzata tra parentesi uncinate < >.

Se ci sono parole in più di cui l'editore dubita le mette tra parentesi quadre [ ].

Nelle epigrafi, però, le parentesi quadre indicano integrazione -la trascrizione dei documenti è detta diplomatica- e quelle uncinate espunzione.

L'editore deve denunciare nella prefazione i codici di cui si è servito per la propria edizione.

L'apparato critico non è il commento, è l'onestà dell'editore che lascia aperta la scelta: è il problema di fondo della filologia che non crede a nulla. L'apparato critico permette al lettore di giudicare le scelte dell'editore, quello negativo contempla solo i testimoni che portano lezioni diverse o optano per una diversa restaurazione del testo, l'apparato positivo riporta anche i testimoni che giustificano le scelte dell'editore.

Vi può essere anche un apparato delle fonti (autori precedenti ripresi dall'autore del testo che attesta il suo alto livello di comunicazione con gli autori del passato e la sua trasmissione ai lettori di situazioni e atmosfere analoghe) e uno dei loci similes: si può così tracciare la fortuna di un'espressione o di un tema in autori contemporanei, anteriori o posteriori al Nostro.


Teoria delle onde e delle aree periferiche

In linguistica alla fine dell'800 si scoprì la teoria delle onde: si osserva che la lingua, estremamente mobile e in continua evoluzione, subiva più mutamenti dove c'è una vita culturale molto intensa che nelle zone periferiche, che adottavano così una lingua più conservatrice. La lingua del centro e le sue novità vengono percepite come un progresso ed un arricchimento rispetto allo stadio precedente.

Questo discorso era applicabile anche per la filologia: un testo era maggiormente richiesto nei grandi centri propulsori della cultura (Europa centrale carolingia), dunque gli errori moltiplicavano nelle innumerevoli copie. I testi conservati da testimoni periferici sono meno corrotti, tanto più quando abbiamo ad esempio coincidenza di lezioni tra un codice beneventano e uno irlandese rispetto alla variante di un codice di area centrale.

Prisciano operò a Costantinopoli alla fine del V-inizio VI secolo e probabilmente fu il più grande grammatico antico della lingua latina, scrisse 18 libri (16 di grammatica e 2 di sintassi) di Institutiones grammaticae. Il Kael nell'800 lavorò su 16 codici carolingi di Prisciano, perché più facili da ottenere in un'epoca in cui ancora i viaggi erano difficili.

In genere l'editio princeps di un testo corrisponde a un codice umanistico della stessa città perché più leggibile e rintracciabile.

Un giovane studioso italiano trent'anni fa andò a consultare un codice del IX secolo in beneventana delle Institutiones grammaticae per verificare il passo lacunoso con la citazione di Plauto: "habent" come Servio, "cuiatem esse aiebant?" Il codice di area laterale dà la versione integrale corretta del passo delle Bacchidi di Plauto. Si è verificato il saut du meme au meme, da "habent" ad "aiebant" con esito "habeant" e perdita dei versi ivi compresi. Occorre poi controllare se "cuiatem esse aiebant?" rientri nell'usus scribendi di Plauto, in cui il nesso "esse aiebant" ricorre almeno una quindicina di volte. Lowe nei suoi esempi di scrittura beneventana presenta la foto di questo passo di Prisciano con la citazione completa di Plauto, in un'opera molto antecedente al 1977.


Nozione di filologo nell'antichità

Scevola Mariotti approfondì il significato di filologo nell'antichità. In un frammento degli Annales (v. 213 ss.) Ennio celebra il cambiamento che egli stesso ha segnato in letteratura: "Scripsere alii versibus quos olim fauni vatesque canebant." "Alii" fa dei suoi predecessori un qualcosa di amorfo, con tono noncurante. Dopo una lacuna, nella quale probabilmente si diceva che essi non raggiunsero la perfezione perché ("cum") non furono in grado di salire alle vette dell'Elicona, "nec dicti studiosus quisquam erat ante hunc." Compie un passo importante nell'ellenizzazione della poesia romana. "Dicti studiosus" lasciò molte perplessità, sciolte da Mariotti che riconobbe nell'espressione uno dei tanti calchi enniani dal greco, una traduzione di filovlogo, come in un altro passo "studiosum belli" traduce l'omerico filoptovlemo.

Filovlogo in greco significava in origine chiacchierone, ma a partire da Platone "amante delle discussione filosofica", e con Aristotele con significato più ampio "amante della cultura, della scienza, della letteratura, della filosofia", sicché nel III secolo a.C. è equivalente di filosofo e scienziato, e in qualche modo poeta. Ennio vive tra III e II secolo a.C. (muore nel 169). Nel III secolo Eratostene di Cirene aveva preso come soprannome filovlogo. Ennio era un letterato poliedrico che, avendo esercitato i vari generi letterari, poteva classificarsi come filovlogo. Ancora nel De grammaticis (10) di Svetonio vi è la definizione: "Philologi appellationem adsumpsisse videtur quia multicipli variaque doctrina censebatur"

Talvolta si usa il termine in senso lievemente denigratorio, così Seneca: "quod ante philosophia fuit, facta philologia est."

Questa attenzione alla correttezza formale troverà i suoi massimi estimatori nei padri della Chiesa.


Lo sviluppo del metodo di Lachmann

Vi sarà una forte presa di coscienza in età carolingia (Paolo Diacono, Lupo di Ferrières etc.); trascrivendo un testo si servivano di più esemplari, facendo una sorta di collazione.

Campo di scrittura ci ricorda l'indovinello veronese. Il concetto che la penna ara un campo risale alla palliata, ovvero al periodo arcaico della letteratura latina.

Anche gli scribi irlandesi (l'Irlanda fu ampiamente fornita di testi classici quando fu evangelizzata poiché prima non vi si parlava il latino ma il gaelico) avevano coscienza delle corruttele dei testi e della necessità di emendarle; il codice Oblungus di Lucrezio (uno dei più importanti insieme al Quadratus e alle Schede), scritto in carolina, ad opera del "corrector saxonibus", l'irlandese Dunngal approdato alla corte di Carlo Magno.

Nell'Umanesimo il metodo filologico viene fatto proprio da alcuni grandi personaggi, come il Poliziano (che scrisse anche i Miscellanea, voluminosi manuali di filologia) che frequentando la Biblioteca Medicea Laurenziana si accorse che nel Laurenziano 49, 7 un fascicolo era spostato, errore passato a tutti i suoi descripti. Per primo il Poliziano capì che c'è una storia di tradizione dietro ogni testo. Ù

Il primo che capì il concetto di archetipo medievale già sfigurato da corruttele fu Erasmo da Rotterdam, che negli Adagia scrive che spesso è inutile collazionare il testo di tanti codici perché "fit enim saepe multo unim archetipi mendum modo vivi fucum aliquem..." e si propaghi in tutta la discendenza dei codici, e cita Omero: "kai paivda paivdwn kai toi met o pisqen genovnta

L'editio princeps di un testo è in genere la stampa di un qualsiasi codice in umanistica. Molti umanisti (Petrarca, Poliziano, Lorenzo Valla) compresero che spesso i recentiores sono deteriores.

Bentley: "più di cento codici vale la ratio."

Wolf scrisse i Prolegomena ad Homerum e capì che il testo omerico era uno dei più complicati per i tagli, le aggiunte, la Kunstsprache.

Sono fondamentali i lavori di Karl Lachmann, che solo si arrogò il merito di aver ricostruito il testo di Lucrezio e di aver messo a punto il metodo stemmatico. Il De rerum natura rimase incompiuto per la morte prematura dell'autore (per suicidio secondo San Girolamo) e fu pubblicato per volontà di Cicerone, ebbe molte difficoltà per il suo epicureismo: ci è giunto solo per qualche verso in florilegi medievali, e poi in tre codici di età carolingia, Oblungus, Quadratus e le Schede (fogli volanti trovati nella biblioteca di Copenhagen) e molti codici umanistici di poco valore.

Il Quadratus e le Schede sono imparentati tra di loro: secondo il Lachmann quando c'è un accordo in lezione tra Oblongus e Schede, in errore è il Quadratus; è il principio dei due contro uno. La genialità del Lachmann fu la scoperta della possibilità di risolvere alcuni problemi in modo meccanico, riducendo scientificamente i margini di arbitrio dell'editore. Poté ricostruire la forma materiale dell'archetipo accorgendosi che nel Quadratus e nelle Schede c'erano tre spostamenti di gruppi di 26 o 52 versi, e che altre due trasposizioni e una grossa mutilazione nel I libro erano comuni anche all'Oblungus, quindi dovevano trovarsi anche nell'archetipo. Questi guasti spiegano solo ammettendo che le pagine dell'archetipo fossero di 26 righe, dividendo il numero di versi del De rerum natura per 52 ottenne il numero di fogli dell'archetipo. Questa dimostrazione ottenne straordinario successo presso i contemporanei. Anche Lachmann era partito nei suoi studi dal Nuovo Testamento.

Dopo Lachmann la linguistica portò a studiare i testi dal punto di vista della teoria delle aree laterali e dei volgarismi linguistici.

J. Bedier, filologo romanzo che studiava l'Ai de l'hombre, disse che nei suoi lavori si era trovato sempre con stemmi bipartiti su cui non si poteva usare il principio del due contro uno, ma solo lo iudicium dell'editore e che questa bipartizione era sospetta perché lo studioso nella sua presunzione si turba nel dialogare la soluzione a qualcosa di meccanico e preferisce porsi in una situazione che lo porta a scegliere la soluzione che più lo aggrada. Il discorso di Bedier è vero per i rami (umanistici) bassi della tradizione, ma in realtà le tradizioni dei classici sono spesso a quattro o cinque famiglie, ovvero la tradizione è aperta. Quello di Bedier è un falso problema. Alcune scuole di filologia (quella americana), però, sostengono ancora che si debba fare l'edizione di un testo basandosi solo su un codice ritenuto attendibile, con alto rischio.


Nelle edizioni degli Annales  di Ennio (che conosciamo solo per tradizione indiretta di Cicerone e grammatici) troviamo un frammento di verso di quattro parole del libro X, riferite a come si calcola la distanza tra la terra e il cielo: "cursus quingentos saepe veruti." "veru" è lo spiedo, da cui l'aggettivo. Nell'apparato critico di Ennio curato da Vahlen si legge che queste quattro parole ci sono arrivate da Festo, un grammatico che scrisse il De significatione verborum. I glossari medievali erano opere in fieri. Festo: "veruta pila dicuntur quod velut veru habent praefixa, Ennius liber X:" poi una lacuna a questo pezzo di verso. Queste due righe si trovano nel Festo farnesiano in romanesca del secolo XI (Biblioteca Nazionale di Napoli), che è stato molto danneggiato dall'umidità per circa metà di ogni pagina e ha perso alcuni fascicoli; prima di questo ne aveva fatto Poliziano una copia, che è conservata alla Biblioteca Vaticana.

Si notò che questo moncone di verso era in realtà di Lucrezio (IV, 449); si pensò che Lucrezio avesse copiato da Ennio, giacché anche nel ricordare il sacrificio di Ifigenia riecheggia Ennio, ma non è mai imitazione pedissequa di un verso.

Nel Vat. Lat. 3367, la copia di Poliziano, che era stato uno dei primi a nutrire una concezione scientifica della filologia, ogni riga che non poteva essere ricopiata perché danneggiata dall'umidità è sostituita da un'H, o due o tre.

Si trova: "H veruta pila dicuntur quod H habent praefixa. Ennius liber X H H cursus quingentos saepe veruti." Le due H indicano che manca un'intera riga, quindi doveva esservi la citazione dell'aggettivo "verutum" in Ennio e poi la citazione di Lucrezio. Possiamo solo dire che Ennio ha usato l'aggettivo"verutum" perché Festo che lo testimonia.

Non ci si deve mai staccare dalla realtà del manufatto.

Anche l'archeologia e il confronto con la tradizione epigrafica ci aiutano nel documentare lo stadio di una lingua.

Oltre ai grammatici c'erano gli insegnanti di retorica, come Quintiliano, che era molto preciso nello stabilire gli errori commessi dalla lingua parlata. Nel libro I dell'Institutio oratoria parla di barbarismi: aggiungere o togliere una lettera o una sillaba, sostituire o spostare una lettera o una sillaba (adiectio, detraxio, immutatio, trasmutatio). Quintiliano fa degli esempi: un signore di Piacenza diceva "precula" invece di "pergula"; nello stesso barbarismo cadde Ennio: "Metioeo Fufetioeo" con un genitivo di matrice omerica (-oio). Anche Ovidio dice "vinoeo bonoeo" riecheggiando qualcosa di arcaico. Resta il dubbio però perché siamo in presenza di un nome proprio tipicamente romano ed Ennio fa poesia seria negli Annales, a differenza di Ovidio che sta scherzando. Si è osservato che Ennio è un poeta alessandrino che ama dei giochi di parole, ma a livello colto, come la sincope "do" per domum, che riecheggia l'omerico "h hmetevron dov" (= dovma); ma questo caso sarebbe un unicum. Lo stesso Quintiliano considera distinti i due episodi, citando Ovidio a distanza di molti paragrafi. Più semplice è considerare che Ennio utilizzi un genitivo arcaico non greco ma latino. Il lapis Satricanus (tra IV e V secolo a.C.) è un vaso che reca l'espressione "copiosio valesosio" -osio>osjjo>oio

Una ciotola di Ardea risulta appartenere a "Titoio" (III secolo a.C.).

Chiaramente "Metioeo Fufetioeo" è un genitivo arcaico, forse con un'influenza dialettale: si rifà a un momento preciso della storia delle lingua latina; Quintiliano lo qualifica come barbarismo perché al suo tempo non era più riconoscibile.

Arcaismi si trovano anche in Plauto e nei poeti della palliatae, ma molto meno in Terenzio. Fraenkel ha dimostrato che mediante i riferimenti all'attualità romana e alla lingua parlata possiamo stabilire con esattezza quando Plauto si distacca dal modello greco, anche perché spesso lo segnala usando all'inizio e alla fine del passo lo stesso verso.

"Febriculosae" riferito alle prostitute non indica che fossero affette da malattie veneree (che arrivarono in Europa dopo la scoperta dell'America) ma malariche, giacché abitavano vicino al Tevere.




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