VINCENZO CUOCO
Vincenzo
Cuoco nacque a Civitacampomarano (Campobasso) nel 1770; la sua famiglia, di
estrazione borghese, lo avviò agli studi di giurisprudenza che non completò
mai, sentendosi invece più incline alla filosofia e alla letteratura che coltivò
assiduamente. Tra i suoi interessi ebbero un ruolo particolare lo studio della
storia e della cultura delle antiche popolazioni italiche; gli autori che più
influenzarono la sua riflessione storica furono Machiavelli e Vico. Nel 1799
prese parte alla Rivoluzione napoletana ricoprendo incarichi di rilievo
all'interno del regime giacobino. Per questo motivo, al ritorno dei Borboni, fu
condannato alla confisca dei be 757b16h ni, a pochi mesi di prigionia e a venti anni di
esilio. Imbarcatosi per Marsiglia, trascorse lunghi periodi successivamente a
Milano e a Parigi: durante l'esilio iniziò a scrivere il Saggio storico
sulla rivoluzione napoletana del 1799, la sua opera di maggior rilievo. Nel
saggio, Cuoco imputa il fallimento dell'azione rivoluzionaria all'incauta applicazione
dei modelli rivoluzionari giacobini alla realtà del meridione italiano,
profondamente diversa da quella francese. L'opera venne terminata e pubblicata
a Milano nel 1801, prima in forma anonima e poi a suo nome (1806). I primi anni
dell'Ottocento lo videro impegnato in un'intensa attività pubblicistica presso
il Giornale Italiano, cui riuscì a dare una nuova fisionomia economica,
e nella stesura di numerose opere di vario genere rimaste però tutte
incompiute. Unica eccezione i due volumi del Platone in Italia
(inizialmente pubblicato in tre volumi), romanzo storico-epistolare che finse
di tradurre dal greco. Il testo è incentrato sulla celebrazione dell'antica
"Italia pitagorica" come luogo mitico di saggezza e si inserisce così
nella polemica del "primato degli italiani" che animava la cultura
del primo Ottocento, proclamando la supremazia culturale dell'Italia rispetto
alla Francia. In seguito alla mutata condizione politica, Cuoco tornò a Napoli
continuando ad occuparsi di pubblicistica (Monitore delle Sicilie) e
ricoprendo incarichi politici sotto Gioacchino Murat, di cui fu uno dei più
validi collaboratori. La restaurazione del 1815 e il conseguente ritorno allo
status quo ante minarono irreversibilmente il suo fragile sistema nervoso,
portandolo alla follia. Morì a Napoli nel 1823. Nel Settecento gl'intellettuali italiani si aprirono
generosamente all'influsso delle idee illuministiche francesi (utilizzandole
peraltro anche in modo autonomo e creativo) e a quello degli ideali della
Rivoluzione del 1789. Ma con la fine dell'avventura napoleonica andarono
maturando anche in Italia fermenti di critica contro l'astrattezza dei discorsi
dei filosofi illuministi, e contro quella degli ideali rivoluzionari che troppo
ingenuamente si erano ritenuti trasportabili nella nostra penisola. In questo clima visse Vincenzo Cuoco, che, nei
Frammenti di lettere a V. Russo e nel Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana del 1799, affermò che nessuna rivoluzione può essere
imposta, né con "la forza delle baionette", né ad opera di
"un'assemblea di filosofi"; e sostenne che ogni popolo deve avere una
sua propria costituzione adeguata alle sue caratteristiche, alla sua cultura e
alla sua storia. E' assurdo illudersi (e questo fu l'errore fatale dei Rivoluzionari
francesi) che vi siano valori universalmente validi e universalmente
applicabili a prescindere dalle particolari realtà storiche e sociali: tale è
l'errore commesso dall'illuminismo, che pecca di astrattezza nella misura in
cui pretende di universalizzare e di assolutizzare ogni cosa. Ogni realtà ha le
sue condizioni e le sue peculiarità, sicchè non è detto che, quanto risulta
ottimo a Parigi, tale risulti anche a Napoli. Troviamo, pertanto, in Cuoco, i
germi del nascente Romanticismo, con la sua attenzione per le realtà
particolari, di contro all'Illuminismo ormai tramontante. A proposito del
fallimento della rivoluzione napoletana, egli annotava:
"Le idee della rivoluzione di Napoli avrebbero
potuto essere popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della
nazione. Tratte da una costituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra;
fondate sopra massime troppo astratte, erano lontanissime da' sensi, e, quel
ch'è piú, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutt'i capricci e
talora tutt'i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, da'
nostri capricci, dagli usi nostri...
Se mai la repubblica si fosse fondata da noi medesimi, se la costituzione,
diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse fondata sui bisogni e sugli
usi del popolo; se un'autorità che il popolo credeva legittima e nazionale,
invece di parlargli un astruso linguaggio che esso non intendeva, gli avesse
procurato dei beni reali, e liberato lo avesse da que' mali che soffriva...
forse... chi sa?... noi non piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria
desolata e degna di una sorte migliore... La nostra rivoluzione, essendo una
rivoluzione passiva, l'unico mezzo di condurla a buon fine era quello di
guadagnare l'opinione del popolo. Ma le vedute de' patrioti e quelle del popolo
non erano le stesse: essi avevano diverse idee, diversi costumi e finanche due
lingue diverse".
(Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799).
Sul piano piú strettamente filosofico
la reazione antilluministica, piuttosto che stimolare la creazione di nuove
originali visioni del mondo, si trasformò, anzitutto, in esigenza di recupero
della tradizione culturale italiana, con lo scopo pedagogico di formare le
coscienze intorno ai valori costanti della civiltà italica. Infatti
nell'Ottocento l'impegno politico degl'intellettuali si focalizzò sul disegno
di liberazione del Lombardo-Veneto dalla dominazione austriaca e, quindi, sul
progetto di costruzione di un unico stato italiano a dimensione nazionale.
Sicché la riscoperta e la diffusione della tradizione storico-culturale mirava
a fondare una "coscienza della nazionalità italiana" che sola poteva
essere il presupposto logico di quel progetto; infatti era giudizio diffuso che
sussisteva di fatto, e da tempi antichi, un'unità spirituale che la divisione
politica in una molteplicità di stati, anche se secolare, non aveva mai
spezzato.