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HöLDERLIN (1770-1843)

letteratura tedesca



HöLDERLIN


Nasce nel 1770 a Lauffen, sul Neckar, a due perde anni il padre. La madre è molto austera. Ciò nonostante Hölderlin conserverà nei suoi confronti un atteggiamento rispettoso, anche se un po' distaccato. La madre si risposa ma rimane vedova una seconda volta e dà all,'educazione dei figli un tono decisamente pietistico. L'ideale della madre sarebbe stato quello di avere un figlio pastore protestante, debitamente sposato e con figli, motivo questo di un palese e costante scontro madre-figlio. A scuola mal sopporta la disciplina, è in urto costante con la mentalità dominante e limitata gli sembra la cultura degli insegnanti. Studi poeti quali: Klopstock, Schiller, Young, e Ossian. Nel 1789 entra nello Stift (seminario per pastori protestanti). Nel 1791 arrivano notizie della Rivoluzione Francese, salutata, in un primo tempo, con grande entusiasmo dal mondo intellettuale della Germania, entusiasmo rapidamente rientrato dopo gli anni del Terrore e la decapitazione del re. Hölderlin rimarrà comunque giacobino fino alla fine. Sentiamo echi di questo suo giacobinismo in molte sue poesie, nell'Iperione, nella morte di Empedocle .



Egli aveva pensato non tanto ad una possibile liberazione e valorizzazione del Terzo Stato in senso sociale, politico, economico; ma più a un ritorno alla natura in senso rousseauiano, a una liberazione di tutta l'umanità con la costituzione di Stati entro i quali l'individuo potesse svilupparsi e affermarsi in tutta la sua spiritualità e dignità senza costrizioni esteriori.

La classicità e la grecità, alle quali Hölderlin si era già avvicinato, prendono in lui, in conseguenza di particolari aspetti della Rivoluzione Francese, un nuovo significato. Ci troviamo di fronte ad una classicità che è diversa da quella di Winckelmann, di Goethe, di Heinse: è un mondo che ci richiama alla rigidità civile della Repubblica Romana e alla Vite di Plutarco e che, più ammirato, dovrebbe venir rivissuto e rinnovato.

Questo rinnovamento giacobino dell'ellenismo non piaceva a Schiller che lo avversava come Grecomanie e non condivideva il tentativo di rivivere ideali antichi entro problemi attuali.

Nel 1795 va a Francoforte e diventa precettore nella casa del banchiere Gontard e della moglie Su sette. Tra Su sette e hölderlin vi è un'affinità elettiva. Tra i due vi è un amore segreto, intimo, tenuto necessariamente nascosto. E',tuttavia, un amore che supera e annulla tutti gli altri, anche per la reciprocità di questo sentire. Su sette non è solo un' anima bella, ma è anche una donna incarnante la serenità, la pace, la grecità, la bellezza. Essa è anche una donna capace di prendere parte alla sua creazione poetica e di discuterne con lui, così come la Diotima del romanzo partecipa alla vita, alle lotte, alle aspirazioni di Iperone. Egli la rinomina addirittura Diotima. Nel 1798 l'atmosfera in casa Gontard si appesantisce e Hölderlin sente il presentimento di un necessario distacco.

Nel 1801 ha una grande rivelazione: il paesaggio alpino. Napoleone, la borghesia tedesca e quella francese tradiranno gli ideali della Rivoluzione. Nel 1802 gli pervenne la notizia di una grave malattia di Diotima ( morirà di scarlattina). Si hanno i primi segni di turbamento psichico. Mentre il declino fisico è molto lento, la follia non gli concederà un attimo di pace. Nel 1806 fu affidato ad una clinica che sorgeva a Tubinga, proprio accanto allo Stift.

Si spense il 7 giugno 1807.



Il mite sognatore Hölderlin nascondeva un << giacobino mascherato>>, ma era troppo poeta, troppo sognatore e troppo portato a immergersi nella beatitudine della contemplazione, per diventare comunque un eroe dell'azione. Di qui un tragico dissidio nell'anima del vate di eroi a venire: Hölderlin sentiva l'eroismo da poeta, ma era incapace di agire da eroe. Quanto alla religione, si rese sempre più chiaramente conto dell'abisso che divideva la sua poetica religione della natura dal cristianesimo; ma al cristianesimo e alla figura di Cristo rimase poi sempre disperatamente attaccato. Tale dissidio fu senza dubbio un'altra, e forse la principale, delle cause della follia che alla fine soverchiò il suo spirito.



La fuga di Hölderlin da casa Gontard era dovuta, oltre che dalla gelosia del banchiere, anche alla sua convinzione di essere obbligato a sacrificare -in ciò simile anche ad Iperone- la sua felicità amorosa per restare fedele alla propria missione poetica. Diotima, che morì due anni dopo, consunta dal dolore, si direbbe quasi che morì per conformarsi alla sorte che Hölderlin aveva riservato a Diotima nel romanzo Iperone, mentre egli stesso stava già lottando invano contro le tenebre paurose della demenza. Demenza provocata dal conflitto tra la poesia e la vita, demenza praticamente prevista e poeticamente interpretata, ma soprattutto demenza suscitatrice, nei momenti di lucidità, di una nuova, altissima poesia.


La poesia di Hölderlin è eterea non soltanto perché canta spesso l'etere, ma perché è tutta immersa in un bagno di luce e tutta vivificata dall'etere, che rende translucide - nitide ed immateriali - le cose concrete, creando intorno ad esse un'atmosfera che non sembra di questa terra, perché è tutta vibrante di 131d36b misteriosa e gioiosa luminosità.


Mentre secondo Schiller gli dei greci hanno abbandonato la terra, secondo Hölderlin essi vivono ancora in mezzo alla natura, sono anzi la natura essi medesimi, ma l'umanitànon li comprende e non li vede più; soltanto il poeta riesce a sentirli. Ecco allora che nella contemplazione di una natura, che è tedesca nella sua realtà e greca nella sua idealità perché tutta pervasa dal divino, si placano i contrasti dell'anima.


Ogni improvvisazione è esclusa, nulla è arbitrario o fortuito: la lenta costruzione della natura hölderliana è ad un tempo costruzione dell'anima hölderliana, che non può svilupparsi e crescere, non può neppure vivere se non al riparo di una natura che deve possedere una perfezione assoluta per poter offrire un senso assoluto di protezione.


Il Meno e il Neckar che si gettano nel Reno e insieme ad esso sfociano nel mare indicano ad Hölderlin non tanto la distesa infinita dell'oceano, quanto la via della Grecia; gli stessi ruscelli della terra natia sono mossi come il poeta, da un incontenibile desiderio di migrazione.


La teofania vespertina (teofania = apparizione della divinità). I poeti settecenteschi avevano cantato prima di Hölderlin soprattutto l'alba, in cui l'anima e la natura rinascono; la visione cosmico-religiosa di Hölderlin si accentra tutta nell'ora del tramonto, ora di estrema dolcezza, che è anche presentimento della notte e della morte.

Colmo di gioia fino all'ebbrezza il poeta sente la fugacità, la quasi illusorietà della gioia e cerca di acuirla nella consapevolezza della sua fugacità, di fissarla proprio nella sua fugacità.


L'uomo moderno in genere, il tedesco in specie, non sono più capaci di armonizzare le forze della loro anima, perché hanno perduto il senso del divino, che è appunto il senso dell'armonia. Compito del vate è perciò far rinascere in mezzo all'empia umanità moderna il culto degli dei.


Holderlin propigna la riconciliazione di tutte le fedi, una specie di sincretismo religioso; come poeta crea con insuperabile potenza visionaria due opposti paesaggi religiosi; quello delle brulle ed aspre montagne d'Asia e l'opposto paesaggio delle Alpi.


Holderlin mira a conciliare il cristianesimo e la religiosità delle forze cosmiche; mira cioè ad affermare il dio dell'etere senza rinnegare Cristo.






Il fiume


Quando l'uomo primitivo s'imbatteva nel fiume, vedeva dapprima l'acqua reale : sorgente, corso, affluente, sbocco nel mare. Ma l'insieme era più di quanto noi intendiamo col concetto geografico; era un essere. Con questo non si vuole alludere a nessun <<antropomorfismo>> e nemmeno a una <<personificazione>>. Ciò che avveniva qui era un'autentica visione. Appunto questo era un essere: una realtà misteriosa, terrificante e allo stesso tempo invitante; un qualcuno che aveva una volontà. Questo qualcuno lo si poteva improvvisamente incontrare, sotto le spogli di un toro, ad esempio, oppure di un uomo o di una donna. Queste figure non erano un'allegoria del fiume, e nemmeno la sua anima, bensì il fiume stesso. Da questa visione scaturivano dapprima il mito e il culto. Poi l'esperienza veniva trasmessa attraverso leggende e favole, per essere ritualizzata ancora oggi da chi è ricettivo.

In Hölderlin essa irrompe in modo primordiale. Del fiume egli conserva ancora l'antica esperienza numinosa. Lo contempla con lo sguardo dell'uomo primitivo -che però, dal momento che egli appartiene ad un'epoca successiva, ha avuto un'evoluzione propria. Ma siccome egli è uno spirito elevato e un grande mastro di parola, e si sente mandato per resistere il male accumulato dalla storia e per annunciare ciò che è veramente autentico, tale esperienza assume in lui una particolare potenza: diventa visionaria. A quest'esperienza è votata la sua poesia. Il poetico in Hölderlin è legato alla consapevolezza di una missione religiosa.


Ciò che Hölderlin vede nel fiume supera ciò che è accessibile allo sguardo moderno. Si tratta di una realtà numinosa, di una semidivinità. Il fiume reale è per lui fin dall'inizio qualcosa che trascende il significato che la geografia attribuisce al senso di questa parola.

Da esso emerge un viso, una figura , qualcuno rivolto a chi è capace di vedere. Nel suo scaturire e nel suo trasformarsi si compie un destino. Ma per il fatto banale di vedere il vate stesso è preso. Egli non riesce più a staccarsi . Non è più in grado di assumere nel loro senso banale le cose che incontra. Egli deve rimanere un visionario, annunciando ciò che ha visto e partecipandovi in qualche modo. La sua vita personale viene implicata entro ciò che è contemplato. Anzi, solo per il fatto di essere votato e segnato fin dalla nascita, egli ha potuto diventare un vate. In tal modo la poesia di Hölderlin scaturisce nel modo più profondo dalla visione. Il fiume intende ciò che è costituito dallo scorrere; ciò che viene da un'origine e si precipita verso la fine, verso un compimento che allo stesso tempo è tramonto.

Il fiume unisce, ma allo stesso tempo divide: una riva dall'altra. In tal modo la sua immagine diventa espressione della distanza esistenziale tra il momento dionisiaco della partenza e il freno di <<ciò ch'è destinato>>, anche se questo freno è assai vicino -vedi la vicinanza delle montagne divise all'inizio in Patmo. E' quindi difficile superare questa distanza, e ve è bisogno delle ali per varcare all'altra riva: della forza del salto, del volo, del superamento.


La montagna


La nostra analisi del fenomeno fluviale ha mostrato come, in un determinato momento, l'immagine del fiume si trasfiguri nel mitico. Lo stesso avviene anche a proposito dell'immagine della montagna . La coscienza mitica non vede il mondo come dato oggettivo, da pensare secondo i concetti scientifici di materia, forza e legge, bensì come insieme di esseri viventi dei quali, attraverso l'incontro e la fuga, la lotta e l'unione, scaturiscono costantemente gli enti. Questa caratterizzazione del mitico non sembra applicabile ad un fenomeno così massiccio come la montagna, eppure ciò viene fatto, e anche con grande credibilità. La trasformazione riesce relativamente facile sul piano delle idee di spazio e luogo, come avviene nei versi addirittura magici che introducono la quarta strofa di Pane e vino


Strofa 4 :[ O Grecia felice .di onnipresente gioia?]

La terra dell' Ellade viene vista da un'altezza visionaria ed appare come <<casa di tutti i Celesti>>. Il piano orizzontale della terra costituisce un'immensa sala, preparata per gli esseri sovraumani. Il mare è il suolo sul quale camminano i Celesti; le montagne sono le mense dove gli dèi pranzano, esse sono state costruite nella notte dei tempi per questo scopo; i templi sono i troni, e lo spazio vasto, pieno di misteri, è attraversato, come da fulmini, dagli <<oracoli, che colgono lungi>>. Questo è il vero senso del paese: essere la sede degli dei. Ogni altra visione è cecità e limitatezza terrena. Tutto ciò non è che l'introduzione al vero e proprio mistero:


Strofa 4: [ <<Cielo Padre!>> . il loro giorno]


Sono incredibili la forza primordiale e la precisione con cui un uomo che vive a cavallo tra Settecento e Ottocento riesce ad evocare la sfera del mistero

Ancora una volta la montagna muta carattere e diventa l'altezza nello spirito. Ciò accade, per esempio, nella prima parte dell'inno Patmo in cui lo spirito trasporta il poeta in Asia, sulle cime dei suoi monti la cui immagine rifulge in uno splendore di gloria ultraterreno:


pag 669: " Ma la neve fioriva argentea nella luce alta,

e lungo inaccessibili pareti

cresceva la testimone della vita immortale,

l'antichissima edera,

e su colonne vive, cedri, lauri,

sacrali stavano

i palazzi innalzati dagli Dei."


Qui non sussiste più solo uno splendore d'altezza, contemplato nella visione, ma in queste montagne si esprime l'altezza interiore o meglio visionaria stessa da cui la visione viene raggiunta.


Fiume e montagna, lo spazio dell'esistenza


Il paesaggio di Hölderlin si sviluppa per derivazione dalla montagna e dal fiume. Il fatto che questi due elementi siano talmente diversi, eppure correlati tra loro, costituisce nello stesso tempo la tensione e l'unità di questo paesaggio. La montagna dalle <<cime inaccessibili>> scende sempre più in basso, avvicinandosi sempre più all'uomo, fino a raggiungere i colli ameni del paesaggio del Neckar. Essa è un titano isolato, come l'Etna, ma sa anche congiungersi con altri per formare una catena montuosa che, come le Alpi, copre un intero paese. L'acqua sgorga dalla fonte, forma un ruscello, poi un torrente, per diventare uno dei più grandi fiumi del mondo, che dominano la terra e creano lo spazio per l'uomo. Ma alla fine anch'esso sfocia in qualcosa di più grande, il mare che non è un'individualità, bensì un ambito.

Le montagne sono fermamente ancorate, costruite in modo irremovibile, forme che si innalzano pacate, <<rocca>> e <<trono>>. Il fiume è in movimento, una forma che si dissolve nel passaggio, che cade incontro alla sua fine. Ma queste realtà primordiali, così nettamente distinte tra loro, si ritrovano entrambe in un'unità. Poiché anche la montagna è fatta del trapassare in senso puro e semplice, del tempo, e anche il fiume ascrive nella fisionomia del piano il <<segno>>.

Alla montagna sono correlate l'altezza, la direzione verso l'etere, la vicinanza del cielo e, in quanto vulcano, anche la profondità, la direzione verso il cuore della terra, il centro del tutto.

Al fiume, invece, sono correlati il piano, la vastità dello spazio che scorre, ed infine, sul mare, l'immensità. Ma nello stesso tempo questi ambiti sono collegati fra loro. Dalla montagna scaturisce l'acqua, e ciò che scorre mette la montagna in movimento; così la sua persistenza nella quiete ha qualcosa di transitorio che dischiude la possibilità dell'ignoto. Allo stesso modo, anche per lo sguardo che si distende, il piano diventa vasto solo dall'alto di una montagna ed il mare si trasforma in un'immensa distesa attraversata dalle rotte della navigazione. Inversamente la forma della montagna appare all'occhio nella sua grandezza e nella sua calma solenne solo quando la vede elevarsi sul piano.

A questo paesaggio esterno corrisponde quello interno. Le esperienze dell'animo si riflettono, all'esterno, nella forma oggettiva e nel movimento. Qualsiasi cosa accada ed avvenga nello spazio delle cose visibili trova il suo corrispondente nel mondo interiore. Ma non si tratta della correlazione fra ciò che è autenticamente reale e la sua proiezione, bensì del rapporto fra due ambiti reali e in sé uniti: nell'interiorità dell'uomo e nel mondo esteriore, sussiste e si attua la stessa cosa, la natura. Questo paesaggio non contiene solo la molteplicità delle forme, ma anche quella degli ambiti dell'essere e dei gradi di significato.

Il fiume è dapprima un fenomeno esteriore, geografico, poi un fenomeno storico, che condiziona la cultura umana; inoltre un essere, un semidio; ancora una volta, a monte, realtà originaria, essere in movimento ; infine, semplicemente tempo. Lo stesso vale per la montagna. Essa è la massa minerale di cui parlano i geologi. Essa è parte della superficie terrestre che determina l'esistenza umana. Essa è la rocca dei celesti, il trono del loro dominio, l'origine dell'ispirazione. Questo insieme di prospettive scompone ogni elemento del paesaggio hölderiniano in una stratificazione molteplice di significati. Costantemente, dietro a un significato, balena l'altro.


L'uomo e la storia


I testi hanno mostrato che l'evento atteso dalla storia di Hölderlin è religioso, escatologico. In esso tutte le cose sono destinate ad essere trasformate. La fede cristiana è certa che a un'ora, stabilita dal decreto inaccessibile del Padre, Cristo ritornerà, trasformando attraverso la potenza dello spirito santo il mondo nel <<nuovo cielo>> e nella <<nuova terra>>. Questa dottrina è applicata da Hölderlin al compimento che deve realizzarsi nel corso della storia quando quest'ultima è giunta in un vicolo cieco. Ciò che ritorna non è più Cristo, ma la Grecia. Colui che manda non è il Padre, ma l'Etere, la forza operativa non è più il <<Pneuma di Cristo>>, ma la pienezza dionisiaca dello spirito. Il nodo da sciogliere non è il peccato dell'umanità, ma l'intrinseca mancanza di sbocchi nella storia. Ad essere mandato non è l'angelo ma l'aquila. Ad aprirsi non è la Vergine Maria che <<attraverso lo Spirito Santo e la forza dell'Altissimo>><<deve concepire e partorire un figlio>>, ma la Germania. Questa accoglierà la Grecia ventura, e dalla loro unione nascerà la nuova esistenza. A proposito di questo evento stesso Pane e vino dice:


strofa 5: [ Inavvertiti prima giungono..soddisfecero ad ogni domanda]


La terra


L'etere è chiaro e lieto; la Terra oscura e sofferente. All'Etere è correlato l'aperto dispiegamento, nella luce e nella vastità; alla Terra il silenzio e la chiusura, la radice e il grembo. All'Etere appartengono la fortuna, il successo, la libertà; alla Terra la gioia, ma anche la sofferenza della fecondità, ciò che è gettato in basso, sceso al fondo. (rif Mnemosine)


Il dionisiaco


Il dionisiaco è lo splendido e tremendo mistero della vita stessa. La contiguità di vita e morte nell'esistenza. Il dionisiaco è il trionfo del Tutto nella fine del singolo, quella fine che non è voluta a partire dalla debolezza, ma dall'abbondanza della vita.

Appena Dioniso viene nominato di persona, egli si presenta sempre come il mite e munifico che unisce ciò che è diviso, riconcilia ciò che è dissidente, che libera ciò che è imprigionato conducendolo all'aperto. L'Unico lo chiama Evio.



Che al carro aggiogò

Le tigri e giù

Ordinando un rito di gioia

Piantò la vigna

E l'ira ammansì dei popoli.


In Pane e Vino la riconciliazione è più profonda. Essa supersa la divisione dell'esistenza che scaturisce dagli ordinamenti stessi ( strofa 9 ).


Il non esser conosciuto, il diventare manifesto e l'assegnazione del nome


In Pane e Vino si legge:


strofa 5


Dal testo si possono estrapolare due eventi religiosi ben distinti: il giungere e il denominare. Del giungere degli dei, si parlerà successivamente. Qui si tratterà dapprima del dar loro un nome da parte dell'uomo.

Prima, riassuntivamente, il testo dice che i celesti <<giungono>>. Provenendo da un ambito dell'inaccessibilità, essi entrano nel nunc umano. Là essi vengono avvertiti <<poiché scuote in profondità>>, la loro vicinanza diventa consapevole. Poi l'evento si dissolve. Dapprima gli dei giungono <<inavvertiti>>; essi sono sì presenti, ma nessuno si accorge di loro. I bambini, innocenti ed accoglienti, avvertono la loro presenza per primi. Poi gli esseri celesti gli spiegano tutta la loro divina ricchezza di vita. Essa è beneficante e tremenda allo stesso tempo. Una sovrabbondanza misteriosa trasforma tutto rendendo <<sacro>> perfino il <<profano>>. Infine, <<essi stessi>> entrano nella coscienza. Le loro figure essenziali diventano manifeste. Il loro << volto>> si scopre, il loro significato risplende. Riempiono il cuore di <<libero contento>>, quell'esperienza dal significato particolare che il religioso dona e mentre prima l'uomo non poteva far altro che <<sostenere>> il sentimento potente evocato dalla loro presenza, adesso è in grado di <<dar loro un nome>> , e <<nascono per questo parole come fiori>>.

Il lume è sempre reale, ma non sempre presente. Può anche trovarsi <<presso le ombre>>, nella sfera di ciò che è a noi sottratto. Ma quando il tempo è giunto approda all'ambito degli uomini, li tocca e da loro è avvertito. Dapprima si manifesta solo come vicinanza misteriosa, come potenza e dimensione nuova dell'esistenza. Poi si impone la sua figura o forma essenziale, fino a diventare evidente e a richiamare la parola che, crescendo bella e libera come un fiore, la esprime: il nome.


La lontananza, la venuta e la festa


Le iniziative degli dei assumono tratti ancor più precisi là dove si parla della loro venuta. Il riferimento che ne scaturisce è particolarmente importante per il mondo di Hölderlin.

Appena il tempo prestabilito è trascorso e il <<giorno è spento>>, la figura storica si dilegua. Dapprima gli dei si dileguano. Di conseguenza gli uomini votati al loro servizio perdono il loro significato. Quindi decadono, non più curati, i templi, le immagini, il culto e le costumanze. Adesso tutto è passato, e solo l'incerto riverbero del mito ne conserva la memoria.

Gli antichi, gli uomini-dei, gli dei dileguati ritornano. Hölderlin non intende esprimersi in termini di allegoria o di formazione culturale umanistica. Pensa veramente ciò che dice. Gli antichi dei stessi ritorneranno. Ma questo significa che il loro rapporto è costituito dall'essere qui, dall'allontanarsi e dall'assenza, dal venire e dal diventare presenti. Nelle parole introduttive, gli dei vengono chiamati generalmente <<voi del presente>>. Pensiamo di interpretare correttamente questo termine se assumiamo che significhi l'<<adesso>> in senso assoluto, l'eterno. Esso, a differenza degli uomini mortali, spetta agli dei immortali. Ma anche questi hanno il loro tempo: inizio, fine e futuro.

Il senso della caducità non è senza ragione, ha un senso essenziale. il fatto è espresso nella quarta strofa di Pane e vino: gli dei sono assenti, le loro dimore sono abbandonate, i canti e i detti sacri sono ammutoliti. Ma poi l'esaltazione di ciò che è stato trapassa nel presente


Strofa 4


E adesso l'ora è giunta:


[. Così i Celesti prendono dimora ed agli uomini cala

dalle ombre con un profondo tremito il loro giorno.]


Il giorno degli dei è giunto. Con un <<profondo tremito>>, sollevando tutto, si compie il loro avvicinarsi. Dapprima vengono avvertiti dai bambini, poi, sebbene con timore, dagli adulti.

Infine, la pienezza dilaga e tutto si trasforma fino a quando da ultimo:


[Poi vengono,

Secondo verità, e gli uomini s'abituano alla gioia,

al giorno, a vederli svelati, al volto

di chi da tempo chiamavano l'Uno e il Tutto.]


Gli dei stessi non possono trapassare poiché sono la vitalità luminosa del mondo. Ma l'essere degli dei in sé e la loro permanenza ed il loro dominio nell'ambito umano sono due cose distinte. Ciò non si riferisce all'elemento soggettivo, al fatto che gli uomini credano in loro, sentano il loro essere e pratichino il loro culto, ma si tratta di qualcosa che è reale in sé. Gli dei possono esistere pur rimanendo lontano dagli uomini. Possono essere stati presenti ed aver preso nuovamente le distanze. In tal caso, il cielo continua ad esistere come realtà astronomica, ma non è più il <<Padre Etere>>. Questi ha abbandonato l'aldiqua della storia, rintanandosi nella sfera a noi sottratta. L'azzurro continua ad essere percepiti dagli occhi, ma in modo tale da nascondere il dio, invece di riverarlo . Finchè non giunge <<l'ora>>, e gli dei ritornano. Allora essi si ridestano, annunciandosi, avvicinandosi fino ad esser presenti.


La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante


Oltre alla sua creatività poetica e all'esperienza religiosa ad essa intimamente connessa, la melanconia costituisce l'adito più importante alla comprensione della vita interiore di Hölderlin. Essa pervade tutta la sua opera dando alle sue poesie e al suo linguaggio il loro taglio più caratteristico.

L'uomo melanconico non ha con la vita un rapporto più profondo rispetto ad altri, il suo sentimento è più forte e più delicato; le sue gioie sono più luminose, e i suoi dolori più affliggenti. Ma la sua interiorità non gli consente di disporre in modo del tutto libero sul proprio stato e sul proprio agire. Ha una sensibilità maggiore di quella degli altri. Egli sa più di altri, è dotato di quel sapere che rappresenta un'iniziazione alla profondità; ma questo sapere non lo aiuta poiché lungi dal diventare uno strumento e un'arma, non fa che conferire a tutte le cose una pesantezza ancora maggiore. Egli anela a giungere ad una forma chiara e ad un agire libero, a superare il procedere esitante, a tastoni e ad elevarsi nella regione luminosa. Ma il tentativo riesce solo difficilmente e per breve tempo. Ma quando, sostenuto dalle forze dello spirito e da un amore che vi tenda disinteressatamente, superando costantemente sé stesso, giunge alla pacatezza serena e alla sapienza, allora appare un'umanità superiore a quella di coloro che fin dall'inizio sono sciolti d'impaccio, pieni di successo e fortunati. Hölderlin era un uomo malinconico e il superamento di questo stato gli rimase precluso. La sua malinconia è terminata nella notte. Da essa scaturisce la profonda tristezza, l'amabilità, ma anche l'indicibile fulgore di gioia delle sue frasi. Essa conferisce alle sue rappresentazioni dominanti la loro vicinanza peculiare, la forza penetrativa, anzi l'eccesso o sovrappiù di valenza, per così dire.

Di ciò fa parte soprattutto l'ambito di quanto fu un tempo, del passato storico, soprattutto della storia greca, ma anche della vita personale, della gioventù. Entrambi gli ambiti ritraggono in sé stesso, risucchiano chi costantemente ne ha memoria attraverso una nostalgia soverchiante. A questa nostalgia corrisponde, rivolta in avanti, la speranza per il futuro. Ma non si tratta di un futuro storico naturale, raggiungibile tramite un costante progresso, bensì di un futuro assoluto, che in fondo è inaccessibile quanto il passato perduto. Tra di essi vi è il momento, avvertito come assillante, in cui il futuro assoluto, irrompendo, dovrebbe riportare il passato perduto. Anche la rappresentazione stessa del ritorno, forte così da eccitare, eppure messa in discussione da un senso dell'inutilità, è di tipo melanconico poiché è intimamente connessa con l'esperienza della perdita e della caducità: la lontananza spaziale ha lo stesso carattere di quella temporale. Di essa si è parlato a proposito della tensione propria allo spazio di vita. Per avvertirlo basta ascoltare il tono di certe parole, come all'inizio dell'inno L'unico:


[ Che mi avvince

ad antiche felci costiere,

perché le amo più della mia patria?

Poiché fui venduto

In prigionia celeste

Là dove Apollo passò

In figura di re,

e Zeus si concesse

a giovani innocenti

e in modi sacri

lasciò di sé figli e figlie,

Dio grande tra gli uomini.]


Anche questa lontananza è irraggiungibile e rimarrebbe tale pure se un destino favorevole trasportasse in Grecia chi prova nostalgia, poiché essa è situata oltre quella terra empirica. Altrettanto desiderata nostalgicamente e altrettanto irraggiungibile le si oppone la vicinanza più vicina, la patria, poiché ciò che il melanconico vi cerca, è la sicurezza assoluta, il puro dentro, in cui non potrà mai più ritornare da quando percorre ad occhi aperti il proprio sentiero. E la patria, per non essere soffocante, dovrebbe racchiudere in sé la lontananza , per non diventare l'assenza di luogo, dovrebbe essere piena di interiorità che protegga e nasconda.







Iperione


L'iperione, svolto in forma epistolare, realizza il principio dell'armonia greca soltanto sul piano estetico ma nella sua intima sostanza è un doloroso e contraddittorio diario introspettivo.

Hölderlin nell'Iperione di dà alla critica sociale dell'umanità moderna, che vede immersa nella notte, cecità dell'anima, sonno ottuso appena diverso dalla morte.

Il romanzo s'ispira soprattutto alla Rivoluzione Francese e rispecchia il dolore di non poterla attuare anche in Germania; riflette però anche lo smarrimento di Hölderlin di fronte ai recentissimi grandi eventi. Esso ha un'impostazione doppiamente paradossale perché si basa su due arbitrarie identificazioni: presente = passato Grecia = Germania. Certo, la Grecia è una Grecia moderna, doppiamente morta perché oppressa dai turchi e immemore degli dei. Iperone, che s'illude di poter

lottare per la libertà della Grecia, è deluso in quanto aspirante rivoluzionario ed in quanto educatore del popolo.

Hölderlin sa troppo bene di essere incapace di agire da eroe; ma, in quanto si sente pieno di spirito eroico, sogna di essere almeno amico di un eroe (Achille ). Hölderlin non riuscirà mai a rappresentare sé come vate eroico, in quanto amico ed ispiratore di un vero eroe.


Ciò che per Goethe fu il Werther, per Holderlin è stato l'iperione, composto sotto l'impressione delle insurrezioni del popolo greco contro il dominio turco. Ma l'Iperione non è un romanzo storico, quanto piuttosto una composizione in prosa lirica e meditativa, una sorta di elegia sul glorioso passato e sul triste presente della Grecia. Il protagonista è un idealista della rivoluzione, che vive i un mondo di fantasie utopistiche; di fronte all'imperfezione della realtà, alla fine, si ritira nell'isolamento. La figura femminile, Diotima, genio della bellezza greca, è il tributo letterario di Holderlin al suo amore per Susette Gontard.


Romanzo epistolare. 62 lettere ( di cui 42 da parte di Iperione a Bellarmino; 13 da Iperione a Diotima, 4 da Diotima a Iperione e un resoconto da parte di un amico della famiglia di Diotima sulla sua morte ).

La vicenda si svolge in Grecia nel 1770. ( Griechenland - durch die Sprache, die Landschaft, das Volk - hatte eine lange Kontinuitat; befand sich aber, sehr heruntergekommen, unten turkischer Herrschaft und wurde so beispielschaft zum Ort eines ungeheuren Verlusts. )

Iperione ritorna nella sua patria greca dopo un viaggio in Germania - notare la tensione tra Oriente e Occidente -e racconta delle esperienze fatte nel periodo precedente. Ha passato la sua gioventù a contatto con la natura nella scuola di un insigne maestro, di nome Adamas. Questi gli ha insegnato a comprendere l'unità tra natura e storia antica, e la storia eroica della sua patria. Poi il maestro parte per l'Asia e Iperione viene inviato dal padre a Smirne, la sede delle colonie greche.

Quando comincia a stancarsi di apprendere incontra Alabanda e tra loro nasce un'amicizia appassionata che dà luogo a progetti colossali di azioni future. A poco a poco si accorge che il suo amico fa parte di una confraternita dal livello morale non troppo alto e, deluso, lo lascia.

Il secondo libro si apre in modo più ottimistico. Va sull'isola di Calauria, dove incontra Diotima. Essa diventa per Iperione l'incarnazione di tutto ciò che significano natura ed esistenza greco-antica. Frequentandola il suo essere inquieto si calma e riconosce il suo compito di formare lo spirito e il cuore del proprio popolo, preparandolo in tal modo alla liberazione dal dominio straniero. Un viaggio intrapreso con Diotima alle rovine di Atene comporta insieme all'esperienza del passato immenso anche il culmine della loro comunione. Così termina il secondo libro e con esso il primo volume.

Il presagio della sventura che s'avvicina introduce il secondo volume. Nella "traboccante vita eroica" di Iperione giunge infatti una lettera di Alabanda che gli comunica la dichiarazione di guerra della Russia alla Turchia, proclamando che è scoccata l'ora di liberare la patria. Diotima mette l'amico in guardia. Ma poiché egli persiste nella sua intenzione, lo lascia andare. Iperione sa che anche suo padre sarebbe contrario all'impresa e la tenta senza informarlo. Mentre per lui tutta l'esperienza vissuta si proietta all'esterno, per Diotima essa si svolge nella dimensione della profondità. Nella sua solitudine vive l'intera vicenda con una partecipazione talmente forte che da far presagire una crisi. Le lettere di Iperione parlano dapprima di successi. Poi le sue azioni diventano precipitose. Durante l'assedio di Misistra assiste ad un saccheggio accompagnato da un inutile spargimento di sangue. Il suo entusiasmo crolla. L'impresa gli sembra disprezzabile, rinuncia a se stesso e prega Diotima di lasciarlo. Il padre lo ha già lasciato dopo aver saputo dell'impresa. Così egli si sente completamente solo..L'inizio dell'ultimo libro racconta una lunga battaglia navale nello stretto tra Chio e la costa dell'Asia Minore. Iperione spera di morire, ma viene solo ferito. Quando riprende coscienza, dopo essere stato a lungo svenuto, anche la pressione interna si allenta. Vivendo con Alabanda, sente rinascere le forze e riconosce che la sua lettera a Diotima è statta troppo precipitosa. In questa situazione lo raggiunge la risposta di lei. Ciò che per lui rappresenta solo un frammento di un movimento di vita è stato interiorizzato da lei secondo la sua natura e preso per definitivo. Ella ha veramente rinunciato a lui, perdendo in tal modo il contatto con la vita e ore gli dice addio. Iperione spera di poterla riconquistare con una lettera . Non vede che è accaduto qualcosa di irrevocabile. Ancora un'altra separazione gli viene imposta: Alabanda deve partire: per via delle guerre di liberazione sarebbe venuto meno agli obblighi che si era assunto nei confronti della confraternita e ciò significa che deve morire. Inoltre gli fa capire di amare anch'egli Diotima. Iperione parte per la Calauria e sosta in prossimità dell'isola. In quest'ora gli arriva la lettera di Diotima che gli svela l'irrevocabilità dell'accaduto. Il poscritto di un amico gli comunica la sua morte. Il crollo di tutte le possibilità di vita risospinge Iperione lontano. Viaggia verso la Germania, trovandovi la controparte della sventura che tiene in schiavitù il suo stesso paese: qui servitù e ottusità, là illuminismo, utilitarismo e presunzione. Ma infine, dopo un lungo periodo di scoraggiamento, si desta un futuro nuovo e durante un "mezzogiorno bellissimo" di primavera sperimenta il ritorno di Diotima. Ritrova il contatto con la vita e si prepara ad un nuovo inizio. Qui cessa la trama.


I punti focali della vicenda interiore che attraversa il romanzo sono i due amanti.

Adamas costituisce una bozza preliminare alla figura di Empedocle

Iperione è un uomo privo di equilibrio, smisurato nei suoi sentimenti e nelle sue decisioni. Anche Alabanda è lacerato e non fa che rafforzare lo stato d'animo dell'amico.

Ciò che nell'adolescent e ha provocato il maestro, nel giovane lo provoca la donna amata La sua forza più grande è la quiete interiore che si radica nell'interiorità del cuore e si manifesta in una figura limpida. Ella è diversa dal silenzio ottuso dello spazio illimitato; diversa anche dalla quiete di Adamas che con l'autodisciplina si è liberato dal caos della gioventù. La quiete di Diotima è fin dall'inizio una qualità dell'essere, una perfezione danatale per somma grazia. In lei si manifesta qualcosa che sta al di sopra dell'uomo: il mistero del turro sacro. Ella è " l'entusiasta silenziosa". L'esistenza di Diotima ha due poli: uno è situato nella natura ( "Ilsuo cuore.cresciuta con lei " p )

Allo stesso tempo, tuttavia, vive nell'ambito ristretto dell'esistenza domestica riempiendola tutta. In mezzo sta, limpidamente presente, la sua figura. Il suo potere è l'interiorità, l'unità dell'esistenza nella forza amorosa del cuore. L'esistenza di Diotima è quindi l'esatto opposto del continuo alternarsi in Iperione di riflessione autodistrutttrice ed ebbrezza d'azione esteriore, in tal modo ella aiuta l'amico a concentrarsi e a calmarsi. (p )

All'inizio del secondo vol l'unità si rompe. Nell'amore di Iperione e di Diotima vi è fin dall'inizio qualcosa di tragico che scaturisce dalla dismisura del giovane, ma anche dalla " perfezione" di Diotima. Il suo essere possiede una tale purezza della sostanza e una tale profondità del sentire da determinarla ad un destino assoluto. E' la nobiltà a cui si riferisce Nietzsche quando dice che per l'uomo nobile, che sta al limite del trapasso, i valori alti provocano la fine. Ciò che di distruttivo contiene l'essere di Iperione, per lei diventa mortale. Per la sua natura si tratta dell'assolutezza dell'affetto. Diotima ama Iperione, e accoglie perciò le esperienze di lui all'interno della sua esistenza molto più nobile. Ma nella quiete di quest'ultima, tutto assume un peso completamente diverso. Dalla sfera della fantasia passa a quella della serietà. Ciò che per Iperone significa solo un'esperienza vissuta passeggera, che proprio grazie alla sua veemenza sortisce un effetto liberatore, per lei diventa destino. Iperione dimentica, Diotima non può dimenticare. Ella deve sopportare tutto fino in fondo e ciò la conduce alla fine. (p ).

Iperione sente arrivare la catastrofe e ne attribuisce, seppur pacatamente, la responsabilità a Diotima (p )

L'inizio del secondo libro racconta come Iperione si getta nella battaglia navale di Chio. Egli ha cercato la morte, ma è colpito solo da una grave ferita. Anche in questo si esprime una mancanza di serietà interiore. La morte diventa un'espressione retorica; Iperione è egoista. L'inganno della sua natura fa uso della dismisura per sottrarsi alle conseguenze delle sue stesse azioni. La sensazione di aver commesso un'ingiustizia è tanto forte da perdere in contatto con la realtà, diventando fantastica. Ma proprio in tal modo il suo nucleo intimo sfugge alla fine. Il "movimento catastrofico" ha rotto gli argini - ma verso l'esterno. E' nato un vortice gigantesco che ha travolto tutto quanto era scaturito dagli eventi precedenti. Iperione stesso, tuttavia, ritorna a galla, pronto per nuove esperienze. Le conseguenze vere sono sopportate da chi veramente lo ama più di se stessa. Ciò che egli vive in modo fantastico e quindi, in ultima analisi, senza subire danni, è causa reale di sofferenza per lei, dal momento che offre all'esperienza vissuta una sostanza pura, incapace di elusione.

" Chiunque, come te, sia stato offeso in tutta la sua anima, quegli non si appaga più di una sola gioia".

In verità egli è ben lungi dall'essere "offeso in tutta la sua anima, incapace com'è di una tale serietà. Dopo la catastrofe e un lungo tempo passato privo di sensi - uno stato che rappresenta la controimmagine ludica alla morte cercata da Iperione certo nella fantasia, ma non in realtà -rinviene.


Pane e vino

Ecco una delle liriche più famose di Hölderlin: Pane e vino.

Il titolo suggerisce subito il vero intento della poesia: raffigurare il mondo dei miti greci; Dioniso è colui che reca e mesce il vino e Demetra rappresenta la terrestrità della cultura originariamente contadina del popolo greco. Pane e vino rivelano già il tentativo di procedere oltre la rigida tradizione cristiana, o almeno di superare il cristianesimo rappresentato dalla Chiesa. Ecco allora una lirica intitolata Pane e vino, una delle più belle poesie in lingua tedesca.

La sua prima strofa afferma: "Scintillante, cangiante è la notte, nell'irrompere del buio riposa la città, il vicolo acceso azzittisce", e così via.. La poesia comprende circa sei strofe di questo tipo, e infine allude poeticamente alla conciliazione di Dioniso e di Cristo.

Sei strofe! Gli amici romantici non osarono rendere pubblica questa poesia nella sua interezza, dopo che Hölderlin si ammalò, ma si limitarono alla prima strofa, nella quale viene descritto il calar della notte. Sono versi meravigliosi, stilisticamente perfetti. È peraltro estremamente interessante che il Romanticismo sia stato capace di un'azione speculativa così audace: conciliare la tradizione dionisiaca della grecità. con il cristianesimo.


Strofa 3: l'immagine della montagna acquista una significatività più intensa quando si tratta di alture coinvolte nella mitologia.


Nell'elegia Pane e vino, dopo aver descritto il paesaggio progressivo dal crepuscolo alla notte con metafore oggettive, che ricordano il procedimento della poesia epica ( 1 strofa ) ed evocato ( 2 strofa ) il valore simbolico e mitico della notte stesso, Hölderlin nella terza strofa, invita l'amico Heinse, l'autore di << Ardinghello >>, al quale è dedicata tutta l'elegia, ad andare con lui, << daB wir das Offene schauen / DaB ein Eignes wir suchen / so weit es auch ist >>. Il viaggio supera le barriere del tempo e dello spazio, per terminare nella Grecia antica: << Drum and en Isthmos komm!....der commende Gott >>

La rottura innica serve ad evocare il modo come la comunità s'è realizzata nella civiltà greca, ma nello stesso tempo pone una sorta di continuità storica nell'immagine di Dio, che << di là viene >> e verso la Grecia indicizza lo spirito comunitario. Si tratta, com'è noto, di Bacco, il << Weingott >>, primo titolo dell'elegia che, mediante il vino, rompe le frustrazioni degli uomini, liberandoli dal loro isolamento.


Patmo


All'inizio della poesia la parola <<acqua>> significa semplicemente unione. Senza di essa vi è pericolo, solitudine, <<struggimento sui monti più separati>>, irrigidimento. L'acqua è l'elemento primo che sorregge, scioglie e crea l'unità; unità che scorre o che alita, perché qui l'acqua si trasforma nell'altro elemento del movimento, l'aria. Essa è correlata all'etere, allo spazio superiore.


La figura hölderliniana di Cristo trova la sua espressione più forte nell'inno Patmo. La prima stesura risale probabilmente al periodo immediatamente anteriore al viaggio a Bordeaux. Tre abbozzi e frammenti per una stesura successiva sono venuti dopo.

L'inno si divide in tre parti intrinsecamente connesse fra loro. La prima contiene l'esperienza iniziale e il percorso visionario verso l'isola di Patmo. La parte centrale parla di Cristo e dei suoi discepoli. La parte conclusiva è talmente legata a quelle precedenti da non distinguersi da loro ed è rivolta al langravio di Homburg, cui la poesia è dedicata.

Per quanto <<spirituale>>, Cristo era prigioniero della terrestrità. Era oppresso, angustiato e si fece lieto solo quando la morte lo liberò - si veda lo << sguardo gioioso >>, espressione per la morte in Patmo. Ciò vale anche per il poeta.


Mnemosine


Poesia che parla dell'autunno. In questa poesia tutto è estraneo, quasi minaccioso. Le forme di questo mondo sono diverse da quelle comuni. E sono diversi il contesto in cui sono collocati e l'atmosfera che tutto circonda.






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