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Plauto

letteratura latina



Plauto


Gli antichi lo citano comunemente come Plautus, la forma romanizzata di un cognome umbro Plotus (dalle orecchie grandi o dai piedi piatti) e almeno quest'elemento d'identificazione è certo. Varie fonti antiche chiariscono che Plauto era nativo di Sàrsina, c 949j97j ittadina appenninica dell'Umbria (oggi in Romagna). Plauto non era dunque d'origine romana: non apparteneva però (diversamente da Livio Andronico) ad un'area culturale pienamente grecizzata. Si noti che Plauto era cittadino libero. La data di morte, il 184 A. C., è sicura; la data di nascita potrebbe essere fra il 255 e 250 A. C.

Plauto fu autore di gran successo, immediato e postumo, e di gran prolificità. Sembra che nel corso del II secolo circolassero qualcosa come 130 commedie legate al nome di Plauto, anche se non sappiamo quante fossero autentiche. La frase critica nella trasmissione del corpus dell'opera platina fu segnata dall'intervento di Varrone, il quale, nel De comoediis Plautinis, ritagliò nell'imponente corpus un certo numero di commedie (ventuno, quelle giunte sino a noi) sulla cui autenticità c'era un generale consenso. Molte altre commedie, fra cui alcune che Varrone stesso riteneva plautine, ma che non aggregò al gruppo delle ventuno perché il giudizio era più oscillante, continuarono ad essere lette e rappresentate nella Roma antica. Noi ne abbiamo solo titoli, e brevissimi frammenti, citazioni di tradizione indiretta: questi testi andarono perduti nella tarda antichità.

Un'osservazione d'insieme sugli intrecci delle venti commedie a noi pervenute integre deve accettare, come dato fondamentale, la fortissima prevedibilità degli intrecci e dei tipi "umani" incarnati dai personaggi. Plauto tende ad usare dei prologhi espositivi che forniscono informazioni essenziali allo sviluppo della trama, a spese di qualsiasi sorpresa o colpo di scena. I personaggi in azione si possono ridurre ad un numero limitato di "tipi", che riservano, in genere, poche sorprese: il servo astuto, il vecchio, il giovane innamorato, il lenone, il parassita, e il soldato vantone. Questi "tipi" sono inquadrati fin dai prologhi e il pubblico ha così fin dall'inizio una traccia su cui far scorrere la propria comprensione degli eventi scenici.



In sostanze tutte le pièces che abbiamo riassunto i possono ridurre ad una lotta tra due antagonisti che si contendono un "bene", quasi sempre una donna. È buona norma che il vincitore sia giovane, e che il perdente abbia in se le giustificazioni del suo essere perdente ( è un vecchio, è sposato ecc.). La forma di gran lunga preferita è quella che si è definita spesso "la commedia del servo": la conquista del "bene" messo in gioco è delegata dal giovane ad un servo ingegnoso. Inoltre è presente un altro elemento, che non è però un personaggio: è una forza onnipresente, la Fortuna. La presenza della Fortuna ha un valore stabilizzante. Il servo ha bisogno di un alleato e anche, in fondo, di un antagonista alla sua altezza. In quasi tutte le commedie c'è uno schiavo furbo al lavoro, destinato ad avere successo. Il contrasto tra messinscena e realtà non può durare per sempre, ed è qui che entra in gioco la Fortuna.

La grandezza comica di Plauto è per noi più facile da cogliere di un altro aspetto, che pure deve avere avuto enorme importanza qualitativa; la maestria ritmica, i numeri innumeri di Plauto, sono parte integrante della sua arte, ma noi ne cogliamo solo una traccia inaridita. È questo un aspetto in cui Plauto per le forme "cantate" è uno dei principali fattori che regolano il vertere, la ricreazione in latino dei modelli greci. Plauto si preoccupa pochissimo di comunicare il nome, ed eventualmente la paternità, della commedia greca a cui via via si è orientato. Il suo teatro non presuppone un pubblico così ellenizzato da gustare minutamente il riferimento a certi famosi modelli. Su alcuni modelli siamo abbastanza ben informati: Cistellaria, Stichus, Bacchides si basano su tre commedie menandree; Rudeans, Casina, Vidularia dipendono da Difilo; il Poenulus da Alessi; l'Asinaria riprende l'Onagos di un certo Demofilo. È assolutamente chiaro che Plauto, pur attingendo soprattutto ai grandi maestri della commedia ellenistica non ha una marcata preferenza per nessuno di loro e ricorre anche ad autori non di primo piano. Lo stile di Plauto è intrinsecamente vario e polifonico, ma cambia piuttosto poco da commedia a commedia, e accostando le varie sue opere la coerenza di stile è molto pronunciata. Questa coerenza di stile si spiegherebbe male se Plauto si lasciasse condizionare troppo dallo stile dei suoi molteplici modelli ellenistici. È chiaro che Plauto non dipende dallo stile di nessuno di loro in modo dominante, e tanto meno ricalca "una ad una" le sue commedie sui modelli. D'altra parte, i tratti costanti e dominanti dello stile plautino hanno in se ben poco d'ellenistico. Le trasformazioni sono meno profonde per quanto riguarda le linee generali dell'intreccio, ma sono pur sempre significative: a cominciare dalla ristrutturazione metrica e dalla cancellazione della divisione in atti, per continuare con la completa trasformazione del sistema onomastico. La trasformazione dei modelli dà quasi un'impressione distruttiva. Plauto ha lavorato con impressionante tenacia per assimilare e i singoli modelli attici e tutto il loro codice formativo. Ma ha poi lavorato con intensità a distruggere molte qualità fondamentali dei modelli che si era scelto. Le analisi comparative dimostrano che Plauto trasforma il suo modello secondo tendenze e preferenze che possono o no piacere, ma che sono in se coerenti, orientate in un senso preciso.




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