CONFRONTO
LAURA BEATRICE Beatrice
e Laura: due mondi, due modi di intendere la vita. Non solo l'arte e la
relazione d'amore. Quanti elementi coinvolti in questi due personaggi
femminili, forse i più belli della letteratura, tanto da andare oltre la
letteratura. Ancora oggi suscitano discussioni intorno a sé, addirittura
alcune 'singo 757i82h lar tenzoni' si sono svolte nell'estate 2004, tra alcuni
festival di poesia e il meeting di Rimini, prima tra due giovani poeti,
Davide Rondoni e Daniele Piccini, poi tra due italianisti di fama, Giuseppe
Mazzotta, presidente della Dante Society of America e docente all'Università
di Yale, e Ezio Raimondi, professore emerito dell'Università di Bologna.
Beatrice e Laura evocatrici di due mondi
Essere per Laura o per Beatrice, considerare l'una o l'altra la donna poetica
più grande non ha, in sé, molta importanza. Quel che conta in realtà è che
sia riconosciuto il rilievo a tutto tondo di queste due figure femminili,
famose come i loro creatori, in grado di richiamarli alla memoria per
immediata associazione mentale. È certo che Beatrice e Laura sono riuscite a
diventare più grandi di quanto i loro stessi cantori pensavano sarebbero
diventate: sono le evocatrici di due mondi, di due modi di fare cultura, di
due epoche della storia d'Europa.
Ma non solo. Vorrei qui riflettere su come questi due personaggi possono
inviare nuova luce su un certo modo di intendere i loro creatori. Dante e
Petrarca sono anche amici di Beatrice e Laura, innamorati fedeli per tutta
un'opera e una vita, e con queste due donne hanno condiviso un'avventura più
unica che rara nella storia della letteratura occidentale: essere al tempo
stesso autori e protagonisti della propria opera. Dante con la Vita Nuova e la Commedia;
Petrarca con il Canzoniere e i Trionfi. Non a caso, entrambe
opere in lingua volgare
Beatrice e Laura specchi dei propri autori
Beatrice e Laura riflettono come due specchi limpidi gli autori che le hanno
create: Dante e Petrarca, ultimo grande rappresentante del Medioevo il primo,
e primo nuovo intellettuale dell'Umanesimo il secondo. Ma, semplificando un
po' le osservazioni del grande studioso di filosofia Etienne Gilson, il
passaggio di testimone fra i due è sfumato, proprio perché Dante, pur essendo
la figura chiave del Medioevo europeo, la sua punta e insieme la sua sintesi,
"è assolutamente inclassificabile. [.] La sua arte [.] è forse più
vicina a quella di Omero, che [.] non ha letto, che a quella di Virgilio, che
conosceva tanto bene" (in Dante e Beatrice. Saggi danteschi,
Medusa, Milano, p. 138). Insomma, in Dante non c'è ancora Umanesimo, ma c'è
amore per i grandi classici di un tempo remoto, o meglio della grande
poesia in senso universale. In Petrarca invece c'è già il senso del
distacco da un'epoca che doveva chiudersi, che doveva lasciare spazio a
un'alba nuova: quest'epoca è il Medioevo. In questo senso Petrarca,
sentendosi un iniziatore, colui che aprirà un capitolo nuovo del pensiero
letterario occidentale, intuisce che deve in qualche modo staccarsi,
distanziarsi da Dante. Sempre rileggendo Gilson, non possiamo dimenticare che
"ci si stupisce a torto del fatto che, deferente verso l'illustre
predecessore, Petrarca non si entusiasmi per la sua opera. [.] Per Petrarca
Dante fa 'vecchio' ed egli stesso, la cui vita copre i tre quarti del XIV
secolo, mi sembra da considerarsi in parte responsabile di tale
invecchiamento" (op. cit., p. 140).
Laura, un nuovo tipo di gentildonna
Così Petrarca opera questo distacco dal maestro Dante attraverso la sua più
bella creatura poetica, Laura, distinguendo la sua dama, la sua figura
femminile protagonista, da tutte le gentili donne create fino a quel momento.
E quale via migliore poteva avere del confronto diretto con Beatrice, sintesi
e superamento di tutte le 'gentili dame' della poesia d'amore del passato?
Eppure a Beatrice, inevitabilmente, Laura almeno in parte finirà per
somigliare. Vediamo come.
Mai veramente descritta nei suoi tratti fisici Beatrice; famosa soprattutto
per la sua bellezza, dai lineamenti vivi e dai colori solari, Laura. In loro
anche visivamente si convogliano i nuclei dei due pensieri, dei due filoni di
una civiltà di cui siamo eredi nell'Europa odierna. Sono alle nostre origini,
vediamo dunque, due modi forse non antitetici, ma ben diversi, di mettersi in
relazione con l'altro, anzi con la vita stessa. Profondo, analitico e legato
alla sorgente interiore il linguaggio di Beatrice: è il linguaggio della
conoscenza di sé. Che è anche la meta indicata dalla donna di Dante, raggio
di luce che conduce verso il cielo, la dimensione divina, e non distoglie mai
dalla vera vita, che non è quella terrena.
Più immediatamente suggestiva, ma col rischio di restare in superficie e
forse di innamorarsi della propria stessa bellezza è Laura, e i suoi
sostenitori potrebbero sembrare a una prima occhiata fautori di un amore
senza autoanalisi, affidato alla festa delle percezioni sensoriali, non
finalizzato ad altro scopo. Eppure anche Laura è tramite di una conoscenza di
sé, dei propri limiti e insieme della propria, sia pur non eterna, ricchezza
espansiva: la sua bellezza trasparente, morbida e luminosa, comprende in sé
la natura delle stagioni più belle e potrebbe anticipare l'idea di
apprezzamento e rispetto per l'ambiente che nasce proprio oggi, al culmine
della cultura d'Europa.
Una diversa visione della morte e dell'aldilà
Su questa scia vanno letti anche i due diversi rapporti con la morte e
l'aldilà, che le due donne implicitamente rispecchiano. Beatrice vive il suo
pieno splendore solo dopo essere morta, e così annuncia l'autentica felicità
promessa dalla conoscenza del proprio essere profondo. Ed è proprio da morta,
paradossalmente, che raggiunge il culmine della sua visività, essendo
descritta nello splendore trionfale in cui appare a Dante nel Paradiso
Terrestre. Lì per l'unica volta Dante ritiene sia il momento di rivelarci il
colore dei suoi occhi: verdi, come smeraldi splendenti.
posto t'avem dinanzi a gli smeraldi
ond'Amor già ti trasse le sue armi".
(Dante, Purgatorio, XXXI, vv. 116-117)
Così le tre fanciulle che simboleggiano le tre virtù teologali dicono al
pellegrino giunto fino al Paradiso terrestre e finalmente di nuovo di fronte
a Beatrice. Ma potrebbe essere un trabocchetto simbolico, una trasfigurazione
di quei modi, ereditati dal grande canto cortese, di lodare la propria donna
in poesia. Ancora una volta, un modo per ribadirci che i suoi occhi sono così
sfavillanti, come due gemme preziose, perché sono specchi della luce divina,
emanazione diretta dell'energia del Paradiso celeste. Quindi, ancora un modo
per dirci che Beatrice non è donna di questo mondo di illusioni brevi e amori
non durevoli, ma del mondo della verità, eterno, perfetto. E che quello
guardando verso quello ci spinge.
Laura invece vive nel presente naturale di un Paradiso Terrestre non nominato
come tale ma di fatto Eden assoluto, uno scenario primaverile ed estivo, la
stagione più bella sua e del mondo, ma la sua morte non è continuità di
legame amoroso dal cielo, bensì è tragico scandalo della fine di ogni terrena
espansione.
Le dame e la luce
Basta confrontare i ben diversi rapporti con la luce che i due personaggi
femminili mostrano nei versi.
Così Beatrice:
Già eran li occhi miei rifissi al volto
de la mia donna, e l'animo con essi,
e da ogne altro intento s'era tolto.
E quella non ridea; ma "S'io ridessi",
mi cominciò, "tu ti faresti quale
fu Semelé quando di cener fessi:
ché la bellezza mia, che per le scale
de l'etterno palazzo più s'accende,
com'hai veduto, quanto più si sale,
se non si temperasse, tanto splende,
che 'l tuo mortal podere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende.
(Dante, Paradiso, XXI, vv. 1-12)
Insomma, ormai vicinissima a Dio, morta eppure viva più che mai, Beatrice è
così luminosa che le basterebbe pochissimo per incenerire Dante, com'è
accaduto alla povera Semele: basterebbe che sorridesse, rendendo il suo viso
ancora più sfolgorante di luce divina. Insomma, la luce di Beatrice è così
benefica da superare tutti i limiti umani, e da rischiare solo di poter
essere troppo positiva.
Così invece, ben diversamente, la luce di Laura
Quand'io son tutto vòlto in quella parte
ove 'l bel viso di madonna luce,
e m'è rimasa nel pensier la luce
che m'arde e strugge dentro a parte a parte,
i', che temo del cor che mi si parte
e veggio presso il fin de la mia luce,
vammene in guisa d'orbo, senza luce,
che non sa ove si vada e pur si parte.
Così davanti a i colpi de la morte
fuggo; ma non sì ratto che 'l desio
meco non venga, come venir sole.
(Petrarca, Canzoniere, sonetto 18, vv. 1-11)
Tanta luce anche qui, richiamata dalle rime identiche, ma solo un ricordo di
una bellezza ormai svanita, non tale da illuminare al poeta la strada verso
l'aldilà, né da consolarlo dalla morte di madonna. Anzi, la morte non è meta
ma crudele evento da cui fuggire, senza che sfugga il desiderio, però per una
donna che ormai non c'è più. Così il sereno personaggio di Laura sembra
essere accompagnato da una sorta di tarlo, un senso di colpa che nasce forse
dall'incapacità del suo poeta di entrare in serena relazione col mondo. Anche
in Laura c'è dunque, nascosto dietro i lineamenti gentili, i colori solari e
le grazie di un corpo armonioso, una sorta di linguaggio della conoscenza di
sé, uno scavo meno diretto, ma solo rimandato al silenzio della propria
stanza, dopo la leggerezza vagante dell'aria aperta. Forse, in termini
odierni, lo stimolo ad abbandonare una sorta di pigrizia mentale
dell'Occidente, che sembra odiare il pensiero, aver paura di scoprire le
profondità (altezze) dell'anima. |
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