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Monologo del satiro, Aminta, vv. 724-820, vv. 778-781

letteratura italiana



Monologo del satiro, Aminta, vv. 724-820, vv. 778-781.

Il monologo del Satiro occupa la scena prima del II atto. E' una scena decisiva, che mette in crisi il quadro idilliaco e armonioso della favola pastorale, appena prospettato dal coro alla fine del I atto.

Il Satiro è un personaggio anomalo, ambiguo, di origine mitologica. Il monologo che pronuncia occupa molti vv. ed è secondo, per 525j99f ampiezza, solo a quello di Aminta che narra del suo innamoramento per Silvia. Attraverso le parole del Satiro Tasso vuole dar vita ad un dialogo con il pubblico della corte, mettendone in luce le caratteristiche negative e degenerate.

Il luogo fittizio della vicenda coincide con il luogo reale in cui è rappresentata l'opera: l'isoletta del Belvedere, residenza estiva della corte estense. Questa è una della maggiori innovazioni dell'opera tassiana.

All'inizio del monologo il Satiro presenta la propria situazione personale per attirare l'attenzione del pubblico: egli è innamorato di Silvia, ma non è ricambiato dalla ninfa. Il linguaggio che utilizza è piuttosto crudo, realistico, consono al suo stato ferino. Esemplari sono i termini che ricorrono ai vv. 734-735-736: piaghe, sangue, viscere mie.

Ai vv. 745 e sgg. rievoca un topos caratteristico della poetica d'amore, i doni che l'amante offre all'amata: inizialmente le offre il dolce mele, ma in seguito ad un rifiuto della donna, le offre se stesso. Egli si domanda il perché del rifiuto della donna e la conclusione a cui giunge è presentata al v. 778: perché povero sono. Il satiro mette in luce il degrado della vita pastorale, in cui vige una logica di tipo economico (il secol d'oro è questo, poiché sol vince l'oro e regna l'oro). In questi vv. viene capovolto il discorso pronunciato dal coro nell'atto I; infatti il satiro lamenta che i cittadini hanno imposto i loro costumi alla campagna, hanno portato onore e ipocrisia laddove regnava l'innocenza.



Questo atteggiamento è ben dimostrato ai vv. 850 e sgg. nel dialogo tra Dafne e Tirsi, i due personaggi più anziani e i confidenti dei due protagonisti, in cui Dafne mostra come la stessa Silvia sia stata corrotta dal mondo cittadino: questo è dimostrato dallo specchiarsi della ninfa, che contrasta visibilmente con lo specchiarsi del satiro, presentato ai vv. 760 e sgg. Il Satiro si specchia per mostrare la propria virilità, autentica se confrontata con la mollezza dei pastori, e lo fa in uno specchio d'acqua non ben identificato. Al contrario Silvia si rispecchia nella città, in un'isoletta: ella ora è immersa completamente nel mondo cortigiano, ha perso l'innocenza degli anni giovanili, non è più ingenua, sa di possedere le armi della seduzione.

Satiro si scaglia contro la corruzione del mondo bucolico, lancia la propria maledizione contro il principio che ha portato la corruzione (vv. 782 e sgg). Egli è il solo e ultimo rappresentante dell'Arcadia, è l'unico erede dei suoi valori, mentre afferma che i valori del mondo bucolico, che il coro ha appena finito di celebrare, sono dei disvalori. Dopo aver lanciato quest'accusa, con l'atteggiamento caratteristico dell'eroe tragico, decide di agire: vuole violentare Silvia. Questa decisione è preparata dall'uso di un lessico molto crudo che culmina nella metafora sessuale finale (vv.819-820). Questa decisione nasconde un significato più ampio: solo il satiro, in quanto unico rappresentante dell'Arcadia, può squarciare il velo dell'ipocrisia cortigiana, solo con la violenza e la rapina questo mondo può essere rovesciato.



Possiamo inoltre osservare che nel monologo del satiro il senso angoscioso della negatività del presente, col vagheggiamento dell'età pura e libera, diventa rimozione del grande mito rinascimentale della libertà dei sensi e dell'anarchia dei comportamenti. La liceità del piacere deve ora sottostare a delle leggi di carattere sociale: al satiro non è permesso possedere nulla, quindi nel monologo è caricato di un pdv di rivendicazione sociale.

Lo stupro del satiro però non avviene. L'Aminta è infatti una tragedia mancata fatti di stupri sventati e morti presunte, ma poi smentite. Il discorso della favola pastorale è chiuso da Elpino, controfigura del potente segretario del principe, Giovan Battista Pigna, voce della propaganda ducale che ricompone il potenziale dramma entro i canoni di un doveroso lieto fine. Si celebra la più totale dissonanza tra l'amoralità del s'ei piace ei lice e la moralità nunziale del lieto fine, mentre sulla scena restano le vestigia del dramma evitato: il velo insanguinato di Silvia e la cintura di Aminta.







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