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MELCHISEDECH E IL SALADINO

letteratura




MELCHISEDECH E IL SALADINO



La novella detta da Neifile mi fa ritornare a memoria il pericoloso caso già avvenuto a un giudeo. Per quello che è già stato bene detto di Dio e sulla verità della nostra fede, nessun uomo dovrà mai fraintenderlo: vi narrerò la novella la quale, quando l'avrete udita, vi farà essere più cauti nella risposta a domande che vi fossero poste. Dovete sapere mie amiche che così come la sciocchezza trae uno benestante e lo mette in grandissima miseria, così l'intelligenza libera da grandissimi pericoli il saggio e lo pone in grande e sicuro riposo. Che la sciocchezza in miseria qualcuno conduca è testimoniato da molti esempi, che avrò cura di non raccontarvi, in quanto mille di questi ce ne appaiano nel corso di tutto il giorno: ma che il senno sia causa di consolazione, ve lo dimostrerò brevemente con una novella.

Il Saladino (sultano di Babilonia) aveva così tanto valore, potere, che non solo fu nominato sultano di Babilonia da giovane, ma anche da grande riuscì ad ottenere numerose vittorie sui re saraceni e cristiani. Avendo speso tutto il suo tesoro in guerre e in grandissime magnificenze, quando per un caso improvviso egli bisognava di un buona quantità di denaro, pensò dunque come fare per trovarli rapidamente, e gli venne in mente un ricco giudeo, di nome Melchisedech, che prestava i soldi a usura ad Alessandria. Costui avrebbe potuto dargli, qualora avesse voluto, ciò di cui aveva bisogno, ma era così avaro che di sua volontà non l'avrebbe mai fatto. Il Saladino non voleva però usare la forza, ma quando il bisogno di soldi si fece impellente, l'unica soluzione era che il prestito glielo facesse il giudeo e allora pensò bene di ricorrere ad una costrizione che avesse un apparenza di legalità.



Lo fece chiamare, lo ricevette familiarmente e sedutoglisi vicino gli disse:" valente uomo, ho sentito dire che ti senti molto colto nelle questioni di Dio, perciò vorrei sapere qual è secondo te la religione vera: quella giudaica, la saracena o la giudaica".

Il giudeo il quale era veramente uomo intelligente, si accorse subito che il Saladino mirava a coglierlo in fallo nella risposta, ma non sapeva cosa rispondere per evitarlo. Così il giudeo appariva con la faccia di chi cerca una risposta che non offra possibilità di replica; aguzzo l'ingegno e rispose:" La questione che mi ponete è bella e per rispondervi ricorrerò ad una novella. Se non ricordo male mi sembra di aver sentito di un grande e ricco uomo, che tra i gioielli più cari e belli che aveva, vi era un anello bellissimo e prezioso; proprio per questo voleva fargli onore e lasciarlo ai suoi discendenti , ordinò allora che chi tra loro avesse trovato l'anello sarebbe stato il suo erede, riverito e onorato da tutti gli altri. L'anello venne così tramandato di generazione in generazione. In breve tempo l'anello si trovò nelle mani di un uomo che aveva tre figli belli e virtuosi, amati da lui in egual modo. I giovani erano a conoscenza della tradizione dell'anello e ciascuno dei tre voleva essere il più onorato, per questo ognuno pregava 454j92e singolarmente il padre, già vecchio, di lasciargli l'anello quando sarebbe stato vicino alla morte. L'uomo valoroso che amava allo stesso modo tutti e tre i figli non sapeva a chi lasciarlo, egli aveva promesso a tutti e tre di volerli soddisfare, pensò allora di andare in segreto da un orafo e se ne fece fare due copie, così identiche al primo che neppure lui lo riconosceva. Vicino alla morte diede segretamente un anello a ciascuno dei suoi figli; essi dopo la morte del padre volevano tutti e tre essere primi rispetto agli altri per ricevere l'eredità, tirarono allora fuori gli anelli e si trovarono con tre gioielli molto simili, tanto che il vero non si distingueva e perciò il vero erede è ancora in dubbio. Così vi dico signor mio, delle tre religioni date ai popoli da Dio e della domanda che mi avete posto: ognuno ha la sua eredità, le sue regole e i suoi comandamenti e crede e crede di possederli e d'agire di diritto, ma chi possiede la verità, così come per gli anelli, non si sa." Il Saladino capì che Mechisedech aveva scoperto il suo piano, così decise di chiedergli i soldi chiaramente e il giudeo glieli diede; li restituì poi con grandi regali e restarono amici per sempre.



CISTI FORNAIO



Dico dunque che messer Geri godeva di una grandissima ammirazione per Papa Bonifacio VII. Il Papa mandò a casa di Messer Geri alcuni suoi ambasciatori di Firenze per provare a mettere pace tra i Bianchi e i Neri; e questo fecero quando arrivarono a casa sua. Tutte le mattine Messer Geri passava a piedi con loro davanti alla chiesetta di S.Maria Ughi, dove Cisti il fornaio aveva il suo forno e vi lavorava. Questo lavoro gli aveva dato tantissima fortuna in quanto egli era diventato ricchissimo che mai avrebbe cambiato il suo lavoro, avendo tra le sue cose anche vini bianchi e vermigli che si trovavano a Firenze nel contado.

Cisti il fornaio vedeva passare ogni mattina davanti a se Messer Geri e gli ambasciatori del Papa, e dato che faceva molto caldo pensò di offrire loro da bere il suo vino bianco, ma avendo riguardo ad invitare Messer Geri perché era di condizione sociale più elevata, lo induceva ad autoinvitarsi. Cisti il fornaio indossava una maglia bianca e un grembiule pulito i quali lo facevano sembrare un mugnaio piuttosto che un fornaio. Ogni mattina all'ora del passaggio di Messer Geri e degli ambasciatori, faceva si che passassero davanti alla sua porta e li vi metteva un secchio nuovo colmo d'acqua fresca e un piccolo vaso di terracotta pieno del suo buon vino bianco, con due bicchieri che sembravano d'argento. Si sedeva poi al loro passaggio e beveva il suo vino in modo che avrebbe fatto venire voglia anche ai morti. Messer Geri vide per due mattina la stessa scena e alla terza disse :"Com'è Cisti, è buono?".

Cisti si alzò rapidamente in piedi e rispose:" Si Messer, ma non posso spiegarvelo se non lo assaggiate". Messer Geri aveva sete, una sete derivatagli dal caldo, dalla stanchezza e dal vedere bere Cisti. Si rivolse dunque agli ambasciatori e disse:" Sisnori è bene che assaggiamo questo vino se no poi ce ne pentiremmo", e andarono così verso Cisti. Questo dopo aver tirato fuori una panca dal forno , pregò i signori perché si sedessero e ai servitori che si erano fatti avanti per lavare i bicchieri disse:" Compagni, tiratevi indietro e lasciate fare questo lavoro a me che so lavare bene quanto infornare, e che non vi venga i mente di assaggiarne una goccia!". E così detto, fatti arrivare quattro bicchieri belli e nuovi e fatto arrivare un vaso del suo vino, diede da bere con molto cura a Messer Geri e ai suoi compagni, ai quali il vino parve il migliore di quello che avevano bevuto da molto tempo, e finche gli ambasciatori rimasero a Firenze andaro quasi ogni mattina con Messer Geri a bere.

Avendo gli ambasciatori terminato il loro incarico e dovendo dunque partire, in loro onore Messer Geri fece un convito al quale potevano partecipare una parte dei cittadini più onorevoli evi invitò anche Cisti, il quale non volle andare per nessuna ragione. Messer Geri impose dunque ad uno dei suoi familiari di andare a prendere un fiasco del vino di Cisti, ed offrirne mezzo bicchiere ad ogni invitato con la prima portata di modo che lo potessero gustare meglio. Il familiare arrabbiato perché non aveva potuti ancora bere del vino prese un gran fiasco. Appena Cisti lo vide gli disse:" Figliuolo, Messer Geri non ti manda da me". Ripete più volte la frase al familiare ma non ottenne alcuna risposta, il giovane tornò dunque da Messer Geri e gli riferì l'accaduto, esso rispose:" torna indietro e digli che sono io che ti mando e se ti risponderà ancora così, mandalo da me". Il familiare tornò da Cisti e gli disse:" Cisti, mi manda per certo Messer Geri da te". Questo rispose:" Sicuramente non ti manda da me". "Adunque da chi mi manda" replicò il familiare." Vi manda a riempire quel fiasco d'acqua all'Arno, perché un vaso così grande non lo si puo riempire di vino pregiato".

Il familiare raccontò questo a Messer Geri al quale gli si aprirono gli occhi di intelletto e gli disse:" Fammi vedere che fiasco gli porti" e vedendolo disse "Cisti dice la verità" e dopo averlo rimproverato gli fece avere un fiasco dalle giuste proporzioni. Vedendolo Cisti disse:" ora so per certo che egli ti manda da me" e felicemente glielo riempì.

Lo stesso giorno poi fatto riempire un vaso simile di vino, lo portò a casa di Messer Geri, gli si avvicinò e gli disse:" Messere, non vorrei pensiate che il gran fiasco di vino che oggi mi avete offerto mi abbia spaventato, ma mi sembrava vi foste dimenticato quello che nei giorni scorsi vi ho dimostrato con i miei piccoli vasi, cioè che il mio non è un vino da dare alla servitù, ed ora non intendo più conservarlo per voi anzi ho deciso di donarvelo: fatene quello che volete".

Messer Geri ebbe il dono di Cisti, gli rese le grazie dovute e lo stimò come uomo di molto valore tanto che rimasero amici per molto tempo.



LISABETTA DA MESSINA



C'erano a Messina tre giovani fratelli mercanti, i quali dopo la morte del padre originario di S. Giminiano, rimasero molto ricchi. Questi avevano una sorella giovane, bella, costumata ed in età di marito, il suo nome era Elisabetta.

Oltre a questo i tre fratelli possedevano un magazzino il quale era gestito un giovane pisano chiamato Lorenzo bello e leggiadro, per questo Elisabetta incominciò a guardarlo ed a invaghirsi di lui. Accortosi di questo, Lorenzo, lasciò da parte tutti i suoi innamoramenti estranei alla casa e cominciò a pensare a lei, e piacendosi l'un con l'altra, fecero quello che entrambi desideravano di più. Continuando così, avendo insieme piacere e buon tempo, non seppero farlo segretamente tanto che una sera andando Elisabetta dove dormiva Lorenzo, il fratello maggiore li scoprì, senza che loro sene accorsero.

Il fratello maggiore che era giovane e intelligente pensò all'accaduto fino alla mattina seguente senza farne parola con nessuno, anche se questo era per lui molto noioso.

Venuto poi giorno raccontò ai suoi fratelli ciò che aveva veduto la notte precedente e con un lungo consiglio presero una decisione insieme, in modo da evitare infamie sia verso di loro sia verso la sorella, decisero dunque di fingere di non avere visto e sentito nulla, finche non fosse giunto il tempo di togliersi questa vergogna dalla faccia senza danno e disonore.

Mantenendo questo patto e ridendo con Lorenzo come erano soliti fare, successe che facendo finta di andare tutti e tre fuori città, seguirono Lorenzo e arrivati in un luogo solitario e lontano dalla città, colsero l'opportunità per ucciderlo e sotterrarlo di modo che nessuno se ne potesse accorgere.

Quando tornarono a Messina, sparsero la voce di averlo mandato in qualche luogo per fare loro un servizio, il che fu creduto facilmente perché spesso lo mandavano fuori città.

Non vedendo tornare Lorenzo, Elisabetta continuava a chiedere spiegazioni ai fratelli e un giorno chiedendo ad uno di essi con insistenza egli le disse:" Che vuol dire ciò? Che hai a che fare tu con Lorenzo? E come mai chiedi di lui cosi spesso? Se tu non ci chiederai più niente noi ti daremo la risposta che cerchi."



La giovane dolente e triste non sapendo più cosa fare o dire, non chiese più nulla ai fratelli, ma la notte lo chiamava e pregava perché tornasse, e piangendo per il suo lungo ritardo lo aspettava. Dopo una notte passata a piangere per Lorenzo, egli le apparve nel sonno, pallido e scarmigliato, con i vestiti fradici e stracciati e le parve che le dicesse:" O Elisabetta, tu piangi per il mio ritardo e mi dai la colpa per le tue lacrime, perciò sappi che io non posso più tornare, perché i tuoi fratelli mi hanno ucciso" e indicatole il posto in cui era sotterrato le disse di non chiamarlo più e di non aspettarlo, poi sparì.

La giovane, credendo nella visione, pianse amaramente; poi la mattina seguente disse nulla ai suoi fratelli ma voleva andare nel luogo mostratole da Lorenzo per vedere se ciò che gli era apparso nel sonno era vero. Avuto il permesso di uscire da Messina, in compagnia di una donna che era stata al loro servizio in passato, se ne andò. Tolse le foglie secche che c'erano sul luogo e dove la terra le sembrava più morbida scavò, di li a poco trovò il corpo del suo amante non ancora putrefatto, capì allora che la visione era giusta.

Era addolorata ma sapeva che quello non era ne il tempo ne il luogo adatto per piangere. Non potendo portare con se tutto il corpo per dargli una sepoltura migliore, con un coltello gli tagliò la testa, la mise in un asciugatoio e la mise in braccio alla signora, poi ricoprì il corpo con la terra e senza essere vista partì da quel luogo per casa sua.

Giunta a casa si rinchiuse in camera sua con la testa di Lorenzo e pianse a lungo, tanto da lavarla completamente, e la riempì di mille baci da ogni parte..

Prese poi un bel vaso che si usava per piantarci la maggiorana o il basilico e vi ripose la testa fasciata in un lenzuolo, la ricoprì poi di terra e vi piantò molti semi di basilico salernitano che innaffiava solo con acqua rosata, acqua di fiori d'arancio o con le sue lacrime. Aveva l'abitudine di sedersi vicino al vaso e di fantasticare accanto ad esso; quanto aveva finito piangeva a lungo e in questo modo innaffiava il basilico.

Questo sia per le continue attenzioni che per la terra molto grassa divenne bello e profumato. I vicini notarono Elisabetta durante questo momento, che si ripeteva spesso, sia dal suo strano viso che dai suoi occhi incavati e le dissero:" noi ci siamo accorti che lei ogni giorno fa la stessa cosa".

I fratelli sentito questo rimproverarono la sorella e le fecero portare via il vaso; la ragazza non lo trovava più e molte volte lo chiese ai suoi fratelli ma essi non glielo ridavano, lei non cessava mai di cercarlo e di piangere chiedendo del vaso.

I fratelli si meravigliarono di queste continue domande e perciò vollero controllare cosa ci fosse nel vaso; svuotarono questo e trovato il lenzuolo lo aprirono e videro la testa non ancora consumata, ma non la riconobbero a causa della capigliatura crespa.

Essi rimasero meravigliati da questo e temendo che si sapesse in giro sotterrarono la testa e lasciarono Messina, ritirandosi da ogni attività commerciale, per trasferirsi a Napoli.

La giovane non cessava di piangere e continuava a chiedere del vaso, fu così che morì piangendo e che finì il suo sfortunato amore. Ma poi la faccenda divenne conosciuta da molti e qualcuno compose quella canzone che ancora oggi si canta:" quale fu il male cristiano, che mi rubò il vaso etc."



NOVELLA TERZA 6ª GIORANATA



Correva il tempo in cui era vescovo di Firenze Messer Antonio D'Orso intelligente e valoroso prelato, quando venne in Firenze un gentile uomo catalano chiamato Messer Dego della Ratta, maniscalco del re Ruberto. Esso aveva un corpo bellissimo ed era un grande corteggiatore. Questo si accorse che fra le donne fiorentine ce ne era una che gli piaceva molto. Essa era la nipote del fratello del vescovo ed era molto bella.

Messer Dego aveva sentito dire che il marito di questa era, pur essendo di buona famiglia, un uomo avarissimo e cattivo, si mise dunque d'accordo con questo al fine di passare una notte con sua moglie, pagandogli la somma di cinquecento fiorini; fece d'orare i popolini d'argento, moneta che a quel tempo circolava, passo la notte con la moglie, anche se lei non era d'accordo, e in fine consegnò le monete al cattivo uomo. Queste rimasero a lui insieme al danno e alla beffa, che nel frattempo aveva scoperto; e ilo vescovo, come uomo intelligente, fece finta di non conoscere queste cose.

Il vescovo e il maniscalco del re passavano molto tempo insieme, e accadde che il giorno di S. Giovanni, cavalcando l'uno affianco dell'altro e vedendo le donne lungo le vie dove si corre il palio, il vescovo vide una giovane la quale la pestilenza presente ci ha portata via quando era anziana, il cui nome era signora Nonna de Pulci, cugina del Messer Alessio Rinucci, che voi tutte dovreste conoscere. Questa giovane era allora bella e fresca e parlava con un gran cuore, e di li a poco, giunti a Porta S. Pietro, il marito gli venne in contro e la fece vedere al maniscalco; poi pose la mano di lei sopra la spalla di questo e disse:" Nonna cosa te ne sembra di questo uomo? Credi di poterlo vincere?".

Alla Nonna sembrava che quelle parole offendessero molto la sua onestà, o la infamassero negli animi di quei molti che li ascoltavano. Così decisa a replicare colpo per colpo ed a togliersi questo peso dall'anima, prontamente rispose:" Messere lei forse non riuscirebbe ad avere me, ma solo con buona moneta."

Udite queste parole il maniscalco e il vescovo si sentirono entrambi trafitti, il primo perché come colui che aveva utilizzato la disonestà con la nipote del fratello del vescovo, e l'altro così come il ricevitore della nipote del proprio fratello.

Senza guardarsi l'un l'altro, vergognati e in silenzio se ne andarono senza più dire da quel giorno alcuna cosa.

Così dunque essendo stata la giovane ferita nell'orgoglio, non le si può negare di replicare alle offese e di offendere a sua volta.



NOVELLA PRIMA 6ª GIORNATA



Per farvi capire quanto siano belle delle frasi dette al giusto momento, mi piace raccontarvi un cortese invito al silenzio fatto da una gentil donna verso un cavaliere.

Come molte di voi possono aver visto o udito, un tempo nella nostra città vi era una gentile e costumata donna ben parlante, il cui valore era talmente grande che il suo nome non meritava di essere citato. Fu dunque chiamata madonna Oretta e fu moglie di Messer Geri Spina, la donna essendo per avventura nel contado, come lo siamo noi, andava per vie con donne e cavalieri, i quali aveva ospitato per cena a casa sua prima di partire, ed essendo da li un po' lunga la strada per arrivare al punto di partenza e dovendoci arrivare a piedi, un cavaliere della brigata le disse:" Madonna Oretta, se voi volete vi porterò a cavallo per le vie che dobbiamo percorrere, raccontandovi una delle belle novelle del mondo."

La donna rispose:" Messere, ve ne prego, sareste gentilissimo."

Il cavaliere al quale forse stava meglio il novellare della lingua piuttosto che la spada, udito questo inizio a raccontare la sua novella che di per se era bellissima se non fosse che egli tre o quattro o sei volte replicava la stessa parola, tornava indietro e talvolta diceva:" Non lo dissi bene"; sbagliava i nomi e novellando fieramente li scambiava l'un con l'altro, senza tener conto delle qualità delle persone e dei fatti che accadevano. A madonna Oretta, udendolo, spesse volte gli veniva un sudore e uno sfinimento al cuore, come se fosse rimasta inferma per finire, e quando non poté più sopportare la cosa, sapendo che il cavaliere era entrato nel pecoraccio e ne stata per uscire, piacevolmente disse:" Messere, il vostro cavallo ha un trotto troppo duro, vi prego perciò di farmi proseguire a piedi." Il cavaliere il quale era per esperienza un miglior intenditore che novellatore, intese il motto e lo prese in parola, raccontò dunque altre novelle e quella che aveva cominciato ma mal proseguita la lasciò stare senza fine.



NOVELLA SESTA 1ª GIORNATA



Vi racconterò di una lezione che un uomo diede ad un prete avaro e dalla battuta divertente sempre pronta.



Nella nostra città, non molto tempo fa, viveva un frate minore inquisitore che si sforzava per apparire santo, ma si preoccupava di più degli affari dei ricchi piuttosto che dei peccatori.

Per caso, un uomo più ricco che intelligente, parlando con i suoi amici ed avendo bevuto troppo disse che il vino lo avrebbe bevuto anche Cristo, tanto era buono.

Il frate, venne a sapere del fatto e conoscendo la ricchezza di quest'uomo volle istituire subito un processo contro questo, in primo luogo per trarne profitto e in secondo per accertarsi se avesse veramente detto questa frase. L'uomo acconsentì al fatto e l'inquisitore disse:" Tu hai detto che Cristo era un ubriacone, ciò è molto grave e per questo meriti il fuoco".

Con queste ed altre dure e provocatorie parole il frate accusava l'uomo, che impaurito gli diede parecchi soldi da utilizzare in opere di carità.

Il gesto fu accettato talmente volentieri che l'unica punizione inflitta all'uomo fu quella di portare sui suoi vestiti una croce gialla e nera, andare a messa tutte le mattine e presentarsi dal frate all'ora di pranzo.

Un giorno mentre era a messa l'uomo sentì un vangelo che recitava:" Voi riceverete il centuplo quaggiù e successivamente la vita eterna".

All'ora di pranzo l'uomo si recò dal frate come ogni giorno il quale gli chiese:" Sei andato a messa?", "Si" rispose l'uomo.

"Hai sentito qualcosa in cui non credi?" replicò il frate , "Io credo in tutto quello che sento durante il vangelo, ma oggi è stata detta una cosa che mi ha commosso pensando alla brutta situazione vostra e di tutti i frati quando raggiungerete l'aldilà.

"E quale sarebbe?" chiese il frate.

"Il vangelo diceva: voi riceverete il centuplo" affermò l'uomo, e il frate stupito gli domandò:" Questo è vero, perché ti sei commosso?".

" Signore, da quando sono qui vedo distribuire ai poveri uno o due grandi pentoloni di brodaglia, se per ognuno di essi nell'aldilà ne avrete cento, ce ne sarà così tanta che voi potreste affogarvici dentro." Così rispose l'uomo.

Tutti i presenti risero e l'inquisitore si arrabbiò a tal punto che avrebbe voluto fare subito un altro processo, ma si pentì di ciò che aveva fatto e liberò l'uomo dalla sua punizione.







PRIMA NOVELLA 8ª GIORNATA



Care donne vi voglio raccontare una novella che tratta di una beffa fatta ad un uomo ed a una donna, per commentare l'uomo e biasimare la donna e per mostrare che anche gli uomini se vogliono sanno imbrogliare chi crede in loro, come loro sono beffati da coloro in cui credono.

Arrivò un giorno a Milano un povero tedesco dal nome Gulfardo, uomo di fiducia e leale con le persone alle quali dava i propri servizi, il che era un fatto inconsueto per un tedesco. Questo sua lealtà era una garanzia verso i mercanti che gli prestavano soldi, in quanto vedevano in lui un ottimo debitore. Gualfredo, stabilitosi ormai in Milano, si innamorò di una donna molto bella di nome madonna Ambruogia, moglie di un ricco mercante suo conoscente e amico, dal nome Guasparruol Cagastraccio. Gualfardo la amava segretamente, senza che il marito o altri se ne accorgessero, e un giorno la pregò di essere l'oggetto del suo amor cortese, e proclamandole il proprio amore le disse che era pronto a fare qualsiasi cosa che ella avesse comandato. Dopo molte novelle essa cedette a Gualfardo ma pose come condizioni che questo fatto non sarebbe mai dovuto venire a conoscenza di alcuna persona, e che per questa cosa lui avrebbe dovuto donargli duecento fiorini d'oro, in questo modo lei sarebbe rimasta per sempre al suo servizio.

Gualfardo udendo l'ingordigia della donna capì quano vile fosse e pensò bene di beffarla e le disse che per lei avrebbe fatto qualsiasi cosa che la rendesse felice, e che avrebbe ricevuto il denaro richiesto, non che nessuno mai sarebbe venuto a saperlo.

La donna, anzi la cattiva femmina, udendo questo fu molto contenta e gli disse che Guasparruolo, suo marito, doveva di li a pochi giorni andare a Genova per affari e che gli avrebbe fatto sapere quando.

Gualfardo, quando ritenne fosse arrivato il momento, andò da Guasparruolo e gli disse:" Sto per fare una cosa per la quale mi occorrono duecento fiorini d'oro, che tu dovresti prestarmi allo stesso interesse degli altri." L'uomo fu ben lieto di prestarglieli e glieli diede subito.

Pochi giorni dopo Guasparruolo andò a Genova, come la donna aveva detto e così mandò a chiamare Gualfardo il quale poteva andare da lei e portargli i duecento fiorini d'oro.Egli prese il compenso per la donna e andò da lei , ella lo stava aspettando e appena la vide gli mise in mano i fiorini dicendogli di darli a suo marito non appena fosse rientrato. La donna gli prese e sentito ciò lo trovò strano ma pensò che fosse un modo per non far sembrare tutto questo un compenso. A quel punto la donna disse: " lo farò volentieri, ma adesso voglio contarli." Li versò su un tavolo e vide che erano effettivamente duecento e felice li ripose. Poi tornò in camera da Gualfardo e lo soddisfò per più di una volta, finche non tornò il marito. Questo tornato trovò Gualfardo a casa sua, il quale volle parlargli e in presenza della moglie gli disse:" Guasparruolo, i soldi, cioè i duecento fiorini che mi prestassi l'altro ieri non li ho usati perché non potei soddisfare il bisogno per il quale li presi. Così te li ho riportati e li ho dati a tua moglie e per questo maledirai la mia ragione."

Guasparruolo si voltò verso la moglie e le chiese se li avesse veramente ricevuti. Ella non seppe negarlo ma disse:" si, li ho avuti ma non mi ero ancora ricordata di dirtelo." "Gualfardo, sono contento, andate con Dio che io accoglierò la vostra ragione." Rispose il marito.

Gualfardo partì, la donna rimase scornata e dovette dare il prezzo disonesto della sua cattiveria, e così il sagace amante gode senza costo della sua donna.



SESTA NOVELLA 6ª GIORNATA

Giovani donne, essendomi tornati in mente i Baronci grazie alla novella di Panfilo, vi voglio raccontare una loro avventura nella quale si dimostra quanto era grande la loro nobiltà. C'era una volta nella nostra città il più bel giovane del mondo, il suo nome era Michele Scalza. Egli era a conoscenza delle più recenti novelle e questo faceva di lei un uomo molto ammirato specialmente dai giovani fiorentini. Un giorno mentre si trovava a Montuoghi con degli amici, e qui emerse una questione: quali fossero gli uomini più gentili, quali i più antichi di Firenze e quali fossero in grado di capirli.

Scalza sentendo queste parole si mise a ridere e disse:" Andatavene, gli uomini più gentili sono i Baronci e non ci sono solo a Firenze, questo non lo dico solo io ma lo dicono anche i filosofi e tutte le persone che li conoscono." I giovani, sentendo le sue parole iniziarono a scherzarlo e dissero:" Tu ci stai prendendo in giro, come se noi li conoscessimo questi Baronci" Scalza li interruppe e disse." Io non vi sto prendendo in giro e per dimostrarvi quello che dico ci scommetto una cena". Tra i giovani li presenti se ne alzò uno che si chiamava Neri Vannini, il quale disse:" Io voglio scommettere con te perché sono sicuro di vincere la cena." Si accordarono dunque con il giudice Pietro di Fiorentino, il quale li ospitava entrambi in casa sua, casa nella quale erano presenti anche tutti i restanti giovani per assistere alla sconfitta di Scalza, in questo modo avrebbero potuto portare in trionfo Neri e scherzare Scalza raccontando a tutti che genere di giovane fosse. Neri si rivolse a Scalza e disse:" Come puoi dimostrare che quello che affermi è vero?". Scalza rispose:" lo dimostrerò con la ragione, infatti non lo dirò ne io ne tu, ma colui che nega mi dirà il vero. Voi sapete che gli uomini più sono anziani più sono gentili, e così i Baroncini sono i più antichi, e di conseguenza anche i più gentili. È questo quello che vi dimostrerò e che mi farà vincere. Dovete sapere che i Baroncini risalgono al tempo di Domenedio, quando aveva iniziato a dipingere ma nessuno credeva nelle sue possibilità. Provate a pensare ai Baroncini: dove voi vedete tutte le persone con i visi ben composti e proporzionati , potrete vedere anche i Baroncini con un viso molto lungo, stretto o largo, c'era chi aveva il naso lungo e chi corto, alcuni con il mento molto vistoso e altri con il naso all'insù, chi aveva la mascella grosse e chi piccola, c'era anche dei bambini che avevano un occhio più grosso dell'altro, insomma li vedreste come se fossero dei disegni di bambini, infatti come ho già ben spiegato, Domenedio gli disegnò all'inizio della sua carriera, quando ancora doveva imparare a disegnare, per questo dico che sono più antichi e anche più gentili". Udito questo sia Piero, che era il giudice, sia Neri, che i presenti si misero a ridere e affermarono che Scalza aveva ragione, e che aveva vinto la cena perchè i Baroncini erano le persone più antiche e gentili non solo di tutta Firenze ma bensì di tutto il mondo o di tutta la Maremma.

NOVELLA QUARTA 6ª GIORNATA





Corrado Gianfigliazzi, che tutti hanno potuto vedere e sentire, è sempre stato un nobile cittadino, leale e magnifico e trascorreva una vita cavalleresca; si è dilettato nel passatempo della caccia lasciando da parte i suoi doveri e le suo opere. Un giorno egli uccise una gru a Peretola, siccome era giovane e grassa la diede ad un suo abile cuoco veneziano dal nome Chichibio. Il padrone gli ordinò di arrostirla per cena. Chichibio che era un uomo stolto e sciocco, mise la gru sul fuoco e inizio a cuocerla. La gru era ormai cotta e il suo profumo, gradevole quando attirata dal profumo entrò in cucina Brunetta, una giovane della contrada, della quale Chichibio era molto innamorato. Essa era molto attratta dalla visione della gru e pregò Chichibio di dargliene una coscia. Chichibio le rispose cantando:" Tu da me non l'avrai, donna Brunetta, non l'avrai." Brunetta un po' turbata da ciò gli disse:" Giuro su Dio che se non me ne darai un pezzo non avrai da me ciò che desideri". Chichibio per non dare un dispiacere alla sua donna staccò una coscia dalla gru e gliela diede. Posta la gru a tavola dinanzi a Corrado ed a alcuni ospiti, Chichibio fu chiamato a rispondere dell'accaduto, che aveva lasciato meravigliato Corrado. Il veneziano bugiardo disse:" Mio signore le gru hanno una coscia e una gamba" e Corrado arrabbiato rispose:" Hanno una coscia ed una gamba? Credi che io non abbia mai visto una gru prima di questa?" Chichibio continuò: "è come dico io e ve lo dimostrerò con della gru vive".

Corrado per non interrompere oltre modo la cena concluse la conversazione dicendo:" Poiché tu insisti per farmi vedere una cosa che io non ho mai visto ne udito, domani mattina me lo proverai e solo allora sarò contento, ma ti giuro su Dio che se ciò non è vero ti ridurrò in uno stato che non dimenticherai, se riuscirai a restare in vita."

La mattina dopo Corrado si alzò all'alba, e fatti portare i cavalli, fece montare Chichibio su un ronzino lo portò in riva ad un fiume sulla quali si era soliti vedere le gru e disse:" Ora vedremo chi ha mentito ieri sera." Chichibio notò che Corrado era ancora arrabbiato, e che gli conveniva dare presto una prova della sua bugia.

Attorno a se vedeva solo gru le quali si reggevano su entrambe le gambe, per questo cavalcava impaurito di fianco a Corrado, sarebbe scappato se avesse potuto ma non poteva. Arrivati al fiume si ricordò di dodici gru che quando dormivano si reggevano ritte su una sola gamba, le fece subito notare a Corrado e disse:" Signore, come potete vedere io ieri sera sono stato sincero , le gru hanno una sola gamba e una coscia."

"Aspetta ora ti dimostrò che ne hanno due" disse Corrado non appena le vide, e avvicinandosi gridò:"ohoh", le gru non appena sentito tal rumore poggiarono in terra la seconda zampa e impaurite fuggirono. Quindi Corrado disse a Chichibio:" Cosa ne pensi ora canaglia? Ti pare che ne abbiano due?"

Chichibio non sapendo cosa rispondere disse:" Si, ma voi non avete gridato ohoh a quella di ieri sera, perché se lo aveste fatto la gru avrebbe posato a terra anche l'altra gamba, come hanno fatto queste."

Corrado fu molto felice di questa risposta a tal punto che la sua ira si trasformò in gioia e disse:" Chichibio, tu hai ragione, l'avrei dovuto fare".

Così Chichibio con la sua pronta e divertente risposta schivò il suo meritato castigo e fece pace con il suo padrone.



NOVELLA OTTAVA 6ª GIORNATA



Ragazze, per obbedire alla regina e per liberarmi da quel pensiero che da nunpo' mi tormenta vi voglio raccontare la vicenda di un giovane e del motto che gli aveva raccontato lo zio. C'era una volta un uomo dal nome Fresco da Celatico , il quale aveva una nipote dal nome Cesca. Questa ragazza aveva un bel fisico ma in viso non rappresentava una grande bellezza, era molto vanitosa e si vantava della sua nobiltà offendendo per abitudine gli uomini e le donne che incontrava, non rendendosi conto che era lei la più spregevole, la più permalosa e la più noiosa. Quando si allontanava faceva le smorfie al solo pensiero delle persone che aveva appena incontrato, che riteneva come degli stracci puzzolenti.

Lasciando stare i suoi lati negativi, un giorno dopo essere tornata a casa tuuto smorfiosa, non faceva altro che sbuffare; a quel punto intervenne lo zio e le disse:" Cesca, come mai ti comporti così in un giorno di festa?". In maniera molto altezzosa ella gli rispose:" Ebbene sì, oggi sono molto dura perché non avrei mai pensato che sulla terra esistessero delle persone così spiacevoli, e che potesse esistere un femmina come me che è costretta a vedere queste persone tutti i giorni, per questo sono diventata così dura." A Fresco non piaceva vedere la nipote così triste e le disse:" Se non vuoi rimanere così male tutte le volte che vedi queste persone io ti do un consiglio: non ti specchiare mai più." Ella capì subito il motto detto dallo zio ma volle ugualmente continuare a specchiarsi come le altre; e così rimase nella sua ottusità ed ancora vi sta.



COMMENTO:


Il lavoro di traduzione delle novelle di Boccaccio nell'Italiano corrente mi è stato utile per capire a fondo il senso di questi racconti.

La lettura è risultata per me abbastanza difficile in quanto molti termini non hanno un significato ricollegabile direttamente all'Italiano d'oggi. Io ho trovato tutte le novelle lette interessanti ed in ognuna di esse era bene evidente un tema principale che secondo me le accomuna tutte. Il tema che per me Boccaccio ha voluto trattare con queste novelle è stato quello dell'amore, anche se ritroviamo collegato ad esso l'astuzio di uomini e una figura che è presente sempre in maniera più o meno forte nelle novelle di Boccaccio, cioè la donna. In ogni novella che ho letto la donna era colei che determinava l'evolversi delle azioni, era in base al suo volere che la vicenda prendeva piede( Chichibio, Elisabetta da Messina, novella ottava della sesta giornata etc.). Una novella che si discosta dal tema di cui vi ho parlato, e che per questo mi ha colpito, è stata quella di Melchisedech e il Saladino, nella quale invece ho ritrovato delle evidenti finalità etiche, educative che voglio cioè dimostrare che la chiarezza e la onestà portano ad ottenere il fine desiderato, mentre i giri di parole e i tentativi di inganno ti screditano e rendono più difficile e lunga la strada verso il fine desiderato.

Se faccio un bilancio della mia esperienza lavorando sulle novelle di Boccaccio posso dire che se pure vi erano molte difficoltà relative alla traduzione e interpretazione del testo, a me questo lavoro è piaciuto e ritengo che da questi racconti si possano ricavare insegnamenti utili anche per la nostra vita.

Per dire tutta la verità però ho trovato anche delle novelle per me insignificanti in cui non sono riuscito a capire quale fosse l'intenzione dello scrittore e la morale contenuta nella vicenda (per esempio nella novella ottava della sesta giornata).

Come già detto spesse volte Boccaccio usa termini non riconducibili al nostro linguaggio moderno, ma nel complesso devo dire che secondo me egli non utilizza una forma elevata ma piuttosto bassa e perciò facilmente capibile dalle persone del tempo.








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