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Il comportamentismo
La nas cita del compo rtamentismo
Negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, la psicologia ha, grazie a Pavlov,
gli strumenti concettuali per costruirsi su fondamenta oggettive. Questi erano però offerti in
America anche dalle ricerche di Edward L. Thorndike, il più grande precursore del
comportamentismo. Thorndike (cfr. in particolare 1911; 1949), che chiamava il suo sistema
teorico «connessionismo», una forma particolare di associazionismo, aveva iniziato già negli
ultimi anni del secolo scorso alcuni esperimenti su quella che chiamava «intelligenza animale».
Nella situazione prototipica, l'animale veniva posto all'interno di una gabbia, completamente
chiusa, e per uscire doveva agire tirando delle funi, che erano collegate con un sistema di pulegge
alla porta della gabbia. Ora, Thorndike rilevò che l'animale non passava bruscamente da una fase
in cui non era capace di trovare la soluzione, a un'altra in cui la soluzione, una volta trovata, era
poi sempre immediatamente disponibile. Al contrario, quello che era visibile era un progressivo
accorciamento dei tempi di soluzione del problema, senza 333j99d discontinuita, sino a un minimo.
Da questo, Thorndike enunciò tre principi fondamentali. Il primo principio affermava che
l'apprendimento si verifica per tentativi ed errori (trials and errors): l'animale compie tentativi alla
cieca, e quindi commette casualmente errori e dà risposte giuste. Il secondo principio era
formulato sotto forma di legge, detta dell'effetto: le risposte corrette tendono a essere ripetute,
quelle erronee a essere abbandonate. In questo modo, l'animale progressivamente riduce il
numero di emissione di risposte erronee, aumentando quello di risposte corrette, e riduce così
gradualmente i tempi di soluzione del problema. Anche il terzo principio era enunciato sotto
forma di legge, detta dell'esercizio: i comportamenti più spesso esercitati vengono appresi più
saldamente, ed è più facile che vengano di nuovo emessi, in situazioni analoghe a quelle in cui
sono stati appresi.
John B.Watson (1878-1958)
Il fondatore del comportamentismo fu Watson, che conseguì il PhD presso l'Università di
Chicago, il centro del funzionalismo americano. Per quanto inizialmente attratto dalla riflessione
filosofica di John Dewey, egli si dedicò prevalentemente alla psicologia di laboratorio e si
interessò agli studi sui tropismi che il biologo Jacques Loeb conduceva sugli organismi inferiori.
Watson, che fin da giovane si era interessato all'ammaestramento di animali e, in particolare, di
ratti, trovò a Chicago il primo allevamento di questi animali utilizzati a scopi sperimentali e
divenne presto tecnico di laboratorio per interessamento del suo supervisore.
A Chicago trovò anche Rowland Angell, l'allievo di William James e sostenitore del
funzionalismo in psicologia, che considerava la mente come un prodotto della selezione naturale
e delle interazioni con l'ambiente. Nel 1908 venne chiamato da Baldwin a ricoprire l'incarico di
professore di psicologia presso la Johns Hopkins University, con il compito di costituire un
laboratorio di psicologia comparata. Per un singolare destino, Baldwin dovette lasciare quell'università
per uno scandalo, e lo stesso sarebbe successo a Watson alcuni anni più tardi.
Da R. Luccio, La psicologia: un profilo storico, Laterza, Roma-Bari, 2000, pp. 137-148.
Comunque quando Baldwin dovette allontanarsi lasciò a Watson la direzione del dipartimento di
Psicologia insieme con quella di varie riviste, compresa la «Psychological Review» iniziata nel
Da tale posizione di forza Watson intraprese una battaglia culturale e scientifica contro i
metodi introspettivi e l'approccio dualistico in psicologia e a favore di una psicologia obiettiva e
riconducibile nell'alveo delle scienze biologiche.
L'articolo Psychology as the Behaviorist Views It, comparso nel 1913 sulla rivista già ricordata,
rappresentò il punto di svolta della psicologia americana di inizio secolo, non solo per la nuova
determinazione dell'oggetto della disciplina (« ciò che gli uomini fanno dal momento in cui
nascono fino alla morte»: il comportamento, come peraltro aveva gia anticipato Piéron nel 1908)
ma anche per l'indicazione del nuovo programma di ricerca consistente nello stabilire le relazioni
tra gli stimoli, intesi come le eccitazioni che in un dato momento agiscono sull'organismo, e le
risposte, intese come l'insieme dei cambiamenti che si producono nella muscolatura e nelle
secrezioni ghiandolari. In questo articolo la psicologia, «dal punto di vista di un
comportamentista», veniva definita come un settore sperimentale delle scienze naturali, il cui
scopo è la previsione e il controllo del comportamento.
L'oggetto di studio del comportamentismo non era la coscienza né tanto meno la mente, ma il
comportamento osservabile intersoggettivamente, definito da Watson come l'insieme delle
risposte muscolari o ghiandolari. Si osservi che così Watson escludeva l'osservazione del sistema
nervoso - peraltro, l'EEG sarebbe stato inventato solo quindici anni dopo, e i potenziali evocati
erano di là da venire. Il metodo di studio rimaneva rigorosamente quello sperimentale, con le
stimolazioni ambientali (intese come variazione dell'energia fisica presente nell'ambiente: energia
radiante, meccanica ecc.) come variabili indipendenti e il comportamento (la risposta
dell'organismo) come variabile dipendente, con un rifluto deciso dell'introspezione e del
colloquio clinico. Secondo i comportamentisti, infatti, se la psicologia voleva essere una scienza,
doveva scegliere come oggetto di studio qualcosa che fosse suscettibile di essere osservato
naturalisticamente. «La psicologia come la vede il comportamentista è una branca sperimentale
puramente oggettiva delle scienze naturali» (Watson 1913, p. 158). Di qui la individuazione del
riflesso condizionato e dei meccanismi del condizionamento come unità di analisi della
psicologia.
Dopo il 1913 praticamente tutti gli psicologi americani sentirono la necessita di prendere
posizione nei confronti della proposta di Watson, che nel 1915 giungeva alla presidenza della
American Psychological Association. Nel suo discorso di insediamento indicò nel lavoro di
Pavlov sui rifiessi condizionati il fondamento sperimentale del comportamentismo. Tuttavia i
programmi delle sue ricerche subirono una improvvisa battuta di arresto a partire dal 1920 a
causa di una relazione con una giovane collaboratrice, Rosalie Rayner. È importante segnalare che
con la Rayner Watson lavorò sul famoso caso del piccolo Albert, un bambino che venne fatto
diventare sperimentalmente fobico con tecniche di condizionamento (cfr. Watson, Rayner 1928).
L'importanza del caso, che è alla base di quella che sarebbe poi diventata la behavior therapy, la
psicoterapia comportamentistica, è dato dal fatto che secondo Watson si poteva così dimostrare,
in contrasto con le idee psicoanalitiche, che i sintomi nevrotici sono frutto di un apprendimento,
e che ciò che è appreso si può «disapprendere».
Dopo lo scandalo, Watson riversò il proprio talento e le proprie competenze nel settore
applicativo (pubblicità e marketing) e in ambito divulgativo, pur non abbandonando del tutto la
passione teoretica, come testimonia l'introduzione sistematica al comportamentismo del volume
Behaviorism, del 1924. Watson svolse un'intensa attività pubblicistica, che si concretizzò nella
raccolta di suggerimenti ai genitori del 1928 intitolata The Psychological Care of Infant and Child e
firmata insieme a Rosalie Rayner. Quest'ultimo lavoro contribuì non poco al dibattito sul
comportamentismo in vasti strati della società americana. Il suo contributo può essere riassunto
soprattutto in questi termini: la sostituzione dell'introspezione con l'osservazione
comportamentale, l'accento sulla predizione e il controllo del comportamento, rispetto alla
comprensione teorica, l'abolizione della terminologia mentalistica e una impostazione atomistica
dello studio del comportamento in modo da renderlo più affrontabile nella sua complessità.
Dal comportamen tismo al neocomportamen tismo
In pochissimi anni dalla pubblicazione del primo articolo di Watson, il comportamentismo
conquistò una posizione di netto predominio nella psicologia americana. La dottrina
fondamentale poteva essere riassunta in questi termini: l'organismo era una «scatola nera» (black
box), al cui interno lo psicologo non può entrare; farebbe così solo della metafisica. Su questa
scatola nera impattano gli stimoli ambientali S, e in concomitanza l'organismo emette delle
risposte R. Lo psicologo comportamentista studia le associazioni S-R: come dipende il variare delle
risposte (variabile detta perciò dipendente) al variare degli stimoli (variabile detta perciò indipendente). Il
comportamentismo si costituì così come la scuola (o meglio, forse, il movimento, data la sua
natura abbastanza composita; Zuriff 1985, p. 6), che avrebbe segnato tutta la psicologia generale
dagli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale a quelli immediatamente
successivi alla seconda.
A partire dal contributo di Watson possiamo tracciare gli sviluppi dell'indirizzo
comportamentista. Con Eduard C. Tolman assistiamo all'accettazione del programma di ricerca
comportamentista solo per quanto riguarda l'adozione dell'osservazione del comportamento e
l'accantonamento del metodo introspettivo, ferma restando la scelta di una impostazione
teleologica di marca europea che sfocerà, nel 1922, nella nuova formulazione di un purposive
Behaviorism (comportamentismo diretto a uno scopo) sulla «Psychological Review».
Secondo Tolman, il comportamento di un organismo ha uno scopo e la risposta attiva che ne
consegue va considerata olisticamente e non sommatoriamente rispetto a elementi parziali. Il
comportamento è quindi interpretabile considerando una serie di fattori che operano come
variabili indipendenti: stimoli ambientali, pulsioni fisiologiche, eredità, età, sesso, esercizio
pregresso e così via. In particolare, osservando il comportamento, si possono distinguere due
fondamentali categorie di variabili: quelle che direttamente si possono notare e quelle intermedie,
delle quali si rilevano gli effetti, ma non la presenza, per esempio i tratti temperamentali, il sistema
dei bisogni, le matrici di convinzioni e valori, lo spazio vitale immediato e quello ristrutturato da
locomozioni e apprendimenti. Per inciso, la riflessione tolmaniana sulle variabili intervenienti
promosse un interessante dibattito tra i teorici di quel periodo che sfociò nel 1948 nella proposta
di MacCorquodale e Meehl di definire e differenziare nettamente tali variabili rispetto ai
cosiddetti costrutti ipotetici. Questi ultimi vengono definiti come concetti che indicano ipotetici
processi inseriti nel contesto proposizionale di una teoria allo scopo di rafforzarne il potere
esplicativo, rispetto ai dati osservativi comportamentali, quali per esempio «l'intelligenza,
l'adattamento, il rinforzo, l'apprendimento, l'equilibrazione dei processi di assimilazione e
accomodamento, il super-io, il complesso di Edipo ... ».
Le variabili intervenienti invece si distinguono per il loro significato operazionalmente più
limitato e specifico, potendosi definire come quei fattori inferiti e non osservati che mettono in
relazione le variabili indipendenti osservate (in genere gli stimoli) con le variabili dipendenti
osservate (la gamma delle risposte). Le variabili intervenienti si possono ridurre pertanto ad
affermazioni ipotetiche che riguardano processi, entità o eventi che si verificano nell'organismo.
L'adozione da parte di Tolman di tale tipo di variabili, nonostante il loro discutibile statuto
epistemologico, restituisce all'uomo (e all'animale) una consistenza interna messa in ombra dagli
approcci integralisti al comportamentismo, senza peraltro ricorrere nuovamente al concetto di
coscienza.
Il comportamentismo di Tolman si è guadagnato l'appellativo di «molare» avendo come oggetto
di studio unità di comportamento che non possono essere ridotte o considerate corrispondenti
alla somma delle loro parti. Per Tolman l'unità di base dello studio della psicologia consiste nel
comportamento diretto a uno scopo, che resta fondamentalmente modificabile attraverso
processi di apprendimento; il comportamento, da un punto di vista molare, deve ricevere
spiegazioni o definizioni attraverso costrutti psicologici, piuttosto che attraverso costrutti
fisiologici.
Negli anni Trenta vennero introdotte nuove e diverse variabili intervenienti. Di particolare rilievo
fu la cosiddetta scuola di Yale, in cui si distinsero Clark Hull e Kenneth Spence (poi passato, con
la moglie Janet Taylor, all'Universita dello Iowa). Nel sistema proposto da Clark Hull (1943a,
1943b), altamente formalizzato, particolare rilievo avevano come variabili intervenienti la pulsione
D (da drive) e la forza dell'abitudine SHR (habit strength), forza del legame associativo interposto tra
stimolo e risposta. Nel sistema proposto da Spence un ruolo fondamentale aveva come costrutto
ipotetico il concerto di ansia.
Operanti e rispondenti: Skinner e l'utopia
Verso la fine degli anni Trenta si affacciò però sulla scena scientifica quello che sarebbe stato il
più noto dei neocomportamentisti, Burrhus Frederick Skinner. Il suo atteggiamento si manifestò
peraltro immediatamente come opposto a quello degli altri comportamentisti. Quanto i vari
Tolman, Hull, Spence ecc. cercavano di sistematizzare e teorizzare, tanto Skinner (1938)
ostentava un atteggiamento sostanzialmente anti-teoretico, nemico del concetto di variabile
interveniente, attento sostanzialmente solo alle contingenze associative immediatamente rilevabili
all'esterno. Dato il grande rilievo di questo studioso per tutta la cultura americana di centro
secolo, è opportuno dedicargli un po' più di attenzione.
La sua prima prova rilevante, un lungo articolo sul concetto di riflesso nella descrizione del
comportamento, pubblicato nel 1931 sul «Journal of General Psychology», non rappresenta tanto
il risultato di un programma sperimentale di ricerca quanto un'analisi storico-critica alla Mach di
tale concetto e un'analisi epistemologica dello stesso, utilizzando le categorie dell'operazionismo
di Bridgman. Con l'atteggiamento ostentatamente anti-teoretico, che lo caratterizzerà lungo tutto
il suo percorso intellettuale, Skinner si basò, riguardo l'arco rifiesso, non tanto sulla
concettualizzazione di esso quanto su ciò che è implicato negli esperimenti sui rifiessi, giungendo
alla conclusione che la ricerca reflessologica non deve consistere tanto nello studio dell'arco,
quanto nella rilevazione nell'impostazione strettamente sperimentale di correlazioni tra due ordini
di eventi, vale a dire gli stimoli e le risposte.
Skinner propose quindi il superamento delle indagini propriamente fisiologiche del riflesso, come
processo isolato da altre attività corporee, per aderire a uno studio dello stesso quale regolarità
che coinvolge l'organismo nel suo insieme, e quindi quale strumento per una descrizione
autonoma e pervasiva del comportamento degli organismi. Se l'oggetto di una scienza è
determinato dagli interessi dello scienziato e se tali interessi si focalizzano sull'attività totale
dell'organismo in quanto organizzazione globale e integra, lo psicologo può individuare nel
comportamento l'oggetto specifico e indipendente dei propri studi. Come ha occasione di
osservare Skinner, nella descrizione del comportamento si è impegnati con le «relazioni» che
esistono all'interno di una serie regressiva di eventi che vanno dal comportamento osservabile a
quelle modifiche di energia che avvengono alla periferia dell'organismo e che noi designiamo con
il termine di stimolo.
Seguendo un credo epistemologico, definito da altri anti-riduzionismo metodologico, Skinner
può affermare che «il comportamento non è semplicemente il risultato di attività più fondamenta-
Ii [ ... ], ma è un fine in sé e per sé». Egli si distacca però dalla prevalente psicologia che
privilegiava il legame causale tra stimolo e risposta, dedicandosi piuttosto alla rilevazione delle
regolarita tra queste due classi. In particolare, focalizza la sua attenzione sulle frequenze piuttosto
che sulla qualità della risposta e identifica la variabile chiave del controllo del comportamento
non negli antecedenti causali, ma nelle conseguenze della risposta, cioè nel rinforzo.
Con una distinzione che sarebbe stata prontamente accettata da tutto il comportamentismo,
Skinner distingueva tra due tipi di comportamenti: i rispondenti, derivanti da riflessi innati o appresi
per condizionamento classico (assodazione S-S, stimolo condizionato stimolo incondizionato), e
gli operanti, emessi spontaneamente dall'organisrno e la cui probabilità di occorrenza aumenta o
diminuisce a seconda del rinforzo (premio o punizione) che l'organismo riceve in corrispondenza
della loro emissione; appresi per associazione S-R.
Con l'opera, del 1938, Behavior of Organisms, Skinner istituì la sua scienza del comportamento e il
suo impero terminologico, che però non vennero presi estesamente in considerazione dalla
comunità scientifica statunitense, all'epoca più interessata ad altre proposte emerse in seno al
comportamentismo (Hull, Tolman). Solo negli anni Cinquanta la fortuna di Skinner conosce
un'impennata sia tra il grosso pubblico, con il romanzo utopico Walden two (1948), sia presso la
comunità scientifica, con le opere sistematiche Science and Human Behavior e Schedules of
Reinforcement. L'accento sulla programmabilità e modellabilità del comportamento conduce dal
mito della vecchia frontiera al nuovo confine tecnologico - e tecnologia in senso proprio sono tutte
le proposte che fa Skinner di applicazione delle tecniche di condizionamento alla vita quotidiana,
dagli studi sull'istruzione programmata alle teaching machines o al baby glass box, la scatola trasparente
e sterile, con tutti gli stimoli sapientemente programmati e sottratti alla casualità dell'intervento
del genitore, inventato dal babbo Skinner per la figlia Deborah.
Ma il vento doveva cambiare, a partire dagli anni Cinquanta, e ben presto queste proposte
tecnologiche vennero rifiutate, anche perché più complicate e artificiali delle pratiche educative
che avrebbero dovuto sostituire, semplificandole. L'utopia è sconfitta, quando si rivela incubo.
Demarcazi oni: «cons traints of learning», mediazione verbale e «shifts»
Negli anni Cinquanta, il comportamentismo era all'apice del suo successo e dominava
incontrastato la psicologia nord-americana. Ma il crollo era vicino, e sarebbe giunto tanto più
repentino e totale quanto meno, era atteso. L'agente del crollo sarebbe stato il cognitivismo. Per
capire questo snodo determinante nella storia della psicologia nell'ultimo secolo è però
importante esaminare più da vicino la situazione del neocomportamentismo.
La prospettiva skinneriana si esaurì in se stessa. Lo stesso antiteoreticismo di Skinner di fatto
impedì il crearsi di una scuola. Peraltro, le demarcazioni all'nterno del neocomportamentismo
crearono in parte il necessario ponte tra questo movimento e il cognitivismo, che negli ultimi
decenni lo avrebbe sostituito. La prima demarcazione è quella dei cosiddetti constraints of learning
Lo spazio non ci ha qui consentito di parlare di altre branche della psicologia animale, e in
particolare dell'apporto dell'etologia. Tale apporto può, schematizzando, essere sintetizzato sotto
due aspetti: il primo, più precisamente teorico, è quello del porre in luce gli aspetti specie-specifici
del comportamento; il secondo, metodologico, è quello del rifiuto dell'osservazione in laboratorio
e il privilegio dell'osservazione del comportamento in ambiente naturale (ovviamente i due aspetti
sono distinti solo per comodità espositiva). L'approccio etologico implica un ritorno alla
concezione darwiniana del comportamento e si scontra nettamente con alcuni postulati del
comportamentismo e degli studi di psicologia animale condotti in quest'ambito, e principalmente
a) il postulato della non differenza qualitativa tra comportamenti animali e umani; b) il postulato
empirista; c) il postulato della controllabilità della situazione stimolo e delle contingenze di
rinforzo.
Ma la scoperta di comportamenti specie-specifici era stata fatta anche all'nterno del
comportamentismo, e l'ironia del destino ha voluto che gli studi in questo campo venissero
iniziati proprio da due allievi di Skinner, Breland e Breland (1961), che, in due parole, hanno,
dimostrato che la specificita della specie determina dei precisi vincoli sugli apprendimenti che
possono essere conseguiti: non tutti gli animali possono apprendere le stesse cose. E se è vero
che le ricerche sui limiti biologici del comportamento, che hanno dovuto tenere in larga misura
conto dei dati dell'etologia, si sono staccate in maggiore o minor misura dal filone
comportamentista classico, è altrettanto vero che tutta la problematica dei constraints of learning
(limiti dell'apprendimento) è tuttora ben lontana da quella cognitivista. Comunque, la scoperta
dell'esistenza di comportamenti specie-specifici non significa di per se stessa un'accentuazione
dello studio dei fattori innati dell'apprendimento, e soprattutto una ricerca delle basi biologiche,
geneticamente determinate, di certi processi cognitivi. È però certo che tale scoperta ha scosso
notevolmente la radicata idea che le stessi leggi psicologiche potessero valere per tutte le specie
animali.
Un altro aspetto di particolare rilevanza per quel che riguarda il neocomportamentismo e le
variabili intervenienti è quello delle cosiddette mediazioni verbali, sostenute in particolare da
Osgood (per esempio, 1957). Per capire meglio di cosa si tratta, esaminiamo un concreto
paradigma sperimentale: il cosiddetto reversal non reversal shift.
Questa linea di ricerca è stata introdotta da Kendler e Kendler per la prima volta nel 1959 (ma le
origini di questo paradigma si possono già rintracciare nei lavori di psicologia animale sulle
«ipotesi» dei ratti di Krechevsky 1932) Le ricerche sugli shifts hanno avuto un'enorme diffusione
in tutto il mondo, e si sono rivelate soprattutto utili riguardo i processi cognitivi nello svantaggio
sociale, su soggetti in età evolutiva, cioè, nei quali particolarmente evidente è la deprivazione
linguistica (cfr. Luccio, Sala Borroni Larcan 1984).
Le ricerche sugh shifts si inseriscono in quel più ampio settore della psicologia dell'apprendimento
relativo alla cosiddetta formazione dei concetti. In cosa consista un concetto è presto detto: per
concetto si intende grosso modo una categoria, una classe di eventi a cui può essere assegnata
un'unica etichetta - così la classe (o categoria) dei cani è un concetto il concetto, appunto, di cane)
e lo stesso la classe dei quadrati, dei democristiani, dei provveditori agli studi, dei ciotoli e dei
valvassori. Un esperimento sulla formazione dei concetti assume una forma di estrema semplicità.
Lo sperimentatore presenta degli eventi (ad esempio, disegni su cartoncini) e chiede al soggetto di
pronunciarsi sulla loro eventuale appartenenza al concetto (ancora indeterminato) che lo,
sperimentatore ha in mente. Il soggetto può rispondere con un «sì» 0 un «no», lo sperimentatore
approvare o meno quanto risponde il soggetto.
Supponiamo allora che lo sperimentatore presenti quadrati bianchi o neri, piccoli o grandi.
Supponiamo ancora che il concerto che lo, sperimentatore vuole che il soggetto si formi sia il
nero. Lo sperimentatore approverà allora tutte le risposte «sì» ai quadrati neri e «no» ai bianchi, e
disapproverà le risposte «no» ai neri e «sì» ai bianchi, indipendentemente dalla grandezza dei
quadrati; quel che interessa sapere sarà il numero di prove necessario perché il soggetto non
compia più errori o, secondo questa prospettiva, abbia acquisito il concetto.
Ora, un esperimento sullo shift non è altro che un esperimento sulla formazione dei concetti nel
quale, una volta acquisito un concetto, si chieda ai soggetti di acquisirne un altro, incompatibile
con il primo. Quel che allora interessera sapere è quanto tempo impiegherà il soggetto a lasciar da
parte il primo concetto, per acquisire il secondo. Così nell'esempio precedente, il soggetto che ha
acquisito il concetto «nero» dovrà passare o al concerto inverso («bianco») o al concerto non inverso
(«grande» o «piccolo»).
Intuitivamente, il passaggio al concetto inverso sembra più facile. E difatti, per ottenere questo
shift sia gli adulti che i bambini al disopra dei 6-7 anni impiegano meno prove che non per lo shift
non inverso. Il curioso è che i bambini più piccoli acquisiscono invece prima lo shift non inverso.
Risultati analoghi si riscontrano negli svantaggiati sociali, con forte deprivazione culturale, specie
linguistica, anche ad età superiori ai 7 anni. Il fatto che bambini più piccoli, o deprivati, abbiano
meno difficoltà con un compito più impegnativo per bambini più grandi (e per adulti) non poteva
non incuriosire gli studiosi. La conclusione che si è potuta trarre è sostanzialmente questa. Nella
prima parte dell'esperimento, i bambini più piccoli solo apparentemente acquisiscono il concetto
di «nero»; in realtà, come ha potuto dimostrare Saltz, essi operano quella che è stata chiamata una
«sovradiscriminazione» del campo, e in luogo di un concetto, ne hanno acquisiti due compatibili:
«piccolo nero» e «grande nero». Nel momento in cui si chiede di operare uno shift non inverso
(per esempio, «piccolo»), essi dovranno compiere questo sforzo solo per quel che riguarda il
«piccolo bianco», avendo gia acquisito il «piccolo nero». Se si chiede invece di operate lo shift
inverso, essi non hanno nessun concetto preacquisito da poter riutilizzare, ma devono ricominciare
da zero, e trovano quindi il compito più difficile.
Ma cosa fa sì che i ragazzi più grandi riescano a formare un concetto unico dei due tipi di
quadrato nero, il grande e il piccolo? La risposta non può che essere una: l'uso del linguaggio, la
capacità di utilizzare la parola «nero» come etichetta per contrassegnare la categoria
corrispondente al concetto. Anche il bambino più piccolo o lo svantaggiato, possiedono la parola
«nero»; il fatto è che non la utilizzano a questo fine. Uno specifico addestramento linguistico in
questo senso riesce a diminuire nettamente le differenze tra grandi e piccoli.
Perché sono importanti queste ricerche? I comportamentisti potevano ben seguitare a
sostenere che la mediazione verbale non è altro che un costrutto ipotetico. Ma di fatto, con
queste e con altre ricerche di senso analogo, entrava con chiarezza nell'immaginario collettivo
dello psicologo americano l'idea che nella testa ci sono parole, e parole organizzate in struttura, e
che i processi di pensiero devono tenere conto di queste strutture. Di qui a convincersi che quel
che c'è nella testa, la mente, potrebbe essere realmente esistente non c'è che un passo .
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