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NATURA E EVOLUZIONE DELLA SCIENZA POLITICA = Lo studio scientifico della politica

politica



NATURA E EVOLUZIONE DELLA SCIENZA POLITICA


Lo studio scientifico della politica

La scienza politica ha radici profonde e intrecciate con altre discipline (filosofia, economia, sociologia). Inoltre l'oggetto della politica e il metodo di studio vengono continuamente ridefiniti. Per questi motivi è difficile tracciare una storia della scienza politica e anche trovare una data in cui il metodo scientifico sia diventato discriminante.

L'oggetto qualificante dell'analisi politica è stato sempre il potere: le modalità di acquisizione, la sua origine, la sua distribuzione, il suo uso ecc. Negli ultimi due secoli ad esso si è affiancato lo Stato, secondo due distinte tradizioni analitiche: quella anglosassone presta attenzione ai processi sociali e quindi alle consuetudini; quella continentale analizza le strutture statuali e quindi il diritto costituzionale è elemento centrale. Consolidatesi le formazioni statuali, l'attenzione fu posta sulla classe politica, donando maggiore concretezza alla scienza politica.
Il problema del metodo (con quali modalità raccogliere le informazione, vagliarle e combinarle in spiegazioni?): per secoli la fonte di ogni dato è stata la storia politica; da Machiavelli in poi è prevalso il metodo dell'osservazione.



Nel XX secolo, con il fascismo e il nazismo che schiacciavano ogni riflessione politica, la scienza politica ha rischiato di scomparire o di venire accorpata alle altre scienze sociali perdendo così l'autonomia che aveva guadagnato dopo secoli. L'autonomia del politico verrà messa in luce da fenomeni come il New Deal, lo stalinismo o il nazismo, tutti bisognosi di un'analisi prettamente politologica. Si pose però il problema di individuare un nuovo oggetto della scienza politica: Easton disse che la politica è un'attività di assegnazione imperativa di valori per una società, liberata dal rapporto con lo Stato; di qui la proposta di un'analisi sistemica della politica, che tenga conto delle interazioni tra le componenti del sistema e che sappia descriverle nella loro dinamica e conseguenze.

Modello EASTON
Interpretazione generale dei processi che ha una rappresentazione grafica e che prefigura l'esistenza di un flusso di domande e aspettative e giudizi (inputs) da parte dei cittadini verso la società politica.
Input di domanda: i cittadini chiedono qualcosa che vogliono.
Input di sostegno positivo o negativo: i cittadini esprimono un giudizio sul sistema politico (votare i partiti di governo è input positivo verso di loro, manifestare contro il governo è input negativo!); i cittadini mandano dei segnali alle autorità.
Il flusso finisce nella Black Box, cioè nel sistema politico, dove operano tre componenti: la comunità politica (composta da chi è esposto a regole, norme, procedure e istituzioni del sistema politico, cioè i cittadini), il regime (l'insieme di norme, regole, procedure e istituzioni del sistema politico, che i cittadini devono rispettare per non incorrere in sanzioni), l'autorità ( sono i detentori del potere politico e abilitati a produrre assegnazioni imperative di valori; cioè la politica produce valori che influenzano la coscienza collettiva). Del sistema politico fanno parte anche una serie di gruppi di pressione (sindacati, industriali ecc).
Dalla BB escono le decisioni che si presentano sotto forma di provvedimenti e normative, dette outputs.



Easton e il comportamentismo politico

La politica è "assegnazione imperativa di valori per una società". Luogo privilegiato della politica è il sistema politico, "un sistema di interazioni, astratte dalla totalità dei comportamenti sociali, attraverso cui i valori vengono assegnati in modo imperativo"; dunque, vi è politica anche senza Stato (ad esempio nei partiti e nei sindacati). Di qui la definizione di scienza politica: studio delle modalità complesse e mutevoli, con le quali i sistemi politici procedono all'assegnazione di valori.
Easton cerca di rendere l'analisi politica il più scientifica possibile. Comportamentismo: necessità di osservare e analizzare i comportamenti concreti degli attori politici, ricorrendo a tecniche specifiche (interviste, sondaggi ecc). Obiettivi del comportamentismo sono: rilevare nei comportamenti politici delle regolarità; sottoporle a verifica; elaborare tecniche di osservazione e interpretazione dei dati; quantificare; distinguere i valori dai fatti (la valutazione etica dalla spiegazione empirica); sistematizzare le conoscenze connettendo teoria e ricerca; mirare alla scienza pura; mirare all'integrazione tra le scienze sociali.
Questo metodo incontra diversi problemi, primo tra tutti l'espansione inaspettata del campo d'indagine della politica, sia per la nascita di nuovi stati, sia perché l'intervento statale tocca più campi.

L'approdo contemporaneo

Alla fine degli anni Cinquanta, vengono individuati tre difetti nella scienza politica: provincialismo (l'analisi si limitava all'area occidentale e all'Unione Sovietica), descrittivismo (ci si limitava spesso a descrivere le caratteristiche dei sistemi politici), formalismo (attenzione alle variabili formali e disattenzione al funzionamento reale dei sistemi politici).
Almond e Powell risposero all'espansione del campo della politica, paragonando tra loro i sistemi politici e analizzando i processi di formazione, funzionamento e mutazione.

Il comportamentismo e oltre

Negli anni Ottanta, la scienza politica era diventata meno euro - americanocentrica e più capace di tenere conto di esperienze politiche non occidentali, più attenta alla sostanza della politica, più rigorosa e precisa, più disponibile e più capace di teorizzare.

Dahl aveva individuato alcuni criteri analitici, precisi ma elastici, individuando così una linea interpretativa comune della scienza politica, "i cinque frammenti in cerca di unità":

In ordine alla complessità crescente degli obiettivi e della loro integrazione, si deve partire dalla quantificazione. Le tecniche quantitative sono utili, purché non rimangano confinate all'analisi e alla soluzione di un numero di problemi limitato, se non vengono continuamente collegate a nuove teorizzazioni.

La ricerca empirica. È necessario il ricorso a tecniche empiriche di ricerca, dall'osservazione alla ricerca sul campo, ai sondaggi.

L'uso della storia. Si deve utilizzare il materiale offerto dalla storia all'analisi politica.

La teoria politica in rapporto ai policy studies.

La speculazione teorica.

Scienza politica e teoria politica

Affinché la speculazione politica possa manifestarsi ed esprimersi sono necessarie certe operazioni:

La scienza politica deve confrontarsi con la filosofia politica, la quale contiene quattro componenti significative: ricerca della miglior forma di governo (che non è avalutativa); la ricerca del fondamento dello stato e giustificazione dell'obbligo politico (non è esplicativa ma giustificativa); la ricerca della natura della politica e distinzione tra politica e morale (si sottrae ad ogni verifica empirica); analisi del linguaggio politico e metodologia della scienza politica. Solo quest'ultima può incontrarsi con la scienza politica, perché le altre sono prive di almeno una delle tre componenti fondamentali per fondare una scienza politica empirica.
Comunque, la scienza politica sta cercando di definire le caratteristiche della miglior forma di governo; però, a differenza della filosofia politica, lo fa ricercando puntigliosamente e applicando il metodo comparato e i fondamenti empirici.

La scienza politica deve instaurare un rapporto con i classici del pensiero politico, che vengono invece spesso liquidati con l'affermazione che sono cambiati i tempi, i luoghi, i metodi e le tecniche, privandosi così di un retroterra importante. Però anche chi sostiene l'importanza dei classici della politica, trova problemi ad inserirli in un ruolo definito: c'è quindi anche una certa insoddisfazione perché la scienza politica non ha ancora trovato il modo di recuperare appieno il pensiero dei classici; inoltre c'è la difficoltà di padroneggiare al tempo stesso i classici, i contemporanei, le nuove tecniche di analisi, l'ampia letteratura nei vari settori.

Bisogna risolvere il problema di cosa significhi fare teoria politica nella scienza politica contemporanea, anche perché non esiste un'idea universalmente accettata su cosa sia la teoria politica. Secondo Weber è l'insieme di empatia e comprensione, secondo Kaplan una teoria è un insieme di leggi.
Molti sono convinti che il massimo che sia possibile è produrre teorie a medio raggio, ma qualcuno cerca una teorizzazione generale, per la quale è indispensabile disporre di un apparato concettuale condiviso e unificante. Inoltre il duello tra neo - istituzionalismo (importanza del ruolo delle istituzioni, formali, come comp 232j91c ortamenti ritualizzati, come costrizioni) e scelta razionale (importanza dei comportamenti, dei calcoli, delle aspettative degli attori politici), impedisce una teoria generale.
Rapporti tra scienza e teoria politica: la scienza e la teorizzazione non procedono per accumulazione di dati e ricerche, ma attraverso sostituzioni tali da modificare la struttura stessa della teoria.

Utilità della scienza politica

La scienza politica ha acquisito un ruolo accademico, che continua a porsi domande sui temi della democrazia, della giustizia sociale, della costruzione della pace.
Orientamento favorevole alla democrazia come miglior forma di governo.
Padronanza della complessità dei sistemi politici contemporanei.
Pluralismo di tesi e posizioni è elemento di ricchezza.
Espansione delle ricerche consente acquisizione di nuovi dati e elaborazione di nuove tesi.
Utilità sociale perché nessun cambiamento può essere apportato senza conoscere il bagaglio che la scienza politica ha elaborato e sta elaborando.
I contemporanei vogliono comprendere i contributi dei classici e degli studiosi viventi.

I METODI DI ANALISI


Considerazioni preliminari

La scienza politica è lo studio della politica con i metodi utilizzati nello studio delle altre scienze sociali. Essa studia i comportamenti delle persone nei sistemi politici e nelle associazioni; per questo è in continuo cambiamento: si manifestano sempre nuovi problemi, sempre nuove informazioni si rendono disponibili sulle modalità con le quali i cittadini scelgono di comportarsi. Sarebbe quindi improduttivo adoprare criteri stringenti e irrealistici per il loro rigore.


Pluralità dei metodi analitici

Esistono molti metodi analitici, ma alcuni che servono a spiegare determinati fenomeni sarebbero inutili per spiegarne altri.

Lijphart nel 1971 individuò tre tipi di metodo: sperimentale, comparato e statistico, quest'ultimo indispensabile se i casi sono molti, quindi non proprio un metodo ma una tecnica. Spesso lo studioso deve fare ricorso a più di un metodo, quindi integrarli.


L'osservazione partecipante

È possibile applicare questo metodo quando, grazie a un insieme di circostanze favorevoli, lo studioso può osservare direttamente e personalmente i fenomeni politici che vuole studiare. L'oggetto dell'osservazione non potrebbe essere ovviamente un intero sistema politico ma necessariamente un sottosistema.

Lo studioso otterrà una grande quantità di materiale e inoltre saprà quali materiali completeranno meglio le informazioni di cui ha bisogno, dove cercarli e trovarli.

Lo studioso rischia però di essere coinvolto politicamente ed emotivamente nei fenomeni ai quali assiste/partecipa, anche perché la sua scelta è stata sicuramente dettata anche da un interesse verso quel fenomeno. Vige allora l'imperativo della avalutatività, cioè lo studioso non deve farsi influenzare dalle sue preferenze politiche ma esclusivamente dalle sue competenze scientifiche; soltanto alla fine della sua ricerca potrà esprimere il suo motivato giudizio sul fenomeno che ha studiato.
L'osservazione partecipante è inevitabilmente applicabile a un solo fenomeno alla volta.


Michels nel 1911 studiò il partito socialdemocratico tedesco, per verificare se la democrazia fosse possibile e realizzabile, con tre premesse: la democrazia contemporanea è fondata sui partiti; se i partiti non sono democratici è improbabile avere democrazia nel sistema politico; è cruciale che il partito socialdemocratico, che combatte per la democrazia nel sistema politico, abbia natura e struttura e funzionamento democratico. Analizzando il funzionamento del partito socialdemocratico, con riferimento alla distribuzione del potere internamente al partito, alla selezione dei dirigenti e alla produzione delle decisioni. Siccome si tratta di un partito di massa, avrà bisogno di un apparato organizzativo permanente e funzionari stipendiati, che si trovano in una posizione centrale nell'organizzazione del partito: col tempo, il loro interesse sarà sempre più indirizzato ad accrescere il loro potere e la loro carica, cosicché invece di farsi guidare dalle preferenze degli iscritti li manipola. Nel partito socialdemocratico si era affermata una oligarchia e Michels su queste basi formulò la legge ferrea dell'oligarchia: chi dice organizzazione dice tendenza all'oligarchia, cioè una minoranza ha il compito di dirigere e una maggioranza viene diretta dalla prima.

Questa generalizzazione è un salto analitico ingiustificabile: dal livello del sottosistema partitico al livello del sistema politico. Avendo scoperto che la democrazia è impossibile nel partito socialdemocratico, Michels deduce che essa è impossibile in ogni partito e, quindi, nel sistema politico; per questo è stato molto criticato.

Il procedimento è stato questo: selezione di un caso specifico sulla base di un'ipotesi; raccolta dei dati attraverso l'osservazione partecipante; formulazione di una legge sociologica che si presta ad essere sottoposta facilmente a verifica empirica. Dall'ipotesi al metodo alla legge.


Hellmann condusse uno studio sulle reazioni del Partito comunista di Torino all'ipotesi del compromesso storico: come può una struttura accentrata e "di lotta" trasformarsi in una struttura di governo, flessibile e disposta a collaborare con la Dc. La risposta è che il compromesso storico ha aperto una grande crisi nel partito comunista di Torino.


Premessa allo studio dei casi singoli

La legge ferrea dell'oligarchia è stata sottoposta a verifica in due studi di casi singoli effettuati con l'osservazione partecipante.

Lipset, Trow e Coleman fecero uno studio sull'International Typographical Union (un sindacato americano), che può essere considerato un caso deviante rispetto alla legge ferrea dell'oligarchia poiché esso ha modalità di funzionamento che risultano democratiche: nel momento del rinnovo delle cariche si fronteggiano due liste di candidati e si produce quindi un'alternanza; le preferenze degli iscritti sono davvero prese in considerazione da coloro che hanno ottenuto le cariche direttive. Siccome non esiste alcun tipo di privilegio per chi va ad occupare una carica, non ci sarà nessun tentativo di mantenersi in carica oltre il limite del mandato. La legge ferrea dell'oligarchia non può dirsi, con un unico caso, confutata ma viene ridefinita: a determinate condizioni (in questo caso anche un livello di istruzione medio alto, buone conoscenze tecniche e un notevole grado di informazione riguardo i problemi del mestiere di tipografo), in alcune organizzazioni è possibile che si affermi la democrazia come meccanismo di funzionamento.

Mayntz (una donna) studiò un altro partito tedesco (Cdu) nella città di Berlino, dove era relativamente debole mentre a livello nazionale era saldamente al potere. Quindi non c'era molto potere da distribuire né da conquistare, cosicché le lotte interne erano inesistenti e le manipolazioni degli iscritti irrilevanti. Gli iscritti contavano però poco, solo perché si attivavano poco, mentre i dirigenti si proteggevano dai controlli degli iscritti con accordi e una scarsa competizione. Non era oligarchia ma nemmeno democrazia. Michels non venne smentito ma nemmeno la sua tesi fu corroborata.


Il metodo comparato

Si fanno delle comparazioni intese a capire e spiegare le differenze e le similarità che intercorrono tra i fenomeni politici. È un metodo di controllo. Si possono fare ricerche in maniera sincronica: si "fotografano" in un tempo dato alcune situazioni per cercarne le spiegazioni in variabili derivanti dalle modalità con le quali quelle situazioni si erano storicamente costruite.

Almond classificò i sistemi politici in quattro grandi insiemi con riferimento a due insiemi di variabili: la cultura politica e le strutture di ruolo. Questa classificazione però non è esaustiva né esclusiva perché non contiene tutti i casi possibili e non respinge i casi ibridi.

Almond e Verba fecero studi comparati sulla cultura politica di cittadini di cinque paesi, fondandosi sulle conoscenze e sugli orientamenti dei cittadini nei confronti del sistema politico. Ne risultano tre possibili configurazioni di cultura politica: i provinciali (sanno molto poco), i sudditi (riconoscono il peso del sistema politico sulla loro vita), i partecipanti (sanno abbastanza di ciò che succede nel sistema politico e del ruolo che vi possono svolgere). I tre insiemi di orientamento sono le variabili indipendenti, che delineano tre configurazioni di cultura politica (variabili intervenienti); le variabili dipendenti sono i diversi tipi di democrazie, cioè quello che viene concretamente spiegato. Siccome i dati emergono da circa 5000 interviste poiché il numero di variabili in termini di atteggiamenti e orientamenti è molto elevato, l'utilizzazione di tecniche statistiche è indispensabile: quindi il metodo di indagine è comparato, la tecnica statistica.

Tsebelis classificò i diversi sistemi con riferimento ai giocatori dotati di potere di veto (veto players), divisi in due categorie principali: gli attori istituzionali e gli attori partitici. Contandone il numero e valutandone la collocazione nel processo decisionale, si perviene ad una classificazione dei sistemi di governo. Le variabili indipendenti sono il numero degli attori dotati di potere di veto, la variabile dipendente sono gli esiti decisionali; si hanno quindi poche variabili.

Il metodo comparato può anche essere usato in maniera diacronica, rendendo conto delle differenze tra fenomeni e sistemi politici nell'arco di un periodo di tempo.


Gli studi dei casi

Sono frequenti i casi in cui analizzando un fenomeno politico ciascuno di noi non si pone esplicitamente il problema della comparazione ma si limita ad effettuare comparazioni implicite che gli servono per una migliore comprensione del caso iniziale. Queste comparazioni implicite vanno collocate nella specifica categoria dello studio di caso, dei quali esiste una notevole varietà.

Secondo alcuni studiosi, quando si giunge di fronte a casi complicati, per i quali mancano dati e generalizzazioni di base, il modo migliore di procedere è impegnarsi nella raccolta meticolosa di tutto quanto serva ad una descrizione più particolareggiata possibile (descrizione densa); questo però non sembra promettere molto in termini di avanzamento teorico.

A determinate condizioni questi studi sono molto utili alla comprensione dei fenomeni politici e costituiscono una modalità spesso imprescindibile di controllo delle ipotesi, di formulazione delle generalizzazioni, di verifica e di affinamento delle teorie.


Il metodo sperimentale

In scienza politica questo è un metodo di scarsa applicabilità, ma non del tutto impossibile.

Verba si pose l'interrogativo circa gli effetti, in termini di prestazioni e di soddisfazione, del tipo di leadership sulle attività di un piccolo gruppo. Le persone componenti esibiscono livelli di soddisfazione variabile in base alle loro aspettative e personalità ("partecipante" non gradisce leadership autoritaria, "decisionisti" la preferiscono). La conclusione è che non esiste un leader migliore in assoluto, ma dipende dal contesto, dalla totalità della situazione.

Sarebbe interessante sapere se gli atteggiamenti dei componenti dei gruppi variassero se essi fossero sottoposti prima ad una leadership autoritaria e poi ad una leadership democratica e viceversa. Fishkin sostiene che gli elettori possono essere manipolati come in laboratorio: per farlo serve un "sondaggio deliberativo" vale a dire la discussione da parte di un campione di cittadini su alcuni temi salienti effettuata sotto la guida di un moderatore professionista.


Conclusioni

Lo studioso della politica può far ricorso a tre metodi: l'osservazione partecipante, la sperimentazione e la comparazione; il metodo statistico è piuttosto una tecnica che serve agli altri metodi. Chi vuole analizzare sistemi politici interi deve per forza fare ricorso al metodo comparativo, che può essere condotto in maniera sincronica o diacronica, fra i casi più simili (Quarta Repubblica francese e Repubblica italiana) e fra i casi più distanti (Unione Sovietica e Ghana); la comparazione si sostanzia di un metodo per sottoporre a controllo e a verifica le ipotesi, le generalizzazioni e le teorie e per correggere, affinare e riformulare ipotesi e teorie.


PARTECIPAZIONE POLITICA


Definizione

La partecipazione politica è quell'insieme di azioni e comportamenti (e opinioni) che mirano a influenzare in maniera più o meno diretta, più o meno legale, le decisioni nonché la stessa selezione dei detentori del potere nel sistema politico e in singole organizzazioni politiche.
Partecipazione visibile è quella che si estrinseca in comportamenti. Partecipazione latente è la presenza di un'opinione pubblica interessata alla politica e informata sui suoi sviluppi, che però si attiva raramente e in maniera discontinua; questo pubblico, però, possiede le capacità per partecipare.

Le modalità con cui vengono selezionati i decisori e influenzate le decisioni, sono di tre tipi fondamentali: riconosciute dalle norme e quindi legali a tutti gli effetti; non riconosciute ma accettate e accettabili, non illegali; non riconosciute e che sfidano la basi stesse del sistema e della sua organizzazione, illegali.

È importante partire dall'individuo per spiegare, attraverso i suoi comportamenti, i processi di formazione dei gruppi e delle attività collettive.

Un processo complesso

La partecipazione politica è un fenomeno antico, fin da quando si può parlare di politica come attività svolta in comunità organizzate; fin dalle poleis greche e dalla repubblica romana.
Le forme di democrazia diretta, sono caratterizzate da più ampie ed incisive opportunità di partecipazione politica; infatti, molte forme di organizzazione del potere politico nel mondo occidentale e orientale (assolutismi, dispotismi .) non lasciarono spazio alla partecipazione politica per molto tempo, finché con la prime spinte alla democratizzazione interna si torna a parlare legittimamente di partecipazione politica.

All'origine dell'idea di voler ampliare il numero dei partecipanti alle decisioni politiche, c'è il conflitto interno ai detentori del potere. Si parla di incentivazione dall'alto di forme di coinvolgimento nella sfera politica, che può avvenire in maniera regolata (espansione della partecipazione politica sotto forma di partecipazione elettorale, cioè concessione del diritto di voto) o sregolata (irruzione improvvisa di masse di individui nella sfera politica, cioè rivoluzioni). Comunque, la partecipazione elettorale è solo un modo di partecipazione politica, che ha conseguenze immediate e significative.

Il processo di democratizzazione si collega quindi col fenomeno della partecipazione politica. Secondo Rokkan ci sono quattro soglie da superare per ampliare la partecipazione politica e accrescere la sua incisività e le sue opportunità.

a)   Legittimazione. Si deve avere un riconoscimento del diritto di petizione, di critica e di dimostrazione contro il regime.

b)  Incorporazione. I potenziali sostenitori dei nascenti movimenti di opposizione devono ottenere gli stessi diritti formali di partecipazione alla scelta dei rappresentanti rispetto all'establishment.

c)   Rappresentanza. Bisogna abbattere le barriere che impedivano la rappresentanza dei nuovi movimenti.

d)  Potere esecutivo. La forza parlamentare deve essere trasformata in reale influenza sul processo decisionale dell'esecutivo.

Il processo di democratizzazione è accompagnato dall'ampliarsi delle opportunità, delle sedi, dei livelli di partecipazione, del numero dei partecipanti e della loro influenza. Si parla di mobilitazione sociale con riferimento a: spostamenti dalla campagna alla città, dal settore agricolo all'industriale e al terziario, aumento della popolazione, crescita dell'alfabetizzazione, maggiore esposizione ai mezzi di comunicazione di massa. Si produce quindi un processo di coinvolgimento nella sfera politica, definito partecipazione politica quando è spontaneo, mobilitazione quando è indotto dai detentori del potere che cercano di tenere sotto controllo il sostegno dei sudditi / cittadini. Esistono dei movimenti di smobilitazione: alcuni gruppi sociali tenteranno di opporsi alla mobilitazione di altri e ristabilire lo status quo, smobilitando i settori appena mobilitati; però, la smobilitazione non riesce ad avere completamente il sopravvento perché la tensione della partecipazione politica non può essere spenta del tutto.

Un processo a più stadi

Finché gli individui ritengono l'attività dei detentori del potere irrilevante per i loro destini personali, finché nessun imprenditore politico si preoccupa di organizzare il consenso rispetto alle decisioni prese e da prendere, individui e gruppi non politicizzeranno le proprie domande e il tasso di partecipazione sarà basso. Quando crescerà la consapevolezza, il tasso di partecipazione salirà e le domande diventeranno politicizzate.
Tra i fattori che influenzano l'inclinazione a partecipare, ci sono anche le precedenti esperienze di partecipazione: se hanno ottenuto soddisfazione alle proprie richieste, l'inclinazione a partecipare maggiormente sarà accresciuta e viceversa.
Le conseguenze della partecipazione vanno dalle più concrete (risposte a domande specifiche) alle più complesse (ricettività del sistema ecc.).
Ci sono diverse modalità di partecipazione, che differiscono per frequenza e intensità con la quale vi si fa ricorso, per il diverso pacchetto entro cui sono inserite (sistema politico). La partecipazione si estrinseca sotto due forme distinte: attività orientate alla decisione e all'espressione.

Partecipazione elettorale

È solo una delle modalità di partecipazione politica. Comunque, nessuna analisi della partecipazione politica può prescindere dall'analisi del comportamento elettorale; infatti, dove la partecipazione elettorale non è tutelata, tutte le altre forme di partecipazione politica istituzionalizzata risultano difficili e precarie.

La partecipazione è di solito elevata e dipende dall'importanza che gli elettori attribuiscono all'esito delle elezioni e alla percezione che hanno della propria influenza su tale esito. Per esempio in Svizzera o negli USA, gli elettori sanno che il loro voto non cambierà la composizione dell'esecutivo o che c'è già un vantaggio per un candidato, il tasso di astensione sarà elevato.

Il voto viene agevolato o ostacolato dalle regole che vi sovrintendono. Il voto è un atto che traduce con immediatezza le preferenze dei singoli elettori, i quali però non possono fornire informazioni precise per quel che riguarda le politiche pubbliche preferite; infatti la scelta è solo raramente basata sulla conoscenza approfondita e sulla completa approvazione di un programma. Infine il voto è collegato spesso ad altre modalità di partecipazione politica (negli USA gli elettori votano poco ma ricorrono ampiamente ad altre modalità di partecipazione politica, come i referendum).
L'inclinazione degli individui a esercitare il diritto di voto dipende da orientamenti psicologici (interesse generalizzato per la politica) e da componenti ambientali (se possiede informazioni politiche, se ritiene di poter influenzare la scelta col proprio voto, cioè se si sente dotato di un senso di efficacia. Dal voto, poi, si può passare ad altre attività di partecipazione (iscrizione a partiti o sindacati o gruppi di interesse, coinvolgimento attivo in scioperi, campagne elettorali, manifestazioni ecc). Bisogna però spiegare come le persone giungano a possedere informazioni, a interessarsi alla politica; ci sono tre tipi di risposta che fanno riferimento a status socio - economico, coscienza di classe, senso civico e dell'impegno.

I partecipanti

Status socio - economico: sono le persone collocate ai livelli più alti della scala a votare e a partecipare. Secondo Milbrath la loro maggiore partecipazione politica sarebbe dovuta al desiderio di conservare i loro privilegi e lo stato di cose che gli permette di possedere le maggiori risorse.

Coscienza di classe: secondo Pizzorno, la partecipazione politica è tanto maggiore quanto maggiore è la coscienza di classe.
Innanzitutto individua gli ambiti in cui si esplica la partecipazione politica, cioè i partiti e i sindacati, nei quali le disuguaglianze di status possono essere colmate e le persone di condizione inferiore possono aspirare a ridurre il dislivello di accesso al potere politico. Appare però probabile che saranno i cittadini con lo status socio economico maggiore a occupare le più alte posizioni, perché essi sono dotati di migliori risorse; si riproduce così nelle organizzazioni, lo squilibrio che trova le sue radici in preesistenti differenze di status.
E' stato però osservato che la presenza di partiti di sinistra favorisce maggiormente la partecipazione politica dei settori popolari e le disuguaglianze sono più contenute che nei sistemi politici dove i partiti di sinistra sono assenti o deboli.
Chi partecipa? I partecipanti abitualmente attivi, qualora non intervengano variabili estranee, appartengono ai settori centrali, cioè privilegiati, della società. In linea di massima sono gli uomini che godono di condizioni generali più favorevoli; inoltre, l'insieme dei fattori importanti nel determinare la partecipazione politica viene a coagulo quando gli individui raggiungono il pieno inserimento sociale e lavorativo (cioè tra i 25/30 e i 55/60 anni quando si sono risolti i problemi di trovare un compagno e un lavoro, gli individui entrano in una vita di relazioni orientabile alla partecipazione politica).

Senso civico e impegno: i modelli precedenti, però, non spiegano perché siano i cittadini con elevato status socio economico a partecipare di più e nemmeno spiega le differenze all'interno del vasto gruppo di queste persone privilegiate. Per effettuare la transizione dalla maggior disponibilità di risorse alla partecipazione servono due elementi: una propensione all'impegno che deriva dal senso civico, dal senso di dovere proprio del cittadino, l'esistenza di strutture di reclutamento dove l'impegno individuale trova uno sbocco. Dunque a parità di condizioni socio economiche, le differenze di partecipazione si spiegano rispondendo a tre domande: dove hanno acquisito le loro capacità civiche, dove hanno ricevuto la spinta all'impegno, chi li ha reclutati? Le capacità civiche possono essere acquisite in vari luoghi (confessioni religiose, partiti, sindacati).

Negli ultimi anni di regimi democratici, è sicuramente cresciuta la partecipazione di giovani e donne.

Ci sono altre modalità di partecipazione politica, di cui sono stati fatti vari elenchi: da Milbrath in ordine di complessità, da Verba Nie e Kim uno molto contenuto (solo quattro tipi di attività), anche da Barbagli e Maccelli.
Negli USA la partecipazione politica è un'attività di individui nelle loro comunità, mentre in Europa è mediata dai e all'interno dei partiti.

Partecipazione non convenzionale comprende azioni illegali o eterodosse (aderire a uno sciopero, a un boicottaggio, occupare edifici ecc.).

Classificazione di Kaase e Marsh dei cittadini in cinque tipi: inattivi (leggono giornali e firmano petizioni se richiesto), conformisti (si impegnano in forme convenzionali di partecipazione politica), riformisti (usano forme convenzionali ma anche di protesta e di dimostrazione), attivisti (arrivano alle forme illegali di partecipazione), contestatori (solo forme illegali, no forme convenzionali di attività politica).

La razionalità della partecipazione politica

La scelta di partecipare effettuata da numerosi sembra non essere razionale, in quanto la probabilità di influenzare col proprio voto il risultato complessivo è nulla. Risulta invece spiegabile perché molti cittadini rinuncino a esercitare il proprio voto.
La motivazione strumentale (perseguimento di un preciso obiettivo) è spesso subordinata alla motivazione espressiva (riaffermazione gratificante dell'appartenenza di un elettore a un determinato gruppo). Quindi, in caso di voto espressivo, si fondono le motivazioni del prendere parte con quelle dell'essere parte; diventa quindi razionale per gli elettori, affermare col voto la loro appartenenza e la loro adesione a un gruppo; si partecipa per sentirsi parte di un insieme di persone con cui si condividono idee e per testimoniarlo con gli atti.
Viene meno quindi l'obiezione secondo cui la partecipazione politica è illusoria e non può cambiare la situazione. Chi critica la razionalità della partecipazione in termini strumentali, si priva della chiave di lettura espressiva, che è invece fondamentale.

In alcuni casi il bene collettivo che viene perseguito è indivisibile e dunque il beneficio non potrà essere dato esclusivamente a chi si è battuto per ottenerlo, ma ne godranno tutti a prescindere da chi ha effettivamente partecipato. Sarebbe stato più razionale, allora, non aver partecipato, anche se chi ha partecipato può essere maturato e migliorato; è vero anche che esiste una soglia minima al di sotto della quale la carenza di partecipazione impedirebbe il conseguimento dell'obiettivo. I non partecipanti sono i free riders, ma solo quelli consapevoli possono rallegrarsi dei risultati e valutare i vantaggi del beneficio gratis rispetto ai costi in cui avrebbero dovuto incorrere; tuttavia i free riders consapevoli si renderanno conto che la loro mancata partecipazione al di sotto di una certa soglia potrebbe rendere impossibile il perseguimento dell'obiettivo desiderato anche da loro e quindi potranno scegliere di partecipare.

Olson - l'individuo razionale nel gruppo numeroso non sarà disposto a compiere nessun sacrificio per ottenere un bene da condividere; solo quando i gruppi sono piccoli si organizzeranno e agiranno per conseguire i propri obiettivi. Ci sono tre motivi centrali in questa riflessione: le motivazioni dei singoli (a fasi di impegno nella sfera pubblica, seguono fasi di ripiegamento sul privato; questo perché la ricerca della felicità porta una delusione), il rapporto tra agire individuale e agire di gruppo e quindi il ruolo dei gruppi nella partecipazione politica, l'importanza dei benefici e degli incentivi. Infatti, per quanto possa esistere una spinta comune alla partecipazione politica, non può aversi se le organizzazioni non sono capaci di ricorrere a incentivi selettivi, diretti a mobilitare in modo differenziato i differenziati partecipanti.
Incentivi materiali (ricompense tangibili, anche denaro), di solidarietà (attengono al senso di identità tra membri e al prestigio di esser parte dell'organizzazione), orientati allo scopo (riguardano elementi di carattere ideale o ideologico, il conseguimento di obiettivi elevati e generali, come la creazione di una società giusta).

La partecipazione nei partiti e nelle organizzazioni

Da una ricerca condotta sul partito comunista emergono tre tipi di partecipante molto attivo (militante) distinti da: visione ideale e totalizzante del partito definita in base a tratti pertinenti la tradizione (partito ideale); concezione forte definita da obiettivi generali di trasformazione sociale (partito progetto); concezione debole e settoriale, definita da obiettivi contingenti e particolari (partito strumento).

Le opportunità di partecipazione chiamano in causa il problema della democrazia nelle organizzazioni. Secondo Michels è impossibile che ci sia democrazia nelle organizzazioni complesse e se la democrazia non può instaurarsi e mantenersi all'interno di quei partiti che vogliono costruire regimi politici democratici, diventa impossibile instaurarla nel sistema politico stesso. Linz individua alcuni fenomeni che possono verificarsi nei partiti e dare corpo alle tendenze oligarchiche individuate da Michels tra cui formazione di una leadership, centralizzazione dell'autorità, rigidità ideologica, prevalenza degli interessi del leader su quelli dei membri ecc (pagina 95). Esistono quindi dei comportamenti interni alle organizzazioni che vanificano la partecipazione politica e rendono le organizzazioni preda delle oligarchie.

Secondo Hirschman esistono tre modalità attraverso cui gli iscritti possono influenzare le scelte dell'organizzazione: protesta esplicita attraverso canali esistenti per cercare di cambiare i comportamenti e modificare le scelte, defezione (abbandonare organizzazione se hanno perso la speranza di modificare le cose), lealtà (riaffermazione del sostegno in momenti difficili, con lo scopo di impedire che il deterioramento divenga cumulativo.

La differente quantità di partecipazione fa differenza sulla scelta dei decisori?
Quando la partecipazione politica è bassa, i decisori riceveranno informazioni sulle preferenze di quei gruppi e si comporteranno in modo da favorirli. Quando è mediamente elevata, ci sono più informazioni per i decisori e più diversificate. Quando è elevata, i decisori saranno molto attenti alle selezioni politiche e si comporteranno più responsabilmente in modo da rappresentare e tradurre al meglio le preferenze sociali.
Quindi la partecipazione politica ha conseguenze.

La politica moderna è fatta di e da organizzazioni, è competizione, incontro - scontro tra gruppi. I fenomeni di aggregazione politica sono il mezzo attraverso cui gli individui cercano di influenzare le decisioni e i decisori.


GRUPPI E MOVIMENTI


L'analisi dei gruppi: pluralismo e rigidità sociali

Bentley indirizza l'attenzione sui processi politici piuttosto che sulle istituzioni politiche, sul lato informale della politica; grazie a lui l'analisi empirica dei gruppi è stata posta alla base dell'esistenza e della riproduzione dei regimi democratici.

Assunta la prospettiva dell'articolazione degli interessi (modalità attraverso le quali i membri di una comunità comunicano ai detentori del potere le loro domande), Almond e Powell hanno individuato quattro forme generali di gruppo:
a) Gruppi di interesse anomico. Emergono fuori dalle regole, senza regole, quando i loro interessi sono nuovi e non dispongono di canali attraverso i quali manifestarsi e quando i detentori del potere hanno ripetutamente eluso le loro esigenze. Allora si sentono spinti a dover drammatizzare la loro situazione col ricorso a dimostrazioni, tumulti, sommosse.
b) Gruppi di interesse non associativi. Sono basati sull'etnia, religione, parentela, tutti fattori che possono dar luogo a una similarità di interessi: nel corso del processo di modernizzazione sembravano destinati a scomparire, invece sono in grado di risorgere.
c) Gruppi di interesse istituzionali. In tutte le società si costituiscono organizzazioni dotate di una certa stabilità, i cui membri si trovano uniti dagli stessi interessi. Queste organizzazioni hanno interesse a tutelare le prerogative e difendere gli interessi dei membri, che vi possono entrare solo se fanno parte dell'istituzione (nobili di una corte, burocrati, militari ecc).
d) Gruppi di interesse associativi. Sono strutture specializzate che hanno il compito primario di valorizzare le esigenze dei propri iscritti, i quali liberamente decidono di farne parte (sindacati).

La classica modalità d'azione, che consente di passare da un mero gruppo di persone accomunate dagli stessi interessi a un gruppo che cerca di influenzare le scelte politiche, dei gruppi è la pressione, che può essere esercitata secondo numerose varianti e con gradi diversi di successo. Questi gradi derivano dalla maggiore o minore congruenza con le norme generali di una data società; in linea generale si producono sei tipi di rapporti tra i gruppi e la cultura politica di un sistema: armonia tra le domande dei gruppi e le norme culturali generali; crescita graduale dell'accettabilità dei valori politici a sostegno delle domande dei gruppi di pressione; negoziazione con sostegno fluttuante da parte delle norme culturali; promozione di fronte all'indifferenza culturale; promozione di fronte a tendenze culturali di lungo periodo in mutamento; conflitto tra i valori culturali e gli obiettivi dei gruppi.
Naturalmente i gruppi dovranno mettere i loro interessi particolari in sintonia con quelli più generali che discendono dalle norme culturali di una data società. Inoltre ciascun gruppo cercherà di capire a quale livello vengono prese le decisioni che lo riguardano.

Le probabilità di successo di un gruppo sono fortemente influenzate dalle risorse a sua disposizione:
a) Dimensione della membership. È importante sia direttamente (influenzando con il voto degli iscritti gli esiti elettorali) che indirettamente (minacciando la non accettazione di determinate decisioni sgradite). È il tipico mezzo cui possono ricorrere sindacati e associazioni contadine.
b) Rappresentatività. Un sindacato può essere piccolo ma pienamente rappresentativo se tutti i lavoratori di quel settore sono suoi iscritti e viceversa può essere grande ma diviso. Le carenze di rappresentatività sono sfruttate dagli imprenditori e dallo Stato per delegittimare le attività di negoziazione e gli scioperi di sindacati forti, ma divisi.
c) Risorse finanziarie. Possono derivare dalla forza numerica di un gruppo, ma possono anche essere funzione della natura di uno specifico gruppo (medici, avvocati, imprenditori ecc). Servono a finanziare le campagne elettorali di candidati e partiti graditi, pagine pubblicitarie sui giornali, spot televisivi, addirittura corruzione dei decision - makers.
d) Conoscenze tecniche. Le decisioni devono essere giustificate con argomentazioni tecniche: come i decisori hanno bisogno di informazioni adeguate e convincenti, così i gruppi devono disporre di conoscenze in grado di far pendere dalla loro parte la bilancia della decisione; inoltre anche i rappresentanti dei cittadini hanno bisogno di informazioni ed expertise. Spesso l'informazione prodotta dai gruppi è intesa a influenzare le opinioni piuttosto che a dare un quadro completo della situazione, lasciando parte delle informazioni nascoste; per questo ci sarà trasparenza se tutti gli interessi in gioco possono mobilitarsi ed essere ascoltati.
e) Collocazione strategica nel processo produttivo. Il successo di un gruppo può esser facilitato dalla provenienza dei suoi iscritti dagli stessi strati sociali del gruppo di coloro che dovranno prendere le decisioni.

La partecipazione politica attraverso i movimenti collettivi

I fenomeni collettivi di gruppo sono quelli nei quali i partecipanti (a differenza dei fenomeni collettivi come di aggregato come le mode, dopo i quali si riprende la vita normale) sperimentano variazioni in se stessi e nel proprio modo di rapportarsi con gli altri. Ci sono quattro teorie generali:

Smelser.
Il comportamento collettivo come non istituzionalizzato; esso si verifica quando l'azione sociale strutturata è sotto tensione e quando i mezzi istituzionalizzati per dominare la tensione sono inadeguati.
I comportamenti e i movimenti collettivi sono il prodotto esclusivamente di tensioni e disfunzioni sociali, quasi che la società dovesse essere interpretata come qualcosa di stabile e ordinato, in uno stato di equilibrio, che i movimenti turbano. Le sfide di cui i movimenti collettivi sono portatori vengono considerate elementi negativi; mentre i partecipanti dovrebbero essere sottoposti ad un più penetrante controllo sociale.

Alberoni.
Contrappone lo stato nascente a uno stato istituzionale e della vita quotidiana. Lo stato nascente rappresenta un momento di discontinuità e col suo inizio si interrompono le caratteristiche delle relazioni sociali e istituzionali e le forme della vita quotidiana; a un certo punto lo stato nascente cessa ed il sistema sociale ritorna nell'ambito della vita quotidiana, dopo aver subito una trasformazione.
Vengono individuati i soggetti coinvolti: sono i membri delle classi minacciate di declassamento e quelli delle classi in ascesa, che hanno in comune la delusione verso un ordine in cui avevano creduto ma, nell'impossibilità di realizzarsi, hanno esplorato strade alternative. La tesi a lungo prevalente vedeva negli emarginati coloro che non avevano nulla da perdere e negli alienati dal sistema i più disposti a ribellarsi al sistema; invece nuove ricerche sottolineano che gli emarginati mancano delle risorse necessarie a lanciare un movimento collettivo. La leadership dei movimenti è costituita da individui alquanto centrali: quelli che si ribellano per primi sono quelli che sperimentano per primi una contraddizione intollerabile tra una identità collettiva esistente e i nuovi rapporti sociali imposti dal mutamento e si mobilitano più facilmente perché hanno già esperienza di partecipazione, hanno già dei leader, usano reti di comunicazione già esistenti, possono riconoscere più facilmente interessi comuni.



Touraine.
I movimenti sociali appartengono ai processi attraverso cui una società produce la sua organizzazione a partire dal suo sistema d'azione storica, passando attraverso i conflitti di classe e le transazioni politiche. Attraverso il principio d'identità l'attore si caratterizza rispetto ad altri attori; secondo il principio d'opposizione, il conflitto fa sorgere l'avversario; il principio di totalità è il sistema d'azione storica di cui gli avversari, situati nella doppia dialettica delle classi, si disputano il dominio.
Un movimento sociale non è l'espressione di una contraddizione, esso fa scoppiare un conflitto. Il movimento sociale nasce nella società e, attraverso il conflitto, ne produce la trasformazione.

Tilly.
Esiste, in tutte le società, uno squilibrio nella distribuzione del potere. Quando gli attori entrano in contatto tra loro, sviluppano interessi che rivelano chi perde e chi guadagna dalle varie interazioni. Entra in campo l'organizzazione, cioè la consapevolezza di appartenere a un'identità comune; può accrescere l'identità o diminuirla (qui si ha disorganizzazione). L'organizzazione può consentire la mobilitazione delle risorse. Dalla mobilitazione si passa all'azione collettiva, cioè al perseguimento di fini comuni, a cui i detentori del potere possono rispondere con la repressione.

C'è una classificazione dei movimenti in base ai loro obiettivi, operata da Melucci: movimenti rivendicativi hanno l'obiettivo di imporre cambiamenti nell'assegnazione delle risorse socio economiche; movimenti politici hanno l'obiettivo di incidere sulle modalità d'accesso ai canali di partecipazione politica; movimenti di classe hanno l'obiettivo di capovolgere l'assetto sociale e sconvolgere i rapporti di classe.

Il risultato storico di un movimento e le sue conseguenze dipendono da molti fattori e possono non avere alcun rapporto col disegno iniziale. Ci sono molti meccanismi che possono essere messi in atto per controllare i movimenti, tra cui la repressione violenta, la neutralizzazione incanalando il movimento in istituzioni sostitutive, la sostituzione della leadership, infiltrazioni nel movimento, impedimento della mobilitazione, generalizzazione e riconoscimento del movimento, ecc.
Comunque i movimenti, che vincano o perdano, introducono sempre un cambiamento significativo nel sistema sociale. Sono le caratteristiche del sistema politico che incoraggiano o meno le forme di azione collettive. Siccome i movimenti attaccano inevitabilmente le istituzioni esistenti, sono state classificati i tipi di rapporti tra movimenti e istituzioni: pacifico (movimenti riformisti e comunitari) e conflittuale (movimenti espressivi e integralisti); il livello di opposizione alle istituzioni può essere parziale (movimenti espressivi e riformisti) o totale (comunitari e integralisti). Dunque, tutti concordano che i movimenti costituiscono uno strumento di partecipazione politica influente e che rappresenta uno dei modi moderni di condizionare i detentori del potere e orientare le loro politiche.

Conseguenze della partecipazione politica

a)   Dal punto di vista delle preferenze politiche che vengono comunicate.
Sussistono differenze significative, in termini socio economici, tra i cittadini più attivi e quelli meno attivi. I cittadini più attivi influiranno di più sia sulla comunicazione delle loro preferenze sia sulla selezione del leader in maniera tale da creare una distorsione: le politiche che saranno attuate rifletteranno le preferenze solo di un segmento della popolazione, a scapito della maggioranza dei cittadini non attivi.
Un modo di ridurre questa differenza è l'esistenza di organizzazioni (partiti e sindacati) che siano dedite alla mobilitazione delle classi popolari. Ciò nonostante, anche all'interno di queste organizzazioni può esserci uno squilibrio tra i partecipanti dotati di maggiori o minori risorse.

b)  Dal punto di vista della ricettività del leader e dell'eguaglianza politica dei cittadini.
I leader sono davvero più rcettivi nelle comunità ad alto tasso di partecipazione, mentre in quelle a partecipazione limitata finiscono inevitabilmente per essere ricettivi solo verso le preferenze dei pochi che partecipano a scapito dei molti non attivi. È vero che la ricettività dei leader aumenta con l'aumentare della partecipazione, ma a quel punto diminuisce l'uguaglianza: se i partecipanti sono davvero rappresentativi della popolazione il livello di partecipazione non accrescerà le disuguaglianza, ma questo caso è molto raro.
La proliferazione dei gruppi di interesse e l'esplosione dei movimenti collettivi hanno creato utleriori spazi di partecipazione politica; anche la crescita del livello meido di istruzione e reddito hanno dato una forte spinta partecipativa: i contemporanei hanno dunque la possibilità di partecipare oggi più di quanto abbiano mai fatto nel passato i loro predecessori. Solo a determinate condizioni organizzative, la partecipazione politica conduce a maggiore uguaglianza; forse neppure chi partecipa otterrà appieno i suoi obiettivi, ma è sicuro che chi non partecipa non sarà tutelato dai cittadini attivi.


ELEZIONI E SISTEMI ELETTORALI


Elezioni libere e competitive

Il voto è l'atto più frequente e spesso l'unico, di partecipazione politica della maggioranza dei cittadini della maggioranza dei regimi politici. Elezioni libere, competitive, tenute a scadenze prestabilite, con possibilità di partecipazione estesa a tutta la cittadinanza e con criteri di esclusione limitati soltanto all'età, caratterizzano tutti i sistemi democratici. Possono però svolgersi anche elezioni non libere, non competitive, con limitate opportunità di partecipazione, organizzate con obiettivi di controllo repressivo sull'opposizione; appartengono ad un altro campo analitico, quello degli strumenti utilizzati dai regimi non democratici per affermare e preservare il loro potere.

Tutto quello che attiene a elezioni libere, competitive, tenute a scadenze prestabilite, significative (definiscono davvero la quantità di rappresentanza e di governo conquistata da candidati e partiti) si configura come uno degli elementi fondamentali della democraticità di un sistema politico. Il voto democratico deve essere libero, universale (esteso a tutti), uguale (ogni voto conta quanto un altro), diretto (mirato senza intermediazioni all'elezioni di candidati), segreto e significativo (avente effetti sulla distribuzione del potere politico). Comunque, anche il voto libero può essere molto difficile da esprimere (USA).

Perché le campagne elettorali siano eque, bisogna prendere in considerazione due aspetti fondamentali che le caratterizzano: la quantità di denaro che ciascun candidato e ciascun partito possono raccogliere e profondere nella ricerca di voti; la possibilità e le modalità di accesso alla propaganda televisiva. Infatti, i vantaggi acquisiti dai candidati che dispongono di maggiori risorse economiche e di maggiore accesso alla televisione possono rendere le elezioni una competizione tra diseguali; per questo la maggior parte dei regimi democratici prevede limiti alle spese elettorali e la regolamentazione dei tempi d'accesso alle televisioni. Le elezioni saranno tanto più libere e democratiche quanto più sarà mantenuto l'equilibrio tra i concorrenti. L'astensionismo è un altro problema per i regimi democratici. L'esclusione spontanea o imposta di quote consistenti dei cittadini dai circuiti elettorali, produce l'elezione di rappresentanti e di governanti poco rappresentativi e poco ricettivi.
Quindi i tre problemi più preoccupanti della competizione elettorale nelle democrazie odierne sono i finanziamenti, la televisione, l'astensionismo.

L'elezione delle cariche monocratiche

Elezione - procedure istituzionalizzate per la scelta di rappresentanti selezionati tra alcuni o tutti i membri ufficialmente riconosciuti di un'organizzazione. L'organizzazione è il sistema politico e le elezioni riguardano le cariche esecutive o rappresentative.

L'elezione di cariche monocratiche può essere indiretta (ad opera di un'assemblea precostituita) o attraverso elezione popolare diretta. In generale si richiede che per conquistare la carica un candidato ottenga la maggioranza assoluta dei voti popolari espressi; se questo non avviene, di solito si procede al ballottaggio tra i due candidati meglio piazzati.
Possono esistere varie formule: è sufficiente la maggioranza relativa purché superiore al 40% dei voti (Argentina); se nessun candidato ottiene la maggioranza assoluta, spetta al Congresso eleggere il presidente (Bolivia, USA).
Nelle repubbliche semi - presidenziali, si dà elezione diretta del presidente; il sistema elettorale adottato è il doppio turno con ballottaggio (Francia, Croazia, Bulgaria, Portogallo, Romania ecc).
Può aversi elezione diretta del presidente della Repubblica anche nell'ambito di una forma parlamentare di governo (Austria, Irlanda, Islanda); anche qui c'è il doppio turno con ballottaggio.

Plurality, majority e rappresentanza proporzionale

Sono le tre grandi categorie di sistemi elettorali utilizzate attualmente: sistemi elettorali maggioritari a turno unico in collegi uninominali (plurality) dove vince il candidato che ottiene anche solo la maggioranza relativa; sistemi maggioritari a doppio turno in collegi uninominali (majority) dove il candidato per vincere deve ottenere la maggioranza assoluta dei voti altrimenti il seggio viene attribuito ad un secondo turno; sistemi di rappresentanza proporzionale applicati solo in collegi plurinominali (eleggono più di un candidato), sono caratterizzati da una relazione proporzionale tra voti ottenuti e seggi attribuiti.
Esistono poi molte varietà di sistemi misti.

Sistemi maggioritari a turno unico

Gli ostacoli alla presentazione delle liste sono relativamente scarsi, per cui ci si può attendere che in ciascun collegio uninominale si presentino diversi candidati, in generale in numero superiore a due (così in Gran Bretagna, USA, Canada). Comunque, in un sistema di questo tipo, è difficile e poco frequente che si verifichino delle ristrutturazioni del sistema partitico.
Quando questo sistema viene introdotto per la prima volta, molti partiti vorranno mettere alla prova la propria forza organizzativa, molti candidati tenteranno la sorte; quando invece il sistema sarà consolidato, si produrrà spontaneamente qualche effetto di riduzione nel numero dei candidati. L'effetto di riduzione è spiegato da Duverger da due fattori: meccanico (a causa della sistematica sotto-rappresentanza del terzo partito che rende difficile ai suoi candidati ottenere collegi uninominali) e psicologico (gli elettori che comprendono che il loro candidato non è in grado di vincere, riverseranno i loro voti sul meno peggio); entrambi i fattori operano contro il partito più debole. L'effetto complessivo sarà che in ciascun collegio uninominale verrà a svilupparsi una competizione bipolare (non è detto però che i due candidati siano sempre gli stessi in tutti i collegi, quindi non una competizione necessariamente bipartitica). Esistono comunque delle minoranze concentrate dal punto di vista geografico e irriducibili nei loro comportamenti politici - elettorali; tali minoranze, per impedire la formazione di un sistema bipartitico, devono cercare di conquistare un numero di seggi tale da impedire all'uno o all'altro partito di costituire da solo il governo: bisogna che i partiti rilevanti per la formazione di un governo siano sempre più di due.
Secondo Sartori, affinché un sistema maggioritario divenga bipartitico debbono prodursi due fenomeni: i due partiti maggiori devono essere consolidati e forti, la dispersione dei voti tra i diversi collegi deve essere limitata.

Modello Westminster: il partito che ottiene la maggioranza assoluta dei seggi andrà a formare il governo e il leader del partito sarà primo ministro (Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda).
Effetti positivi sono la semplicità e l'incisività della scelta degli elettori. Effetti negativi sono che il prezzo della governabilità viene pagato da partiti anche consistenti, che si può verificare persino che il partito che ottiene più voti abbia meno seggi.

Dis-rappresentatività: fabbricazione di una maggioranza di governo formata da un solo partito.

In Australia vige il sistema del voto alternativo: il candidato deve ottenere la maggioranza assoluta dei voti espressi; l'elettore deve indicare un ordine di preferenza di tutti i candidati del suo collegio. Se nessun candidato ottiene la maggioranza assoluta, si prendono in considerazione i secondi in ordine di preferenza eliminando il candidato che ha ottenuto meno voti. Si va avanti finché uno ha la maggioranza assoluta. Non ci sono spazi proporzionali, si valorizza sia la disciplina dell'elettore che seguirà le indicazioni di partito sia la capacità di coalizione dei partiti.

I sistemi maggioritari a doppio turno

Il sistema maggioritario a doppio turno applicato in collegi uninominali.
Al primo turno vince il seggio il candidato che ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti; nel caso che nessun candidato ce la faccia, si indice un secondo turno di votazioni, a distanza. Al secondo turno il sistema può essere majority se si ha ballottaggio tra due soli candidati (sistema chiuso); questo obbliga i partiti a stringere alleanze preventive, ed i partiti piccoli e quelli che non trovano alleati (di solito quelli collocati agli estremi), rischiano di essere penalizzati. Questo sistema funziona per le cariche monocratiche ma appare troppo costrittivo e semplificativo per l'elezione di un assemblea rappresentativa. La logica che sta alla base di un'elevata soglia per l'accesso al secondo turno è contenere la frammentazione del sistema e incentivare la formazione di coalizioni di partiti. I doppi turni che hanno una soglia d'accesso elevata, incoraggiano l'elettore a esprimere un voto sincero al primo turno, che può rivelarsi anche utile se il candidato riesce a passare il turno o addirittura a vincere subito il seggio; al secondo turno, alcuni elettori esprimeranno un voto strategico, scegliendo il candidato meno sgradito indicato dal loro partito preferito. I partiti potranno poi decidere per la desistenza: il candidato secondo piazzato rinuncia a partecipare per far confluire i suoi voti sul candidato della coalizione che ha maggiori probabilità di vincere.
Se sono ammessi più candidati (sistema aperto), il sistema opera come plurality e si conquista il seggio anche con la maggioranza relativa dei voti. Gli elettori però a questo punto possono valutare meglio e strategicamente, sulla base dei voti ottenuti al primo turno; anche i candidati possono decidere strategicamente di desistere, per fare in modo che il seggio venga conquistato dal candidato a loro meno sgradito e per favorire la formazione di eventuali alleanze di governo.

I partiti riescono a valutare al primo turno il rispettivo radicamento territoriale, misurare popolarità e capacità del loro candidato, conoscere il loro consenso elettorale. Inoltre il doppio turno agevola la formazione di una maggioranza parlamentare e di governo.

Per tenere basso il numero dei partiti e offrire agli elettori maggiori opportunità di scelta si potrebbe consentire l'accesso solo ai primi tre candidati.
Se si volesse evitare che l'accesso al secondo turno dei soli candidati in grado di superare una soglia alta, riduca la rappresentatività dell'esito, si potrebbe decidere che l'accesso sarà garantito a coloro che con la somma dei loro voti rappresentino una quota elevata dei voti espressi nel collegio uninominale.
In Francia si parla di introdurre una quota di seggi da attribuire con una sorta di recupero proporzionale.

Rappresentanza proporzionale

Il principio unificante è il tentativo di garantire una qualche corrispondenza percentuale tra i voti ottenuti dai partiti e i seggi attribuiti loro in parlamento.
Gli strumenti usati per ridurre la frammentazione sono:

Dimensione della circoscrizione.
Cioè il numero di seggi che si attribuiscono in quella specifica circoscrizione e quindi il numero degli eletti, non l'ampiezza geografica. Quanto più grande è la circoscrizione quanto più elevata sarà la proporzionalità del sistema elettorale, e viceversa. Sono considerate grandi le circoscrizioni che eleggono più di 15-20 rappresentanti, piccole quelle che ne eleggono meno di 10. Le circoscrizioni più grandi in assoluto sono quelle che coprono un intero territorio nazionale (Olanda, Israele), praticabile solo in paesi piccoli con parlamenti piccoli. Quanto più grande è la circoscrizione quanto più facile sarà per i partiti piccoli conquistarvi seggi; essi quindi conquisteranno la maggior parte dei seggi nelle circoscrizioni urbane.

Clausole di accesso alla distribuzione dei seggi (soglie di esclusione).
Queste sono fissate in una cifra non assoluta ma percentuale. Ci sono poi clausole di sbarramento più complicate: in Polonia si voleva contrastare i partiti piccoli e favorirne un'aggregazione e per questo furono introdotte tre soglie diverse, che permisero a soli sette partiti nel 1993 di entrare in Parlamento.
Il sistema elettorale tedesco è caratterizzato da elementi più complicati. La soglia di sbarramento è fissata al 5% però si può accedere alla Camera bassa anche con meno voti purché superino un'altra soglia: l'elezione di almeno 3 candidati in collegi uninominali. Il sistema è comunque completamente proporzionale perché ciascun partito che superi l'una o l'altra soglia, accederà alla distribuzione dei seggi in proporzione alla somma dei voti ottenuti.
Nella Repubblica d'Irlanda esiste il voto singolo trasferibile, che garantisce una perfetta proporzionalità dell'esito anche in circoscrizioni piccole e consente all'elettore di valutare i singoli candidati in ordine di preferenza. Il quoziente da superare per vincere il seggio è dato dalla divisione dei voti validi per il numero dei seggi da attribuire più 1, più ancora 1 (pag 151).

Numero dei parlamentari.
Quanto più piccolo è il numero dei parlamentari da eleggere, quanto minore sarà la proporzionalità. È sempre difficile quindi ridurre il numero dei parlamentari perché più di un partito piccolo potrebbe risultare escluso dal parlamento ridimensionato. Deve esistere un rapporto equilibrato tra elettori ed eletti: i due poli numerici tra cui deve oscillare un'assemblea che voglia essere rappresentativa e funzionale, sono poco più di 200 e poco meno di 500 rappresentanti eletti.

Meriti e demeriti dei sistemi proporzionali

Nel crollo della repubblica di Weimar ha contribuito la rappresentanza proporzionale, frammentando un sistema partitico poco consolidato e rendendo difficile la formazione di governi omogenei.
Hermens: la proporzionale frammenta il sistema dei partiti.
Duverger: la proporzionale tende a un sistema di partiti multipli, rigidi, indipendenti e stabili.
Ci sono elementi di verità in entrambi. È utile dire che la proporzionale fotografa la configurazione di un sistema partitico e quindi mantiene il multipartitismo dove già esiste; essa inoltre non scoraggia la frammentazione partitica, la quale è però prodotta da condizioni politico - partitiche e socio-geografiche ed è preservata da quel sistema elettorale. Non è convincente affermare che i sistemi proporzionali sono la causa unica e preminente di sistemi multipartitici frammentati. In Italia dal 1946 al 1993 l'esistenza della proporzionale ha facilitato scissioni sulla sinistra dello schieramento, che non ci sarebbero state se i partiti non avessero potuto contare sull'opportunità di ottenere ugualmente rappresentanza parlamentare.
Stuart Mill: i sistemi elettorali proporzionali danno rappresentanza anche alle minoranze, creano un parlamento più rappresentativo delle opinioni degli elettori, portano alla formazione di governi multipartitici che rappresentano davvero la maggioranza degli elettori.
I critici sostengono però che i parlamenti proporzionali si frammentano in piccoli gruppi e diventa difficile formare coalizioni di governo stabili.

CONCLUSIONI - Di solito i sistemi proporzionali sono associati a sistemi multipartitici, in contesti dove altre condizioni avevano già dato vita a una pluralità di partiti. Comunque, anche i sistemi proporzionali possono ottenere riduzioni, secondo Sartori: quando sono applicati a piccoli collegi, stabiliscono una soglia di rappresentanza alta o attribuiscono un premio.

Sistemi misti

Ungheria.
Giappone: prevalenza del maggioritario sul proporzionale. 300 seggi attribuiti in collegi uninominali col sistema plurality. 200 seggi attribuiti in 11 circoscrizioni di dimensioni medio grandi con un sistema proporzionale a liste bloccate di partito.
Nuova Zelanda: sistema maggioritario di tipo plurality in collegi uninominali per eleggere un parlamento piuttosto piccolo.
Italia: rappresentanza proporzionale in circoscrizioni medio grandi con recupero dei resti per eleggere un parlamento ampio; ¾ maggioritario a turno unico in collegi uninominali, ¼ proporzionale. L'accesso al recupero proporzionale è solo per i partiti che hanno ottenuto almeno il 4% dei voti su scala nazionale. Questo ha incentivato la formazione di alleanze ma i partiti piccoli hanno voluto dei collegi uninominali sicuri per loro per far parte della coalizione, cosicché il numero dei partiti in parlamento non è diminuito


PARTITI E SISTEMI DI PARTITO


L'origine dei partiti

Di partiti politici si parla da quando le cariche di rappresentanza e di governo vengono attribuite attraverso consultazioni elettorali, dunque i candidati elettorali sentono il bisogno sia di dare un'organizzazione alla propria attività politica sia di allearsi con candidati che condividano le loro stesse posizioni.

Definizione classica di partito (Weber): i partiti sono organizzazioni liberamente create e miranti a un reclutamento libero; il loro fine è sempre la ricerca di voti per elezioni a cariche politiche.
Definizione contemporanea (Sartori): un partito è qualsiasi gruppo politico che si presenta a elezioni e che è capace di collocare attraverso le elezioni, candidati alle cariche pubbliche. Dunque, i requisiti minimi per essere un partito sono strutture tali da consentire la partecipazione dei suoi iscritti, un programma di politiche pubbliche, una durata più lunga di una sola tornata elettorale (non sarebbero quindi partiti quei gruppi che vivono lo spazio di una giornata definiti partiti - flash.

Ci sono due prospettive alla luce delle quali analizzare la nascita dei partiti.
Prospettiva genetica: si occupa deliberatamente delle modalità attraverso cui sono nati i partiti. Rokkan ha formulato una spiegazione. Individua quattro fratture (cleavages) che possono dare origine (e lo hanno fatto) a organizzazioni politiche che rappresentano quelle problematiche e i gruppi sociali ad esse interessati. Nella fase di costruzione dello stato nazionale, si creano due potenziali fratture: può nascere un partito che rappresenti gli interessi del centro (maggiore disponibilità di risorse e di potere) e uno della periferia (peculiarità minoritarie); può nascere un partito che rappresenta lo stato e uno che rappresenta la Chiesa. La rivoluzione industriale crea altre due fratture: fra interessi agrari e industriali, fra interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori. Può darsi che se esiste un partito conservatore faccia propri gli interessi agrari e dei datori di lavoro ecc. Da questo momento degli anni Venti è probabile che si sia consolidato un sistema partitico che vede, da destra a sinistra: un partito conservatore, agrario, liberale, confessionale, socialista. Dopo la guerra però intervennero due fratture politiche (non sociali): sulla destra una ridefinizione di interessi e identità che diede vita al fascismo; sulla sinistra, la rivoluzione bolscevica produsse la scissione dei socialisti e la nascita dei comunisti. È significativo che esse non sono comparse in tutti i sistemi politici occidentali e quindi la loro durata si è esaurita presto.
Prospettiva strutturale: si preoccupa di distinguere i partiti in base alle loro caratteristiche organizzative. Secondo Duverger fintanto che il suffragio è largamente limitato i partiti nascono in parlamento e sono poco più che connessioni rispettabili tra parlamentari, con limitata proiezione esterna; con l'ampliarsi del suffragio, nascono partiti extraparlamentari che fanno leva su organizzazioni esterne al parlamento per acquisirvi rappresentanza; quando il sistema partitico e parlamentare si consolidano, il malcontento e l'insoddisfazione possono incanalarsi in partiti antiparlamentari. Negli anni Venti, i partiti fascisti e comunisti sfruttarono la loro critica antiparlamentare per acquisire consenso elettorale, entrare in parlamento per distruggerlo; quando vi entrarono, però ne fecero parte.

Tipi di partiti

Quando negli anni Venti terminò il processo di formazione dei partiti, si tentò una classificazione.
Weber distinse tra partiti di notabili (strutture embrionali e attivabili solo in occasione delle elezioni) e di massa (basati su strutture permanenti e mantenute in costante attività).
Duverger distinse tra partiti di massa (fanno affidamento sugli iscritti per il loro radicamento e finanziamento) e di quadri (mirano a riunire notabili per preparare le elezioni e mantenere i contatti con i candidati).
Neumann distingue tra partiti di rappresentanza individuale (si attiva in occasioni elettorali) e di integrazione sociale (dotato di organizzazione estesa e permanente e aperto alla partecipazione degli iscritti.
Negli anni Cinquanta ci si rese conto che il partito di massa dovesse essere l'organizzazione politica prevalente nei sistemi politici democratici a partecipazione allargata (con l'eccezione degli USA).
Alla metà degli anni Sessanta, però, Kircheimer sottolineò che i partiti di massa manifestavano sintomi di una drammatica trasformazione in partiti pigliatutti, dove la volontà dei dirigenti del partito era ricercare tutti i sostenitori e tutti gli elettori possibili per espandere al massimo il seguito elettorale. Il partito pigliatutti subisce alcune modifiche: riduzione del bagaglio ideologico, rafforzamento dei gruppi dirigenti di vertice, diminuzione del ruolo del singolo iscritto al partito, minore accentuazione di un gruppo specifico per reclutare elettori tra la popolazione in generale, apertura all'accesso di diversi gruppi di interesse. Comunque, alcuni partiti di massa hanno cercato di mantenere le loro caratteristiche strutturali almeno riguardo il radicamento di massa e la diffusione sul territorio. I critici dei partiti di massa sembrano rimpiangere soprattutto una certa identità ideologica; i difensori del patito di massa sostengono che essi continuano a porsi come rappresentanti di interessi popolari e a funzionare come luogo d'incontro per la partecipazione politica degli iscritti.

I partiti sono in competizione tra loro al fine di vincere le elezioni, quindi devono differenziarsi rispetto ai concorrenti e offrire un prodotto attraente e unico. Dunque i partiti si conformano al modello organizzativo e programmatico più adatto a raggiungere il maggior numero possibile di elettori; sono i partiti che cercano gli elettori. Secondo Schumpeter i fondatori di partiti di successo possono definirsi imprenditori politici, che collocano il loro prodotto in un mercato della politica dove esistono elettori insoddisfatti e disponibili.

Partito cartello (accordo tra imprese per limitare la concorrenza) - partiti che intendono limitare la concorrenza e giungono a collusioni che si estrinsecano in sfruttamento delle risorse statali, finanziamenti, strutture. Le collusioni mirano a rendere difficile l'ingresso nel mercato della competizione partitica a nuove organizzazioni, che non godrebbero gli stessi benefici che i partiti cartello hanno ottenuto. È un modello che però non si è affermato e che ha ricevuto svariate critiche.

Sistemi di partito

Un sistema di partito presuppone l'interazione orizzontale competitiva tra almeno due partiti e presuppone l'interdipendenza verticale tra più elementi (elettori, partiti, parlamentari, governi); la competizione tra partiti si sviluppa quindi su piani diversi: elettorale, parlamentare, governativo.
Duverger classificò i sistemi di partito secondo un criterio puramente numerico: monopartitici, bipartitici, multipartitici. Questo deve però essere integrato, secondo Sartori, da un secondo criterio: non ci si deve fermare a un semplice conteggio, ma si debba procedere a valutare se il partito più piccolo "conta" davvero, cioè se esercita un'influenza nella formazione dei governi. È indispensabile saper individuare i partiti che "contano", perché il criterio numerico definisce grosso modo il formato dei sistemi di partito, ma il criterio di rilevanza spiega la meccanica dei sistemi di partito.
Esistono due fondamentali criteri di rilevanza: l'utilità dei partiti nella formazione di una coalizione di governo (posseggono un potenziale di coalizione e quindi vanno contati); possono disporre di voti, di rappresentanza di interessi, in misura tale da condizionare il funzionamento della coalizione di governo (posseggono un potenziale di intimidazione perché possono esercitare una notevole influenza sull'attività della coalizione di governo).
C'è un terzo criterio che riguarda solo i sistemi multipartitici ed è la distanza ideologica tra i partiti, ovvero la polarizzazione. In alcuni sistemi esistono partiti così distanti ideologicamente da non poter essere mai presi in considerazione come potenziali alleati dagli altri partiti (oggi i partiti di estrema destra), ma che, anche se esclusi dalle coalizioni di governo, sono spesso in grado di convincere una parte dell'elettorato e quindi di influenzare alcune scelte di governo.

Una classificazione dei sistemi di partito vede una linea tra i sistemi di partito competitivi (le elezioni si tengono con periodicità prefissata e sono decisive per conferire seggi e potere ai partiti) e i sistemi di partito non competitivi (le elezioni non contano affatto nell'attribuzione di potere).

Sistemi non competitivi: nei monopartitici esiste un solo partito che può essere ideologico (partiti comunisti di Cina, Vietnam, Corea del Nord ecc) o pragmatico (molti paesi africani); nei sistemi con partito egemonico, si tollera la presenza di altri partiti che non potranno mai diventare maggioranza né sostituire il partito egemonico (Messico).

Sistemi competitivi:

A partito predominante. Esiste un partito che, in una lunga serie di elezioni libere e competitive ottiene regolarmente un numero molto consistente di seggi, tale da consentirgli di governare da solo (in India il partito del Congresso, in Uruguay il partito Colorado, che governò dal 1865 al 1958). Se si fa riferimento al criterio solo numerico, questi sono sistemi multipartitici, ma, usando il criterio di rilevanza, si denota il predominio di un unico partito che formerà da solo il governo, farà funzionare il parlamento, sceglierà le politiche pubbliche.

Bipartitici. Rispettano diverse condizioni: solo due partiti, e sempre gli stessi, conquistano alternativamente la maggioranza assoluta dei seggi; uno di loro conquista effettivamente una maggioranza sufficiente a governare; il partito vittorioso sceglie regolarmente di governare da solo; la rotazione del governo appare un'aspettativa credibile (Gran Bretagna).

Atomizzati. Sono quelli non stabilizzati, nei quali nessun partito conquista percentuali consistenti di voti; spesso si trovano negli stati nascenti, dopo una lunga fase di autoritarismi (Russia, Ucraina).

Multipartitici limitati. Hanno da tre a cinque partiti rilevanti e funzionano con una logica moderata e centripeta, producono alternanze al governo, con la possibilità per tutti i partiti rilevanti di accedervi. Si tratta di un pluralismo moderato (Germania).

Multipartitici estremi. Hanno più di cinque partiti rilevanti per la formazione dei governi. Si definisce pluralismo polarizzato dove la competizione è centrifuga poiché i partiti collocati ai due poli estremi cercano di crescere svuotando il centro dello schieramento. Le opposizioni sono politicamente irresponsabili perché possono promettere programmi inattuabili; i governi possono praticare la politica dello scaricabarile (attribuire le proprie responsabilità alle opposizioni) o dello scavalcamento (promettere più di quanto possono mantenere). Questo sistema è sottoposto a forti tensioni e tende al collasso.


Trasformazioni dei sistemi di partito

Secondo Duverger, i sistemi di partito possono evolvere secondo quattro tipi generali:

Alternanza. Caratterizzata da un movimento pendolare periodico e presenta pochi problemi. La sua instaurazione è più probabile in sistemi effettivamente bipartitici. (agli inizi degli anni '90 un po' in tutte le democrazie occidentali)

Divisione stabile. Assenza di variazioni importanti tra i partiti nel corso di un periodo lungo, misurata con riferimento a la scarsa ampiezza degli scarti tra due elezioni e la rarità di movimenti di lunga durata. Il seguito elettorale dei diversi partiti rimaneva pressoché invariato e quindi stabile.

Predominio. Esiste un partito che sta avanti a tutti e che per un certo periodo si distanzia nettamente dai suoi rivali, assumendo una posizione di rilievo.

Sinistrismo. Slittamento lento e regolare verso sinistra, in diverse forme: nascita di nuovi partiti alla sinistra dei vecchi partiti, indebolimento dell'insieme dei partiti di destra a vantaggio di quelli di sinistra, mantenimento al livello globale di due blocchi con rafforzamento al loro interno di partiti più a sinistra (dei comunisti a scapito dei socialisti), sostituzione di un vecchio partito di sinistra con uno nuovo più intransigente, ascesa del partito maggiormente di sinistra a scapito di tutti gli altri.

Ci sono due interpretazioni per individuare a quali condizioni rispondono le varie trasformazioni in corso: una sostanziale continuità dei sistemi di partito una volta consolidatisi (in Europa occidentale e meridionale si è configurata una divisione stabile). Cambiamenti non solo nei loro attori specifici ma anche nella loro dinamica di competizione e di coalizione, soprattutto quando cambiano le leggi elettorali: in Francia il passaggio dalla Quarta alla Quinta repubblica è stato segnato dal passaggio da un sistema proporzionale a uno maggioritario, che ha reso il sistema politico meno frammentario e meno polarizzato. Anche in Italia una legge elettorale per tre quarti maggioritaria e per un quarto proporzionale (1993) ha spinto verso la depolarizzazione del sistema partitico e ha agevolato una competizione bipolare che consente alternanza.

Lo sviluppo più significativo dei sistemi di partito europei è che i sistemi di pluralismo polarizzato sono venuti meno  per la scomparsa dei partiti comunisti. I sistemi di pluralismo estremo tuttavia esistono ancora (Europa centro - orientale) e le coalizioni di governo sono eterogenee, le alternanze difficili, il rendimento dei governi insoddisfacente.

Perché sopravvivono i partiti

Per rispondere agli studiosi che ritengono che ci sia un crisi nei partiti, ci sono diversi indicatori da tenere in considerazione. Quelli relativi al sistema dei partiti:

Contare i partiti. Quasi tutti i partiti che troviamo negli schieramenti delle democrazie occidentali alla fine degli anni '90 esistevano già almeno trenta anni prima. Non esiste praticamente nessun partito nuovo rilevante, fatta eccezione per l'Italia dove, a causa di transizioni politico - istituzionali e del cambiamento delle leggi elettorali), sono decaduti alcuni partiti (DC) e ne sono nati di nuovi (FI).

Percentuale di elettori che vanno alle urne. Negli ultimi 40 anni si è avuto un declino. È vero che i cittadini dispongono di altri metodi di partecipazione, ma è anche vero che chi non vota si impegna molto raramente in altre forme di partecipazione politica. Si potrebbe anche interpretare come una riduzione della rilevanza della politica per elettorati soddisfatti, in grado però di riattivarsi quando ce ne fosse necessità.

Quanto ai rapporti di collaborazione o competizione tra partiti, si può dire che i sistemi partitici si dispongono ancora lungo l'asse destra/sinistra e i partiti entrano in collaborazione o competizione tenendo conto della loro contiguità e distanza ideologica, politica, programmatica lungo quell'asse.

Quelli relativi ai singoli partiti:

Gli iscritti ai partiti. Il reclutamento degli iscritti di presenta non più profittevole in termini di costi e benefici, per cui la maggior parte dei partiti ha subito un declino del numero degli iscritti.

Le oscillazioni elettorali. Dipendono da fattori che non si possono attribuire alla crisi dei partiti, ma come conseguenza dell'incapacità dei partiti di mantenere un seguito stabile.

La strutturazione del voto. Intesa come offerta di programmi che i partiti fanno agli elettori, è rimasta stabile poiché, nelle democrazie occidentali, non si è avuta l'irruzione significativa di nessun partito nuovo, consistente e duraturo.

La selezione del personale politico e governativo. Tre quarti dei detentori di cariche politiche sono uomini scelti dai partiti e con una carriera partitica alle spalle; i partiti hanno ancora il controllo dei processi di selezione politica.

Formazione dell'agenda politica. Cioè la formulazione delle politiche pubbliche. C'è da capire se i partiti hanno la parola decisiva o se sono costretti ad accettare pacchetti di politiche pubbliche provenienti da gruppi di interesse esterni. La risposta è vaga, ma si evidenzia una crescente difficoltà per i partiti.

Partiti nel governo - da sempre i governi sono "governi di partito", cioè fatti e composti da uomini con una carriera di partito alle spalle e con basi nei partiti. Costituiscono per varie ragioni il modo migliore per creare un collegamento tra le preferenze dell'elettorato e le politiche dei governi e per garantire rappresentanza e responsabilità; inoltre adempiono a compiti che nessun altro saprebbe affrontare.

Perché sopravvivono i partiti?
La democrazia non è possibile senza i partiti politici, poiché il pluralismo si esprime anche in organizzazioni durature e diffuse.
I partiti assolvono a compiti politici che nessun'altra organizzazione sa svolgere.
Servono a mantenere il consenso.
Garantiscono il coordinamento del personale politico.
Sondano le opinioni dei cittadini e li rappresentano.
Riducono l'eccesso di problemi cui dovrebbe rispondere l'amministrazione dello stato se tutte le domande della società le pervenissero direttamente.
Sono garanti di una molteplicità di scambi politici in sistemi nei quali vi è alta negoziabilità di interessi; gruppi di interesse e associazioni non sarebbero in grado di farsi garanti di uno scambio duraturo, non possono diventare decisori in prima persona ma abbisognano di interlocutori con cui interagire per tradurre i cambiamenti possibili in reali politiche.


PARLAMENTI E RAPPRESENTANZA


Considerazioni introduttive

Quando i parlamenti sopravvivono nei regimi non democratici sono organismi addomesticati, luoghi nei quali si offre una rappresentanza fittizia e manipolata.
Nei regimi democratici svolgono un ruolo ben diverso. Essi nascono quando si pone il problema di limitare e controllare il potere dell'esecutivo e del re; nascono come l'organismo che collabora con il re ma anche che deve controllare il suo operato, soprattutto riguardo allo spendere e tassare, proprio perché il parlamento rappresenta inizialmente gli interessi di coloro (per lo più i nobili) che finirebbero per pagare parte consistente delle spese del re e delle tasse da lui imposte.

Nei regimi democratici il tratto strutturale dominante dei parlamenti è il loro carattere elettivo. I parlamenti democratici sono anzitutto assemblee elettive in grado di rivendicare ed esercitare la rappresentanza politica di una società. Nei regimi democratici esiste sempre una camera elettiva, anche se possono accompagnar visi altre camere (di nomina regia, ereditarie, di nomina da parte dell'esecutivo, di elezione indiretta, composite). Comunque, le camere basse sono composte esclusivamente da rappresentanti eletti; diversificata è la composizione delle camere alte, che in generale hanno sempre poteri e prerogative inferiori alle rispettive camere basse.

Le strutture

L'analisi strutturale parte dalla differenza tra parlamenti monocamerali (Danimarca, Grecia, Finlandia, Svezia, Ucraina, Ungheria ecc) e bicamerali (tra gli altri, Russia e Polonia).
Quando esistono due camere esse si debbono in qualche modo giustificare per differenze e compiti specifici. Il caso italiano è probabilmente l'ultimo esempio di bicameralismo paritario, dove la Camera dei Deputati e il Senato hanno gli stessi poteri e svolgono le stesse funzioni.
Le differenziazioni riguardano le modalità di formazione (l'elezione può essere popolare diretta per la camera bassa e indiretta per la camera alta), i poteri (le camere alte ne hanno solitamente di meno, fatta eccezione per il Senato degli USA), le dimensioni (le camere alte sono di solito più piccole di quelle basse, quanto a numero di rappresentanti). In generale le seconde /alte camere risultano depotenziate e poco influenti sul sistema politico; si noti comunque che le differenze intercorrenti tra i poteri delle seconde camere hanno poco a che vedere con le differenze nelle forme di governo (per esempio ci sono sistemi parlamentari che hanno una camera e sistemi parlamentari con due camere).
Di solito sono gli stati federali che, a prescindere dal loro essere presidenziali o parlamentari, hanno due camere, per garantire una rappresentanza efficace e autorevole alle autonomie territoriali; si può dire che un federalismo soddisfacente necessita di una camera di rappresentanza delle sue componenti territoriali.

Un'altra distinzione riguarda la strutturazione interna ai parlamenti, l'esistenza o meno di commissioni parlamentari e la quantità e la qualità dei loro poteri. Spesso infatti i parlamenti possono dotarsi di commissioni specifiche, con compiti di controllo sull'applicazione e le conseguenze di determinate leggi, di vigilanza sull'operato del governo ecc. Talvolta va rilevato che l'affidamento di alcuni compiti a determinate commissioni appositamente create sembra peraltro riflettere una tecnica governativa che mira ad isolare e ad insabbiare un problema!

Analisi funzionale

Un'identificazione totale tra parlamento e potere legislativo è come minimo fuorviante e rischia di far perdere di vista le altre importanti funzioni svolte dai parlamenti; in questo modo non si riuscirà nemmeno a comprendere la reale importanza dei parlamenti nei sistemi politici democratici.

Nella seconda metà del 1800 uno studioso inglese, Bagehot, procedeva ad una classificazione delle funzioni di un parlamento in ordine di importanza, in particolare riferendosi al parlamento inglese, considerato il padre di tutti i parlamenti e Westmister la sede emblematica della democrazia parlamentare.
1) Eleggere bene un governo. La Camera dei Comuni era l'assemblea che sceglieva il Primo Ministro. In seguito i parlamenti anglosassoni (Gran Bretagna, Canada, Nuova Zelanda) furono espropriati di questa funzione. Il primo ministro nei sistemi anglosassoni non ha bisogno di un vero e proprio voto di fiducia; egli ha la piena facoltà di sciogliere il parlamento esclusivamente quando gran parte della sua maggioranza concorderà con lui che è venuto il momento politico favorevole allo scioglimento. Quindi, nel modello Westmister, è davvero il Parlamento che sceglie il governo, ne consente la nascita e persino lo scioglimento.
Anche nelle forme parlamentari multipartitiche è il parlamento l'assemblea rappresentativa che elegge bene un governo, quando gli conferisce esplicitamente la fiducia; con il suo voto ha sempre il potere di revocargli la fiducia, magari in modo costruttivo come in Germania, dove può attribuire la fiducia con un altro voto esplicito ad un nuovo capo del governo.
Dunque, dal punto di vista di formazione e dissoluzione del governo, i Parlamenti contemporanei mantengono il loro potere.
2) Funzione espressiva. La Camera dei Comuni esprime l'opinione degli inglesi su tutti gli argomenti che le vengono presentati. In seguito questa funzione verrà definita rappresentativa.
3) Funzione pedagogica. Una grande e libera assemblea di uomini eminenti deve migliorare la società; un parlamento svolge correttamente questa funzione quando è luogo di dibattiti significativi, che educano il pubblico alla comprensione della complessità della politica. Questa funzione presenta puri e semplici principi. Per esempio il question time del mercoledì alla Camera dei Comuni, quando il primo ministro deve rispondere alle domande dei parlamentari.
4) Funzione informativa. Si deve sottoporre all'attenzione della nazione le idee, le richieste e i desideri di certe particolari classi e settori. Riguarda quindi interessi particolari e si rivolge a gruppi parlamentari. La funzione informativa riguarda il dibattito che si svolge sugli affari correnti.
La comparsa di agenzie alternative che svolgono la funzione informativa, prima i partiti e ora i mass media e la televisione.
5) Funzione legislativa. Considerata da Bagehot la meno importante.
Bagehot si chiede se sia necessario aggiungere una sesta funzione, finanziaria o di controllo dell'economia. Conclude che se il gabinetto è l'esclusivo titolare del potere esecutivo, deve avere un'altrettanta esclusiva competenza in materia finanziaria. Sarà poi l'elettorato a giudicarlo.

È preciso rilevare che la legge è il prodotto di un'attività svolta congiuntamente dai governi che esercitano l'iniziativa e dai parlamenti che vi reagiscono, in forme, modi, tempi diversi. Per lo più la legge nasce nell'ambito del governo e risponde alle promesse programmatiche del partito che ha vinto le elezioni e dare loro attuazione. Deve esistere quindi uno stretto collegamento tra il governo e la sua maggioranza parlamentare. Il parlamento, dunque, per lo più non fa le leggi, ma le approva.

La funzione pedagogica può essere intesa anche in senso più ampio, comprendendovi anche tutti gli insegnamenti che gli elettori traggono dal confronto parlamentare tra maggioranza e opposizione. Vi si potrebbe anche includere la funzione negoziale, cioè il tentativo di trovare punti di incontro tra i diversi gruppi parlamentari che rappresentano gli elettori in senso lato.



La rappresentanza

Parlamenti di parlamentari: gli eletti godono di grande autonomia e libertà di voto.
Parlamenti di partiti: gli eletti hanno poca autonomia e sono sottoposti a una rigida disciplina di voto.
In generale, comunque, i partiti esercitano sempre una significativa influenza nel plasmare la funzione di rappresentanza, indirizzando i loro parlamentari; la rappresentanza parlamentare mediata dai partiti caratterizza comprensibilmente tutti i regimi politici democratici che sono costituiti da sistemi di partito solidi.
 È più probabile che si abbia un parlamento di parlamentari quando questi vengono eletti in collegi uninominali.
Ne conseguono modalità molto diverse di rapporto con gli elettori e di rappresentanza dei loro interessi.

Nello svolgimento della complessa attività di rappresentanza contano le condizioni strutturali, ma anche le aspettative e i comportamenti concreti dei parlamentari, che sono ovviamente sensibili alle modalità con cui sono stati scelti.
La rappresentanza non si esaurisce mai nelle organizzazioni partitiche né nelle aule parlamentari; è un fenomeno complesso, stratificato e dinamico, che si esprime a più sedi, più livelli e con diverse modalità.

La visione più articolata delle possibili concezioni della rappresentanza appartiene a Sartori, che ne individua sette.
1) Teoria elettorale della rappresentanza: il popolo elegge liberamente e periodicamente un corpo di rappresentanti.
2) Teoria della rappresentanza come responsabilità: i governanti rispondono responsabilmente nei confronti dei governati. Si lega alla prima perché collegate dal procedimento elettorale. È una teoria che nasce dalle preferenze dei cittadini, espresse attraverso il voto. Comunque la teoria democratico - elettorale viene considerata parziale perché riguarderebbe soltanto chi vota realmente, preliminare perché pone soltanto le basi della rappresentanza, insufficiente perché comunica poca informazione agli eletti e perché li vincola ancora meno.
3) Teoria della rappresentanza come mandato: i governanti sono agenti o delegati che seguono istruzioni.
4) Teoria della rappresentanza come idem sentire: il popolo è in sintonia con lo Stato.
5) Teoria consensuale della rappresentanza: il popolo consente alle decisioni dei suoi governanti.
6) Teoria partecipazioni sta della rappresentanza: il popolo partecipa in modo significativo alla formazione delle decisioni politiche fondamentali. Mira a completare la teoria democratico elettorale ed ha trovato strumenti di pratica applicazione (referendum). Il popolo può partecipare variamente alla formazione delle decisioni che lo riguardano.
7) Teoria della rappresentanza come somiglianza, come specchio: i governanti costituiscono un campione rappresentativo dei governati. Esige che i rappresentanti costituiscano un microcosmo dei rappresentati. Postula assemblee sociologicamente rappresentative che rispecchino fedelmente il profilo della popolazione. Si può discutere che quest'obiettivo sia auspicabile, ma sicuramente non è conseguibile con modalità democratiche cioè attraverso il voto degli elettori: sia perché le caratteristiche sociologiche della cittadinanza cambiano continuamente, sia perché un tale parlamento dovrebbe essere troppo ampio.
Un esito di maggiore rappresentatività sociologica, ad esempio riguardo all'equilibrio tra genere maschile e femminile, è sicuramente auspicabile e può essere conseguito dai partiti, anche se nulla fa ritenere che un'assemblea ottimamente rappresentativa delle donne dal punto di vista sociologico sarebbe ugualmente rappresentativa delle preferenze politiche delle donne stesse.
La rappresentatività sociologica potrebbe addirittura essere negativa se un'assemblea selezionata secondo criteri orientati a rispecchiare la società si dividesse e votasse secondo linee di demarcazione sociologica e non secondo politiche trasversali ed aggreganti.
Quel che è certo è che quando si troveranno interessi ed ideali privi di rappresentanza, diventerà politicamente utile per qualcuno cercare di farsene interprete. Quindi un'assemblea tenderà sempre ad essere rappresentativa.

I parlamenti contemporanei sono costituiti per lo più da rappresentanti di genere maschile, di ceto medio, con un reddito e un'istruzione superiore alla media della popolazione. Per la maggior parte dei parlamentari la politica è l'unica occupazione.
Nel complesso le assemblee politiche contemporanee sono poco rappresentative dell'elettorato. Tuttavia i partiti cercano sempre di reclutare candidati sociologicamente rappresentativi e in parlamento cercano di rappresentare gli interessi e le domande dei propri elettori.

Stili di rappresentanza

La rappresentanza politica dovrebbe essere il rapporto tra la scelta da parte degli elettori di un rappresentante, la volontà dell'eletto di tradurre in decisioni il programma presentato agli elettori e la capacità di farlo.
Un governo ricettivo risponde per quello che fa, uno responsabile agisce con competenza ed efficienza.

La tripartizione classica tra stili di rappresentanza potrebbe esser fatta risalire a Burke nel 1774 col suo discorso agli elettori di Bristol: egli prometteva di essere fedele al loro mandato su alcuni interessi specifici del collegio (delegato); di cercare di combinare gli interessi del collegio con quelli del partito a livello nazionale(politico); rivendicava autonomia piena su materie di coscienza, quindi chiedeva fiducia agli elettori (fiduciario).
1) Il delegato moderno non prende direttamente ordini dal suo elettorato. Il suo mandatario è il partito che lo ha candidato e fatto eleggere. Il delegati sa che risponderà agli elettori del suo personale operato soltanto attraverso la mediazione del suo partito.
2) Il fiduciario si ritaglia uno spazio di autonomia maggiore, poiché ritiene di avere gli strumenti tecnici e la forza politica per scegliere di volta in volta come votare. I fiduciari possono essere numerosi tra i rappresentanti laddove i partiti siano organizzazioni relativamente deboli.
3) I rappresentanti che assumono uno stile politico cercano il punto di equilibrio tra le esigenze del partito e gli impegni presi con l'elettorato, tra la propria autonomia di giudizio politico e le proprie conoscenze tecniche. La loro autonomia è grande quando il loro partito non è un'organizzazione gerarchica e potente.

La rappresentanza come ricettività . Ci sono quattro componenti della ricettività di un rappresentante eletto.
1) Ricettività di politiche. Il rappresentante cercherà affrontare le grandi tematiche politiche e di offrire soluzioni generali in sintonia con le preferenze degli elettori.
2) Ricettività di servizi. Si configura come un insieme di tentativi di ottenere vantaggi particolaristici per gruppi di elettori della sua circoscrizione.
3) Ricettività di assegnazione. Ha di mira l'interesse complessivo della circoscrizione attraverso l'incanalamento di fondi, risorse, investimenti.
4) Ricettività simbolica. Si traduce in tentativi di intessere un rapporto generale di fiducia, sostegno, dimostrando agli elettori che il rappresentante si cura sia delle loro aspettative materiali che della loro visione del mondo.

Il senso complessivo della rappresentanza sta in una duplice attività: anticipazione dei problemi, proposta di soluzioni sia particolaristiche che generali, capacità di tradurre quelle soluzioni in politiche pubbliche; disponibilità del rappresentante a spiegare il suo comportamento di fronte ai propri elettori.

Degenerazioni dei parlamenti

Trasformismo.
Sappiamo che i parlamenti contemporanei sono principalmente parlamenti di partiti, perciò qualsiasi rappresentante dovrebbe sentirsi maggiormente responsabile verso il suo partito. Se ciascun parlamentare si comportasse in modo del tutto svincolato dal suo partito, farebbe emergere la prima degenerazione (il trasformismo): il parlamento trasformerebbe gli impegni assunti in coerenza col programma del suo partito in totale discrezionalità personale, perdendo contatto almeno con una parte del partito. Questo avviene soprattutto quando i partiti non riescono a strutturare gruppi parlamentari omogenei. In sostanza i parlamentari si prestano ad essere manovrati dai governanti, anche dello schieramento opposto, per ottenere in cambio risorse, cariche e favori. Il trasformismo incide negativamente, indebolisce l'opposizione e gli rende impossibile l'attività di controllo sull'operato del governo.

Consociativismo.
Riguarda le modalità dei rapporti tra gruppi organizzati e, in particolare, tra maggioranze di governo frammentate e opposizioni. Gli scambi avvengono spesso sotto banco e consistono nella distribuzione di risorse collettive, attraverso politiche pubbliche approvate da larghe maggioranze, che servono ad ammorbidire l'opposizione e a rendere rapido il processo decisionale. Qualsiasi consociativismo finisce per allontanare la possibilità di alternanza, poiché gli elettori non riescono ad individuare responsabilità politiche precise e a sanzionarle col suo voto.

Assemblearismo.
Colpisce il parlamento stesso come struttura. I parlamentari fanno e disfano i governi. A correre il rischio sono i parlamenti - arena cioè quelli dove c'è spazio per il confronto tra gruppi politici. Il governo non riesce a esercitare un controllo sull'attività parlamentare, a fissare l'agenda dei lavori, a far leva su una maggioranza compatta. Il parlamento in pratica è sempre in grado di crearsi il governo che vuole, per poi impedirgli di lavorare. Il parlamento tenta di trasformarsi in organismo governante, finché degenera fino a produrre una democrazia impotente, destinata a un cattivo funzionamento; alle estreme conseguenze la forma parlamentare può anche crollare ed essere sostituita da un regime che ridimensiona drasticamente il ruolo e i poteri del parlamento.

Declino o trasformazione dei parlamenti?

Non pochi studiosi lamentano un supposto declino dei parlamenti contemporanei.
Si deve escludere che tale declino possa essere misurato guardando al numero assoluto di leggi approvate. Anzi, un parlamento che impegna tutto il suo tempo nel formulare ed approvare un numero elevato di leggi, ha pochissimo tempo per dare voce a grandi dibattiti politici e per esercitare un controllo adeguato sul governo. Se proprio si vogliono contare le leggi, varrà come criterio il numero di leggi che applicano il programma di governo, in special modo se approvate col voto compatto della maggioranza parlamentare.
Nel valutare l'efficienza di un parlamento contano i tempi di approvazione di queste leggi.
Un altro criterio utile per valutare l'eventuale declino di un parlamento è costituito dalla loro capacità di esercitare un controllo sui governi. L'applicazione del voto di sfiducia costruttivo è un buon esempio di controllo coronato da successo; tale successo può anche riscontrarsi nella sfiducia individuale nei confronti di singoli ministri e nel mutamento delle politiche governative. Da questi punti di vista i parlamenti attuali non sembrano in declino. Sarebbe invece sbagliato pensare che il controllo del parlamento sul governo debba esprimersi quale pura e netta contrapposizione.
Il punto è che non si deve vedere il parlamento come un antagonista del governo, perché il parlamento è innanzitutto il luogo di rappresentanza politica di una società complessa, è la sede dove si manifestano una maggioranza di sostegno al governo e un'opposizione critica e propositiva.
Pertanto, non si ha nessun declino del parlamento in quei sistemi politici dove esiste una maggioranza parlamentare capace di sostenere il suo governo.
Il parlamento provocherà il proprio declino se si dimostra incapace di dare vita ad un governo, di sostenerlo e farlo funzionare.
Si deve quindi parlare di trasformazione delle funzioni del parlamento, tra cui potenziamento del legame tra maggioranza parlamentare e governo, e quindi di un parlamento capace di rappresentanza e, insieme al governo, di decisione.


I GOVERNI


Che cosa è governo

Il termine governo deriva dal greco e significa timone. Il governo guida la nave del sistema politico, i governanti sono i timonieri ai quali si sono affidati i concittadini imbarcati su quella nave.
Negli USA il termine governo non viene quasi mai utilizzato, si usa invece administration (presidenza e burocrazia al suo servizio); in Gran Bretagna viene invece utilizzato in una pluralità di versione, anche se esiste una puntuale identificazione tra governo e potere esecutivo, del quale il governo dovrebbe essere detentore.
Prima che Montesquieu codificasse la sua tripartizione dei poteri, il potere era monistico, cioè stava tutto nelle mani del sovrano. In seguito si arrivò ad un conflitto tra nobili e monarca e alla suddivisione dei poteri, con uno spostamento significativo di alcuni poteri a favore del parlamento. Divenne compito del parlamento, congiuntamente col sovrano, fare le leggi; mentre l'esecutivo, cioè il sovrano con la sua burocrazia, era chiamato a tradurre queste leggi in atti e fatti. La burocrazia costituiva dunque lo strumento operativo dell'esecutivo.
Nel corso del tempo, con varie variazioni, il potere esecutivo ha preso il sopravvento sul potere legislativo.

Formazione degli esecutivi

Variabile istituzionale costituita dalle modalità con le quali vengono formati gli esecutivi. Da una parte gli esecutivi che derivano la loro investitura e il loro potere da un'elezione popolare diretta; dall'altra gli esecutivi che derivano investitura e potere da partiti e parlamenti e soltanto indirettamente dal popolo.
Quando si ha elezione diretta del capo dell'esecutivo, chi vince diventa automaticamente capo dell'esecutivo.
C'è una linea distintiva che separa il caso degli USA da tutti gli altri casi di elezione diretta: negli USA il meccanismo di selezione del candidato presidenziale è costituito da elezioni primarie; altrove le candidature non devono superare alcun vaglio elettorale istituzionale preliminare, vengono lanciate nell'arena elettorale ma tutte accompagnate da un sostegno consistente, per lo più partitico. Infatti, nelle democrazie di massa, un candidato per ottenere visibilità elettorale deve avere una certa disponibilità di risorse e avervi accesso; per questo nelle democrazie contemporanee, i partiti costituiscono il veicolo dominante per la selezione e la presentazione dei candidati alla carica del capo dell'esecutivo.
Se dotato di particolari e cospicue risorse, un candidato può anche superare le soglie frapposte alla candidatura senza l'aiuto di un partito strutturato (è successo in Perù, in Polonia, anche negli USA con il multimiliardario Ross Perot, dove però la strada della costruzione di un terzo partito appare molto impervia).
Nei sistemi politici con elezione diretta del capo dell'esecutivo, quanto più il sistema partitico è strutturato tanto più è probabile che i candidati saranno espressione di un partito o di coalizioni di partito. È più plausibile ipotizzare che la coalizione si formi per l'appunto intorno alla figura di un candidato condiviso.
Più complessa è la selezione di un capo dell'esecutivo nei sistemi parlamentari. Nei sistemi bipartitici la selezione del candidato è interna ai singoli partiti; chi diviene leader del partito è automaticamente candidato alla carica di primo ministro. Può succedere che la permanenza in carica del primo ministro venga messa in discussione se la sua popolarità e rendimento siano in ribasso e prefigurino una sconfitta elettorale del partito stesso. Nei sistemi multipartitici la designazione del primo ministro obbedisce a un'altra logica: quella della ricerca di un punto di equilibrio politico tra i diversi partiti alleati, in termini di rappresentanza e rapporti di forza; in generale la logica della selezione del candidato dovrebbe premiare il leader del partito maggiore della coalizione di governo: in  realtà la scelta può essere influenzata da varie condizioni (unitarietà del partito maggiore, indispensabilità e azione coordinata dei partiti minori ecc), cosicché spesso diventa leader della coalizione un rappresentante del partito maggiore, ma non il leader, che risulti maggiormente gradito agli alleati. Naturalmente la funzionalità del governo viene spesso ridotta se a capo dell'esecutivo c'è un leader poco autorevole perché non sufficientemente rappresentativo della componente maggiore della coalizione.
Nel caso delle forme di governo presidenziali, il presidente eletto gode di ampia discrezionalità nella scelta dei suoi ministri, anche se nessun presidente sceglie i suoi ministri in assoluta libertà; se i presidenti eletti non dispongono di una maggioranza coesa devono selezionare il personale di governo tenendo conto della reazioni di assemblee parlamentari relativamente frammentate.

La teoria delle coalizioni

Il punto di partenza è che i partiti cercano di massimizzare il loro potere.
Nella formazione di qualsiasi governo, tutti i partiti cercheranno di far parte della coalizione più piccola possibile, la coalizione minima vincente, composta dal minor numero di partiti che controllano il minor numero di seggi, purché siano la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari. Se il numero di seggi fosse l'unica variabile da tenere in considerazione, il discorso potrebbe davvero chiudersi qui.
Nella vita politica reale però ci sono da tenere in considerazione altre variabili. Per esempio la distanza ideologica, o comunque la distanza programmatica che corrisponde grossomodo alla collocazione dei partiti sull'asse destra sinistra; in sostanza è davvero improbabile che un partito di centro - sinistra intenda fare una coalizione e governare con un partito di estrema destra! Sia per la distanza ideologico - programmatica, sia per il fondato timore che una gran parte del suo elettorato non gradirebbe e si rivolgerebbe ad un altro partito.
In secondo luogo esistono contiguità politiche che facilitano la formazione di coalizioni di governo.
In terzo luogo vi sono memorie storiche, esperienze precedenti che agevolano o ostacolano la formazione di alcune coalizioni di governo.
Esistono, poi, strategie partitiche che vanno in una certa direzione o in un'altra, seguendo le quali un partito potrebbe essere interessato a comportarsi da office - seekers (mira alla conquista di determinate cariche) o da policy - seekers (mira all'attuazione di determinate politiche).
Infine possono esistere convenzioni sistemiche legate alla natura del sistema politico, secondo le quali, tra le varie coalizioni possibili alcune risultano più accettabili ed altre improponibili, per esempio quelle che includono partiti che si richiamano al fascismo.

In sostanza la coalizione di governo più probabile è sempre una coalizione centrista detta sovradimensionata, per due ragioni: contiene più partiti di quelli necessari a dare vita ad una coalizione minima vincente; contiene più seggi di ogni altra coalizione possibile sovradimensionata (tabella pag 228). Spesso le coalizioni sovradimensionate imperniate sul centro si giustificavano con riferimento all'impossibilità, politica e democratica, di coalizzarsi con partiti estremi. Se coalizioni centriste simili si sono già formate in passato è probabile che continuino a formarsi poiché dirigenti e partiti si conoscono, hanno maturato fiducia nei comportamenti reciproci; rifacendo coalizioni sperimentate risparmiano anche tempo nella decisione di coalizzarsi, nella definizione del programma di governo, nella distribuzione delle cariche ministeriali.

Con governi di minoranza di intendono governi che non hanno la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento. In Svezia i governi socialdemocratici (centro sinistra) costituiscono la norma da alcuni decenni: la sinistra non viene considerata un alleato desiderabile dai socialdemocratici e la stessa sinistra non ha mai mostrato nessuna propensione a mettere in crisi un governo socialdemocratico di minoranza, che è comunque meglio di qualsiasi altra opzione. Inoltre, una coalizione di tutti i partiti contro i socialdemocratici sarebbe troppo eterogenea per poter convergere su un programma. Quindi, tutti gli altri partiti aspettano tempi migliori e contano su eventuali errori e malumori prodotti dal governo socialdemocratico di minoranza. Questi ultimi sono comunque consapevoli che non dispongono di una maggioranza assoluta e quindi dovranno scegliere politiche accettabili per gli altri partiti, o almeno per una parte.

Nelle democrazie multipartitiche le coalizioni saranno di solito del tipo minimum winning, cosicché i componenti della coalizione ottengano il massimo delle ricompense che derivano dalla partecipazione al governo; questo tipo di coalizione porta una serie di vantaggi (contiguità politica, compatibilità programmatica, tempi veloci ecc). Le coalizioni sovradimensionate sono potenzialmente più lente nelle decisioni e meno limpide nella produzione di politiche pubbliche, ma più stabili nel tempo.

I governi di minoranza

È facile capire perché un partito accetti di governare da solo (per occupare cariche, attuare politiche ecc). E' difficile invece capire perché gli altri partiti accettino la presenza di governi di minoranza. La risposta prevalente è che questi governi sono comunque destinati a durare poco, in attesa delle condizioni necessarie a dare vita ad una coalizione più ampia; insomma, gli altri lo accettano in presenza di un temporaneo stato di necessità.
In realtà i governi di minoranza non solo non durano meno ma non sono nemmeno meno operativi. Sia in Italia che in Norvegia i governi di minoranza hanno prodotto un numero di politiche pubbliche non inferiore a quella degli altri tipi di governo. Inoltre, quando i governi sono composti da un solo partito, riescono ad evitare tensioni e conflitti derivanti dalla necessità di conciliare interessi diversificati. E sono maggiormente operativi perché la loro condizione minoritaria li obbliga ad attuare elementi programmatici significativi, poiché la loro durata dipende anche dalla loro efficacia.
Strom aggiunge che i governi di minoranza possono servire come veicoli di alternanza al potere in sistemi di bipartitismo o bipolarismo, sia quando l'opposizione è leale (il governo la obbliga a diventare propositiva e limpida, e a candidarsi ufficialmente a sostituirlo) sia quando è anti sistema (il governo attrarrà le forze pro sistema e isolerà il partito o i partiti anti sistema).
Dunque, i governi di minoranza sono un fenomeno tutt'altro che raro nelle democrazie contemporanee.

I governi di partito

I governi contemporanei sono, con rarissime eccezioni, governi di partito. L'unica eccezione significativa sono gli USA, comunque parziale e spiegabile in riferimento alla forma di governo presidenziale e alla debolezza delle strutture partitiche che operano in uno spazio politico praticamente continentale.

La partiticità di un governo è definibile in base a cinque requisiti, secondo Katz:
1) Le decisioni sono prese da personale di partito eletto, o da soggetti sotto il suo controllo.
2) Le politiche pubbliche sono decise all'interno dei partiti che.
3) . poi agiscono in modo coeso per attuarle
4) I detentori del potere sono reclutati dai partiti
5) I detentori del potere sono mantenuti responsabili attraverso il partito.
Se tutte le condizioni operano congiuntamente si avrà un'alta "partiticità di governo", che può essere ancora meglio valutata se si configurano tre condizioni specifiche; l'organizzazione partitica agisce:
1) Mostrando comportamenti di squadra
2) Cercando di acquisire il controllo di tutto il potere politico
3) Fondando le sue pretese di legittimità sul consenso elettorale

Bisogna anche valutare quale sia l'ambito di estensione del governo di partito. Si può parlare di partiticità della società con riferimento alla presenza dei partiti nell'ambito sociale ed economico, alla possibilità e alla pratica della loro penetrazione in settori non propriamente politici. In realtà la partiticizzazione della società sembra oggi servire obiettivi non propriamente democratici: il mantenimento e l'estensione della presa sull'elettorato, piuttosto che funzione di guida e orientamento.

Le differenze significative tra i vari governi di partito riguardano la possibilità che il governo sia formato da un solo partito o da una coalizione più o meno ampia.
Altre differenze riguardano la natura dei singoli attori partitici, in special modo la loro unitarietà e disciplina. Diverso è un governo fatto da un solo partito coeso e disciplinato, da un governo fatto da una coalizione di partiti ciascuno diviso in correnti.
Le differenze riguardano anche l'eventuale partiticizzazione della società: la distribuzione delle spoglie (il bottino di cariche) attribuito a chi ha vinto le elezioni (lottizzazione) e la presenza più o meno soffocante delle organizzazioni di partito nel sistema sociale ed economico (colonizzazione).

Gli studiosi considerano legittimo che i partiti vittoriosi collochino personale di estrazione partitica nelle cariche di governo e anche in alcuni ruoli politico amministrativi. Questo personale deve essere pienamente responsabile nei confronti di chi lo ha nominato, che sarà a sua volta responsabile nei confronti dell'elettorato.
Il modello di party government funziona al suo meglio quando le elezioni sono competitive e producono alternanza tra partiti e coalizioni. In questi casi i governanti di partito, temendo il verdetto degli elettori, sceglieranno personale tecnicamente competente, oltre che leale al partito, nella consapevolezza che verranno giudicati anche in base al loro rendimento.

La crescita del governo

I compiti del governo sono cambiati in maniera significativa nel corso del tempo: sono considerevolmente aumentati.
Il governo si occupa della creazione e del mantenimento della legge e dell'ordine politico all'interno dello Stato; della protezione dei cittadini contro le interferenze dall'esterno. Quando i compiti sono soltanto questi, si parla di governo minimo, anche se anche per svolgere solo questi compiti i governi dovranno dotarsi di appositi apparati.
All'inizio dell'esperienza dello Stato contemporaneo, i governi hanno ampliato la loro sfera d'intervento nella società e nell'economia. Hanno dovuto assumere compiti prima svolti dalla società ed hanno gradualmente proceduto all'attuazione di politiche sociali culminate nella creazione di un vero e proprio stato sociale. Inoltre i governi sono entrati attivamente nella sfera economica con gli obiettivi congiunti di stimolare la domanda di beni e contenere o eliminare la disoccupazione. Si ha avuto quindi una grande assunzione di responsabilità da parte del governo di fronte ai cittadini ed una ramificata e costosa presenza degli apparati burocratici governativi nella sfera socio economica.

Il fenomeno della crescita del governo e della presenza del governo, apparve grave negli anni Settanta, quando si parlò di crisi di governabilità. Grazie ad un'analisi comparata delle democrazie occidentali di Rose, sappiamo che negli anni 1950/1980: le leggi approvate dai parlamenti non erano aumentate; l'aumento del drenaggio fiscale era stato determinato più dall'inflazione che dalla quota del prodotto nazionale destinato al settore pubblico; che la grande maggioranza dei dipendenti pubblici non era rappresentata da burocrati irraggiungibili; il numero delle istituzioni e organizzazioni pubbliche era diminuito; i programmi pubblici che si erano espansi erano quelli relativi a politiche pubbliche già consolidate ed accettate.
Probabilmente la spiegazione migliore è che, di fronte al successo dello Stato e dei governi, alcuni settori sociali hanno acquisito la consapevolezza di poter fare meglio da soli e hanno chiesto una riduzione dell'intervento dello stato; queste richieste hanno trovato almeno un parziale successo e la ritirata degli stati e dei governi, iniziata sotto l'impulso dei paesi anglosassoni, ha portato ad una riduzione complessiva dello stato sociale. Il rischio è che questo ridimensionamento si ripercuota in un ridimensionamento dei diritti politici e civili dei cittadini.
Nei regimi contemporanei rimane aperto il conflitto su "quanto" governo.

Le forme di governo

I governi svolgono i loro compiti inseriti all'interno di un sistema istituzionale complessivo che viene definito "forma di governo". Esiste una tripartizione classica delle forme di governo.

Forme di governo presidenziali.
Il capo dell'esecutivo è eletto direttamente dai cittadini. Il Congresso (cioè il parlamento) è anch'esso eletto dai cittadini con vari sistemi elettorali, che variano da paese a paese. Come il presidente non ha il potere di sciogliere il Congresso, quest'ultimo non ha il potere di sfiduciare e sostituire il presidente, ma può solo metterlo in stato d'accusa per attentato alla costituzione. Dunque presidente e congresso sono istituzioni separate, che condividono il potere: ad esempio, se il presidente introduce disegni di legge non graditi al Congresso, questo può respingerli; se il Congresso approva leggi sgradite al Presidente, questo può mettere il proprio veto.
Il problema maggiore è costituito dalla possibilità che il partito del presidente non abbia la maggioranza al Congresso (governo diviso). Un altro problema è quello di un presidente che abbia invece una solida maggioranza al Congresso e che quindi possa governare schiacciando l'opposizione (presidenza imperiale). Entrambi questi effetti possono essere esaltati o temperati dal sistema partitico: ad esempio se i rappresentanti improntano i loro comportamenti ad una rigida logica di partito, i problemi diventeranno reali.
Il presidenzialismo da un lato è troppo forte e rischia degenerazioni sotto forma di comportamenti insofferenti di controlli e autoritari; da un altro è debole e scivola verso l'impotenza decisionale. Della prepotenza conosciamo esiti sgradevoli con sconfinano nell'autoritarismo; del governo diviso conosciamo le difficoltà decisionali che il presidente tenterà di superare in tre modi: clientelare se il presidente tenta di scambiare le risorse di cui dispone con i voti dei rappresentanti ostili; retorico se cercherà di convincere l'elettorato a fare pressioni sui suoi rappresentanti affinché sostengano il presidente che hanno eletto; autoritario se userà minacce e farà pressioni sugli organismi di sicurezza e militari che egli stesso controlla.
Il governo diviso viene giustificato con le preferenze degli elettori: se essi continuano a spezzare il loro voto, significa che anch'essi ritengono fondate le preoccupazioni dei padri fondatori su un'eventuale concentrazione di potere nel circuito presidenza/congresso.  L'obiezione più incisiva sul governo diviso riguarda il procedimento democratico elettorale: presidente e congresso entrano in una zona grigia di competizione o collaborazione, e l'elettore chiamato a esprimere il suo voto non sa a chi attribuire responsabilità di un buono o cattivo governo. Insomma, il governo diviso rende il presidenzialismo debole e poco responsabile, e può funzionare solo con un sistema partitico non rigidamente strutturato.

Forme di governo semipresidenziali.
Sono costruite per ottenere vantaggi dal presidenzialismo e dal parlamentarismo. Il presidente della repubblica è eletto direttamente dal popolo e non può essere rovesciato dal parlamento, salvo la sua messa in stato d'accusa; il primo ministro è nominato dal presidente ma deve essere sorretto dal parlamento e averne la fiducia, ha quindi una doppia responsabilità e può essere rimosso dal presidente.
Le elezioni disgiunte tra presidente e parlamento possono dare esiti differenziati: si parla allora di coabitazione. Ci sono due fattori di temperamento delle tensioni e dei conflitti derivanti da una coabitazione: il fattore personale (sia il presidente che il primo ministro non vorranno forzare i rapporti e andare allo scontro, per la paura di uscirne sconfitti e di apparire poco rispettosi di una parte dell'elettorato; le due ambizioni contrapposte riusciranno a controbilanciarsi) e il fattore politico - partitico (il primo ministro e il suo governo possono funzionare col sostegno parlamentare, se le due maggioranze non coincidono; allora il primo ministro prende il giusto sopravvento sul presidente grazie al sostegno della maggioranza parlamentare). Insomma, con un governo diviso può aversi stallo, con una coabitazione c'è sempre qualcuno che ha la maggioranza e che ha il potere di governare. In Francia, Portogallo e Polonia si sono avuti molti casi di coabitazione. In conclusione, nemmeno le coabitazioni più complesse hanno finora prodotto problemi paragonabili a quelli di un governo diviso e le forme semipresidenziali hanno sempre garantito la stabilità degli esecutivi e la loro funzionalità molto meglio delle forme presidenziali.

Forme di governo parlamentari.
I governi formati da un solo partito sono sicuramente più stabili di quelli multipartitici ed hanno una maggiore durata. La durata del governo viene di solito identificata con la stabilità in carica del primo ministro; se si tenesse in conto anche la durata dei singoli ministri il discorso cambierebbe perché ci sono governi dove si ha una notevole rotazione e ricambio del personale ministeriale e che però non si configurano come instabilità governativa. In generale, si ha instabilità governativa ogni volta che viene posta in essere la procedura di dissoluzione di un governo e la formazione di un nuovo governo. Comunque, le forme parlamentari sono più rappresentative e flessibili delle altre, ma anche più esposte all'instabilità, anche se la formazione di un sistema partitico che agevoli la stabilità (quello bipolare) può essere agevolata con leggi elettorali.
In Italia dal 1945 al 1999 si sono avuti 57 governi della durata media di dieci mesi ciascuno. Il problema delle modalità con cui creare un governo stabile rimane aperto in Italia e appare risolvibile solo con una nuova riforma della legge elettorale.
In Germania e Spagna è stato adottato il voto di sfiducia costruttivo: la sfiducia deve essere palesemente votata da una maggioranza assoluta e seguita da un altro voto a maggioranza assoluta, con cui viene designato il nuovo primo ministro, pena lo scioglimento del parlamento; questo serve da deterrente a eventuali partiti che vogliano produrre crisi di governo per ottenere vantaggi particolaristici.
Dal punto di vista dei poteri del governo, ci sono due possibili degenerazioni: un esagerato controllo del governo sulla sua maggioranza parlamentare che può condurre a eccessi decisionistici; il cosiddetto governo per decreto, quelli deboli che sono costretti a decretare, per tenere insieme la maggioranza e obbligarla ad essere disciplinata. Funzionano in maniera relativamente soddisfacente quei governi che uniscono alla personalizzazione di cariche politiche elettive elementi di flessibilità istituzionale e che stabiliscono un rapporto abbastanza stretto tra governo e la sua maggioranza parlamentare.


POLITICHE PUBBLICHE


Dalla politica alle politiche

Tutte le tematiche analizzate finora, appartengono all'mabito generale degli inputs cioè delle domande, richieste, preferenze che vengono immessi dai cittadini nella cosiddetta scatola nera, dove si svolge il processo decisionale, cioè quei processi di conversione delle domande e dei sostegni in outputs. Gli effetti degli outputs vengono detti outcomes, cioè gli esiti. Il circuito di feedback sono le modalità con le quali gli esiti delle politiche pubbliche vengono comunicati e agiscono sui nuovi imputs.
Secondo alcuni sarebbero le politiche pubbliche a determinare la politica: sarebbero le politiche pubbliche a dare strutturazione ai sistemi di partito e alle forme di governo e a modificare gli uni e le altre. Questa tesi contiene elementi di verità poiché le politiche pubbliche retroagiscono sulla sfera politica in generale. Tuttavia appare piuttosto azzardato trascurare del tutto l'importanza delle istituzioni, dei partiti; non si deve nemmeno pensare che uno specifico istituzionale determini quasi automaticamente tutte le politiche pubbliche.

Decisioni e politiche pubbliche

Qualsiasi politica pubblica è il prodotto di una decisione, ma va molto oltre il momento della decisione fino a ricomprendere almeno l'attuazione.
Si può dire che le politiche sono pubbliche quando vengono prodotte dalle autorità di governo intese in senso lato, dispiegate da funzionari e organismi governativi.
Una definizione di Mény e Thoenig va modificata perché  non tutte le autorità provviste di potere pubblico e di legittimità istituzionale sono qualificabili come politiche pubbliche; basti pensare alle molte attività con le quali le autorità proseguono il mantenimento e l'accrescimento del loro potere e prestigio personale. Diedero poi un'altra definizione: una politica pubblica si presenta sotto forma di un insieme di prassi e direttive che promanano da uno o più attori politici. Secondo questa definizione però una politica pubblica sarebbe il prodotto di uno o più attori politici: questa limitazione appare alquanto imprecisa perché non specifica quali sono effettivamente gli attori, elimina altri attori che non sono pubblici ma possono prendere parte alla produzione delle politiche pubbliche, indirizza l'attenzione verso un gruppo di attori tralasciandone molti altri. Ci sono composite aggregazioni che intervengono in maniera più o meno consolidata nei processi di produzione delle politiche pubbliche.

Gli attori nella produzione delle politiche pubbliche

Non sono mai né i politici né i governanti da soli a produrre politiche pubbliche. Ci sono vari modelli.

Party government.
Trova attuazione più sicura e duratura essenzialmente nei sistemi bipartitici. Tuttavia elementi di notevole prevalenza degli attori partitici nei processi di produzione delle politiche pubbliche si riscontrano ampiamente e diffusamente anche in sistemi non bipartitici, ad esempio in Italia nella Prima Repubblica. Vede i partiti come attori esclusivi e dominanti nel processo di produzione di politiche pubbliche; comunque, anche se non esclusivi, i partiti sono sempre presenti anche nei modelli alternativi a questo.

Neo - corporativismo.
Si deve far riferimento alla contrapposizione tra pluralismo (le politiche pubbliche sono il prodotto sempre mutevole dell'interazione tra una molteplicità di interessi e gruppi anch'essi mutevoli, e lo Stato è solo uno di questi gruppi) e neo - corporativismo (i gruppi che contano davvero sono solo tre: i governi con i loro apparati esecutivi, i sindacati, le associazioni imprenditoriali, tutti dotati di notevole stabilità e risorse). Questo secondo modello sembra emarginare il parlamento ed eroderne il potere di approvazione e controllo su come opera il governo. La politiche pubbliche che vengono decise attraverso questo tipo di accordi sono molte e riguardano soprattutto la sfera economico - sociale, cioè dove interessi imprenditoriali e sindacali potrebbero altrimenti entrare in crisi. Quando diventano più complesse e intervengono altri fattori (sfide culturali, frammentazione degli interessi, pressioni internazionali) si dovrà procedere con altre modalità.

Triangoli di ferro.
Attraverso di essi verrebbero prodotte le politiche pubbliche più rilevanti. Vengono individuate tre aggregazioni di principali attori: i gruppi di interesse, le agenzie burocratico amministrative, le commissioni parlamentari. C'è una certa solidità di rapporto tra questi tre elementi. Questi triangoli possono essere molto numerosi e sparsi nello stesso sistema politico. Ciascuno degli attori contribuisce alla funzionalità del triangolo in termini di decisioni, risorse, voti; per questo le politiche prodotte da questi triangoli offrono il vantaggio di una continuità.

Reti tematiche.
Questo modello è meno strutturato del precedente e aperto a una molteplicità di partecipanti, di interazioni episodiche e occasionali, esposte al pubblico. Danno origine a politiche pubbliche mutevoli e instabili.

Le comunità politiche.
Gli attori sono alquanto numerosi. Esse si costituiscono attraverso contatti tra politici, burocrati, rappresentanti di gruppi d'interesse. Ci sono vantaggi derivanti dalla conoscenza personale e dalla possibilità di strutturare un processo decisionale di soddisfazione reciproca. È questo il modello che illustra meglio la situazione italiana. Le politiche pubbliche prodotte da un sistema di negoziazione stabile e consolidato sono attribuibili alle azioni e interazioni di una o più comunità politiche.

Comitologia.
Il processo attraverso cui sono prodotte le politiche pubbliche dell'UE. La partecipazione di un elevata pluralità di attori in contesti mutevoli ha prodotto una situazione caratterizzata da comitati internazionali. Il sistema nel suo insieme è detto comitologia. La sovrapposizione di attori e compiti si traduce in politiche pubbliche che vengono criticate per l'opacità del procedimento e di deficit democratico.

È corretto affermare che a seconda dei sistemi politici e delle politiche pubbliche vi sarà la prevalenza di un modello su un altro, determinata soprattutto dalla natura degli assetti istituzionali. Esiste un collegamento stretto tra le strutture politiche e le politiche pubbliche.

Le fasi della produzione di politiche pubbliche

Governi e governanti rispondono alle domande degli elettori perché sono interessati ad una rielezione; in situazioni di risorse scarse, queste risposte verranno date solo a quelle domande formulate da gruppi dotati di potere sul governo o che comunque coincidono col programma di governo. La necessari età o meno di una politica pubblica dipende quindi dalla valutazione delle autorità politico - istituzionali.

Di solito una politica pubblica è quantomeno un tentativo di risposta secondo lo schema inputs - outputs; talvolta però costituisce un tentativo anticipato di disinnescare domande sociali, mira a prevenire virtuosamente domande mal trattate; altre volte è la conseguenza delle interazioni tra una pluralità di attori e in questi casi la politica pubblica è condizionata da dinamiche interne al sistema istituzionale e alla coalizione di governo, oppure da conflitti tra gli attori senza che siano coinvolti gruppi più ampi. Dunque il circuito input - output può essere complicato dalle immissioni di input elaborati all'interno della scatola nera dalle stesse autorità politiche.

Il problema di solito fa la sua comparsa all'inizio del processo. L'affermazione di una politica pubblica in assenza di un problema può rispondere a interessi delle autorità (farsi pubblicità, raccogliere fondi ecc); un problema può rimanere tale senza che vi si apporti una politica pubblica per tre ragioni: è un problema che riguarda pochi gruppi; è un problema per il quale non esistono soluzioni note; è un problema che può essere sfruttato dalle autorità (per creare panico ecc).

Nel 1956 Lasswell individuò sette fasi nella produzione delle politiche pubbliche.

Informazione. Raccolta di notizie e pianificazione.

Iniziativa. Promozione di politiche alternative

Prescrizione. Emanazione di regole generali.

Invocazione. Qualificazioni provvisorie della condotta sulla base delle prescrizioni.

Applicazione. Qualificazione definitiva della condotta sulla base delle prescrizioni.

Valutazione. Stima della riuscita o del fallimento delle decisioni.

Cessazione. Estinzione delle prescrizioni e degli istituti entrati a far parte dell'ordinamento. Raramente le politiche pubbliche cessano, persino le peggiori: vi si oppongono i gruppi che ne hanno tratto beneficio, i gruppi coinvolti nella sua attuazione, i produttori politici e burocratici che altrimenti rimarrebbero privi di lavoro. Per abolire una politica pubblica è indispensabile crearne una nuova che ne imponga la cessazione. Comunque, sono poche quelle che cessano definitivamente: molte vengono più o meno ridefinite e altre perdurano con andamento inerziale; ci sono anche molti enti inutili, che esistono ancora nonostante la politica pubblica sia stata valutata negativamente oppure non ce ne sia più bisogno.

Una volta identificato il problema, viene inserito nell'agenda politica e inizia il procedimento che potrebbe portare alla soluzione, anche se le autorità potrebbero decidere di iniziare il procedimento, dando l'impressione che si occupino del problema, senza però avere intenzione di portarlo a termine. Una volta formulata una rosa di soluzioni possibili, se ne deve scegliere una: trattandosi di autorità politiche, fra i costi e i benefici vanno fatti rientrare anche i voti che potrebbero ottenere o perdere. Esiste sempre la possibilità che le autorità sbaglino i loro calcoli a causa di un'informazione imperfetta; comunque, si perviene finalmente alla scelta di una soluzione.
Una decisione rischia però di rimanere lettera morta se non vi segue un'attuazione: qualche volta le autorità possono essere soddisfatte del semplice fatto di aver prodotto una decisione dimostrando di aver prestato attenzione alle domande sociali. L'effetto simbolico propagandistico appare ai loro occhi più importante dell'effetto concreto della decisione; qualche volta invece vorrebbero davvero mettere in atto la decisione ma sono bloccati da ostacoli politici o burocratici.

Attuazione e valutazione

Attuazione.
Esistono due prospettive analitiche: top down (il processo di attuazione procede dal vertice politico che l'ha formulato e approvato, alla base, cioè a coloro che sono incaricati di attuarla concretamente; questo percorso avviene soprattutto per quelle politiche pubbliche su cui si concentrano attenzione e aspettative di mass media e opinione pubblica) o bottom up (gli importanti dettagli operativi dell'attuazione vengono definiti e poi tradotti in pratiche specifiche dagli operatori che agiscono a diretto contatto con i fruitori delle politiche pubbliche; questi cosiddetti street level bureaucrats godono di ampia discrezionalità, hanno le conoscenze e il potere sufficienti per adattare la politica pubblica alle caratteristiche del loro pubblico di riferimento e alle proprie esigenze personali).

Valutazione.
Numerosi sono i criteri con cui si può valutare una politica pubblica. L'efficacia (capacità di quella politica di ottenere gli obiettivi voluti) e l'efficienza (conseguimento di quegli obiettivi al minor costo possibile). Si deve anche tenere conto della sequenza di avvenimenti che promanano dall'attuazione della politica pubblica, cioè dei suoi impatti, che possono essere molteplici (avvantaggiare o svantaggiare alcuni gruppi, incidere sull'intero sistema politico economico ecc): la linea divisoria tra prodotti ed esiti è molto sfumata e la valutazione può essere fatta sia in termini di outputs (ciò che davvero è emerso alla fine del procedimento iniziato con la formulazione della politica pubblica) o di outcomes (ciò che ha davvero fatto seguito alla messa in opera di quella politica pubblica).

Sistemi decisionali
Si tratta delle modalità con cui le autorità pervengono alle scelte e alle decisioni. Se ne individuano quattro grandi modelli o schemi decisionali.

Razionalità sinottica.
Il decisore raccoglie tutte le informazioni e i dati necessari, prende in esame tutte le conseguenze possibili e alla fine sceglie con precisione e determinazione una politica pubblica rispetto ad un'altra. L'illusione di un controllo completo è svanita rapidamente e apparve evidente che nessuno avrebbe mai raggiunto capacità tali da conseguire razionalità sinottica. Allora fu introdotto un modello meno ambizioso .

Razionalità limitata.
Il decisore si limita a soddisfare alcune esigenze, definite in maniera realistica, come la raccolta e la valutazione di dati, variabili, alternative e conseguenze, in un numero sufficientemente ampio ma non esageratamente grande. La decisione viene presa, la politica pubblica attuata e, quando si presenteranno altri dati e altre informazioni, il decisore potrà riformulare ciascuna politica divenuta inadeguata.



Incrementalismo sconnesso.
I processi decisionali e di produzione delle politiche pubbliche procedono per tentativi, attraverso accordi e scambi, crescendo su decisioni già prese, revisionandole e modificandole. Ci sono però innovazioni che non possono essere ricondotte a accordi, scambi e compromessi. Questo modello caratterizza processi decisionali di routine in situazioni di relativa stabilità.

Bidone della spazzatura.
La maggior parte dei processi decisionali e delle politiche pubbliche è caratterizzata da insormontabile complessità, cosicché i decisori si trovano abitualmente in enormi difficoltà. Eppure, di tanto in tanto, è necessario e indispensabile prendere una decisione; per sbloccare situazioni di questo tipo il decisore si abbandona alla casualità, pescando dal bidone delle alternative variamente disponibili e estraendone una a caso che sarà sostanzialmente influenzata dal tempo in cui viene presa.

Sarebbe errato pensare che i decisori facciano ricorso ad un unico schema specifico.

Tipi di politiche pubbliche

La varietà immaginabile di politiche pubbliche è molto ampia, ma Lowi individuò quattro grandi categorie di politiche pubbliche individuate con riferimento al loro oggetto: distributive (riguardano servizi di vario tipo, per lo più collegati alla previdenza e assistenza; distribuiscono risorse e sono finanziate attraverso le tasse), regolative (riguardano la produzione di norme che regolano i comportamenti), redistributive (tolgono in maniera visibile ed esplicita ad alcuni gruppi per dare ad altri), costituenti (riguardano la formulazione di norme che sovrintendono alla creazione e al funzionamento delle strutture di autorità e delle autorità stesse; sono relativamente rare). Vanno aggiunte le politiche simboliche, che servono a rafforzare e/o trasformare identità collettive, sentimenti di appartenenza, legami tra detentori del potere politico e cittadini.
Lowi sottolinea la probabilità dell'intervento coercitivo delle autorità in attuazione delle politiche pubbliche regolative e redistributive. Secondo Lowi, inoltre, le modalità con cui vengono prodotte le politiche pubbliche finiscono per plasmare anche le strutture politiche; politiche pubbliche mal formulate e male attuate rimbalzerebbero contro i loro decisori imponendone cambiamenti e sostituzioni, e la nuova sfera politico burocratica rideterminerebbe nuove politiche pubbliche. Alcuni autori hanno invece sostenuto che le politiche pubbliche sono essenzialmente il prodotto di variabili socio economiche, cioè che a parità di risorse sistemi politici altrimenti differenti per struttura istituzionale e assetto partitico produrrebbero politiche pubbliche essenzialmente simili; se anche questo fosse vero, rimarrebbero comunque molte differenze politiche ed istituzionali tra i sistemi politici per quello che riguarda la messa in atto di queste politiche.

Sono molti gli studiosi che ritengono che la scienza politica abbia una vocazione applicativa, che può essere esplicitata in due modi: lo scienziato politico come consulente di coloro che posseggono il potere decisionale; lo scienziato politico ridisegna meccanismi e istituzioni, formulando teorie probabilistiche. Comunque, se lo studio delle politiche pubbliche non vuole inaridirsi in mera attività di consulenza decisionale, ha bisogno di riflessioni e teorizzazioni della scienza politica; se la scienza politica non vuole arroccarsi sulla sua torre di teorizzazione deve confrontarsi con gli studi delle politiche pubbliche.

NB - Quanto più aumenta il numero degli attori rilevanti nella produzione delle politiche pubbliche, tanto più diventa difficile attribuire responsabilità politico - decisionali specifiche e si crea un problema di deficit di democraticità.

REGIMI NON DEMOCRATICI


Alcuni dati

Nel mondo persiste ancora una grande varietà di regimi, concentrati soprattutto in Africa, Medio Oriente ed Asia, nei quali i diritti dei cittadini non vengono rispettati, i detentori del potere politico acquisiscono le loro cariche non attraverso procedimenti elettorali ma con l'uso della forza, i governanti esercitano il potere in modo del tutto arbitrario. I regimi non democratici continuano a costituire la maggioranza dei regimi politici contemporanei (71 contro 58 democratici).

Esistono democrazie ininterrotte, mentre nessun regime non democratico può vantare una durata ininterrotta paragonabile a quella delle democrazie più longeve, perché sono costruzioni, per quanto potenti e oppressive, sempre fragili e precarie. Probabilmente, è proprio per la consapevolezza che il loro regime non ha basi solide, che i leader autoritari fanno frequente ricorso all'oppressione e alla repressione.

Regimi autoritari

Prendendo a riferimento la Spagna franchista, Linza formulò la definizione di regime autoritario: sistemi a pluralismo politico limitato, la cui classe politica non rende conto del proprio operato, basati non su un'ideologia articolata ma su mentalità specifiche, dove non esiste una mobilitazione politica su vasta scala, e in cui un leader esercita il proprio potere entro limiti mal definiti.

Pluralismo politico.
E' limitato da più punti di vista: le organizzazioni autorizzate a mantenere e a esercitare potere politico sono pochissime; vengono legittimate dal leader; hanno sfere riconosciute di autonomia alquanto circoscritte; non entrano in competizione tra loro perché ognuna ha il monopolio nel proprio settore. Sebbene esista più di un'organizzazione politicamente rilevante, è un pluralismo sistematicamente non competitivo: ad ognuna organizzazione spetta una parte di potere, senza sovrapposizioni.
Il pluralismo democratico sarà sempre competitivo, illimitato e responsabile.

Non responsabilità.
Le organizzazioni che sopravvivono, non debbono rispondere a nessun elettorato e al loro interno sono organizzate in modo gerarchico: sono infatti non responsabili. I loro dirigenti vengono scelti tra coloro che hanno dimostrato sostegno al leader, quindi l'adesione al regime e l'ossequio al leader sono gli unici criteri usati per selezionare i dirigenti di queste organizzazioni, le quali sono tipicamente autoritarie nelle loro procedure di funzionamento.

Mentalità.
Secondo Linz l'ideologia è un sistema di pensiero codificato, rigido e dotato di logica; per mentalità intende un insieme di credenze meno codificate, meno rigide, con margini di ambiguità interpretativa che i capi utilizzano per ottenere quiescenza ed obbedienza. La mentalità autoritaria più diffusa fa leva sulla tradizionale triade Dio, patria, famiglia.
Siccome le mentalità autoritarie derivano da forti componenti tradizionali sono più facilmente vulnerabili dalle sfide del cambiamento e della modernità. Inoltre le mentalità presentano differenze notevoli poiché si costruiscono e si consolidano con riferimento a tradizioni politiche, sociali, culturali, religiose con base nazionale
Esiste anche una mentalità democratica fatta di tolleranza per le diversità, accettazione della competizione regolamentata, dei conflitti e dei compromessi tra una molteplicità illimitata di attori politici. Esiste però anche un'ideologia democratica fatta di diritti e doveri, che si plasma attorno libertà, eguaglianza, solidarietà.

Mobilitazione.
Nei regimi autoritari si può avere una mobilitazione in alcuni momenti. Nella fase di instaurazione, oppure nel corso di sfide che vengono dall'interno o dall'esterno. C'è una certa riluttanza di natura ideologica e un'incapacità di natura organizzativa a mobilitare grandi masse; una volta insediato, il regime autoritario rinuncia alle adunate, spoliticizza le masse.

Leader.
Egli esercita il proprio potere entro limiti non definiti e essenzialmente arbitrari; egli è il punto di equilibrio accettabile per tutte le organizzazioni. Esiste una forte componente personalistica, con venature carismatiche; i regimi autoritari sono strettamente legati a un leader specifico che ha esibito il suo carisma rispondendo efficacemente alla crisi che ha dato vita al regime stesso. Cosicché la maggior parte di questi regimi dipende fortemente dal loro fondatore; ed è per questa dipendenza che spesso quando scompare il leader fondatore, i regimi autoritari non superano le crisi di successione.
Il potere del leader non sarà mai completamente arbitrario perché creerebbe troppi contraccolpi sia nel ristretto circolo dei collaboratori del leader sia nella più ampia configurazione delle organizzazioni autoritarie.

Il partito unico.
Linz esclude ogni accentuazione dell'importanza del partito nei regimi autoritari poiché, laddove esista un'organizzazione partitica ben strutturata, tendono a svilupparsi tensioni totalitarie.

I regimi totalitari

Alcuni critici considerano questa definizione inutilizzabile perché legata alla guerra fredda e all'uso ideologico che ne è stato fatto contro i regimi comunisti. In realtà il termine venne usato per la prima volta dai critici e dagli oppositori liberali del fascismo italiano, anche se il fascismo non fu mai davvero totalitario; anche il nazismo fu un regime totalitario ed esso non c'entra nulla con la guerra fredda.
Esistono due fattori coadiuvanti indispensabili: un grado di sviluppo tecnologico che consenta al controllo terroristico totalitario di dispiegarsi pienamente; la presenza di un partito unico organizzato in maniera da applicare questo controllo terroristico con estesa e profonda capillarità. La proprietà dei mezzi di produzione e la nazionalizzazione dell'economia non sono essenziali perché quello che conta è chi comanda.

Ideologia ufficiale.
Un insieme di idee ragionevolmente coerenti che riguardano i mezzi pratici per cambiare totalmente e per ricostruire una società con la forza o la violenza, fondata su una critica globale di quel che è sbagliato nella società già esistente o antecedente. È il caso dei regimi comunisti che hanno certamente avuto a disposizione un'ideologia marxista - leninista che presentava caratteristiche di uniformità, rigidità, univocità, e mirava a plasmare un sistema politico e una società; è anche il caso del regime nazista, anche se non era attrezzato con una vera e propria ideologia.

Controllo centralizzato di tutte le organizzazioni politiche, sociali e culturali, fino alla creazione di un sistema di pianificazione economica. Non esiste pluralismo in quanto sono regimi monisti.

Mobilitazione.
I regimi totalitari mirano a mantenere nella società uno stato di mobilitazione permanente imposta dall'alto. Esigono impegno continuativo, impongono dall'alto una mobilitazione frequente e intensa, chiedono ai cittadini di devolvere alla politica tutto o quasi il loro tempo libero, si propongono di essere dei regimi di mobilitazione.

Terrore.
Il leader di un regime totalitario non incontra limiti all'arbitrarietà del suo potere e può far uso all'incombente presenza del terrore. Esso può anche non essere più indispensabile qualora i cittadini abbiano completamente interiorizzato le norme di comportamento necessarie, tuttavia il terrore psicologico continuerà a persistere anche in assenza di un esercizio attivo del terrore politico e può essere periodicamente resuscitato: in Cina le ondate di attività terroristiche furono il prodotto di scelte razionali di attori consapevoli che perseguivano obiettivi individuabili e che intendevano svolgere funzioni positive per il regime.

Universo concentrazionario (Fisichella).
La sua esistenza è una caratteristica dei regimi totalitari: questo è un'istituzione penale, creata per la punizione e le repressione di delitti e crimini, oltre che una struttura politica per lo sradicamento del tessuto sociale mediante lo strappo e la cancellazione dalla società di interi gruppi e settori.

Partito unico.
E' lo strumento principale per l'acquisizione e l'esercizio del potere politico in un regime totalitario. Esso monopolizza il potere.

Polizia segreta notevolmente sviluppata.

Subordinazione completa delle forze armate al potere politico

Monopolio statale dei mezzi di comunicazione.
Per sventare la nascita di qualsiasi opposizione è indispensabile impedire la diffusione autonoma delle informazioni nella società. Qualsiasi tipo di comunicazione non controllata e non censurata dal regime può produrre verità alternative in conflitto con quelle del regime.

Regimi sultanistici e regimi post - totalitari

Linz e Stepan hanno fatto una classificazione dei regimi non democratici, comprendendo regimi autoritari, totalitari, sultanistici, post totalitari.

Alcuni casi di sultanismo sopravvivono ancora (Zaire, Iraq, Haiti ecc).
Non hanno nessuna ideologia elaborata e coerente, e neppure mentalità distintive; sono le idee del leader che definiscono i limiti dell'accettabilità delle posizioni politiche.
Non necessitano di alcuna forma di mobilitazione dei sudditi.
Distruggono qualsiasi pluralismo esistente prima della conquista del potere da parte del sultano.
Per lo più questi regimi giungono al loro termine con la scomparsa del sultano.

Esistono tre sottocategorie di regimi in base allo stadio di post totalitarismo cui sono pervenuti, cioè all'evoluzione dei rispettivi regimi già totalitari rispetto alle caratteristiche del pluralismo, ideologia, mobilitazione e leadership.
Post totalitarismo iniziale: hanno appena intrapreso il processo di cambiamento. La loro leadership non è quella del fondatore del regime, si è trasformata in una leadership burocratica e probabilmente collegiale; di conseguenza esistono limiti più consistenti al dispiegarsi del potere del leader.
Post totalitarismo congelato: tollera alcune attività critiche della società civile che sono suscettibili di tradursi nella comparsa di gruppi e associazioni; tuttavia rimangono intatti i meccanismi di controllo.
Post totalitarismo maturo: l'ideologia è diventata obsoleta e irrilevante a causa della comparsa di elementi tecnocratici; la mobilitazione è inaridita e terminata; il neo pluralismo sociale viene tollerato. Ciò che rimane saldo è il ruolo del partito come componente cruciale del regime; quando il partito accetterà di confrontare il proprio potere con altre forze politiche e sociali, la transizione alla democrazia diventa possibile.
Il pluralismo può emergere quando fa la sua comparsa una dialettica "potere politico / società" che incrina il regime totalitario e si manifesta in tre forme diverse: come prodotto di una scelta consapevole della leadership che mira a mantenere il potere controllando il grado di apertura del regime; come inarrestabile decadenza delle strutture totalitarie; come prodotto sociale ad opera di gruppi che si erano visti riconoscere qualche spazio di organizzazione nella sfera economico socio culturale. In questo terzo caso le probabilità di una transizione sono sicuramente maggiori.
Una volta che il regime totalitario sia venuto meno per le sue carenze intrinseche, non c'è modo di riportarlo in vita. Potrebbe sfociare in un regime sultani stico oppure in un regime autoritario a pluralismo limitato e non responsabile. Alcuni paesi dell'Europa orientale si trovano in questa situazione di squilibrio: non sanno tornare indietro; non riescono ad andare avanti per le resistenze dei gruppi privilegiati del vecchio regime e non del tutto sconfitti.

Origine e trasformazione degli autoritarismi

Da un lato i regimi autoritari sono il prodotto della vittoria dei gruppi che si oppongono alla democratizzazione sui gruppi che la desiderano; i detentori del potere devono in questo caso far ricorso alla forza per dare vita a un regime autoritario con l'appoggio di tutte le organizzazioni che si sentono minacciate da una democratizzazione. Quando invece i detentori sono abbastanza forti e intelligenti da controllare tempo e ritmo delle concessioni politiche può nascere una democrazia.
Da un altro lato, i regimi autoritari possono essere il prodotto di una democratizzazione tentata in maniera troppo rapida. Sulla scia della prima guerra mondiale, le domande di partecipazione provenienti dalle masse andarono oltre i limiti che i detentori del potere potevano accettare; così le classi dirigenti, pur di salvaguardare il loro potere e privilegi, permisero o facilitarono il rovesciamento della nascente democrazia.
In altri casi il potere delle classi dirigenti appariva comunque declinante e quello delle masse popolari ascendente; in questi casi la vittoria delle masse popolari organizzate attraverso il partito unico si caratterizzò come rivoluzione.

Il fascismo italiano è un prototipo di regime autoritario, anche se nacque con aspirazioni totalitarie. Rappresentò la reazione delle classi dirigenti ad una sfida abortita dalle classi popolari. Costruì il suo successo attraverso una consapevole mobilitazione delle classi medie, favorita dal loro panico di status di fronte alla sfida dei settori popolari organizzati da socialisti e comunisti. Quando il movimento fascista si rese conto che non aveva la forza per assoggettare le altre istituzioni (Chiesa, monarchia, Forze Armate) si piegò a trasformarsi in regime e diventò accentuatamente autoritario. Si adeguò al pluralismo limitato; gradualmente dopo la presa del potere le mobilitazioni dei sostenitori del regime diminuirono; il leader esercitò il suo potere in modo discrezionale ad arbitrario; rinunciò a plasmare la società, si limitò a dominarla, opprimerla, reprimerla in maniera selettiva, controllarne il ritmo e la natura del cambiamento e assecondando una limitata modernizzazione socio economica.
Ci sono delle somiglianze tra i regimi fascisti (limitata pluralità delle organizzazioni tollerate, scarsa mobilitazione politica, sopravvivenza di mentalità tradizionali che non diventano ideologie formalizzate, potere discrezionale del leader) e delle differenze derivanti per lo più dal diverso grado di sviluppo socio economico e dall'esposizione a fattori internazionali: la Spagna di Franco e il Portogallo di Salazar riuscirono a sopravvivere alla seconda guerra mondiale tenendosene alla larga e durando, grazie al loro isolamento dal contesto internazionale, più a lungo di altri regimi autoritari come il fascismo italiano.

Governi e regimi militari

Il profilo della maggioranza dei regimi non democratici del dopoguerra è segnato dal ruolo che vi viene svolto dalle organizzazioni militari: le forze armate diventano il gruppo dominante senza il quale lo stesso regime non potrebbe instaurarsi e sopravvivere; inoltre le forze armate, proprio per il loro peso nel regime, svolgono un ruolo di governo diretto ed esplicito.

Il fenomeno dell'intervento dei militari in politica viene definito pretorianesimo e sono state identificate tre fasi specifiche.
1) Pretorianesimo oligarchico. Quando la partecipazione politica è limitata a cricche e clan. Gli ufficiali decidono di intervenire in politica, soprattutto in una situazione di crisi sociale, hanno come obiettivo l'acquisizione di privilegi di carriera e di status. Il livello di violenza sarà basso perché i civili non sono organizzati e non sanno mobilitare i loro pochi sostenitori
2) Pretorianesimo radicale. Quando vengono coinvolte anche le classi medie. I militari si attivano per dare sostegno ad alcuni gruppi della classe media contro altri, soprattutto contro i settori che intendano estendere la partecipazione alle classi popolari. Questo tipo di governo militare dura grosso modo il tempo di preparare le elezioni generali magari escludendo dalla competizione elettorale le forze politiche sgradite. Il livello di violenza può diventare elevato solo se il partito delle classi medie spodestato si oppone al golpe e riesce a mobilitare i suoi sostenitori.
3) Pretorianesimo di massa. La partecipazione politica risulta estesa anche alle masse popolari. In questo caso si hanno dei veri e propri governi militari di durata variabile. L'obiettivo è quello di procedere alla costruzione di un vero regime militare di durata indeterminata, per plasmare un sistema politico totalmente diverso. Il livello di violenza può divenire molto alto se il partito delle classi popolari decide di resistere e si oppone con la forza dei numeri a quella delle armi. I colpi di stato sono possibili in questa situazione solo se l'organizzazione militare è convinta delle sue capacità di governo della società nella quale interviene.
Comunque, i governi e i regimi militari dovranno sempre appoggiarsi ad altre organizzazioni (Chiesa, burocrazia, imprenditori) e dureranno fintantoché l'integrità dell'organizzazione militare non verrà incrinata dai problemi e dalle sfide sociali da affrontare.

In generale le esperienze di governi esclusivamente militari durano per tempi non lunghi. Il districarsi delle istituzioni militari dalla sfera politica è sempre un processo complicato e può avvenire in tre forme.
1) Una sconfitta politica dei militari spesso derivante da una sconfitta militare oppure dalla delegittimazione elettorale, qualora il governo militare cerchi una legittimazione elettorale alla prosecuzione della sua oppressiva e repressiva presidenza.
2) Un disimpegno volontario, spesso di fronte all'ostilità crescente della società, ma negoziato anche da posizioni di forza.
3) Un golpe nel golpe, con la sostituzione degli ufficiali interventisti ad opera di ufficiali "costituzionalisti" che si impegnano a restituire il potere ai politici.

Nel periodo dal 1945 al 2000 si sono avuti colpi di stato militari un po' dappertutto nel mondo, con l'instaurazione di governi militari di vario tipo e varia composizione. In molti paesi arabi, inoltre, anche se non sono al governo in prima persona, i militari costituiscono da almeno cinquant'anni una parte integrante della coalizione governativa autoritaria dominante. In America Latina, poi, si sono avuti dei tentativi per dar vita a veri e propri regimi militari; per qualche tempo sembrò che questi potessero consolidarsi, spingendo lo studioso O'Donnell a teorizzare la nascita di regimi burocratico - autoritari, destinati a mettere radici profonde e a durare a lungo. Le caratteristiche di questi regimi sono: base sociale composta da una borghesia oligopolistica e transnazionale; ruolo decisivo dei militari; settori popolari esclusi; istituzioni democratiche e diritti di cittadinanza eliminati; sistema di accumulazione capitalistica che rafforza le diseguaglianze sociali; struttura produttiva transnazionalizzata; canali di accesso alla rappresentanza escludono classi popolari e servono le forze armate e le grandi imprese. Questo tipo di regime avrebbe adempiuto al compito di condurre a compimento il processo di industrializzazione con la massima esclusione delle classi popolari; è nel perseguimento di questo obiettivo di crescita economica che si ritrova la più importante differenza dai regimi autoritari tradizionali, i quali hanno invece l'obiettivo di contenere i mutamenti socio economici, di rallentarli e controllarli. In generale se il sistema socio economico si sviluppa, si creano le condizioni necessarie per la transizione alla democrazia, poiché si attiva un pluralismo di gruppi il cui controllo non può essere mantenuto dai governanti; se il sistema socio economico non produce risorse si diffondono tensioni che impongono ricambi nella coalizione autoritaria.
Storicamente, i regimi comunisti hanno invece avuto come obiettivo quello di produrre cambiamento, di creare sviluppo economico, di trasformare la società.
La categoria di regimi burocratico autoritari sembrava applicabile in particolare ai paesi dell'America Latina, dove si sono accentuati la compattezza delle élite che si coalizzano per acquisire e mantenere il controllo sul governo, sia la praticabilità dell'esclusione totale delle masse dal procedimento politico. In società complesse la costituzione di un regime autoritario richiede un livello di violenza medio - alto, per escludere le masse popolari, fornito soltanto da organizzazioni militari forti e coese; queste devono essere poi adeguatamente ricompensate dalla borghesia oligopolistica interessata ad approfondire il processo di industrializzazione. Quando queste condizioni vengono meno, i regimi burocratico autoritari giungono alla loro fine.

La transizione dai regimi militari avviene in due situazioni: quando l'organizzazione militare, rimasta gerarchicamente intatta, decide tempi e modi della transizione, negozia con i civili e sceglie quando restituire il potere politico ai civili; quando gli ufficiali insediatisi al governo hanno sovvertito la gerarchia interna la transizione diventa complicata perché l'organizzazione militare non sarà in grado di negoziare con i civili se prima non ha ricomposto la sua gerarchia interna, né sarà in grado di garantire una transizione controllata fintantoché essa non sarà ricompattata.
Il raro collasso di un'organizzazione militare può aprire la strada al ritorno dei civili al potere, ma certo non garantisce una democratizzazione.

I regimi militari sono comunque intrinsecamente instabili: a causa della vitalità di alcuni gruppi che non si sono fatti eliminare; a causa della possibile divisione interna all'organizzazione militare e della possibilità che gli interessi dei militari non coincidano con quelli delle associazioni imprenditoriali e padronali in senso lato.
Comunque, il problema dei militari al governo rimane irrisolto in molti paesi che sono ritornati alla democrazia dopo un governo formato dalle forze armate.


REGIMI DEMOCRATICI


Democrazie reali
Tensione tra democrazia formale (basata sul rispetto delle regole e delle procedure) e democrazia sostanziale (interessata agli esiti dei procedimenti formali in termini di uguaglianza e benessere per i cittadini) rappresenta la linfa del discorso filosofico, politico, storico, sociologico sulla democrazia.

Le più recenti ondate di democratizzazione hanno portato all'esistenza di un grande numero di democrazie, che vanno però distinte tra liberali (i diritti civili e politici sono riconosciuti e tutelati; viene rispettato il governo della legge; la magistratura e molte autorità amministrative sono indipendenti; la società è pluralista e vivace con mezzi di comunicazione non soggetti a controllo governativo; i civili esercitano il controllo sui militari) e elettorali (si vota ma uno o più principi sopraelencati vengono a mancare).

La definizione
Quella di Schumpeter consente di individuare quali regimi sono democratici e quali no, e di valutare come un regime democratico accresca o diminuisca la propria democraticità: il metodo democratico è quell'assetto istituzionale per arrivare a decisioni politiche nel quale alcune persone acquistano il potere di decidere mediante una lotta competitiva per il voto popolare.
Critiche - presunta riduzione della democrazia a competizione elettorale, con un mandato o una delega a una squadra di persone, che acquisirebbero un potere enorme non controllabile dal popolo per tutta la durata della loro carica; il popolo sarebbe libero solo nel momento delle elezioni, per il resto del tempo sarebbe soggetto passivo delle decisioni della squadra politica vincente.
Viene considerata una democrazia procedurale, mentre l'idea di Kelsen è considerata partecipativa.
Risposte alle critiche - c'è un complesso procedimento politico che porta alla formazione di una squadra politica che si presenta alle elezioni e le vince; c'è la possibilità che i cittadini influenzino l'azione di governo anche in corso d'opera.
Nessuna democrazia partecipativa può esistere in assenza di un solido fondamento procedurale. All'idea di Schumpeter va correlato il principio delle reazioni previste di Friedrich: per ragioni diverse, che sono le reazioni previste come il desiderio di essere rieletti, il gusto del potere, per godere dei privilegi ecc, la maggior parte dei governanti si sforzerà di interpretare al meglio le preferenze del maggior numero di elettori. Così i cittadini possono realmente far conto sulla responsabilizzazione dei loro governanti e non è vero che i governanti siano liberi di perseguire qualsiasi politica, se cercano la rielezione. Inoltre è probabile che la squadra perdente si organizzi per condurre un'opposizione critica e attenta, che promette di soddisfare le preferenze dei cittadini.

Le condizioni politiche
Ci sono alcuni requisiti indispensabili alla democrazia, primo tra tutti il suffragio: il corpo elettorale deve essere definito in maniera tale da includere i cittadini senza discriminazioni tranne l'età. Ormai non è più necessario, quando inizia un processo di democratizzazione, combattere la battaglia per il riconoscimento del diritto di voto; questo può essere uno svantaggio se visto come una minore necessità di spingere i cittadini all'azione politica e mobilitarli, e può spiegare almeno in parte l'elevato tasso di astensionismo.
L'elenco di Dahl dei requisiti per la creazione di un regime democratico è accurato e costruito sulle garanzie necessarie da conferire ai cittadini e sui diritti da promuovere affinché le loro preferenze incidano effettivamente sull'azione dei governanti. Se il sistema risponde a tutti i requisiti, la democrazia in entrata, cioè quella che riguarda le preferenze espresse dai diversi soggetti politici,  conseguita; si apre però il problema della democrazia in uscita, cioè del grado di controllabilità delle decisioni prese dai governanti, di identificabilità delle loro responsabilità specifiche, di rispondenza alle preferenze dei cittadini.

Le fasi della democratizzazione
I processi di democratizzazione hanno proceduto dando una preferenza a una di queste due direttrici: liberalizzazione (allargamento delle opportunità di contestazione) o inclusività (allargamento delle attività di partecipazione). Partendo da un'egemonia chiusa (una cerchia ristretta esercita la propria egemonia) che si trova a dover concedere qualcosa, ci si può muovere verso un'oligarchia competitiva (competizione tra elite non legittimate dal consenso delle masse, che sono escluse dal diritto di voto) attraverso la liberalizzazione come è avvenuto in Gran Bretagna, oppure verso un'egemonia includente (includono le masse e le coinvolgono per avere il loro sostegno ed indirizzarle a loro favore) come è avvenuto nelle repubbliche sovietiche. Il punto di arrivo in entrambi i casi sarà una poliarchia, un regime dove nessun gruppo è in grado di egemonizzare il potere politico che è diviso tra una pluralità di detentori. Si può anche passare direttamente dall'egemonia chiusa alla poliarchia, se c'è una rivoluzione o una guerra avviata da esterni che impongono un nuovo regime.

Schema classico.
Transizione - Instaurazione (processi che portano alle prime elezioni che portano alla formazione di un parlamento democratico) - Consolidamento (fenomeno che consente di mettere alla prova la solidità delle istituzioni; quando c'è una legittimazione completa delle istituzioni democratiche, cioè quando la maggioranza dei cittadini considera il regime democratico il migliore che potrebbe avere). Il consolidamento può essere Forte e questo porta alla Stabilità, cioè alla durata nel tempo del regime. Può essere Debole e questo porta Instabilità e poi alla Crisi.

Il punto di partenza del processo di democratizzazione è semplicemente non democratico, non specificamente autoritario.
Secondo Rustow affinché un tentativo di costruzione di un regime democratico prenda avvio, è necessario che i partecipanti siano d'accordo sulla loro appartenenza a una comunità politica; risulterebbe difficile instaurare un regime democratico se una o più minoranze mettano in dubbio la loro appartenenza a quella specifica comunità politica che vorrebbe diventare democratica (come è successo in Africa e Asia in molti stati).
La prima fase è detta preparatoria: una lotta prolungata tra gruppi di élite che si conclude senza la vittoria decisiva di un gruppo sugli altri, ma con un compromesso; le élite accettano di convivere e competere per il potere politico. Si apre la fase della decisione consapevole di riconoscere su un piano di parità le proprie diversità e di creare strutture che preservino queste diversità e le orientino nel senso della competizione democratica attraverso la legittimazione di un'opposizione. Si entra nella fase dell'assuefazione alle norme e alle procedure democratiche, nella quale gli artefici del compromesso democratico devono convincere gli altri dell'importanza dei principi della conciliazione.
Ci sono stati molti casi in cui questi fragili compromessi sono entrati in crisi e i regimi democratici sono crollati. Nel successivo successo ha contato in modo fondamentale l'esperienza delle élite e dei politici intermedi.
Il sistema internazionale può contare come fattore facilitante o debilitante di tendenze democratiche pre-esistenti: può essere una rete di sostegno se il contesto democratico è diffuso e solido, oppure un elemento di perturbazione se attraversa una fase di turbolenze che incrina la capacità a opporsi alle tendenze anti-democratiche. Di solito il dominio positivo (la costruzione di un regime democratico esercita influenza sugli altri sistemi politici della stessa area geografica) è più frequente del dominio negativo (il crollo di una democrazia trascina con sé gli altri regimi democratici della stessa area).

Huntington ha individuato tre ondate di democratizzazione e due di riflusso:
- Prima democratizzazione dal 1828 al 1926 porta a 29 stati democratici ed è dovuta a fattori socio - economici (urbanizzazione, industrializzazione, comparsa della classe media e operaia ecc); prima ondata di riflusso dal 1922 al 1942 riduce gli stati a 12.
- Seconda democratizzazione dal 1943 al 1962 porta a 36 stati democratici ed è dovuta a fattori politici (vittoria degli Alleati nella seconda guerra mondiale e avvio della decolonizzazione); secondo riflusso dal 1958 al 1975 fa cadere 6 stati democratici.
- Terza democratizzazione dal 1974 e ancora in corso porta al maggior numero di democrazie in assoluto cioè 58. Fondata su un fattore di apprendimento: 23 dei 29 stati in oggetto avevano avuto esperienze precedenti con la democrazia. Individua inoltre cinque mutamenti responsabili della terza ondata: crisi di legittimazione dei regimi autoritari; crescita economica; nuovo ruolo della Chiesa dopo il Concilio Vaticano Secondo; impatto della Comunità europea sui regimi autoritari europei, la promozione dei diritti umani, la trasformazione ad opera di Gorbaciov dei regimi comunisti; l'effetto di contagio dei processi di democratizzazione.

Le condizioni socio - economiche

Utilizzando alcuni indicatori socio economici (reddito pro capite, grado di istruzione, livello di urbanizzazione e industrializzazione ecc) Lipset sostiene che sono i sistemi socio economici più sviluppati quelli che riescono a creare e a mantenere un regime democratico.
C'è un'ambiguità di fondo, se si tratta di aver individuato una semplice correlazione (quindi è solo una probabilità che i sistemi socio economici con un determinato livello di sviluppo siano regimi democratici) o se esiste una relazione di causa/effetto (si potrebbe allora formulare una legge probabilistica secondo cui tutti i sistemi socio economici che sorpassino determinati livelli di sviluppo daranno vita a un regime democratico). La tesi originaria dell'autore è più vicina a una relazione causa effetto.

Secondo alcuni studiosi un regime democratico si afferma quando le disuguaglianze tra gruppi sociali sono relativamente contenute e gli squilibri ridotti, poiché grandi disuguaglianze non possono coesistere con un regime in cui il potere politico dovrebbe essere distribuito in modo egualitario.

Altri studiosi ritengono che contano le modalità con cui è stato raggiunto un certo livello socio economico. Infatti il tentativo di ottenere sviluppo socio economico in modo accelerato impone di usare metodi autoritari, che metterebbero in crisi un eventuale regime democratico e avrebbero effetti politicamente destabilizzanti.

Huntington collegò lo sviluppo economico misurato in termini di prodotto nazionale lordo pro capite, con i processi di democratizzazione e riscontrò una correlazione, ovvero una spinta positiva delle condizioni socio economiche a favore dell'instaurazione di regimi democratici.

Przeworski fece un'approfondita analisi delle condizioni socio economiche e rilevò che le democrazie compaiono casualmente rispetto ai livelli di sviluppo, ma muoiono nei paesi più poveri e sopravvivono nei paesi più ricchi. Quel che destabilizza i regimi democratici sono le crisi economiche e i sistemi politici più ricchi hanno maggiori possibilità di fronteggiarle.

Conclusioni generali.
I regimi democratici tendono a essere anche regimi socio economicamente sviluppati, per quanto non privi di disuguaglianze interne.
I regimi democratici fanno la loro comparsa a diversi stadi di sviluppo socio economico, però lo sviluppo economico rende possibile la democrazia e la leadership politica la realizza (importanza della leadership politica).
Una volta comparsi, i regimi democratici che mostrano capacità di consolidamento sono quelli insediati nei paesi più ricchi, perché un buon livello di sviluppo socio economico e maggiori risorse garantiscono al regime democratico già esistente, maggiori opportunità di sopravvivenza.
Quando i regimi non democratici sono indeboliti sarà più facile costruire e mantenere un regime democratico qualora quei regimi autoritari avessero già conseguito un buon livello di sviluppo socio economico.

Tipi di democrazie

I regimi democratici esibiscono diversità strutturali che attengono ai loro sistemi istituzionali (presidenziale, parlamentare ecc), politiche ai loro sistemi partitici, funzionali che concernono il loro funzionamento e rendimento. Qui ci si occuperà dell'ultimo punto.

La prima variabile da tenere in considerazione è la stabilità.
I sistemi politici dotati di cultura politica omogenea e secolarizzata darebbero origine a regimi democratici stabili (democrazie anglosassoni), mentre quelli con una cultura politica eterogenea e frammentata darebbero origine a democrazie instabili (Europa continentale). Questa classificazione (proposta da Almond) però non tiene conto dell'esperienza scandinava, dove una cultura politica eterogenea ha dato luogo a democrazie molto stabili; perciò Lijphart aggiunse al criterio della cultura politica, quello del comportamento delle élite e collocò correttamente tutti i sistemi politici: gli anglosassoni hanno una cultura omogenea e un comportamento delle élite competitivo (democrazia centripeta); i Francia, Italia, Germania hanno una cultura frammentata e élite con comportamento competitivo (democrazia centrifuga); Austria, Olanda, Belgio, Svizzera hanno una cultura frammentata e una élite coesiva (democrazia consociativa); ci sono poi sistemi politici detti spoliticizzati che hanno una cultura omogenea e una élite coesiva.
I comportamenti visibili delle élite possono cambiare la cultura politica dei loro sostenitori, ridurre la distanza ideologica tra i partiti, compiere il difficile passaggio da una democrazia centrifuga a una centripeta funzionante.

Secondo Lijphart ci sono due logiche di funzionamento: una fondata sul principio maggioritario che valorizza il conflitto politico; una definita consensuale, dove si preferisce la ricerca di accordi. Quest'ultima però risulta piuttosto ambigua: intanto non si può contrapporre la connotazione consensuale a maggioritaria, poiché tutte le democrazie maggioritarie si reggono sul consenso. Appare quindi più utile usare due criteri diversi: il criterio strutturale, dunque maggioritarie contro proporzionali; il criterio comportamentale (riferibile al comportamento delle élite politiche), dunque consensuali contro conflittuali.
Comunque, seguendo il modello di Lijphart, le democrazie maggioritarie (modello Westmister) sono caratterizzate da: concentramento del potere esecutivo in governi monopartitici; predominio dell'esecutivo; sistema bipartitico; sistema elettorale maggioritario; pluralismo dei gruppi di interesse; sistema di governo unitario e accentrato; concentrazione del potere legislativo in un'assemblea monocamerale; flessibilità della Costituzione; assenza di judicial review; banca centrale controllata dall'esecutivo. Ci sono punti discutibili e dubbi: negli USA la Costituzione è rigida e scritta; in Gran Bretagna la Bank of England è autonoma.
Il modello consensuale è caratterizzato da: condivisione del potere esecutivo e grandi coalizioni; equilibrio di poteri tra esecutivo e legislativo; sistema multipartitico; rappresentanza proporzionale; corporativismo dei gruppi di interesse; federalismo e governo decentrato; bicameralismo; Costituzione rigida; judicial rewiew; indipendenza della banca centrale.
Appare ovvia la preferenza dello studioso per le democrazie consensuali, anche per via della sua frase: il governo della maggioranza sembra meno democratico della democrazia consensuale poiché esclude il partito perdente dalla partecipazione al governo. In realtà la democrazia si regge sul principio del governo di maggioranza, la quale è sempre soggetta a verifiche periodiche elettorali; che la maggioranza governi è il cardine di tutte le democrazie. Ciò non significa che tutte le decisioni vengano prese a maggioranza assoluta, ma anche qualificata o relativa. Ciò che non deve avvenire è che la maggioranza serva lo scopo dell'eliminazione delle minoranze, altrimenti il regime perderebbe la possibilità che l'opposizione sostituisca la maggioranza al governo attraverso la libera competizione elettorale.

Qualità delle democrazie

Di recente si sono rivalutate le democrazie parlamentari rispetto a quelle presidenziali: le prime erano criticate per la loro instabilità politica e inefficacia decisionale, ora gli si attribuisce flessibilità nella stabilità e consenso nel processo decisionale; le seconde erano apprezzate per la loro stabilità e decisionalità, ora criticate per fragilità nella rigidità e possibilità di stallo o forzature nella decisionalità.

La qualità delle democrazie deve essere valutata con riferimento a indicatori che attengono al rapporto tra cittadini e autorità pubbliche.
Governo dal popolo: fondato sul libero voto dei cittadini.
Governo del popolo: pretende che i cittadini partecipino.
Governo per il popolo: pretende che esistano meccanismi attraverso cui i cittadini possono valutare i governanti.
La competitività è assicurata dai procedimenti elettorali e consente ai cittadini di esercitare la loro influenza e alle élite politiche di concorrere tra loro per ottenere voti.
Ovviamente gli indicatori più sicuri della partecipazione elettorale sono quelli dell'affluenza alle urne.

Più difficile è valutare la qualità della democrazia in base alle risposte dei governanti alle preferenze dei cittadini. In Europa ogni sei mesi si interrogano i cittadini sul loro grado di soddisfazione nei confronti dei rispettivi regimi democratici: per esempio il livello più basso in Italia si raggiunse nel 1993!
Anche nell'Europa dell'Est si fanno sondaggi: dopo il crollo del comunismo nessuna alternativa veniva considerata migliore della democrazia; la maggioranza vorrebbe però affidare la gestione dell'economia a esperti del settore; la maggioranza ha fiducia che la democrazia vada a migliorare.

Il futuro della democrazia

La democrazia ha due gruppi di critici: coloro che la ritengono migliorabile e coloro che intendono delegittimarla e distruggerla per sostituirvi regimi presumibilmente più democratici e più egualitari. In generale, i regimi autoritari non hanno dimostrato di saper dare e di costituire alternative soddisfacenti. Le critiche alla democrazia riguardano le promesse non mantenute e le potenzialità future.
Secondo Bobbio la democrazia non ha mantenuto le sue promesse in riferimento alla sua capacità di: diventare una società di eguali senza corpi intermedi; eliminare gli interessi particolaristici che contrastano la rappresentanza politica generale; porre fine alla persistenza di oligarchia; diffondersi negli apparati amministrativi dello Stato e nelle imprese; distruggere i poteri invisibili; elevare il livello di educazione politica dei cittadini. Probabilmente queste promesse non sono state mantenute perché il progetto politico democratico fu ideato per una società meno complessa di quella attuale; però dovrebbero fare da contrappeso maggiori risorse culturali, tecnologiche e politiche.
Dahl delinea tre possibili cambiamenti nel futuro delle democrazie: aumento significativo del loro numero; trasformazione dei limiti e delle potenzialità del processo democratico; più equa distribuzione delle risorse e delle possibilità politiche e un allargamento del processo democratico a istituzioni governate in precedenza da un processo non democratico.

Tematica della democrazia deliberativa: con l'elezione di un minipopulus capace di porsi come tramite informato tra le élite e il popolo e come controllore dei comportamenti delle élite e promotore delle conoscenze del popolo, si potrebbe ridurre il divario tra cittadini ed élite.
Tematica della democratizzazione dell'ONU, del Fondo Monetario internazionale, della Banca mondiale, dell'Organizzazione mondiale del commercio.

I regimi democratici hanno la possibilità di espandersi e approfondirsi.
La democrazia si basa sull'assunto che i governati siano razionali e i governanti siano responsabili. Molte critiche alla democrazia si sono appuntate sui comportamenti irrazionali e sull'informazione inadeguata dei cittadini, quanto sui comportamenti irresponsabili e sui tentativi di manipolazione dei governanti.
Il pluralismo politico consente di acquisire maggiori informazioni di qualsiasi altro regime su quanto preferiscono i cittadini; la competizione non disinteressata tra i gruppi permette di sottoporre periodicamente all'elettorato la scelta tra una pluralità di opzioni; la legittima alternativa dell'alternanza al governo consente la circolazione del personale politico e delle idee e impone a chi vince di essere responsabile nell'attuazione del programma, pena la successiva sconfitta elettorale.
La vitalità dei regimi democratici risiede nella loro capacità di apprendimento e conseguente mutamento.











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