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L'espansione statunitense nel Pacifico: brevi cenni storici

politica



INTRODUZIONE



La tesi tratta la politica statunitense nell'Estremo Oriente, durante la presidenza Nixon, focalizzando l'attenzione sulla politica di apertura nei confronti della Repubblica popolare cinese e sulla conclusione della guerra in Vietnam.

Il materiale di approfondimento utilizzato è di varia natura. I libri provengono da diverse università americane, in particolare la John's Hopkins di Bologna, centro di studi avanzati di politica internazionale, e la Georgetown University di Washington DC. Alcuni testi italiani, Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali dal 1918 al 1992, T. Ballarino, Organizzazione internazionale, B. Conforti, Diritto Internazionale, citati come fonte di approfondimento di eventi storici particolari, sono stati personalmente utilizzati per la preparazione di alcuni esami universitari.

La seconda parte della bibliografia è composta da articoli di riviste specializzate in politiche ed affari internazionali, la terza parte è composta da fonti documentarie che provengono dall'Archivio Nazionale di College Park nel Maryland, dove mi sono personalmente recata.



La ricerca compiuta nell'Archivio è consistita nella consultazione di documenti originari relativi agli aspetti che hanno interessato la politica di apertura statunitense nei confronti della Repubblica popolare cinese: aspetti di natura politico-economica e socioculturale.

Il materiale esaminato è rappresentato da memorandum, telegrammi, corrispondenza generale, bollettini informativi e dagli appunti personali del presidente Nixon durante la sua prima visita ufficiale in Cina nel 1972.

Nel periodo del mio soggiorno studio a Washington ho potuto anche recuperare materiale bibliografico proveniente dalla Biblioteca del Congresso (Library of Congress), e dall'Università di Georgetown

La tesi si divide in tre parti. La prima parte è composta dal primo e dal secondo capitolo. Il primo capitolo descrive i rapporti che erano presenti tra gli Stati Uniti e l'Estremo Oriente, in particolare la Cina, dalla conquista del West all'avvento della Guerra Fredda.

Il secondo capitolo descrive la situazione della politica statunitense al momento della presidenza Nixon, ponendo l'attenzione sulla così detta "Dottrina Nixon"e sul primo "Messaggio sull'Unione del Mondo", che il presidente fece quando venne eletto e, attraverso il quale, descrisse il suo progetto politico di pace per le generazioni future.

La seconda parte è composta da tre capitoli centrali che affrontano in specifico il rapporto che si instaurò tra Stati Uniti e Cina tra il 1968 ed il 1972.

Il terzo capitolo descrive le prime fasi di avvicinamento tra Stati Uniti e Cina, dalla riapertura dei dialoghi a Varsavia all'abolizione delle restrizioni commerciali, retaggio della guerra di Corea.

Il quarto capitolo tratta del riconoscimento del governo della Cina comunista da parte degli Stati Uniti e la conseguente entrata della Repubblica popolare cinese nelle Nazioni Unite, a spese dei rappresentanti della Repubblica nazionalista di Taiwan.

Nel quinto capitolo si descrive la visita di Nixon in Cina, avvenuta nel 1972 e la firma del trattato che prende il nome di "Joint Communique", trattato che sancisce la definitiva apertura economica e socioculturale tra i due paesi.

La terza parte della tesi è composta dal sesto capitolo in cui sono descritte la fasi conclusive della guerra in Vietnam ed il ruolo svolto dai paesi direttamente coinvolti nel conflitto.









CAPITOLO PRIMO




L'espansione statunitense nel Pacifico: brevi cenni storici




Premessa



La fine del XIX secolo segnò un'epoca di grande travaglio e di trasformazione nella storia del mondo contemporaneo per molti paesi ed, in particolare per gli Stati Uniti, si concentrarono una serie di fatti e situazioni storiche nuove che diedero l'impronta al paese per il XX secolo e furono essenziali per comprendere gli sviluppi successivi. In questi anni aveva termine la "frontiera", l'economia americana era caratterizzata da una notevole espansione grazie alla politica dei trusts, dei monopoli e dei cartelli ideata da Theodore Roosevelt. Accanto ad una politica commerciale estremamente favorevole, gli Stati Uniti attuarono una politica imperialistica e colonialistica soprattutto nell'Estremo Oriente. La necessità di espandersi oltre l'Emisfero occidentale, che iniziò con la conquista delle Filippine, faceva parte di un piano politico destinato dapprima alla costruzione di un canale intraoceanico che consentisse alle navi americane di spostarsi rapidamente dall'Atlantico al Pacifico.

I problemi che questa strategia presentava riguardavano soprattutto la necessità di contenere le forze espansionistiche avversarie, prima fra tutte il Giappone, la cui intenzione era quella di addentrarsi sempre più nei territori dell'Asia orientale ed in particolare in Cina. L'intento degli Stati Uniti quindi, con il passare del tempo, divenne duplice: continuare i rapporti di "buon vicinato" con la Cina e contenere, se non frenare, la voglia di conquista giapponese.

Per quanto riguarda il primo obiettivo la politica americana si caratterizzò di alcune fasi significative. La conferenza di Washington (12 novembre-6 febbraio 1922) nel corso della quale vennero stipulati tre trattati molto importanti, uno fra tutti il Trattato delle nove potenze sulla Porta Aperta che offriva alla Cina l'assistenza necessaria per il raggiungimento della stabilità politica e dello sviluppo economico. Sulla base di questo principio gli Stati Uniti attuarono una politica di difesa dell'integrità del territorio cinese e di continuo coinvolgimento nelle vicende della politica mondiale.

Franklin D. Roosevelt, nel corso della seconda guerra mondiale, la ritenne idonea a ricoprire il ruolo di quarta potenza nel suo Grand design che consisteva nella presenza di four policemen (le altre potenze sarebbero state Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna) che salvaguardassero e coltivassero una pace di tipo mondiale. Il progetto rooseveltiano sfumò tra il 1945 ed il '46 quando al posto del multilateralismo si affacciò l'era del bipolarismo. Questa nuova situazione politica venne chiaramente delineata dalla cosiddetta teoria dei due campi, enunciata da Stalin, sulla quale si basò l'era della Guerra Fredda, ossia un periodo di rivalità latenti, diffidenze e tensioni che vennero a formarsi tra le due maggiori forze: gli Stati Uniti democratici e l'Unione Sovietica comunista. Il fenomeno della sovietizzazione coinvolse non solo l'Europa orientale, ma anche la Cina la quale, indebolita dalla guerra civile che opponeva le forze nazionaliste del Kuomintang e le forze comuniste di Mao prima e di Chou En-lai poi, si divise in due repubbliche: una comunista nata nel 1949 e l'altra nazionalista capeggiata da Chang Kai-shek e riconosciuta dagli Stati Uniti, con sede a Formosa. La politica di apertura e la necessità di ricomporre il paese si fece sentire nella fine degli anni '60 quando venne eletto presidente Richard Nixon, il quale riuscì, dopo vari tentativi, a riaprire un dialogo con la Cina comunista e a farla ammettere alle Nazioni Unite a scapito dei rappresentanti di Taiwan. Il momento culminante della sua politica si ebbe nel febbraio '72 quando Nixon andò per la prima volta in visita a Pechino e stipulò un trattato di reciproco scambio con il paese.



1.1. Dalla scomparsa della frontiera alla nascita dell'imperialismo americano



Uno dei fatti più importanti, forse il più importante, che esemplifica l'indole espansionistica statunitense già agli inizi dell'800 fu la "scomparsa della frontiera". In quegli anni Frederick Turner, uno storico, che aveva personalmente vissuto la grande trasformazione del West del periodo susseguente alla guerra civile pubblicava un saggio sull' "importanza della frontiera nella storia americana" (Significance of the Frontier on the American History), dando un'interpretazione molto suggestiva e caratteristica della democrazia americana, che definiva come " il prodotto nelle esperienze del popolo americano nei suoi rapporti con il West".

In realtà la frontiera americana era stata qualche cosa di diverso dalle frontiere tradizionali degli stati europei: era stata il limite fra l'insediamento di una società organizzata ed il Wilderness, la terra ignota e selvaggia nella quale il singolo americano non avrebbe più fruito dei vantaggi e delle protezioni offertigli appunto da una società organizzata, ma in compenso avrebbe goduto di una libertà illimitata senza essere condizionato da altri uomini.

Fin dai tempi coloniali i nuovi immigrati dall'Europa o i meno privilegiati e fortunati tra i coloni, non avendo saputo procurarsi ricchezze o benessere nella società americana stabilita lungo la striscia di insediamento atlantico, avevano "spostato la frontiera" più a ovest penetrando nelle terre libere. La frontiera e, più esattamente, lo spostamento della frontiera ovest, sempre più a ovest, era stata fino a questo momento la valvola di sicurezza della società americana; era evidente che i nuovi territori colonizzati riflettessero nelle istituzioni politico-giuridiche una democrazia più aperta ed egualitaria rispetto agli stati derivanti dagli insediamenti coloniali più antichi. Turner interpretò questa nuova realtà sostenendo che la democrazia americana "è uscita dalla foresta ed ha acquistato nuova forza ogni volta che ha toccato una nuova frontiera. Non è stata la Costituzione [degli Stati Uniti], ma la terra libera, insieme con l'abbondanza delle risorse naturali a disposizione di un popolo capace di sfruttarle, a creare la società democratica che si è sviluppato in America per tre secoli."[1]

Negli ultimi decenni del secolo la costituzione di "Territori degli Stati Uniti", in seguito convertiti a Stati dell'Unione, era proceduta a ritmo incalzante nella zona occidentale del paese dove la frontiera all'epoca della guerra civile poteva considerarsi ancora mobile. Così, con la fine del secolo, la carta politica degli Stati Uniti non presentava più dei vuoti corrispondenti a terre più o meno selvagge al di là della "frontiera". La frontiera con la sua funzione primaria ed indispensabile nella società americana dovette considerarsi scomparsa, anche se vi erano ancora terre libere, ma il fatto politico-morale-psicologico della "scomparsa della frontiera" rimaneva.

Accanto alla "scomparsa della frontiera" il carattere più evidente della nuova America era dato dall'imponente progresso economico che fece sì che il paese si imponesse soprattutto come potenza industriale. Nel momento in cui la guerra civile aveva termine, tutto il mondo occidentale era dominato dalla dottrina economica del libero scambio o più esattamente della libera iniziativa: questa dottrina si presentava in realtà sotto due aspetti l'uno interno, l'altro internazionale. Per il primo lo Stato non doveva intervenire nel libero gioco delle iniziative economiche individuali, per il secondo esso non doveva frapporre ostacoli né all'esportazione né all'importazione. Negli Stati Uniti veniva applicato solamente il primo dei due principi. Le iniziative individuali erano completamente libere, ma il Congresso si preoccupò di "proteggerle" dalla concorrenza estera con tariffe doganali molto elevate; grazie a questo tipo di politica l'industria americana così protetta dalla concorrenza estera, avendo a disposizione grandi risorse di materie prime d'ogni genere presenti nel paese e grazie al dinamismo, allo spirito di iniziativa, al senso spiccato di come applicare praticamente i principi scientifici elaborati in tutto il mondo occidentali, riuscì a svilupparsi economicamente.

Questi due caratteri della società americana fecero da sfondo ad un cambiamento radicale nella politica americana ossia il tramonto dell'isolazionismo e la nascita di quello che verrà definito l'impero americano. Il problema che gli Stati Uniti dovettero affrontare in quel momento riguardava il modo in cui regolare i rapporti con il mondo esterno in qualità di nazione più popolosa del mondo e industrialmente più avanzata.

L'isolazionismo, che caratterizzò l'America prima della fine dell'Ottocento, era rivolto agli affari mondiali e più specificatamente a quelli europei che risaliva al messaggio di addio del presidente George Washington nel 1796: "L'Europa ha una serie di interessi fondamentali che non hanno con noi alcun rapporto o hanno un rapporto molto lontano. Così essa è impegnata in frequenti contese, le cui cause ci sono essenzialmente estranee. La nostra situazione remota e distaccata ci permette di seguire una politica diversa. Perché rinunciare ai vantaggi di una situazione così eccezionale? Perché abbandonare il nostro per porci su un terreno estraneo? Perché, legando il nostro destino a quello di una parte qualsiasi dell'Europa, far dipendere la nostra pace e la nostra prosperità dall'ambizione, le rivalità, gli umori, i capricci europei?"[2].

La direttiva dell'isolazionismo politico non aveva impedito lo sviluppo dei rapporti economici con l'Europa e si erano avute delle eccezioni anche per quanto riguarda le relazioni tra questa e gli Stati Uniti. La politica, che stava alla base dell'isolazionismo, inoltre, non voleva affatto dire mancanza di rapporti internazionali in genere, ma aveva un specifico significato anti-europeo: non riguardava il resto dell'Emisfero occidentale, quindi l'America Latina, e non mancarono i rapporti nemmeno con l'Estremo Oriente. Era stata una divisione navale americana ad aprire le porte del Giappone nel 1853, anno in cui con la rivoluzione dei Meiji, il paese nipponico uscì dal suo bicentenario isolazionismo; mentre fin dal tempo della guerra dell'oppio tra cinesi ed inglesi, agli inizi degli anni '40, imprese commerciali americane avevano posto le basi per instaurare dei rapporti con la Cina. L'Estremo Oriente rientrava nella politica estera americana dell'800 più di quanto non rientrasse l'Europa. Lo indicano, oltre le iniziative in Giappone e Cina, anche la conquista delle Filippine proprio davanti il continente asiatico e le posizioni di controllo assunte dagli Stati Uniti negli arcipelaghi del Pacifico dalle Hawaii alle Samoa.

La conquista delle Filippine rappresentava anche uno dei primi esempi di imperialismo americano e l'acquisizione più importante per estensione, per la posizione geografica di fronte alla Cina ed all'Asia sudorientale, per il modo in cui erano state acquisite, non attraverso un lento insediamento fondato su attività commerciali, ma attraverso una fulminea vittoria contro l'antico dominatore spagnolo. In realtà, per quanto riguarda le Filippine, è improprio parlare di conquista a tutti gli effetti in quanto il paese non diventò territorio americano, ma rimase sotto il controllo politico e militare degli Stati Uniti.

Nel 1900 la Corte Suprema stabilì che i nuovi possedimenti erano territori degli Stati Uniti, ma non come parte di essi. I loro abitanti, fino a quando i territori si trovavano a "non essere incorporati", non godevano di "tutti i diritti e privilegi dei cittadini americani, ma soltanto dei diritti fondamentali che derivavano dal diritto naturale". Tali diritti garantivano la protezione della loro vita, libertà, proprietà, ma non comprendevano necessariamente per esempio la norma costituzionale che dazi ed imposte dovessero essere analoghi in tutto il territorio degli Stati Uniti. "La Costituzione, cioè, non seguiva la bandiera"[3].



1.2. Gli Stati Uniti del primo Novecento: il "progressismo" di Theodore Roosevelt e di Woodrow Wilson



L'espansione economica e politica degli Stati Uniti diventò ancor più dinamica dopo l'assassinio di Mc Kinley e l'assunzione della presidenza da parte del vicepresidente Theodore Roosevelt, uomo dalle qualità politiche indiscutibili che, a torto, venne scelto dalla "Vecchia Guardia" del partito repubblicano che voleva liberarsi del precedente presidente Mc Kinley che si era dimostrato troppo riformista. Roosevelt proprio per la sua indole dinamica e per la sua volontà di riformare, cambiare e migliorare non poteva certo essere definito un conservatore, ma semmai un "conservatore progressista" come lo definì Richard Hofstadter[4], o secondo le parole di Henry Commager: "era un sincero "progressista" [nel senso, specificatamente, di un sincero adepto del "movimento progressista" che andava sviluppandosi in quegli anni], ma il suo progressismo era condizionato da una limitata comprensione dell'economia" .

Il suo primo "Messaggio sullo stato dell'Unione" (la tradizionale e periodica enunciazione pubblica da parte dei presidenti americani sulla politica interna ed estera che essi intendono svolgere) era in ogni caso denso di punti programmatici: regolamento dei trusts; legislazione federale sulle banche e le ferrovie; creazione di un Ministero del Commercio; rafforzamento dell'esercito e della marina militare; costituzione di un canale transoceanico fra l'Atlantico ed il Pacifico.

La regolamentazione, se non l'eliminazione dei trusts, era probabilmente il più grosso e grave problema della società americana la cui conseguenza principale era lo strapotere da parte delle grandi Corporations industriali e commerciali. Infatti, il fenomeno della concentrazione delle imprese fino a costituire i trusts si era esteso invece di restringersi e, soprattutto, la fusione riguardava il campo dei trasporti, dello sfruttamento delle risorse naturali e delle finanze.

Questo tipo di situazione non era sconosciuta ad altri paesi industriali come la Germania e l'Inghilterra, ma negli Stati Uniti aveva trovato le condizioni migliori per svilupparsi: l'immensa estensione del paese; le sue ineguagliate risorse; una "filosofia degli affari" più audace; un governo federale il cui personale amministrativo cambiava frequentemente.

Roosevelt era consapevole delle limitazioni che i trusts industriali e finanziari rappresentavano per la democrazia americana, ma sapeva che faceva parte di un partito che incentivava il libero e pieno corso delle attività economiche e quindi il risultato fu l'adozione di una cauta ed incerta politica che poneva una distinzione tra trusts buoni e cattivi, ossia tra quelli utili e quelli dannosi alla società. A riprova di questo, il presidente nel 1902 dichiarava: "il nostro scopo non è quello di abolire le società; al contrario queste grosse entità economiche sono uno sviluppo inevitabile dell'industrialismo moderno. Non siamo ostili alle grandi società; siamo semplicemente decisi a che esse vengano gestite in modo da subordinarsi al bene pubblico". Lo sforzo per controllare l'attività delle grandi società portò all'istituzione di un Bureau of Corporations nell'ambito del Ministero del Commercio e del Lavoro. Il Bureau condusse utili inchieste sulle industrie petrolifere e siderurgiche i cui risultati permisero l'istruzione di procedimenti penali anti-trusts. La lotta andò avanti anche dopo la sua rielezione nel 1904, ma il presidente non potè fare di più che intentare numerose azioni legali nei confronti di altre imprese riuscendo solo a rallentare il processo di formazione o di riformazione dei monopoli; finchè finì col ripiegare sul principio per cui l'estensione delle Corporations non le rendeva una minaccia per la società ed invece andava controllata il modo in cui venivano gestite. Il principio venne seguito anche dalle successive amministrazioni fino a quando la Corte Suprema assolse la Esso sentenziando che solo gli atti o accordi di natura monopolistica che influivano "irragionevolmente" sul commercio interstatale potevano essere considerati una limitazione delle libertà di iniziativa e cadere quindi sotto i rigori della legge.

L'impegno principale di Roosevelt nel suo secondo mandato si concentrò essenzialmente in politica estera ed ad estendere il predominio territoriale statunitense tanto che venne definito come "il primo presidente imperiale" di questo secolo[6]. La caratteristica concezione della vita del presidente intesa come "vita strenua" doveva essere applicata al popolo americano che doveva cercare di rivivere le fasi più gloriose della storia nazionale americana come la rivoluzione, la guerra civile o la conquista del West e da queste basi iniziare ad aprirsi in ambito mondiale.

Con la presa di possesso delle Filippine e delle Hawaii gli obiettivi essenziali perseguiti dagli "espansionisti del 1898" erano stati raggiunti: gli Stati Uniti si erano assunti responsabilità territoriali e quindi impegni politici e strategici di ambito mondiale. Questi comportavano una maggior attenzione agli eventi di Estremo Oriente; la costruzione ed il controllo di un canale intraoceanico che consentisse alle navi americane di spostarsi rapidamente dall'Atlantico al Pacifico; un ruolo di supervisore della situazione dell'America centrale che garantisse al governo di Washington il controllo strategico della zona dei Carabi e la tutela degli interessi economici americani in quelle regioni. Il programma rooseveltiano poneva una necessità di base, ossia, il rafforzamento della marina, strumento essenziale per l'attuazione di una politica di ambito geografico così vasta in cui il mare rappresentava l'anello di congiunzione tra questi paesi.

La politica attuata da Roosevelt in ambito internazionale poteva essere considerata una "politica di potenza" o meglio conosciuta come la politica del big stick (grosso bastone) il cui maggiore obiettivo era quello di far sentire la presenza americana in tutto il mondo. Le conquiste in America Latina (Cuba, Venezuela, Carabi, Panama) potevano essere considerate solo la premessa della politica mondiale che il presidente aveva in mente. Infatti la sua completa realizzazione si ebbe con l'inizio dell'avventura americana in Estremo Oriente, quindi al di fuori dell'ambito regionale nell'Emisfero occidentale. Il "primo impero americano", conseguentemente alla vittoria nel 1898 giungeva, secondo le parole di Walter Lippmann, fino "al centro geografico degli imperi dell'Asia orientale e nei punti di incontro strategici delle loro linee di comunicazione". La politica estremo-orientale si adeguò rapidamente alla nuova situazione; pochi mesi dopo l'annessione delle Filippine, il Segretario di Stato John Hay prendeva l'iniziativa di inviare una nota circolare alle grandi potenze europee e al Giappone nella quale li impegnava a rispettare la politica della "Porta Aperta" in Cina, ossia a garantire nelle "zone di influenza" che essi si erano procurate in territorio cinese, la libertà di navigazione e di scambi che stava tanto a cuore agli interessi commerciali americani.

Uno dei significati attribuiti alle note di Hay sulla Porta Aperta in Cina, era quello di costituire una sorta di indizio riguardo alle intenzioni degli Stati Uniti di impegnarsi nella politica di "imperialismo informale" caratteristica di questo secolo. Lo storico William A. Williams affermò che "gli esperti e gli studiosi che in seguito valutarono le presa di posizione americana sulla Porta Aperta riscontrandone la portata modesta o nulla non si resero conto delle sue profonde radici nel passato americano e della sua importanza per il presente; inoltre non videro che quella politica esprimeva la strategia e la tattica fondamentale dell'espansione imperiale del secolo ventesimo[7].

John Hay era certo fra quegli americani del primo Novecento che attribuivano particolare interesse all'Estremo Oriente ed alle sue possibilità future per la politica e l'economia degli Stati Uniti, ma la sua presa di posizione deve ancora essere vista più nel contesto in cui si inserisce che una direttiva d'azione per le future amministrazioni americane.

Altri furono gli elementi che provarono come gli Stati Uniti fossero seriamente interessati all'Estremo Oriente ed uno di questi fu l'opera di mediazione svolta dal presidente Roosevelt nelle trattative per la pace di Portsmouth che pose termine alla guerra russo-giapponese del 1904-5. Roosevelt fu probabilmente il primo uomo politico a rendersi conto dell'effettivo pericolo futuro rappresentato dal Giappone soprattutto dopo che si era liberata della sua radice arcaica per prendere risolutamente la via del progresso economico, tecnico e politico secondo i modelli occidentali e guardava con preoccupazione alla politica di espansione intrapresa da questo paese nell'Asia orientale.

Quando scoppiò la guerra russo-giapponese la maggior parte degli americani era convinta che il Giappone combattesse la "battaglia dell' America" per la difesa della Porta Aperta in Cina contro la Russia zarista simbolo di tirannia e principale fautrice della spartizione della Cina. Il presidente, al contrario, era molto diffidente e temeva che una possibile vittoria nipponica avesse potuto significare "una lotta fra loro e noi in avvenire"; da questo presupposto l'intenzione americana era quella di porre fine alla guerra con una pace di compromesso. A Portsmouth infatti venne salvata l'integrità della Cina in cambio della sovranità giapponese sulla Corea e gli Stati Uniti si fecero promotori di una politica all'insegna della protezione dei propri interessi in Estremo Oriente facendo persistere la situazione di rivalità e quindi di equilibrio tra le potenze. Dal punto di vista economico, infatti, è possibile notare come il governo degli Stati Uniti sollecitò i privati ad impegnarsi in iniziative private in Cina, anche se questi all'inizio non fossero molto disposti, in quanto il suo scopo era quello di svolgere una parte in primo piano nel settore economico estremo-orientale, suggerita da considerazioni politico-strategiche che venivano puntualmente nascoste sia per promuovere gli interessi economici nazionali, sia per "salvare la Cina" dagli avidi imperialismi europei[8].

Theodore Roosevelt ebbe il merito di sollecitare il Congresso ad affrontare problemi di riforma della società americana che sarebbero rimasti a caratterizzare il programma "progressista" durante le presidenze dei successori democratici, da Woodrow Wilson a Franklin Delano Roosevelt.

La politica internazionale durante l'amministrazione di Woodrow Wilson fu messa a dura prova in settori geografici diversi e distanti: conferma dell'ambito esteso e globale su cui ormai operava la diplomazia americana. In Estremo Oriente, in particolare in Cina, Wilson ed il Segretario di Stato Bryan poterono dare prova di coerenza ideologica e politica. L'amministrazione precedente capeggiata da Taft (1904-1912) aveva insistito perché gli Stati Uniti entrassero nel "Consorzio delle sei potenze" che doveva prestare alla Cina la somma necessaria per costruire la ferrovia di Hukuang, nell'intento di esercitare un controllo sulla situazione interna cinese. Il 18 marzo 1913 Wilson dichiarò che gli Stati Uniti abbandonavano il consorzio perché le clausole del prestito intaccavano l' "indipendenza amministrativa" della Cina. Sulla base di questa decisione molti attribuirono a Wilson il progetto di volersi attirare il buon volere dei cinesi, ma in realtà egli voleva solo mantenere la linea politica che era stata iniziata con T. Roosevelt.

1.3. La situazione internazionale e la politica estera statunitense tra le due guerre



Durante la prima guerra mondiale il Giappone aveva continuato inesorabilmente la sua espansione in Cina favorito soprattutto dalla precaria situazione interna di quest'ultima che doveva arginare la lotta tra le forze interne del Kuomintang che portarono a dividere il governo in due fazioni: l'uno rivoluzionario con sede a Canton, l'altro repubblicano con sede a Pechino. Solo gli Stati Uniti cercarono di contrastare l'azione nipponica in difesa del principio della Porta Aperta da essi ripetutamente proclamato come presupposto della politica verso la Cina. L'appoggio americano contribuì a rendere la pressione esercitata dal Giappone sulla Cina meno opprimente tanto da far sì che quest'ultimo cercasse un chiarimento con la potenza occidentale che portò a stipulare un accordo che conteneva il riconoscimento da parte degli americani della presenza di interessi giapponesi nella parte della Cina confinante con i loro territori, ma allo stesso tempo i due governi si impegnavano a preservare l'integrità e l'indipendenza della Cina secondo i principi della Porta Aperta.

Il Giappone usciva come il grande vincitore della guerra, cui aveva partecipato in misura minima, ma fruttuosa, nella zona del Pacifico. Infatti le sue truppe avevano occupato la Corea, la Siberia orientale e la regione dello Shantung[9]. Fu proprio l'esigenza di controllare il continuo espansionismo giapponese a spingere gli Stati Uniti ad invitare alcune tra le più importanti potenze mondiali ad una conferenza, che venne convocata a Washington dal 12 novembre 1921 al 6 febbraio 1922. I principali negoziati fra Gran Bretagna, Stati Uniti, Belgio, Giappone, Francia, Portogallo, Italia, Cina ed Olanda portarono ad una serie di accordi riguardanti sia i problemi del Pacifico che il disarmo navale. E' importante notare l'assenza della nuova Russia sovietica soprattutto negli accordi che avrebbero dovuto regolamentare la situazione nell'Estremo Oriente: questa voluta esclusione influirà notevolmente ed in modo negativo sugli sviluppi della politica mondiale e soprattutto nell'assetto interno cinese.

Il primo di questi negoziati fu il Trattato delle quattro potenze, definito anche Patto per il Pacifico, (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Giappone) firmato il 13 dicembre 1921 che impegnava, i paesi coinvolti, a "rispettare i reciproci diritti sui possedimenti insulari del Pacifico", ciò significava far valere anche gli interessi del Giappone nei confronti della Cina. Il Trattato non fu favorevole agli Stati Uniti i quali avevano preparato questa conferenza con lo scopo di attuare nell'Estremo Oriente una politica di conciliazione generale, garantendo l'autonomia di sviluppo e la sovranità in Cina. I Giapponesi, al contrario, erano fermamente decisi a resistere ad ogni pressione che li privasse dei vantaggi che avevano ottenuto con la pace di Parigi.

Solo nel febbraio del 1922 i giapponesi acconsentirono di scendere a patti con la Cina e l'accordo bilaterale del 4 febbraio 1922 fece sì che il Giappone rinunciò alla regione dello Shantung in cambio di territori in Manciuria.

A quest'ultimo accordo se ne aggiunsero altri due: il Trattato sul disarmo navale ed il Trattato delle nove potenze.

Il Trattato sul disarmo navale venne stipulato il 5 febbraio 1922 da Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone Francia ed Italia e constava di tre punti fondamentali: 1. il riconoscimento britannico della parità navale con gli Stati Uniti; 2. il riconoscimento francese della parità navale con l'Italia; 3. la clausola inserita nell'art. 29 del trattato secondo cui le parti contraenti non avrebbero ulteriormente fortificato le loro basi militari nel Pacifico[10]. Gli stessi partecipanti all'accordo per il disarmo più Cina, Portogallo, Belgio e Olanda firmarono il 6 febbraio dello stesso anno il Trattato delle nove potenze sulla Porta Aperta in Cina. Questo trattato fu il coronamento della politica statunitense in Cina e la concretizzazione dei suoi progetti in questo paese. Infatti esso prevedeva per i firmatari il rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale ed amministrativa della Cina; l'impegno ad accettare la politica della Porta Aperta (ossia della completa libertà di commercio per tutti, in tutti i territori cinesi) e ad assistere la Cina nel suo raggiungimento di una stabilità politica e di uno sviluppo economico.

Dal primo riferimento di John Hay sul principio della Porta Aperta, gli Stati Uniti non avevano più affrontato la questione con tanta fermezza coinvolgendo tutte le maggiori potenze nell'osservanza del libero scambio, ma è possibile porre una distinzione tra la prima fase di sviluppo di questo principio e quest'ultima: in quanto mentre Hay sottolineava il suo intento di proteggere la Cina "dagli avidi imperialismi europei" e dal Giappone, la Porta Aperta del 1922, presentata da Hughes, non poteva essere concepita che in chiave esclusivamente anti-giapponese anche perché il trattato sul disarmo poneva un freno al desiderio nipponico di rafforzare la sua potenza militare.

Se si volesse fare un bilancio sulla conferenza è possibile notare come la linea seguita dal Segretario di Stato Hughes fu quella di portare avanti una politica di contenimento dell'espansione nipponica in Asia orientale con lo sforzo conseguente di ridurre, se non eliminare, le posizioni di controllo in Cina ed, inoltre, di difendere l'integrità della Cina e della Russia facendo sì che lo stesso Giappone, durante i trattati di Washington, annunciasse di evacuare la Siberia sovietica.

Nel corso degli anni successivi i giapponesi cercarono di superare i limiti imposti alla loro potenza navale dalla conferenza di Washington e, alla nuova conferenza sugli armamenti navali che si tenne a Londra agli inizi degli anni'30, essi ottennero di accrescere il tonnellaggio dei loro incrociatori e dei cacciatorpediniere. Questo permise loro di continuare la loro politica di espansione e, quando invasero Mukden e altre città della Manciuria nel 1931, gli Stati Uniti non poterono ignorare di essere di fronte ad un progetto di conquista vasto e preciso. Washington davanti a tutto questo decise di agire con cautela perché era al corrente del fatto che in Giappone era in corso una lotta interna che contrapponeva, da una parte una corrente moderata guidata dal ministro degli esteri Shideara e dall'altra una corrente nazionalista che aveva i suoi rappresentanti nelle alte cariche della marina. Voleva privilegiare la fazione più moderata, sia perché non desiderava inimicarsi l'opinione pubblica, che poteva accusare il governo di interessarsi di zone molto lontane senza concentrare i propri sforzi a risollevare le sorti del paese seriamente compromesse dopo la crisi economica del 1929.

Per queste ragioni il Segretario di Stato Henry Stimmons fece appello all'art. 11 della Carta della Società delle Nazioni (articolo che riguardava le modalità di intervento politico della Società delle Nazioni in caso di conflitto) condannando l'atto di aggressione giapponese ai danni della Cina, come scrisse lo stesso Stimmons nelle sue memorie sulla crisi dell'Estremo Oriente: "Sarebbe stato più utile [per gli Stati Uniti] fornire alla Società delle Nazioni un aiuto indipendente che assumere una funzione di leader nella politica estremo orientale; funzione che effettivamente poteva spettare all'America come principale promotrice e firmataria del Trattato delle nove potenze sottoscritto a Washington nove anni prima"[12].

Dopo alcuni tentativi rivolti a raggiungere un compromesso tra le parti ed i continui rifiuti da parte del Giappone, controllato ormai dai nazionalisti più radicali, il Segretario di Stato ed il presidente Hoover decisero di rinunciare all'azione collettiva, precedentemente intrapresa. Il risultato fu l'invio, il 7 gennaio 1932, da parte di Stimmons di due note identiche ai paesi coinvolti, Cina e Giappone, nelle quali si affermava che gli Stati Uniti non potevano ammettere la legittimità di qualsiasi stato di fatto né intendevano riconoscere alcun trattato o accordo lesivo dei diritti derivanti in Cina agli Stati Uniti o a loro cittadini, sulla base dei trattati esistenti, compresi quelli riguardanti la sovranità, l'indipendenza, l'integrità territoriale ed amministrativa della Repubblica cinese o il principio della Porta Aperta [cioè della libertà di commercio], né riconoscere alcuna violazione del patto di Parigi del 27 agosto 1928 [il Patto Briand-Kellog] a cui avevano aderito sia gli Stati Uniti, sia il Giappone e la Cina .

Nonostante l'intervento deciso degli Stati Uniti, i giapponesi continuarono la loro avanzata sia sul territorio mancese sia in quello cinese; alcuni incidenti si verificarono nel porto di Shanghai dove per la prima volta si ebbe uno scontro diretto tra le forze cinesi e quelle nipponiche tanto che queste ultime decisero di porre termine all'azione militare a Shanghai. Grazie al diversivo, a Shanghai i giapponesi riuscirono comunque a consolidare il loro controllo nella Manciuria ed il 18 febbraio 1932 trasformarono la regione in stato indipendente con il nome di Manciukuò. In settembre fra il Giappone ed il Manciukuò venne stipulato un trattato che confermò la dipendenza di quest'ultimo dal Giappone con il non riconoscimento da parte degli Stati Uniti di questa nuova situazione territoriale. Il Segretario di Stato Stimmons, alla fine del suo mandato, rimase con la speranza che, dopo la politica di disimpegno attuata dal presidente Hoover, la situazione in Estremo Oriente potesse essere seguita con maggior attenzione dal capo della successiva amministrazione ossia Franklin Delano Roosevelt, cugino di Theodore Roosevelt.

Franklin D. Roosevelt, al momento in cui assumeva la presidenza, non era molto disposto ad impegnarsi a fondo nella politica internazionale, e, infatti, nel suo primo mandato si interessò principalmente di restaurare l'equilibrio economico che la crisi del '29 aveva reso precario attraverso le due politiche di risanamento che prendono il nome di Primo e Secondo New Deal. Gli eventi che si avvicendavano (continua espansione giapponese in Cina; guerra di Spagna; inizio del riarmo in Germania), mentre il New Deal concentrava il suo impegno nel risanamento economico della società americana, fecero sì che gli Stati Uniti seguissero una politica di neutralità con la stipulazione di ben tre Neutrality Acts o Leggi di Neutralità che avevano come scopo quello di disinteressarsi di ciò che stava accadendo in Europa.

Esauriti gli impegni riformatori del primo e del secondo New Deal e divenuta la situazione internazionale sempre più preoccupante Roosevelt disse in un discorso che si tenne a Chicago il 5 ottobre del 1937 che la legge di neutralità dello stesso anno[15] era "il massimo che l'esecutivo potesse tollerare se voleva conservare almeno uno stretto margine di iniziativa, di cui aveva sempre più bisogno" . Da allora in poi si sviluppò una politica parallela a quella neutrale diretta ad intervenire in difesa di quei paesi amanti della pace senza incorrere in violazioni delle leggi. Il presidente poteva agire in libertà in settori come quello dell'America Latina, o perlomeno in maniera più libera che in Europa o in Estremo Oriente dove si ebbe una ripresa dell'espansione giapponese.

Nel luglio 1937 il Giappone iniziò una vera e propria operazione di guerra sul territorio cinese e gli Stati Uniti tentarono di aiutare i cinesi, ma non ottennero grandi risultati nemmeno quando aerei giapponesi abbatterono, sullo Yangtse kiang, la cannoniera Panay. Fino alla seconda guerra mondiale quindi Roosevelt non si discostò dal principio di "non riconoscimento" attuato precedentemente da Stimmons e non organizzò alcuna azione comune anti-giapponese con gli altri paesi firmatari dei trattati di Washington.

Gli Stati Uniti durante la loro neutralità, si impegnarono in vario modo nel conflitto in Europa senza venire completamente coinvolti nella guerra, ma questo non accadde con tutte le parti interessate. Nell'estate del 1941 il Giappone aveva conquistato l'Indocina francese minacciando le comunicazioni con le posizioni britanniche in Cina, con le Indie orientali olandesi, con le Filippine; il pericolo cresceva ed il governo americano ne era pienamente consapevole. Il governo americano, sapendo che al Giappone mancavano materie prime, in particolare petrolio ed acciaio, decise, in modo da limitare l'espansionismo della potenza nipponica, di "congelare" i beni giapponesi negli Stati Uniti, stabilendo di fatto un embargo sul commercio nippo-americano. Si cercarono degli accordi di mediazione tra i due paesi e fu proprio il Giappone a chiedere al governo americano di accettare la cosìdetta "sfera della co-prosperità della grande Asia orientale"; Roosevelt declinò la proposta .

Successivamente il governo giapponese presentò apertamente due gruppi di proposte da sottoporre agli Stati Uniti: se entro il 25 novembre questi ultimi non avessero accettato né il primo né il secondo gruppo di proposte, il Giappone avrebbe potuto dichiarare loro guerra. Sia il primo gruppo, che prospettava il riconoscimento americano della dominazione giapponese in Cina, ed il secondo, che prevedeva il consenso americano al Giappone di continuare la guerra in Cina, vennero puntualmente respinti da Roosevelt e da Hull. La controproposta statunitense consisteva nella firma di trattati di non aggressione che venne a sua volta rigettata dalla forza opposta.

Il governo americano prevedeva un attacco da parte giapponese, ma non alla base di Pearl Harbour che avvenne inaspettatamente il 7 dicembre 1941 a causa del ritardo con cui gli Stati Uniti vennero a conoscenze delle reali intenzioni del Giappone.

Con la sconfitta italiana e la firma dell'armistizio il 3 settembre 1943 la necessità di trovare soluzioni di compromesso da parte delle parti in causa si facevano sempre più pressanti e fu lo stesso Stalin che il 22 agosto del 1943 rivolse un messaggio a Roosevelt per chiedere la creazione di un organo tripartito, capace di affrontare collegialmente i problemi emergenti dalla resa degli alleati della Germania. Nacque così l'idea del primo di una serie di incontri anglo-sovietico-americano che si tenne a Mosca nell'ottobre 1943 con la partecipazione dei ministri degli Esteri Eden, Molotov e Hull. Alla conferenza di Mosca cominciarono ad affiorare le diverse intenzioni delle parti coinvolte, Roosevelt aveva pensato che la pace avrebbe dovuto portare alla costituzione di un ordine globale basato sulla collaborazione fra le maggiori potenze, che rimanendo solidali avrebbero potuto garantire e consolidare la cosìdetta Pax Americana. Questo era il Grand Design rooseveltiano che tentò di realizzare con la creazione nel 1944 delle Nazioni Unite. Seguendo la medesima ispirazione il presidente americano progettava di sottoporre ai suoi alleati una dichiarazione delle "quattro potenze"o "four policemen" (la quarta doveva essere la Cina) che affermasse l'esigenza di una nuova organizzazione secondo due principi: 1. eguaglianza dei diritti sovrani di tutte le nazioni; 2. responsabilità speciale che spettava alle maggiori potenze nella salvaguardia della pace.

I ministri inglese e russo intendevano, attraverso la conferenza, risolvere questioni riguardanti il fronte europeo.

Promotore della seconda conferenza che si tenne a Teheran il 1° dicembre dello stesso anno fu lo stesso Roosevelt, volendo dimostrare al dittatore sovietico che gli Stati Uniti agivano indipendenti dalla Gran Bretagna. L'intenzione del presidente era anche quella di indire un vertice al Cairo, tappa intermedia prima di raggiungere la capitale iraniana, al quale avrebbe partecipato anche il presidente cinese Chang-Kai shek, rappresentante del partito del Kuomintang; egli, in questo modo, cercava di accrescere l'influenza politica cinese per dare maggiore concretezza al progetto delle quattro grandi potenze. Il tentativo americano si risolse con un incontro bilaterale con il presidente cinese perché le altre forze negarono la loro presenza. La conferenza del Cairo che si tenne tra il 22 ed il 26 novembre 1943 portò a consolidare maggiormente il rapporto tra gli Stati Uniti e la Cina nazionalista e venne sostanziato da richieste territoriali da parte cinese: il Giappone, una volta sconfitto, avrebbe dovuto restituire la Manciuria, Formosa, Porth Arthur, le Isole Pescadores ed il Darein; in cambio gli Stati Uniti chiedevano di poter creare basi aeree sul territorio cinese e di rafforzare le forze cinesi.

Nella conferenza di Teheran Roosevelt ribadì la sua intenzione di istituire una grande Organizzazione a livello mondiale basata sul principio dei four policemen cioè quattro poliziotti ai quali spettava il compito di preservare e garantire la pace.

L'ultimo contributo che il presidente americano diede alla creazione del mondo post-bellico sarebbe stata la partecipazione alla conferenza di Yalta avvenuta fra il 4 ed il 12 febbraio 1945. La situazione generale ora, dopo lo sbarco in Normandia e l'inizio del processo di liberazione dalla Germania, era caratterizzata dalla diminuzione dell'importanza del fattore militare e dall'aumento di quello politico-diplomatico[17]. Gli argomenti che vennero affrontati in questo ennesimo incontro furono l'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU); il problema della suddivisione e dell'amministrazione della Germania ormai a vittoria conseguita ed il problema dell'assetto politico e dei confini della Polonia. Il tema dell'ONU, al di là dell'aspetto puramente organizzativo di cui le potenze avevano precedentemente trattato nel vertice di Dumbarton Oaks nel 1944, rappresentava il significativo impegno americano e più precisamente rooseveltiano di voler affrontare la nuova era post-bellica sulla base di una partecipazione pacifica mondiale sotto la guida degli stessi Stati Uniti. I progetti erano gli stessi delle conferenze passate, quattro potenze (Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica e Cina) che avrebbero operato al fine di garantire la pace mondiale. Roosevelt poneva l'accento sulla partecipazione della Cina perché in qualità del più povero dei poveri, simbole 353f57d ggiava il gradino più basso della popolazione del mondo che era stato crudelmente maltrattato dalla guerra; inserita, inoltre, nel Consiglio di Sicurezza (futuro organo all'interno dell'ONU) avrebbe dato enfasi alla dottrina del New Deal secondo cui anche il povero deve avere accesso al potere .

Roosevelt non potè vedere personalmente la realizzazione del suo progetto perché, quando il 25 aprile del '45 si tenne la conferenza di S.Francisco, dove venne solennemente approvato lo Statuto delle Nazioni Unite lui era già morto, ma il contributo che diede perché questo accadesse fu indiscutibile.

Il suo successore Henry Truman si trovò a dover dare l'ultima svolta per la conclusione della guerra. Dopo la resa incondizionata della Germania, il Giappone, occupate le Filippine e le Ryu Kyu, era rimato isolato e privo di una grande potenza marittima; nella conferenza di Potsdam (17 luglio-2 agosto 1945) gli Stati Uniti annunciarono con soddisfazione di aver portato a termine gli esperimenti per la costruzione della bomba atomica e minacciarono il Giappone che l'avrebbero usata contro di loro se avessero rifiutato la resa. Il governo di Tokio si rifiutò di rispondere e Truman allora ordinò lo sganciamento della bomba prima a Hiroshima (6 agosto 1945) e poi a Nagasaki (9 agosto 1945). Dopo questi eventi il governo nipponico accettò la resa incondizionata e le condizioni di pace che constavano nella demilitarizzazione, le forze giapponesi sarebbero state disarmate; democratizzazione, il governo avrebbe dovuto rimuovere ogni ostacolo verso la creazione di istituzioni libere e democratiche; deindustrializzazione, l'industria di pace sarebbe rimasta per pagare le riparazioni di guerra, ma i giapponesi avrebbero potuto accedere solo alle materie prime necessarie alla stessa industria.

I risultati ottenuti dalla fine della seconda guerra mondiale primi fra tutti la creazione delle Organizzazione delle Nazioni Unite e il contenimento del Giappone furono molto significativi e rappresentano il risultato di una politica finalizzata alla pace e alla cooperazione mondiale, pace e cooperazione che però ebbero vita breve.



1.4. L'avvento della Guerra Fredda e le trasformazioni in Estremo Oriente



La politica rooseveltiana basata sulla cooperazione mondiale sfumò fra il 1945 e la primavera del '46 quando al posto del multilateralismo si affacciò la nascita del bipolarismo, ciò significava che la via della ricostruzione dopo la guerra avrebbe seguito due strade diverse perché due erano i principali vincitori: Stati Uniti e Unione Sovietica. La "teoria dei due campi", come venne definita da Stalin, fu al base della guerra fredda ossia, lo stato di rivalità, di tensione e di diffidenza che caratterizzava i rapporti tra i due paesi. Il presidente Truman in riposta all'atteggiamento di Stalin adottò una politica estremamente dura nei confronti del paese avversario: lo costrinse a ad evacuare la parte dell'Iran che aveva occupato, spinto dall'aumentata tensione con lo stato comunista partecipò alla guerra civile greca dalla parte delle forze monarchico-conservatrici, formulando la Dottrina Truman che sulla base della difesa dei principi democratici, di cui gli Stati Uniti si facevano portavoce, promossero aiuti sia alla Grecia che alla Turchia, l'integrazione territoriale delle quali era indispensabile per tenere sotto controllo gli equilibri nell'Emisfero orientale minacciati dall'espansione sovietica che divenne sempre più pressante con la nascita dell'Internazionale comunista (COMINFORM) nel 1948.

Ciò che Truman ribadiva era la necessità di "combattere il comunismo e di tenerlo sotto controllo". Questo dichiarazione riassumeva il principio e la direttiva del "contenimento" che era stato introdotto da George Kennan, incaricato d'affari nell'Unione Sovietica, nel famoso "lungo telegramma" un documento in cui Kennan affrontava il problema dell'espansione comunista e della necessità di "lottare contro la potenza rivale senza mai accettare con questa convergenze o compromessi".

La necessità di limitare l'espansione sovietica si ebbe soprattutto quando la potenza comunista manifestò le sue intenzioni nei confronti dell'Estremo Oriente ed in particolare verso la Cina. La Repubblica cinese coglieva gli interessi di entrambe le potenze soprattutto per le sue dimensioni territoriali e per la posizione strategica che occupavano. Gli Stati Uniti avevano sempre tentato di evitare che lo scontro interno tra le fazioni del Kuomintang e le forze comuniste si trasformasse in una guerra civile e a capo di questo intervento venne nominato il generale Marshall, fautore del piano di risanamento europeo post-bellico. Marshall giunse in Cina nel dicembre 1945 con l'intenzione di elaborare una piattaforma comune grazie alla quale il Kuomintang ed il Partito comunista avrebbero potuto collaborare insieme per la ricostruzione del paese. La sua mediazione fallì perché Chang, facendo forza sugli aiuti che pensava che gli Stati Uniti gli avrebbero dato, declinò qualsiasi tentativo di dialogo con le forze comuniste e d'altra parte Mao era convinto del sostegno da parte dell'Unione Sovietica.

Il compito di ricucire i rapporti tra nazionalisti e comunisti cinesi venne affidato al generale Wedemeyer, ma la sua proposta di stanziare degli aiuti finanziari a Chang venne rigettata dal Dipartimento di Stato ed anche Marshall era nettamente contrario a questa soluzione dicendo che: "Il tentativo di sostenere l'economia cinese e di avallare gli sforzi del governo cinese si risolverebbe in un peso per l'economia degli Stati Uniti e in una responsabilità militare che non mi è possibile raccomandare come scelta operativa per il nostro governo"[19].

La ripresa dei negoziati avvenne quando Chang Kai-shek decise di nominare come vicepresidente Li Cogren, uomo più attento alle proposte di riforma, ma la speranza di una definitiva soluzione di compromesso tramontò quando le forze comuniste decisero di interrompere ogni contatto con gli esponenti del Kuomintang e la guerra civile era ormai inevitabile. Con il disgregarsi delle forze nazionaliste il riferimento dominante della politica cinese era sempre più il partito comunista; questo faceva cadere ogni intervento diretto al compromesso e rendeva sempre più tesi i rapporti tra Cina e gli Stati Uniti. L'epilogo lo si ebbe il 1° ottobre 1949 anno in cui venne proclamata la Repubblica popolare cinese e la creazione nell'isola di Formosa della Repubblica nazionalista guidata da Chang Kai-shek, la sola riconosciuta dal governo americano come rappresentante diplomatica dell'intera Cina con conseguenti ripercussioni sulla questione del seggio in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Con il riconoscimento della Cina nazionalista gli Stati Uniti ora si trovarono a dover affrontare le pressioni esercitate dalla China Lobby, un insieme di personalità, che mosse da vari interessi, rappresentavano il vero punto di forza della difesa del governo di Chang Kai-shek a Formosa e premevano sugli Stati Uniti per avere aiuti e difesa contro i comunisti come l'appostamento della Settima Flotta americana nello stretto di Formosa.

La China Lobby ricoprì un ruolo importante durante la presidenza Kennedy (1960) e Johnson (1963), essa fece sì che, durante entrambi le amministrazioni, venisse conservata la politica di non riconoscimento nei confronti della Cina rossa e quindi della sua impossibile ammissione alle Nazioni Unite. Il cambiamento di politica venne attuato per mezzo del presidente Nixon e del suo segretario Kissinger che diventarono i protagonisti di quella che venne definita la "grande distensione". L'intenzione del presidente era quella di ricreare una situazione di pace e di cooperazione con i maggiori esponenti del polo comunista, ossia Unione Sovietica e Repubblica popolare cinese. L'occasione per riallacciare i rapporti con la Cina rossa si ebbe nel 1969 quando venne meno l'apparente inattaccabile sodalizio sino-sovietico a causa di uno scontro che avvenne tra i due paesi sul fiume Ussuri dovuto all'attacco sovietico a basi nucleari cinesi.

Le incomprensioni tra Cina ed Unione Sovietica erano già velatamente presenti, la Cina sentiva l'esigenza di rendersi più autonoma dalla potenza sovietica e di uscire dall'isolamento in cui si trovava e gli Stati Uniti cercarono di far leva su questo. Il risultato di questa "apertura" fu il riconoscimento della Repubblica popolare cinese in seno al Consiglio di Sicurezza e la nascita di scambi commerciali e culturali.

















CAPITOLO SECONDO




La politica del "Grand design"




Premessa



L'America ed il mondo intero diventarono consapevoli del fatto che la nuova amministrazione Nixon avrebbe potuto perseguire un grande progetto ("grand design") nell'ambito degli affari esteri, il 18 febbraio 1970, quando la Casa Bianca rilasciò la sua relazione annuale sulla politica estera, formalmente intitolata "Una nuova Strategia per la Pace"[20].

Il messaggio si presentava con una struttura quasi architettonica degna di un qualsiasi grande progetto; faceva riferimento alla "costruzione di una struttura di stabilità" e nei suoi commenti Nixon parlò di "costruzione della pace". Il messaggio, inoltre, fu destinato a convogliare la presenza dell'autorità, la conoscenza ed ulteriori movimenti nell'amministrazione di Nixon; esso fu generalmente ben accolto anche se non fu sufficiente esaltare l'importanza della pace per far dimenticare alla gente la terribile realtà del Vietnam e per questo motivo il discorso del presidente fu generalmente considerato come un progetto per il futuro, dopo che gli Stati Uniti si fossero liberati del demone vietnamita.

Ciò che si evince dell'amministrazione Nixon, attraverso le rivelazioni del Watergate, fu che i modi chiave di operare del presidente si basarono su macchinazioni, azioni segrete ed intrighi; di certo gli strumenti che Nixon e Kissinger cercarono di usare nell'ambito degli affari esteri non erano azioni politiche con implicazioni di lunga durata, ma imprese di veloce realizzazione. Il "grand design" era destinato ad essere un gioco in continuo movimento, non una struttura statica.

Nixon spesso parlò dei suoi "piani": egli aveva un piano per terminare la guerra del Vietnam in sei mesi, descrisse le sue politiche economiche come "strategie di gioco"; sebbene nel gioco in generale le tattiche vengano utilizzate per raggiungere uno scopo oggettivo ossia la vittoria, per Nixon e Kissinger non era importante vincere, infatti, fin dall'inizio del loro mandato, entrambi erano preparati a tutto tranne che ad una vittoria in Vietnam.

La "nuova definizione di pace" offerta nel messaggio del febbraio 1970 considerò la stessa come il risultato di tre differenti passi necessari per la riuscita di una negoziato, ossia, tendenza all'associazionismo, forza e fiducia.

Il significato politico di questi tre approcci fu reso chiaro nella quinta parte del messaggio di Nixon che si riferiva alla "nuova definizione della pace". La prima parte trattò la riorganizzazione della macchina politica, mentre la seconda, la terza e la quarta introdussero i tre passi precedentemente nominati. La seconda parte, riguardò "l'associazionismo e la dottrina Nixon", racchiudendo la politica internazionale dell'Europa, dell'emisfero occidentale, dell'Asia e del Pacifico, del Vietnam, del Medio Oriente, dell'Africa e degli Stati Uniti; la terza parte, "sulla forza americana", includeva la posizione militare statunitense, i piani di difesa, la politica strategica e le forze di natura generale; la quarta parte, infine, su "un'Era di negoziazione", includeva l'Unione Sovietica, la Cina comunista, l'Europa orientale ed il controllo delle armi.

Nella relazione nixoniana erano presenti aspetti già presi in considerazione nelle amministrazioni precedenti. Essa enfatizzava le alleanze esistenti all'interno del mondo libero, mentre il suo accento nei confronti della prudenza nella politica militare unita alla forza richiamava alla mente la politica riguardante i tagli sulle spese militari ideata da Eisenhower per raggiungere una capacità militare più efficiente, la riduzione delle tensioni con l'Unione Sovietica richiamava la politica di Johnson.

La dimostrazione che le operazioni nell'ambito degli affari esteri dell'amministrazione Nixon erano indirizzate a zone già definite può difficilmente essere considerata una apertura del "Grand design". I risultati, le relazioni, gli incarichi e le politiche, infatti, vennero ereditate tutte dalle precedenti amministrazioni.

Il fatto che il messaggio seguisse così fedelmente i parametri fissati dalle precedenti presidenze e riflettesse in modo così pragmatico la situazione storica di quel tempo fu rassicurante. Se non altro esso dava l'idea opposta ad un gran disegno: rappresentava una spiegazione, al pubblico americano, attenta e accurata di ciò che erano i risultati degli affari esteri, vista globalmente all'interno di un unico documento.

La struttura del messaggio nixoniano era in contrasto con le caratteristiche dei generali messaggi sull' "Unione del Mondo" (state of the world messages); Nixon, il politico consumato nei chiusi corridoi del potere, vedeva nella politica e non in una linea di condotta prestabilita lo strumento per realizzare i suoi progetti (o strategie, come lui le definiva).

Quando Nixon assunse il potere il 20 gennaio 1969, aveva già in mente i suoi obiettivi, ma a causa della guerra del Vietnam, egli fu consapevole delle pressioni che venivano esercitate su di lui per obbligarlo a muoversi velocemente per risolvere le sfide più immediate. Nixon era al corrente circa le audaci azioni di Charles de Gaulle durante la "sporca guerra" in Algeria e circa le sue ambizioni per restaurare la grandezza in Francia e le prese sempre da esempio durante la sua politica.

De Gaulle fu il personaggio della scena politica mondiale più ammirato da Kissinger e Nixon quando quest'ultimo assunse la presidenza nel 1969[21]. L'ammirazione del presidente americano nei confronti del Capo di Stato francese divenne evidente quando, un mese dopo la sua inaugurazione, egli compì una visita a Parigi; questa visita fu una sorpresa a causa della diatriba che si era creata tra il predecessore del presidente Nixon e lo stesso de Gaulle e perché non c'era alcuna apparente ragione per consultare il presidente in quel tempo .

Il motivo di questa visita inaspettata venne rivelata tre anni dopo quando Nixon andò a Beijing[23] e, da come venne accolto, si capì che il primo rappresentante in Cina era stato mandato segretamente da de Gaulle nel febbraio 1969 per facilitare l'impresa successiva del presidente americano. Al di là del ruolo che de Gaulle giocò nella diplomazia segreta americana, vi erano ragioni più importanti per incontrare il presidente francese. De Gaulle era stato l'unico leader del mondo occidentale che affrontò una crisi paragonabile a quella che dovette affrontare Nixon durante il conflitto vietnamita. Il Vietnam per l'America era l'Algeria per la Francia. I tentativi di de Gaulle di far uscire la Francia dal conflitto algerino, sconfiggere l'opposizione militare della destra (che tentò di ucciderlo almeno sei volte) e portare avanti un progetto di grande importanza in politica estera e in economia furono le cause principali che fecero sì che Nixon e Kissinger nutrissero grande rispetto per il leader europeo.

Murrey Marder, a dimostrazione di quanto detto sopra osservò, nella sua rivista sulla politica estera di Nixon nel giorno delle dimissioni del presidente, che "lo stile politico che il presidente Nixon invidiò, tra tutti i leaders viventi, fu quello di de Gaulle", aggiungendo che "le strategie utilizzate da quest'ultimo per riallacciare i rapporti con i rappresentanti dell'estrema destra che lo aiutarono a ritornare al potere nel 1958, affascinarono molto il presidente americano"[24].

Tra il "Grand design" francese e quello americano era possibile percepire alcune affinità che li accomunavano: la capacità di liberarsi di una "sporca guerra", sedare le forme sovversive di resistenza sia di destra che di sinistra e la costruzione di uno schema di sistemi politici, economici e militari che avrebbero dato la possibilità agli Stati Uniti di espandersi in tutto il mondo. De Gaulle trovò in Francia un'economia in piena crescita; Nixon, al contrario, dovette affrontare un'economia surriscaldata che doveva essere riportata al suo equilibrio iniziale. Furono le stesse politiche economiche che aiutarono entrambi i presidenti nei loro "Grand design": nel caso di Nixon, una politica fiscale conservatrice fu determinante per far in modo che gli Stati Uniti si liberassero dalla guerra del Vietnam.

Durante la sua campagna elettorale, Nixon aveva annunciato un "piano segreto" per porre fine alla guerra del Vietnam, ma all'opinione pubblica non fu mai reso noto chiaramente quale fosse questo piano. Nel febbraio 1970, invece di annunciare la fine della guerra, l'amministrazione Nixon pubblicò la sua relazione sulla situazione del mondo e, come annotò Kissinger nelle sue memorie, tranne la parte che riguardava il Vietnam i media manifestarono poco interesse. La continua crescita di segnali di lotta suggerì all'opinione pubblica che le differenze sui risultati nell'ambito della politica militare ed estera avrebbe portato a lacerare l'unità dell'amministrazione. La maggior parte dei disaccordi e delle opposizioni provenivano maggiormente dai democratici e gli sforzi di Nixon per far cessare i contrasti erano ben noti, ma al di là di alcuni allettanti segnali, poco si venne a sapere riguardo ai tentativi da parte della fazione opposta di per fargli abbandonare il suo progetto di penetrazione in Cina e di distensione nei confronti della Russia.

Sia Nixon che de Gaulle consideravano le ideologie come strumenti utilizzati per sostenere i politici impotenti ma ambiziosi, entrambi ammiravano la giovane efficienza dei tecnocrati per i quali il raggiungimento dei loro scopi rimaneva il motivo di loro maggior soddisfazione. Una nuova generazione di tecnocrati stava emergendo in diverse parti del mondo: nell'Unione Sovietica alle spalle del vecchio partito, mentre in Brasile e negli Stati Uniti erano composti da diplomati delle accademie militari e delle scuole tecnologiche entusiasti nel poter applicare i concetti appresi alla politica.

De Gaulle e Nixon aprirono la via ai nuovi tecnocrati per ricoprire posizioni chiave nello stato; entrambi i loro "grand design" auspicavano nuove strutture di potere da contrapporre alle vecchie élites corrotte e influenzate dalle pressioni sociopolitiche. De Gaulle si liberò brutalmente delle vecchie classi politiche ed anche Nixon agì al fine di ottenere lo stesso risultato che avrebbe potuto conseguire se non fosse stato coinvolto nello scandalo Watergate. Entrambi scoprirono presto che i loro sforzi per liberarsi delle vecchie élites avrebbero generato rivolte forti abbastanza da farli cadere; entrambi credevano che la politica doveva essere elevata al di sopra della società di massa perché la politica di massa poteva produrre solo disordine, caos e stagnazione. I due presidenti erano anche d'accordo sul fatto che essi stessi avrebbero potuto generare nuovo potere per prevalere sulla vecchia classe politica, ma su questo punto si sbagliarono entrambi in quanto la politica radicata nella società di massa dimostrò sempre di essere più potente di quella legata solo alle élites.





2.1. Restaurazione dell'autorità esecutiva



Liberarsi dei politicanti di destra o di sinistra rappresentava sia per Nixon che per de Gaulle un mezzo per porre fine alla possibile restaurazione dell'autorità esecutiva centrale. Nel messaggio del febbraio 1970 Nixon spiegò come egli avesse "disposto che il Consiglio di Sicurezza Nazionale venisse restaurato in qualità di principale forum come supporto al presidente nel campo della politica estera". La nuova proposta non ebbe molti consensi in quanto essa non parlava di rendere il National Security Council (NSC) lo strumento della politica estera presidenziale, ma solo un "forum", un luogo di incontro dove una "vasta gamma di opzioni" poteva essere elaborata sistematicamente e con creatività.

Era evidente che Kissinger, come capo del nuovo NSC, avrebbe giocato un ruolo chiave nelle discussioni politiche e, data la capacità del professore di Harvard di saper interagire con i giornalisti, il nuovo NSC diventò un forum che superò le sale di incontro nei corridoi esterni, dove giornalisti affamati di notizie aspettavano trepidamente anonime relazioni da parte del portavoce del presidente suo consigliere per la politica estera.

Kissinger fece molto per portare nell'amministrazione uomini produttivi che emergessero al di sopra dei burocrati e che fossero liberi dagli stessi ostacoli amministrativi; ma la sua ascesa al potere iniziò soprattutto grazie alla sua abilità di parlare con tutti con il peso dell'autorità di Nixon alle sue spalle, capacità che lo rese indispensabile agli occhi dello stesso presidente.

La rinascita del NSC non poteva in alcun modo salvare il governo americano da ciò che lo scrittore diplomatico tedesco Uwe Nerlich definì come "il completo collasso dell'Amministrazione dopo la fine del marzo 1968". In alcun modo il professore di Harvard, con un accento tedesco e solo una limitata esperienza di governo, avrebbe potuto riportare in vita una macchina governativa che era stata gestita malamente dalla politica interna americana anche con l'autorità che gli era stata delegata dal presidente. Come Nerlich osservò:

"Le agitazioni provocate dalla guerra del Vietnam in politica interna rivelarono drammaticamente nella società americana il legame tra l'ordine internazionale e la condizione interna di un potere globale. [Lyndon] Johnson capì che nel momento in cui il consenso della politica estera andava esaurendosi, il successo riscontrato negli affari esteri non sarebbe servito per trovare dei mezzi per uscire dalla crisi interna. La politica estera americana fallì in quanto mancavano delle istituzioni interne".

Per ristabilire un'autorità centrale non era necessario un cambiamento strutturale, ma una politica caratterizzata da una varietà di azioni, così mentre la prima parte del messaggio del febbraio 1970 delineò una nuova struttura politica, più significativi erano i suggerimenti riguardo alle intenzioni, alle azioni e ai progetti fondamentali.

Il messaggio del febbraio 1970 se fu ignorato negli Stati Uniti, colpì invece, l'attenzione di molti all'estero, soprattutto dell'Unione Sovietica. Infatti in un libro sulla Dottrina Nixon alcuni osservatori sovietici notarono che tale messaggio dava rilievo al fatto che le altre nazioni avrebbero goduto dell'aiuto statunitense solo se gli Stati Uniti l'avessero considerato vantaggioso per loro stessi. Gli osservatori sovietici, cercando di non essere influenzati dalle vicende politiche di cui i due paesi erano protagonisti, commentarono la relazione nixoniana del 1970 in questo modo: "Tutto ciò non cambia il tono generale che esprime lo sforzo per trovare un modo per liberarsi delle rigidità strategiche nell' ambito della politica estera e ottenere una maggiore libertà di azione per le future operazioni internazionali"[25]. L'intervento dei sovietici porta ad ipotizzare un possibile riferimento alla "libertà di azione" di una politica estera produttiva che Stalin ottenne quando vinse i suoi oppositori. La libertà di azione era ciò che pure Nixon voleva per raggiungere più facilmente i suoi scopi, ma il problema che si presentava alla luce dei desideri del presidente era riferito al Consiglio di Sicurezza Nazionale, in particolare, a come tale organo avrebbe potuto garantire la libertà di azione considerando la situazione incerta che stava vivendo in quel momento. Parecchi membri del Consiglio, infatti, poco dopo l'uscita del messaggio del presidente si dimisero sia a causa dell'arroganza di Kissinger sia perché essi, pensando di ricoprire ruoli di comando per mezzo dei quali influenzare eventi e persone, scoprirono in realtà di essere solo delle pedine. Si scoprì così che lo staff del NSC non era diverso dall'agenzia degli Affari per la Sicurezza Internazionale (ISA), che sotto Johnson venne definito come il posto di comando del Dipartimento di Difesa e che con Nixon divenne poco più di un luogo di ritrovo di oscuri ideologi dell'ala destra del partito. Sia il "liberale" Consiglio di Sicurezza che il reazionario ISA al tempo di Nixon non erano altro che delle comparse.

Il modello generale di riorganizzazione del Governo ideata da Nixon consisteva in diversi cambiamenti, come divenne successivamente evidente nei sei mini messaggi sottoposti al Congresso nel gennaio 1973 quando il presidente presentò l'idea di creare delle "super agenzie" da interporre tra la Casa Bianca ed i vari dipartimenti. Le raccomandazioni sembrarono molto di più di semplici richieste di razionalità verso il governo, infatti esse erano destinate a liberare il presidente dai vincoli di un'eccessiva burocrazia.

In questo modo, il NSC, lontano dall'essere il centro politico decisionale per cui era stato ideato, divenne una super agenzia che contribuì ad aumentare la distanza tra Nixon e le agenzie militari e strategiche; fu semplicemente una cortina di fumo per la restaurazione del potere presidenziale, centrale e concentrato, che Nixon pensava fosse necessario e indispensabile per la realizzazione del "grand design".

I precedenti del messaggio del "grand design" di Nixon furono il discorso del 6 maggio 1969 all'Air Force Academy di Colorado Springs e quello alla base navale a Guam il 25 luglio 1969; in quelle occasioni egli parlò alle due forze armate statunitensi che insieme, virtualmente, avevano il monopolio dell'alta tecnologia militare. Il più importante fu il discorso a Guam fu che si riferiva alla possibilità di una nuova strategia globale che avrebbe ridotto drasticamente il ruolo delle forze armate statunitensi in quanto le altre nazioni non avrebbero più chiesto l'aiuto militare americano, ma avrebbero provveduto personalmente a difendersi.

La Dottrina Nixon definì un nuovo ruolo mondiale per le forze militari americane in particolare per la Marina la quale avrebbe dovuto controllare la rotta marittima contro i sovietici; grazie alla sua antica tradizione essa comprese di essere la più adatta per la realizzazione del "grand design".

Il "grand design" di Nixon aveva lo scopo di riordinare le relazioni con gli altri paesi che avrebbero posto gli Stati Uniti in una posizione centrale nella scena mondiale e ancora più importante per il presidente doveva essere l'utilizzo dello stesso progetto per liberare il paese dalla guerra del Vietnam. La confusione, provocata dal conflitto, non fu solo dovuta da un'immobilità politica e militare, ma anche da una serie di legami che mantennero il corpo politico americano coinvolto nel fenomeno vietnamita.

L'idea che la politica interna ed estera, non siano legate tra loro è un pensiero comune anche nella società americana. Infatti gli americani credono che quando il presidente si impegna in azioni riguardanti la politica estera egli agisca riferendosi a tutti, mentre quando lavora in ambito di politica interna egli non è altro che uno dei tanti personaggi chiave della politica. I molti anni di divisione all'interno della politica estera aiutarono a creare uno scollamento tra la politica interna ed estera ma nel momento in cui la crisi del Vietnam si inasprì, la linea di confine tra le due non fu più così netta.

Uwe Nerlich descrisse la interdipendenza che per Nixon esisteva tra i possibili risultati in politica estera ed interna in questi termini:

"Il problema chiave concettuale [per Nixon e Kissinger] derivò dalla loro convinzione che un nuovo internazionalismo fosse necessario nella politica americana per vincere la crisi interna e per preservare il sistema internazionale da nuove minacce. Solo attraverso un simile nuovo consenso interno il sistema internazionale avrebbe potuto essere sviluppato e preservato".



2.2. Il legame tra politica estera ed interna



Per cercare di capire il legame tra le strategie di politica estera ed interna di un paese è necessario prima di tutto fare delle considerazioni generali che servono ad avvicinarci maggiormente all'argomento. Innanzitutto è importante notare come tutto ciò che riguarda la politica di un paese ed i suoi legami con l'esterno ruotano intorno a tre ampi concetti: gli interessi, le minacce e le politiche.

Una nazione consiste in una miriade di persone, molte delle quali hanno interessi che vanno al di là dei confini strettamente nazionali; questi interessi possono essere gestiti personalmente, o da enti o dal governo che rappresenta la popolazione intera. Una larga parte degli affari esteri di un paese ruota intorno a degli interessi di diversa natura. Viviamo in un mondo formato da molte nazioni, spesso molte di esse sono in contrasto tra di loro. Ogni nazione considera alcune di queste minacce come reali o potenzialmente tali, e costruisce una difesa contro di esse. Tutte le nazioni, infatti, hanno delle forze armate e la gran parte dei loro affari esteri si muove intorno a minacce di tipo politico e militare.

La politica è un termine moderno ed in particolare la politica estera è una linea di azioni che un governo persegue nei confronti delle altre nazioni e con il tempo diventa una parte istituzionalizzata degli affari esteri di un paese.

La nozione di istituzionalizzazione suggerisce un legame tra affari interni ed esteri. Questi ultimi creano delle strutture burocratiche che gestiscono i rapporti con i propri partners con gli interessi, minacce o le strategie politiche. Utilizzando uno dei termini teoretici favoriti di Max Weber è possibile dire che l'istituzionalizzazione è una forma di routinazion (dal termine tedesco Veralltaglichung). In un linguaggio meno teorico questo significa che una volta che una serie di affari esteri ha inizio, essa tende a continuare nonostante la volontà di farla terminare.

E' necessario aggiungere un'ulteriore considerazione che riguarda la differenza tra la condizione di pace e di guerra. Prima dell'inizio della guerra fredda, queste due condizioni erano rigorosamente differenziate: in tempo di pace, per esempio, le forze armate statunitensi erano composte da professionisti ed unità relativamente piccole, ma quando scoppiava una guerra un gran numero di giovani venivano arruolati, nuove macchine da guerra venivano create e questa situazione veniva mantenuta fino alla fine del conflitto. Solo dopo quel momento tutte le strutture di combattimento venivano smantellate ed i militari ritornavano alla loro vita civile. In tempo di guerra le strutture ideate ed organizzate per fronteggiare le minacce del nemico emergono e prendono il posto di quelle civili.

La politica riguarda specialmente la élite, è determinata dalle classi sociali elevate e le "masse" spesso non la comprendono. Essa è necessaria sia in tempo di pace che in tempo di guerra in quanto richiede potere ed autorità al vertice dell'organizzazione.

Dopo la seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti non ripeterono quanto avevano fatto dopo la guerra civile ed il primo conflitto mondiale; essi non smantellarono molte delle loro burocrazie militari nate durante le guerre. In questo modo rimase un governo molto articolato, parte del quale gestiva gli interessi interni e parte gestiva le minacce.

Durante la guerra fredda le burocrazie riguardanti la sicurezza nazionale diventarono sempre più importanti. L'economia di guerra fu estremamente fiorente a discapito però dell'economia civile. Nonostante questa situazione fosse stata accettata dalla popolazione americana nelle precedenti situazioni conflittuali, durante la guerra del Vietnam ciò non venne considerato inevitabile e lo stesso Johnson era fiducioso sul fatto che gli americani avrebbero potuto avere sia "fucili" che "burro"[26]. La fiducia del presidente svanì quando le strutture derivanti dalle minacce presero il posto di quelle derivanti dagli interessi e l'economia civile iniziò a sentire il peso dell'inflazione del 1967.

All'interno delle strutture della sicurezza nazionale si sviluppò una mentalità proiettata all'esterno, riflessa nei privilegi che l'apertura della sicurezza stessa garantiva e questa rappresentava una delle condizioni principali per la creazione di uno Stato nello Stato. Gli Stati Uniti iniziarono a muoversi in questa direzione, attraverso la CIA e le altre agenzie di sicurezza nazionale impiegate nel 1970.

Nei momenti di guerra, tutte le persone della società sono chiamate a partecipare, ognuno si sente una parte di quella situazione; questo tipo di comportamento è caratteristico della guerra democratica manifestatosi in primo luogo nelle rivoluzioni americana e francese. Gli affari esteri di una nazione in guerra diventano di interesse di tutta la popolazione e nei paesi moderni i conflitti spesso entrano direttamente nella vita quotidiana della gente attraverso ad esempio bombe, mutilazioni e morti. In condizione di pace, la tradizionale separazione tra la politica interna ed estera tende a ritornare e gli interessi predominano sulle minacce.

In tempo di guerra le persone accettano la presenza di un'autorità esterna se essa proviene dalla loro stessa comunità, e questo favorisce il tipo di autorità centralizzata che viene richiesta. La situazione opposta, al contrario, non solo fa venir meno la divaricazione tra affari interni ed esteri, ma permette anche ai molti interessi in gioco di essere presenti nelle decisioni politiche. Gli interessi possono essere confusi, mentre la linea politica che si segue deve essere chiara, in questo modo il predominio degli interessi nel governo tende a impedire che la leadership agisca in maniera innovativa. Durante la guerra fredda, l'esecutivo americano voleva l'autorità ed il sostegno popolare che il tempo di guerra in genere assicura, ma allo stesso tempo voleva che la società civile americana incredibilmente ricca e produttiva prosperasse anche in tempo di pace, e questo richiedeva la nascita di nuovi interessi preservando quelli già presenti.

Quando Nixon assunse il potere come presidente, gli affari interni ed esteri erano strettamente intrecciati ed era necessario un intervento drastico per separarli. Lo "stato di guerriglia" a cui si riferiva Erlichman era legato tanto agli interessi conflittuali, alle minacce e alle strutture politiche, quanto alle opinioni violentemente contrastanti nei riguardi della guerra del Vietnam.

Quando Nixon divenne presidente regnava il caos, ma più pericoloso dello stato confusionale, era la possibilità che alcuni membri del governo potessero chiedere una soluzione a ciò esigendo lo stato di emergenza nazionale ed introducendo le condizioni di guerra[27]. Quando nel 1968, venne diffusa la notizia che Johnson avrebbe proclamato uno stato di emergenza nazionale per mobilitare la Guardia Nazionale e aumentare il contingente militare in Vietnam di un milione di uomini, l'opposizione manifestò il suo dissenso. Se questo fosse accaduto Johnson avrebbe prontamente imposto lo stato d'allerta in tutto il paese. Non si hanno prove sul fatto se Nixon abbia mai, durante la sua presidenza, proclamato lo stato di emergenza, ma è possibile ipotizzare che se avesse veramente preso una simile decisione avrebbe dovuto rinunciare al suo "grand design" perché ciò avrebbe significato per prima cosa vincere in Vietnam e tentare di instaurare nuove relazioni con la Cina e l'Unione Sovietica solo alla fine del conflitto. Nixon fece esattamente il contrario in quanto non era mai stata sua intenzione superare le minacce militari e poi far sì che gli interessi civili si riversassero nel governo; egli decise di agire come un sovrano. Era necessario che egli agisse da sovrano per portare avanti il suo progetto, che lo avrebbe spinto al di sopra e al di là del limite imposto da politici e burocrati. Probabilmente era questo che lo dissuase, nell'aprile 1973, dal cedere alle esortazioni di alcuni senatori repubblicani i quali gli prospettarono la possibilità di licenziare i suoi consiglieri per salvarsi dal Watergate e, con l'aiuto del Congresso, ritornare agli affari.



2.3. Il contenuto del primo "Messaggio sull'Unione del Mondo" (state of the world message)



La prima relazione annuale sulla politica estera di Nixon del 18 febbraio 1970, è intitolata "Una nuova Strategia per la Pace". Essa rappresentò il suo primo messaggio sull' "Unione del Mondo" ("the state of the world message").

Il messaggio del 1970 è un documento ricco che meritava molta più attenzione e fiducia di quanta in realtà ne ottenne.

La relazione è composta di quattro parti. Per prima cosa la maggior parte delle sezioni riguardano argomenti geograficamente e burocraticamente specifici e questo suggerisce come dietro ogni riferimento geografico degli Stati Uniti è presente un organo legato alla sicurezza nazionale interna e dietro a questo una rete di interessi ed ideologie. Nella terza parte, a giustificazione di quanto detto sopra, si descrive la struttura delle forze militari statunitensi divise in tre componenti: una forza strategica, agenzie di programmazione e forze convenzionali dotate di loro burocrazie, finanziamenti e difese. Sono presenti organizzazioni di difesa concernenti le relazioni con Unione Sovietica, Europa dell'Est e Cina comunista.

Il messaggio, secondariamente, tratta tre elementi chiave presenti negli affari esteri discussi in precedenza ossia interessi, minacce e politica. La seconda parte della relazione infatti descrive i grandi interessi economici che gli Stati Uniti hanno in tutto il mondo, ad esclusione dei paesi socialisti. L'Unione Sovietica e la Cina rappresentavano i due elementi di minaccia che gli Stati Uniti dovevano affrontare e la tendenza a trattare l'Europa orientale come problema a parte indicava che l'amministrazione Nixon non la considerava legata all'Unione Sovietica[28].

Terza caratteristica del messaggio nixoniano è la presenza di una logica programmatica. La seconda parte infatti tratta geograficamente l'Europa e l'emisfero occidentale, poi l'Asia, il Medio Oriente e l'Africa e termina riferendosi ad economie internazionali, che si riallacciavano all'Europa come componente più importante; Nixon tentò di darle la priorità come elemento chiave di forza economica.

Questa visione in retrospettiva degli eventi mostra un elemento programmatico anche nelle parti tre e quattro. La terza parte sottolinea il bisogno di costruire la forza strategica statunitense dopo la grande importanza che era stata conferita alle forze convenzionali, particolarmente alle truppe di terra, durante la presidenza Johnson, ma conclude suggerendo la possibilità di rafforzare anche le forze convenzionali.

La quarta parte, infine, inizia parlando dell'Unione Sovietica, avversario chiave degli Stati Uniti, e continua riferendosi prima all'Europa orientale e alla Cina, poi al controllo delle armi nominando i SALT (Strategic Arms Limitation Talks), i trattati sulla limitazione dell'uso delle armi strategiche. Quest'ordine corrisponde specularmene al programma della politica di Nixon. Prima è in progetto la visita in Europa orientale, particolarmente in Romania nel luglio 1969, poi l'annuncio della sua visita in Cina nel luglio 1971 ed infine nell'ottobre 1971 l'annuncio della sua visita a Mosca per firmare un accordo riguardo la limitazione dell'uso delle armi strategiche.

Da ciò che si evince il messaggio non solo traccia uno schema riguardo alla serie di interessi, di minacce e di politiche che qualsiasi governo americano doveva trattare nelle relazioni internazionali, ma suggeriva anche che qualcosa di nuova stava accadendo e questo era legato principalmente ai rapporti con i paesi comunisti. Nella parte introduttiva del suo messaggio Nixon osservò che "l'unità internazionale comunista si era spezzata . la sua solidarietà si era rotta a causa delle potenti forze del nazionalismo". Questo rese possibile uno cambiamento nella dottrina della sicurezza nazionale che portò a modificare la strategia di guerra.

La politica di apertura nei confronti di Beijing non fu solamente un'occasione fornita dal conflitto sino-sovietico, ma rappresentò anche la giusta condizione all'interno della struttura della sicurezza nazionale. Senza il cambiamento dello stato di allerta, che effettivamente non considerava più la Cina una grande minaccia come in passato[29], Nixon non si sarebbe mai arrischiato di compiere il passo coraggioso che fece.



2.4. La "Dottrina Nixon": obiettivi e caratteristiche generali



Il progetto del "grand design" del presidente Nixon impressionò molto di più gli stranieri che gli americani, i diretti interessati. Un americanista sovietico, Yu. P. Davydov, riassunse la Dottrina Nixon come segue:

"la Dottrina Nixon è una reazione conservatrice e pragmatica ai cambiamenti di cui il mondo è protagonista; può rappresentare un tentativo per colmare il divario tra le capacità degli americani e la realtà della vita internazionale. Per raggiungere questo obiettivo si richiede la rinuncia alla rigidità attuata negli impegni internazionali utilizzata dagli Stati Uniti in passato, in questo modo non è necessario utilizzare le loro risorse in imprese di minore importanza. Washington pone particolare attenzione all' "associazionismo", nella speranza di conferirgli maggiori opportunità così da realizzare le sue pretese di primeggiare nel mondo in modo nuovo"[30].

Davydov discute a lungo il tema dell'associazionismo, che attraversa il messaggio del 1970, e pone l'accento all'affermazione presente nella sezione introduttiva: "Noi considereremo nuove imprese alla luce di un'attenta valutazione riguardo ai nostri interessi nazionali".

Nixon, come qualsiasi equilibrato capitalista, cercò di mettere da parte i sentimenti e di guardare direttamente a quelli che erano gli interessi del paese, distinguendo con facilità quelli più importanti da quelli meno.

Uwe Nerlich sottolineò tre elementi principali nella politica estera attuata da Nixon e Kissinger:


A.   il bisogno di adattare il ruolo degli Stati Uniti a ciò che era interamente possibile senza permettere ad un nuovo potere di nascere;


a.     la comprensione che un nuovo internazionalismo non si sarebbe più potuto costruire su un sistema di alleanze creatosi nel dopoguerra, ma avrebbe dovuto diventare veramente globale ed includere sia l'Unione Sovietica che la Cina;


a.     la creazione di nuove basi burocratiche e dottrinali per la politica estera, in particolare un Consiglio di Sicurezza riorganizzato, nuove linee guida di condotta nei confronti di Beijing ed in particolare Mosca e soprattutto la presentazione di un nuovo programma di politica estera.


Il giorno delle dimissioni del presidente, Murrey Marder commentò: "I due temi riguardo la limitazione del coinvolgimento militare americano all'estero e la diminuzione del confronto tra Est ed Ovest rappresentarono l'iniziò di ciò che sarebbe stato successivamente conosciuto come la Dottrina Nixon"[31].

Due anni più tardi Geoffrey Barraclough riassunse la dottrina dando credito in primo luogo a Kissinger:

"dopo l'annuncio della "Dottrina Nixon" nel luglio 1969, il profilo della nuova strategia subito divenne visibile: ritirata dal Vietnam, distensione e comprensione con l'Unione Sovietica e con la Cina e la creazione di un blocco americano, europeo e giapponese articolato e tenuto insieme da una nuova "Carta dell'Atlantico"[32].

Barraclough vide la geopolitica del "grand design", come una strategia a favore dell'Asia orientale centrata sulla ritirata dal Vietnam, la distensione con l'Unione Sovietica e la Cina e la creazione di un nuovo blocco globale centrato sulle nazioni industrialmente più avanzate.

Come molti notarono, la politica estera di Nixon e Kissinger si basò su un potere molto forte in quanto potè contare sull'appoggio di paesi molto importanti, infatti nel discorso di Kansas City del luglio 1971 il presidente parlò di cinque grandi potenze: gli Stati Uniti, l'Europa occidentale, l'Unione Sovietica, la Cina ed il Giappone.

Il "grand design" presenta tre elementi importanti che, sotto certi punti di vista, coincidono con l'analisi geopolitica di Barraclough:


a.     esso cercò di ridurre il pericolo dei conflitti regionali che si sarebbero trasformati in conflitti tra le grandi potenze spingendo le forze militari di terra statunitensi lontane dalle loro posizioni, particolarmente nell'Asia orientale, e sostituendo ad esse una strategia più ampia, basata sulla difesa navale ed aerea, che avrebbe sostenuto le alleate forze di terra.


A.   Esso avviò la distensione con l'Unione Sovietica basandola su dei rapporti economicamente vantaggiosi.


A.   Esso cercò un nuovo dialogo con la Cina che avrebbe cambiato il ruolo di grande avversario, che questo paese aveva ricoperto fino a quel momento, in quello di un amico o addirittura di un alleato.


A.   Esso tentò inoltre di risolvere i pericolosi conflitti nel Medio Oriente, ricostituire la politica economica del petrolio e ristabilizzare un'economia mondiale compromessa dagli effetti della guerra del Vietnam, eliminando, in primo luogo l'inflazione. Lo scopo era di creare una nuova serie di relazioni tra gli Stati Uniti, l'Europa occidentale ed il Medio Oriente ricco di petrolio.


Tra i propositi del "grand design", l'Asia orientale era concepita in modo molto diverso dall'Europa occidentale. Essa era una insieme di nazioni sovrane indipendenti grandi e piccole, non poteva essere pensata la presenza di un mercato comune. La Cina, il Giappone, la Corea ed il Vietnam erano paesi coraggiosi che diffidavano l'un dell'altro nella stessa misura in cui disprezzavano e temevano la possibile dominazione degli Stati Uniti o dell'Unione Sovietica. Quando la Cina divenne comunista nel 1949, il mondo si divise tra il Comunismo internazionale ed il mondo libero. La politica statunitense di contenimento ignorò le pretese dei coreani e dei vietnamiti che sostenevano l'unità dei loro paesi se pur in realtà divisi. Studiosi americani sostenevano che i confini erano ancora storicamente validi e che le popolazioni del Nord erano culturalmente diverse da quelle del Sud, mentre coreani e vietnamiti ribadivano l'unità dei loro rispettivi paesi ed accettavano la divisione solo come soluzione temporanea.

L'Europa occidentale rappresentava un problema diverso. L'ambito in cui la proposta di Kissinger di una nuova "Carta dell'Atlantico" si formulò era simile a quello in cui si delineò l'internazionalismo che, durante la seconda Guerra Mondiale, spinse gli Stati Uniti a guardare al di là dei limiti della sovranità e cercare un nuovo ordine nel mondo. Nixon e Kissinger sottolinearono sempre l'unità dell'Europa occidentale ed anche quando essi trattarono individualmente con i primi ministri europei, la bilateralità prevalente ovunque nelle relazioni americane di politica estera era totalmente assente. Ciò non era una sorpresa perché l'elemento fondamentale dell'Europa occidentale è da sempre stato la sua economia che è così internazionalizzata che il nazionalismo politico è difficile da sostenere e proprio il suo mercato comune e la sua grande economia capitalista hanno permesso all'Europa stessa di essere più unita.

Il nazionalismo della politica asiatica, esercitata da Nixon, e l'internazionalismo della politica europea erano riferite alle reali condizioni di quelle aree, essi inoltre riflettevano le due principali correnti del partito repubblicano americano. La corrente conservatrice del partito provava profonda simpatia nei confronti del nazionalismo anti-comunista asiatico ed avversione nei confronti della multilateralità caratteristica dell'Europa e dei paesi atlantici in generale. Non fu difficile per Nixon decidere che i cinesi di Beijing erano i nazionalisti politicamente più importanti rispetto a quelli di Taipei .

Allo stesso tempo, i suoi nuovi legami con i liberali, l'ala del partito repubblicano orientata verso l'Europa, mise il presidente in grado di far suo anche l'elemento dell'internazionalismo supportato maggiormente da questi ultimi. Quest'ala del partito discendeva da una vecchia tradizione nella storia americana che iniziò con la rinascita di una forte relazione con la Gran Bretagna, interrotta nel 1776. Agli inizi del 1970 i rapporti si andarono a delineare in forma "trilaterale"ossia si basarono sulla convinzione che gli Stati Uniti, l'Europa occidentale ed il Giappone, i tre paesi capitalisti più grandi del mondo, formavano una triade naturale che si sarebbe potuta adattare a qualsiasi uso politico.

Dopo che l'iniziale turbamento per il cambiamento ideologico in Cina venne meno, l'interesse economico statunitense nei confronti dell'Asia aumentò tanto che fino al 1976 il rapporto commerciale tra Stati Uniti ed il continente asiatico si articolò considerevolmente, producendo una ripercussione economico in Europa, paragonabile a quella dell'Asia orientale dovuto all'apertura da parte di Nixon alla Cina. Lo spavento iniziale si esaurì velocemente nel momento in cui gli internazionalisti nel partito Repubblicano si resero conto che la nuova politica verso l'Asia alla fine avrebbe rafforzato, invece che indebolito, il legame tra gli Stati Uniti e l'Europa. Nixon fu generalmente ammirato nella cerchia politica ed economica europea e sebbene le sue mosse turbarono la sensibilità colta di alcuni leaders europei, esse vennero accettate da una nuova stirpe di manager professionisti come parte del gioco internazionale.

Se il "pragmatico conservatorismo" (come gli americanisti sovietici lo definirono) caratterizzò la politica presidenziale asiatica ed europea, la politica nei confronti dell'Unione Sovietica e della Cina deve essere considerata molto più creativa. Egli velocemente abbandonò la politica precedente del contenimento che sembrava essere inesorabilmente dominante rispetto ad un condominio russo-americano nel mondo e portò avanti, invece, strategie che per la prima volta nella storia umana sembrarono mantenere la promessa di dar vita ad un "unico mondo". Egli invitò i russi i cinese a far parte di questo nuovo mondo ed essi accettarono; i russi si mossero così velocemente che nel giro di pochi anni essi avevano accumulato un considerevole debito internazionale, i cinesi al contrario agirono più lentamente senza svelare apertamente il loro desiderio di un rapporto più stretto con gli Stati Uniti e conseguentemente la possibilità di entrare a far parte del mondo capitalista.

L'intenzione di Nixon era quella dar vita ad una Pax Americana non basata su un confronto con l'Unione Sovietica e la Cina, ma sulla cooperazione; ciò non si sarebbe realizzato con la forza ma con l'astuzia, attraverso equilibri complicati e strategie. Gli Stati Uniti avrebbero comunque mantenuto il loro equilibrio militare strategico con l'Unione Sovietica e avrebbero continuato a ricostituire le loro forze convenzionali per unirsi a quelle sovietiche nelle zone più movimentate del mondo.

La visione del mondo del presidente rispecchia la tradizione repubblicana e la realtà economica del paese. Infatti come repubblicano Nixon tenne sempre viva la speranza di riuscire a vincere il pericolo dell'inflazione ed ad ostacolare il tentativo da parte del governo di controllare l'attività economica.

Il presidente, grazie ai suoi collaboratori, in particolare Kissinger, diede vita ad un progetto politico che era un ambizioso tentativo da parte dello spirito capitalistico di ordinare il mondo intero in modo tale da preservare i propri interessi. Nonostante la caduta del presidente il "grand design" continuò ottenendo risultati considerevoli: la penetrazione politico-economica in Cina, la distensione con l'Unione Sovietica e diresse gli accordi di pace in Vietnam che posero fine al coinvolgimento statunitense.

L'importanza del "grand design" è legata alla sua formulazione ed agli scopi che raggiunse. Infatti ciò che si rileva è che in questo progetto non viene messo in evidenza il "cosa" doveva essere raggiunto o il "perché" di questo quanto il "come", le strategie le mosse politiche e questo dimostra la genialità di Nixon come stratega e l'importanza in politica del modo di agire per adempiere agli impegni e per raggiungere gli obiettivi prefissati.





















CAPITOLO TERZO




Gli Stati Uniti e la Repubblica popolare cinese: le prime fasi di avvicinamento




Premessa



Il presidente Nixon per realizzare il suo progetto, il "grand design" , basato sulla coesistenza pacifica tra le nazioni, era consapevole del fatto che avrebbe dovuto cercare sempre nuovi alleati ed aprire quindi nuovi canali di dialogo. Fu grazie a questa convinzione che divenne protagonista di quella che venne definita "la grande distensione" che portò ad imprimere una spinta risoluta verso il dialogo bipolare, esaltando la virtù della collaborazione diretta far i due sistemi, quello capitalista e quello comunista, che se pure diametralmente opposti potevano trovare motivi di confronto e di interscambio. A tal fine Nixon riaprì il dialogo interrotto, più di dieci anni prima, con la Repubblica popolare cinese perché, oltre a ridar vita ad una tradizionale amicizia che aveva caratterizzato le relazioni tra i due paesi sino al 1949, il presidente voleva cercare di creare un'attiva circolazione di flussi diplomatici, non a sfavore, ma in collaborazione con l'Unione Sovietica per costruire un sistema triangolare che portasse ad evitare un confronto diretto tra le due potenze.

La Cina, dal canto suo, considerava il riavvicinamento con gli Stati Uniti un mezzo per uscire dall'isolamento impostole dalla comunità internazionale dopo la rivoluzione culturale. In tal modo avrebbe potuto iniziare ad intessere relazioni non solo di natura diplomatica ma anche commerciale con gli altri paesi in modo da acquisire un pacchetto di conoscenze tecnologiche che l'avrebbero portata a contrastare la pressione esercitata su di lei dall'Unione Sovietica. Un altro possibile motivo che invogliava la Cina ad accettare le iniziative degli Stati Uniti in suo favore si basava sul fatto che, aprendosi alla potenza capitalista, avrebbe recuperato uno spazio diplomatico molto più ampio di quanto avesse mai avuto in passato imponendosi nel contesto internazionale per le sue dimensioni demografiche e per l'estensione territoriale.

Il momento adatto per agire da parte degli Stati Uniti si presentò il 2 marzo del 1969 quando scoppiò una disputa militare tra Cina ed Unione Sovietica sul fiume Ussuri a causa degli attacchi moscoviti agli impianti nucleari nella regione. L'episodio fu il sintomo di una forte incomprensione tra i due paesi comunisti e rappresentò il momento giusto per gli Stati Uniti per mettere in atto la loro politica distensiva. I primi tentativi vennero fatti in campo diplomatico con la riapertura dei contatti, interrotti nel 1955, a Varsavia, ma il risultato non fu quello sperato tanto che, dopo un inizio incerto e ripetuti boicottaggi da parte cinese, Nixon decise che avrebbe agito non più in modo formale ma attraverso incontri segreti ed informali.

Il primo passo fu l'utilizzo di organizzazioni educative che incentivassero lo scambio culturale tra i due paesi appoggiando le varie iniziative atte a questo scopo. Una di queste fu il Comitato Nazionale (National Committee). Questa organizzazione si fece promotrice di molti incontri e seminari informativi che avrebbero portato alla luce l'importanza di un dialogo tra i due paesi ed in particolare gli obiettivi che si prefiggeva vennero delineati con chiarezza nella sua prima convocazione. I punti all'ordine del giorno rispecchiavano le esigenze sia della Cina sia degli Stati Uniti: la prima ambiva alla soluzione della questione di Taiwan, la Repubblica nazionalista, la sola riconosciuta dagli Stati Uniti, come rappresentante dell'intero governo cinese e rivendicata dallo stesso come proprio territorio, la seconda prospettava di riesaminare l'efficacia del sistema di difesa militare ABM (Missili Anti-Balistici). La crescita della Cina, anche come potenza militare, poneva il problema di come gestire i sistemi di difesa messi in atto fin a quel momento e considerare se la continua presenza di questi ultimi fosse necessaria o rappresentasse solamente un ostacolo all'avvicinamento tra i due paesi.

La reazione cinese al cambiamento di strategia messo in atto dagli Stati Uniti fu molto positiva tanto da portare il governo a presentare un proprio programma diretto a definire i modi ed i mezzi per migliorare il rapporto tra i due paesi. I punti su cui la Cina faceva leva riguardavano la riduzione dell'embargo e delle restrizioni alla circolazione delle persone che le erano state imposte come conseguenza della guerra in Corea e la reintegrazione di Taiwan come territorio cinese a tutti gli effetti. Gli Stati Uniti, coscienti del fatto che l'apertura commerciale con la Cina poteva costituire un ulteriore avvicinamento al paese, agirono, in principio, riducendo le restrizioni commerciali per poi eliminarle definitivamente nel 1971. La stampa locale ed estera accolse la notizia positivamente esaltando la politica distensiva del presidente Nixon e la decisione in questione. Caratteristica della strategia di Nixon era la forma politica personale del "people to people" attuata per mezzo di scambi, non solo diplomatici, ma anche culturali: di studenti, artisti, scienziati, giornalisti e sportivi. Un esempio esplicativo di questa politica venne dato da parte cinese con l'invito rivolto alla squadra americana di ping pong a partecipare ad un torneo che si sarebbe tenuto nel paese; questo episodio venne poi ricordato da tutti come la "diplomazia del ping pong". Le reazioni internazionali furono favorevoli e arrivarono soprattutto dagli altri paesi del Sud-Est asiatico come Singapore, Malaysia, Indonesia. Questi paesi si resero conto che era necessario sfruttare il legame futuro che la Cina avrebbe avuto con gli Stati Uniti per arginare i loro problemi interni dovuti al fatto che la maggioranza della popolazione di questi paesi era di origine cinese e quindi le interferenze da parte della Cina erano inevitabili.



3.1. La fine dei rapporti sino-sovietici e la reazione degli Stati Uniti: gli incontri diplomatici di Varsavia



La politica nixoniana di apertura nei confronti della Cina comunista non fu tanto il frutto di una strategia politica prestabilita quanto il risultato di una serie di eventi e circostanze che resero il presidente cosciente dell'importanza del ruolo ricoperto dalla Cina nel difficile gioco degli equilibri mondiali e di come questo paese fosse il tassello mancante del suo progetto politico riassunto, efficacemente, nella sua prima relazione annuale del febbraio 1970 dal titolo "una nuova Strategia per la Pace"[34] Il primo di questi eventi fu senza dubbio la querelle sino-sovietica, iniziata con la firma del trattato di interdizione degli esperimenti nucleari nell'atmosfera il 3 agosto 1964 che confermò le apprensioni cinesi circa la volontà sovietica di escludere la Cina dalle grandi decisioni mondiali e si inasprì, trasformandosi in un conflitto, il 2 marzo 1969 quando i cinesi attaccarono le posizioni di confine sovietiche sul fiume Ussuri temendo un attacco sovietico contro i propri impianti nucleari. La tensione proseguì per alcuni mesi; nel marzo ebbe luogo una vasta contromanovra sovietica e nuovi scontri ebbero luogo nell'agosto 1969, quando le parti in causa decisero di affidare la controversia a negoziati, aperti in un clima di profonda e reciproca diffidenza.

La rottura sino-sovietica fu solamente uno dei più vistosi segnali di crisi interna al blocco comunista, ma sufficiente a far comprendere agli Stati Uniti come l'esigenza di un proficuo dialogo con la Cina non poteva più aspettare. Il primo a rendere noto al presidente il cambiamento di rotta intrapreso dalla potenza cinese fu K.R. Cole, membro dello staff presidenziale, in un memorandum[35] indirizzato al presidente, in cui rendeva noto allo stesso la decisione cinese di richiamare da Mosca il rappresentante commerciale, in segno di rottura con il paese moscovita.

Le parole di Cole esprimono in modo chiaro la percezione che il mondo comunista si trovava ad una svolta e la necessità da parte degli Stati Uniti di approfittare della situazione: .questa azione è segnale di un cambiamento significativo nelle relazioni [tra Pechino e Mosca]).[36] Esattamente un mese più tardi anche E.F.Winter, professore all'Accademia diplomatica (Diplomatiche Akademie) di Vienna espresse, in una lettera aperta ad Henry Kissinger , la necessità di trovare una nuova politica nei confronti della Cina dato che le tensioni nelle frontiere tra i due paesi contendenti erano sempre in aumento e, facendo riferimento al principio nominato nel lontano 1922 nella conferenza di Washington , ossia il principio della "porta aperta" (open door policy), concluse la sua missiva scrivendo: ". La porta non è ancora chiusa" .

Le reazioni personali di Nixon nei confronti delle incalzanti sollecitazioni da parte dei suoi collaboratori di approfittare della situazione che si era venuta a creare in Cina non furono immediate; infatti il presidente americano dichiarò, attraverso Marshall Green, vice-Segretario di Stato, la sua posizione di neutralità e non coinvolgimento rispetto al conflitto e il suo desiderio di voler avere buoni

rapporti con entrambi i paesi[40].

L'interesse presidenziale nei confronti del paese asiatico, in particolare, era vivo fin dal 1967 anche se all'inizio rifletteva più un'esigenza elettorale che la messa in atto di una strategia politica, come dimostra un articolo che Nixon scrisse per il Foreign Affairs mentre era in corsa per le elezioni. In esso affermò: "Qualsiasi politica americana nei confronti dell'Asia deve urgentemente venire alle prese con la realtà della Cina. Proiettandosi nel futuro, noi non possiamo semplicemente permetterci di lasciare per sempre la Cina al di fuori della comunità delle nazioni, dove nutrire le sue fantasie, curare i suoi odi e minacciare i suoi nemici. Sul nostro piccolo pianeta non ha senso che un miliardo di persone potenzialmente più solerti sia lasciato in un irato isolamento [.][41]. A breve scadenza ciò suggerisce una politica di fermo riserbo, di rifiuto di concessioni e di contropressione costruttiva intesa a persuadere Pechino che i suoi interessi fondamentali possono essere soddisfatti solo con l'accettazione delle regole fondamentali della civiltà internazionale. A lunga scadenza ciò significa recuperare la Cina alla comunità mondiale, ma come nazione grande e progressista, non come epicentro della rivoluzione [.]. Il mondo non potrà essere sicuro fino a che la situazione in Cina non cambierà. Così il nostro scopo, anche se fino ad un certo punto possiamo influenzare gli eventi, dovrebbe essere quello di indurre questi cambiamenti" .

Considerando il contenuto dell'articolo, esso non è così significativo come spesso viene considerato. Nixon non fece riferimento ad alcuna nuova politica nei confronti della Cina, non propose il riconoscimento di Beijing da parte degli Stati Uniti, né la sua ammissione nelle Nazioni Unite; egli promise solo che la politica americana sarebbe stata, nel breve periodo, "di decise limitazioni, di nessuna ricompensa"[43]. L'articolo, dal punto di vista prettamente politico, non deve essere preso in considerazione se non come espressione dei bisogni di un candidato presidenziale che doveva risollevarsi da un precedente risultato elettorale disastroso mostrando di avere delle nuove idee.

L'atteggiamento di Nixon cambiò subito dopo la pubblicazione del suo scritto. Infatti prima dell'insediamento alla Casa Bianca l'iniziativa verso la Cina fu uno dei progetti più importanti che aveva in mente; Vernon Walters, funzionario nell'ambasciata americana a Parigi, scrisse che Nixon gli disse che "tra le varie cose ciò che sperava di fare, una volta in carica, era interessarsi della politica della "porta aperta" nei confronti della Cina comunista. Sentiva che non era conveniente per il mondo intero che la nazione più popolosa sulla terra non avesse alcun contatto con la nazione più potente sulla terra"[44].

Dopo essere stato avvisato delle intenzioni del presidente, Kissinger, sarcasticamente, annotò nei suoi appunti personali: ".Egli [Nixon] aveva riflettuto sul piano di politica verso la Cina (anche se io avevo raggiunto la stessa conclusione molto prima di lui)"[45].

Negli Stati Uniti la notizia di un possibile avvicinamento con il paese comunista venne inizialmente accettata ed in molti suggerirono al presidente come avrebbe dovuto agire e quali sarebbero dovuti essere gli argomenti centrali di discussione tra i due paesi. La prima testimonianza in questo senso venne data da alcuni studiosi esperti in relazioni con l'Estremo Oriente provenienti dall'Institute of Politics of Harvard's J.F.Kennedy School of Government che, dopo un anno di dibattiti privati riguardo le relazioni tra gli Stati Uniti ed il Sud-Est asiatico, presentarono le loro conclusioni sulle relazioni tra Cina e Stati Uniti[46].

Il memorandum si compone di tre parti principali, le quali introducono le relazioni con la Cina Comunista (PROPOSTA: A. Relazioni con la Cina comunista); il mantenimento dei rapporti con la Repubblica cinese di Taiwan (PROPOSTA: B. Relazioni con Taiwan); il difficile equilibrio con il resto del mondo maggiormente implicato in questa possibile situazione (PROPOSTA: C. Problemi generali) ed una introduzione iniziale che descrive i tentativi precedentemente compiuti dagli Stati Uniti per raggiungere un accordo con la Cina comunista (Obiettivi degli Stati Uniti).


OBIETTIVI DEGLI STATI UNITI.

I passati vent'anni di relazioni tra Stati Uniti ed il Sud-Est asiatico erano stati dominati dalla difficile coabitazione tra la Cina comunista e il colosso capitalista soprattutto quando, con la proclamazione nel 1° ottobre 1949 della Repubblica popolare cinese, gli Stati Uniti le negarono il riconoscimento diplomatico in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e considerarono, come unica rappresentante internazionale dell'intera Cina, la Repubblica proclamata da Chang Kai-shek e da tutti gli esponenti del partito nazionalista del Kuomintang, rifugiatisi a Taiwan dopo la vittoria delle forze comuniste in patria . E' evidente, quindi, che il problema sarebbe continuato ad esistere anche nelle successive amministrazioni, come infatti avvenne. Il drammatico rapporto tra i due paesi è illustrato ulteriormente nella pubblicazione del Dipartimento di Stato, "Foreign Policy Briefs" del 18 novembre 1968 :

"Da quando il governo comunista salì al potere nel 1949 gli Stati Uniti hanno compiuto molti sforzi per mantenere i contatti ed evitare rapporti ostili, ma i contatti, gli scambi, la distensione, al contrario, hanno minacciato non solo gli obiettivi della politica estera di Pechino, ma l'intera struttura ideologica che questa generazione di leaders ha interessato".

L' obiettivo centrale della politica americana era stato quello di mantenersi tra due estremi: da una parte il contenimento militare e l'isolamento per rispondere ad eventuali aggressioni cinesi, continuando ad evitare la guerra con la Cina e a minimizzare le sue rotture con i paesi vicini e dall'altra continuando con relazioni diplomatiche e visite non ufficiali. Tra questi due estremi venne seguita anche una linea meno aggressiva composta da una serie di piccoli passi che non imponevano una immediata e forzata chiarificazione sulla controversia creatasi tra i due paesi, ma incoraggiavano la moderazione e l'avvicinamento graduale.


PROPOSTA: A. RELAZIONI CON LA CINA COMUNISTA.

I punti su cui focalizzavano l'attenzione gli studiosi nella difficile negoziazione con la Repubblica popolare cinese riguardavano la fine della guerra in Vietnam (Negoziati con il Vietnam), il disarmo (Missili Anti-Ballistici [ABM]), l'aspetto commerciale (Commercio) ed i contatti con gli Stati Uniti e gli altri paesi (Viaggi ed altri contatti).


A.   Negoziati con il Vietnam. Il difficile processo di risoluzione della guerra del Vietnam poteva essere visto come un possibile passo verso una più estesa soluzione dei problemi presenti nell'Asia Orientale ed inoltre come uno strumento per la potenziale inclusione della Cina nella comunità internazionale.[48]


A.   Missili Anti-Balistici (ABM). L'Amministrazione Nixon avrebbe dovuto decidere se continuare o meno ad autorizzare il sistema di difesa ABM. Questo sistema di difesa e la decisione di mantenerlo dovevano essere rivisti in quanto, a parte il difficile equilibrio militare che si sarebbe venuto a creare con l'Unione Sovietica, la presenza dell'ABM come deterrente nei confronti della Cina sarebbe stato considerato da Pechino come una prova della volontà statunitense di attaccare in qualsiasi momento lo stesso paese con cui si aveva l'intenzione di ristabilire i rapporti.


A.   Commercio. L'Amministrazione Nixon avrebbe dovuto cercare di modificare l'embargo commerciale imposto alla Cina, residuo della guerra in Corea, almeno per quanto riguardava i beni non strategici. In questo modo la Cina sarebbe stata posta sullo stesso piano dell'Europa orientale e dell'Unione Sovietica. Gli Stati Uniti avevano anche manifestato il desiderio di stabilire relazioni consolari con la Cina e di iniziare una missione commerciale a Canton o a Pechino, riferendosi alla convenzione di Vienna che stabiliva che la presenza di relazioni diplomatiche o di missioni commerciali tra due paesi non implicava un riconoscimento diplomatico .


A.   Viaggi ed altri contatti. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto rimuovere le limitazioni di circolazione degli americani in Cina e, allo stesso tempo, avrebbero dovuto manifestare il desiderio di accogliere qualsiasi visitatore cinese. Questo avrebbe favorito la fiducia tra i due paesi e la forza di una società libera; avrebbe posto fine all'isolamento in cui la Cina era stata confinata per molto tempo ed avrebbe incoraggiato incontri non ufficiali tra giornalisti, educatori, artisti e scienziati ed altri esperti cinesi ed americani.

PROPOSTA: B. RELAZIONI CON TAIWAN.

Lo stabilirsi di relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina Comunista non poteva non coinvolgere la Repubblica di Taiwan e portare a modificare l'asse Washington-Taipei. Nei confronti di Taiwan l'intento degli Stati Uniti fu quello di colmare il divario tra retorica e realtà; essi riconobbero la Cina nazionalista come governo cinese pretendendo di controllare quest'ultima e le isole Pescadores tanto quanto la Cina comunista ed accettarono il fatto che i Nazionalisti non sarebbero mai stati in grado di conquistare la Cina comunista e riunire il paese, le conclusioni del vice Segretario di Stato Dean Achenson furono: "Il governo nazionalista [cinese] non ha la forza militare necessaria per mantenere il controllo della Cina meridionale nel caso di una risoluta avanzata dei comunisti[.][50]. Dal 1951 fu chiaro che Taiwan non era legalmente parte della Cina ed era proprio su questa realtà che la forza statunitense avrebbe dovuto basare la sua politica. Essa avrebbe dovuto riaffermare il suo impegno di difesa nei confronti di Taiwan e delle isole Pescadores e rispettare la volontà della Repubblica cinese di mantenere la sua identità separata da quella della Cina comunista.


PROPOSTA: C. CONTESTO GENERALE

A.   Gli Stati Uniti. Il riconoscimento di Pechino e l'entrata quindi della Cina comunista nelle Nazioni Unite rappresentava indubbiamente il requisito principale per migliorare le relazioni tra la Cina e gli Stati Uniti e per porre fine all'isolamento cinese dalla comunità internazionale. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto accettare la partecipazione di Pechino al Consiglio di Sicurezza ed all'Assemblea Generale preservando, allo stesso tempo, un posto nell'Assemblea Generale per Taiwan in qualità di Repubblica cinese, come nazione indipendente o come una regione autonoma dello stato cinese. Questi obiettivi sarebbero potuti essere raggiunti attraverso il consenso tacito più che con l'attività politica di Washington.


A.   I paesi confinanti con la Cina. Il cambiamento graduale delle relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina avrebbe senza dubbio provocato ansietà da parte dei paesi confinanti del Sud-Est asiatico. Sarebbe stato necessario l'impegno statunitense ad informare tali paesi sugli sviluppi dei suoi rapporti con la Cina assicurando il continuo interesse nei confronti del loro stato sociale. Uno dei punti che vengono trattati da Paul Findley, membro dello staff presidenziale, in un memorandum diretto a Nixon circa un anno dopo quello presentato dagli studiosi di Harvard, poneva l'accento sulla necessità di stabilire delle relazioni diplomatiche con la Mongolia, membro delle Nazioni Unite. La creazione di un'ambasciata statunitense in Mongolia, lungo i confini tra l'Unione Sovietica e la Cina, avrebbe rappresentato un ottimo posto d' "ascolto" per gli Stati Uniti[51].


A.   Giappone. Il Giappone avrebbe ricoperto un ruolo fondamentale per la realizzazione della politica statunitense nei confronti della Cina; il continuo interesse nipponico a migliorare i suoi rapporti con il paese comunista avrebbe favorito la possibilità di coinvolgerlo maggiormente nella comunità mondiale.


A.   Il triangolo Washington-Mosca-Pechino. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto tentare di considerare i loro rapporti con la Cina separatamente da quelli con l'Unione Sovietica. La frattura sino-moscovita fornì agli Stati Uniti la possibilità di attuare questa politica, potendo anche valutare gli interessi nazionali alla base di ciascun rapporto e comportarsi di conseguenza .


La politica nixoniana rispecchiò ciò che era stato suggerito dagli studiosi di Harvard e da Paul Findely anche se gli inizi furono molto difficili. Tra l'autunno 1969 e gli inizi dell'inverno 1970, prima ancora di assumere definitivamente la carica presidenziale, Nixon accettò la ripresa del dialogo diplomatico con la Cina a Varsavia, l'unico canale di comunicazione diplomatico tra Washington e Pechino aperto nel lontano 1955, e che era stato interrotto bruscamente poco tempo dopo. Il problema che andava delineandosi ora, era chi designare per dirigere il dialogo tra Cina e Stati Uniti, dopo il fallimento della Romania, considerata dalla Cina troppo legata all'Unione Sovietica. L'attenzione cadde sul Pakistan, il quale conosceva molto bene la Cina ed aveva avuto precedentemente dei rapporti con essa. Il 25 ottobre 1970 il presidente pakistano Yahya Khan si recò a Washington per il venticinquesimo anniversario della nascita delle Nazioni Unite e in quella stessa occasione incontrò Nixon. Il presidente americano rese noto al leader pakistano il suo desiderio di riaprire i negoziati con la Cina con la promessa di non trattare con l'Unione Sovietica a discapito della Cina stessa . Il presidente pakistano fece visita al primo ministro Chou En-lai circa due settimane dopo aver incontrato Nixon e gli riferì le intenzioni del capo di stato americano ed il primo ministro cinese manifestò il suo assenso. Quando Yahya Khan incontrò Nixon per la seconda volta gli riferì le parole del primo ministro cinese, ma allo stesso tempo manifestò la sua impossibilità a continuare il ruolo di tramite tra i due leaders, essendo impegnato nella ricostruzione del suo paese devastato da un ciclone e al suo posto nominò l'ambasciatore pakistano a Washington Agha Hilaly. Il nove dicembre l'ambasciatore consegnò a Nixon un messaggio di Cho En-lai in cui si diceva che il primo ministro sarebbe stato lieto di incontrare un rappresentante del governo americano a Pechino.

Paul Findley invitò Nixon a designare uno speciale ambasciatore esperto nei problemi riguardanti la Cina, che non fosse l'ambasciatore polacco. L'attenzione posta dagli Stati Uniti nel selezionare una figura che si interessasse esclusivamente di riaprire un dialogo con la Cina avrebbe sottolineato, nei confronti della stessa, l'interesse ed il desiderio di relazionarsi per una seconda volta. Findley continuò prospettando un possibile spostamento degli incontri, qualora fossero proseguiti in modo continuativo e proficuo, a Londra, a Parigi, o a Ginevra dove l'ambasciatore avrebbe potuto avere una sede stabile senza doversi spostare per ogni incontro

Nixon seguì alla lettera i suggerimenti del vice Segretario di Stato e, nel settembre del 1969, ordinò a Walter Stoessel, l'ambasciatore americano in Polonia, di contattare la sua controparte cinese e chiedere un incontro. All'inizio Basil Stoessel non era ben disposto ad accettare l'incarico, affidatogli da Kissinger, in quanto, pensando alle reazioni che l'incontro con i rappresentanti della Cina comunista avrebbe scatenato nella Lobby di Taiwan, lo riteneva molto pericoloso, ma, dopo un'ulteriore conversazione con il presidente che gli indicò il comportamento da adottare, accettò[54]. La decisione cinese si fece attendere provocando una forte irritazione in Kissinger ma finalmente il 3 dicembre Stoessel incontrò l'incaricato degli Affari Interni cinese Lei Yang allo Yugoslav Fashion Show nel Palazzo della Cultura di Varsavia. Stoessel si presentò parlando in polacco a Yang come un ambasciatore americano e gli disse testualmente: "Sono stato recentemente a Washington ed ho incontrato il presidente Nixon. Mi disse che avrebbe desiderato intraprendere dei colloqui seri e concreti con i cinesi". L'interprete a fianco dell'incaricato cinese ascoltò con attenzione e poi disse: "Bene. Lo riferirò." Questo breve e ironico scambio di parole fu il primo diretto contatto tra i due governi da quando Nixon si insediò nella Casa Bianca .

Ciò che seguì furono piccoli passi con lo scopo di proseguire la politica della "porta aperta". Il 20 gennaio ed il 20 febbraio 1970 Stoessel ed altri funzionari del Dipartimento di Stato si riunirono con Lei Yang ed i suoi collaboratori a Varsavia; i colloqui erano definitivamente ripresi come riportava anche il bollettino del Dipartimento di Stato[57]. Stoessel aprì il dibattito dichiarando: "La speranza del mio governo è che oggi si segni un nuovo inizio dei nostri rapporti"e continuò assicurando che uno degli scopi più immediati del presidente era quello di ridurre la presenza armata nel Sud-Est asiatico: "Nixon si impegnerà a ridurre la presenza militare nel Sud-Est asiatico, che riconosciamo essere al confine con la Cina" .

La parte più importante del discorso iniziale di Stoessel riguardava Taiwan: se dal 1949 gli Stati Uniti avevano fermamente sostenuto che il regime di Chiang Kai-shek fosse l'unico governo legittimato a rappresentare l'intera Cina, ora durante questi incontri, gli Stati Uniti parlarono di una possibile chiarificazione tra comunisti e nazionalisti. Fu proprio questo cambiamento di vedute che rappresentò la svolta nelle relazioni americane e l'inizio della politica, a volte clandestina, di riavvicinamento con la Cina. L'ambasciatore spiegò l'intenzione di tener fede agli impegni di difesa di Taiwan stabiliti con il trattato di reciproca difesa (Mutual Defense Treaty) del 1954: "la posizione statunitense a questo proposito è indirizzata a stabilire un rapporto pacifico tra il vostro governo e quello di Taipei"; andò oltre, "è nelle nostre speranze ridurre il dispiegamento di forze militari a Taiwan come segno di una crescita pacifica e stabile in tutto il continente asiatico". Per la prima volta gli Stati Uniti stavano velatamente suggerendo un loro possibile disimpegno da Taiwan in cambio di un aiuto diplomatico volto a risolvere il conflitto in Vietnam .

Nel Dipartimento di Stato si respirava aria di nervosismo a causa della velocità in cui le cose si stavano muovendo. Marshall Green, il vice Segretario di Stato per l'Est-Asia, disse: "la probabilità di successo di un miglioramento dei rapporti sino-americani è bassa; la probabilità che i cinesi parlino principalmente per suscitare una reazione nei sovietici è alta e l'impatto, potenzialmente pericoloso, che alcuni nostri alleati o amici possono avere a causa della ricostruzione dei nostri rapporti con la Cina è sostanziale" . Il risultato fu che l'amministrazione Nixon vacillò. Il colloquio di Varsavia fissato per il 20 maggio , venne posposto due volte per volontà cinese e questo portò alla definitiva chiusura dei rapporti diplomatici anche a causa dell'invasione statunitense in Cambogia, in quanto la Cina appoggiava il principe Sihanouk, capo del governo provvisorio della Cambogia (Grunk) che era esiliato a Pechino. Da questo momento in poi Nixon e Kissinger decisero che non avrebbero più trattato con la Cina in modo formale, ma solo segretamente, in quanto le trattative con la Cina erano speciali e pertanto dovevano essere tenute lontane da qualsiasi altro normale processo diplomatico e istituzionale.


3.2. Prima convocazione del Comitato Nazionale (National Committee): gli obiettivi



Il Comitato Nazionale sulle relazioni tra Stati Uniti e Cina (National Committee on United States-China relations)[62] era un'organizzazione educativa non partigiana che incoraggiava la comprensione e l'interesse da parte dell'opinione pubblica per le relazioni tra Stati Uniti e Cina. In qualità di Comitato civile, esso si componeva di americani provenienti da tutte le parti del paese rappresentanti diverse opinioni e strati sociali. Esso si formò nel 1966 grazie a due conferenze che fecero riunire insieme uomini d'affari, funzionari di governo, giornalisti e importanti studiosi per discutere sulla Cina e la sua politica. I membri fondatori del Comitato riconobbero che il mantenimento del reciproco isolamento e dell'ostilità tra i due paesi avrebbe favorito la nascita di possibili conflitti interni difficilmente arginabili e, proprio alla luce di questa eventualità, decisero di creare il Comitato considerando che le relazioni con la Cina fossero indispensabili per la realizzazione della politica estera americana.

Durante i primi quattro anni il Comitato portò all'attenzione di molti americani la questione sulle relazioni tra Stati Uniti e Cina promovendo 130 seminari ed incontri in tutto il paese, inclusa la Convocazione Nazionale del 1969 che contò circa 2.500 persone, più di cento apparizioni in radio e televisioni ed uno studio sul commercio tra Cina e Stati Uniti (China Trade and U.S. Policy) che interessò di più di 200 corporazioni. Il Comitato si fece promotore di altri servizi informativi ed educativi nelle scuole e nelle organizzazioni comunitarie. Esso seguì da vicino tutte le fasi che caratterizzarono l'avvicinamento statunitense nei confronti della Cina: e contribuì a creare un clima di approvazione e di fiducia nell'opinione pubblica che avrebbe reso possibile da parte dei due paesi in questione di continuare le loro trattative con l'appoggio delle rispettive popolazioni.

Nel gennaio 1970, rispondendo alle esigenze americane, ampliò i suoi programmi informativi attraverso l'organizzazione di tavole rotonde e laboratori che avrebbero favorito scambi culturali tra i due paesi. Nell'aprile 1972, il Comitato Nazionale collaborò con l'Associazione di ping pong degli Stati Uniti per l'organizzazione e la raccolta di fondi per la visita della squadra americana in Cina, evento che venne ricordato nella famosa espressione "diplomazia del ping pong". Il Comitato ebbe una rapida evoluzione grazie anche al sostegno di molte fondazioni che ritenevano estremamente importante la riapertura delle trattative con la Cina, tra queste vi erano: Christopher Reynolds Foundation, Huber Foundation e Alfred P. Sloan Foundation; l'importanza del Comitato venne successivamente confermato dal telegramma scritto dal Segretario di Stato statunitense all'ambasciata di Parigi in cui esprimeva il suo compiacimento per essere stato informato del riconoscimento, da parte della Repubblica popolare cinese, del Comitato Nazionale come mezzo per facilitare i rapporti tra i due paesi .

La relazione sulla prima convocazione del Comitato Nazionale[65] delineò i due principali scopi dell'incontro:


A.   promuovere il riconoscimento della Cina Comunista ponendo fine al trattamento cosìdetto "double standard" della Cina ed applicare lo stesso criterio sia alla Cina che all'Unione Sovietica;


B.   riassumere tutti i possibili argomenti riguardo l'inefficacia del sistema di difesa ABM (Safeguard), e discutere sulla fine del suo utilizzo.


Il primo scopo della conferenza era quello di sollecitare gli Stati Uniti a fare della concessioni al regime comunista cinese in quanto l'instabilità provocata dalla Rivoluzione Culturale avrebbe dovuto rappresentare la ragione principale per riconoscere la Repubblica popolare e farla ammettere nelle Nazioni Unite. La possibile ammissione della Cina nelle Nazioni Unite poneva il problema di quale formula rappresentativa utilizzare: la formula delle "due Cine", ad esempio, analizzata da Alvin Hamilton, ex Ministro dell'Agricoltura del governo canadese, e da Arthur J. Goldberg, ex ambasciatore alle Nazioni Unite, era moralmente improponibile e fu rigettata sia da Pechino che da Taipei. Anche l'idea che "Taiwan appartenesse ai taiwanesi" e "porre ora Taiwan sotto la legislazione delle Nazioni Unite ricorrendo poi al voto per l'autodeterminazione" era un altro argomento impensabile. Storicamente Taiwan era un territorio cinese che fu sotto il domino giapponese per un secolo e mezzo; diversamente da Okinawa, che tradizionalmente era stato territorio giapponese per circa 20 anni, Taiwan non poteva essere considerato completamente indipendente.


Il secondo aspetto analizzato nella conferenza riguardò il sistema di difesa ABM. Originariamente la minaccia cinese rappresentò una ragione valida per l'utilizzo di tale sistema. Successivamente le minacce divennero due, la Cina e l'Unione Sovietica, a causa soprattutto dei missili sovietici SS-9 in grado di distruggere intere città. La costruzione di tali missili aveva come scopo quello di spingere gli Stati Uniti ad attaccare per primi coscienti del fatto che sarebbero stati incapaci di reagire ad un' eventuale azione militare sovietica. Basato su questo dato di fatto il sistema ABM aveva una sua ragione di esistere, come deterrente nei confronti di un possibile attacco nucleare.

La maggior parte dei partecipanti criticarono l'uso del sistema "Safeguard" e posero dei dubbi anche sulla sua effettiva efficacia, affermando anche che fosse provocatorio. Le ragioni che essi addussero a favore delle loro convinzioni furono :


A.   Il sistema "Safeguard" non è necessario; è come "una difesa che non attende altro che una missione armata". E' inutile contro i sistemi sofisticati sovietici in quanto il sistema militare è obsoleto nella sua concezione: un sistema che dipende da semplici proiettili piuttosto che da armi nucleari è futile. Gli Stati Uniti saranno in grandi difficoltà se continueranno a permettere che la presenza di un sistema di sicurezza elusivo contro una minaccia esterna distolga la loro attenzione dalla nascita di situazioni interne di insicurezza.


A.   Il sistema ABM non è necessario in quanto la Cina non rappresenta una minaccia per gli Stati Uniti in questo momento. Il Dipartimento della Difesa descrive la Cina come una minaccia solo per ottenere dei fondi.


A.   Se il sistema deve essere usato per proteggere gli Stati Uniti dalla minaccia cinese, allora quale sarebbe la risposta degli stessi di fronte ad una eventuale richiesta da parte dei propri alleati di installare un sistema ABM nei loro territori? Gli Stati Uniti devono aspettarsi una domanda simile in quanto molti dei loro alleati sono geograficamente vicini alla Cina.

B.   Lo spiegamento del "Safeguard" potrebbe stimolare la Cina e l'Unione Sovietica ad incrementare il loro arsenale militare e rendere così più accesa la corsa agli armamenti.


A.   Le trattative sul controllo delle armi possono essere messe a

rischio o abbandonate a causa dell'impiego dell'ABM.


A.   L'impiego dell'ABM non aumenterà la sicurezza degli Stati Uniti dal punto di vista tecnico, sebbene, dal punto di vista psicologico, la presenza del sistema crei uno stato di sicurezza mentale.


Alle opinioni sopra descritte si opposero quelle di alcuni scrittori quali Kennedy, Goldberg, Sorenson, anche loro membri della conferenza, che al contrario consideravano il sistema ABM un mezzo molto importante per la difesa degli Stati Uniti non solo dall'Unione Sovietica, ma anche dalla Cina che era riuscita in poco tempo a diventare una potenza nucleare temibile. Le ragioni da loro addotte si basavano sul fatto che :


il sistema "Safeguard" essenzialmente agisce come:


A.   scudo protettivo contro gli attacchi da parte dell'Unione Sovietica e della Cina.


A.   Deterrente contro possibili ricatti nucleari.


A.   Uno stimolo alla contrattazione in ogni futuro incontro internazionale sul disarmo.


Il sistema "Safeguard" offre protezione e non accende la corsa agli armamenti perché: respinge una possibile espansione attraverso una forte difesa delle città statunitensi contro attacchi nemici; offre un'ulteriore protezione, all'occorrenza, alle forze deterrenti americane; fornisce protezione all'intero paese contro attacchi di piccola portata, come lanci accidentali di ICBM (Missili balistici intercontinentali) cinesi; offre ai sovietici incentivi ulteriori per un approccio proficuo al controllo delle armi; fornisce la protezione necessaria per la salvezza e la sicurezza del paese senza eccedenti assicurazioni.

Il sistema "Safeguard" avrebbe fornito quindi protezione nei confronti dei paesi che costituivano una minaccia per gli Stati Uniti tra cui Unione Sovietica e Cina. Della stessa opinione fu John A. Becker che in una lettera[67] aperta ad Henry Kissinger manifestò tutta la sua preoccupazione nei confronti di un paese come la Cina che avrebbe potuto rappresentare, in un futuro non molto lontano, una potenza nucleare temibile. A ragione di questo, Becker suggeriva due soluzioni per arginare tale problema: la prima era diretta ad assicurare assistenza economica alla Cina nella speranza di ridurre la volontà di quest'ultima di armarsi; la seconda riguardava più da vicino il rapporto sino-sovietico e consisteva nel far sì che gli Stati Uniti si accordassero anticipatamente con l'Unione Sovietica in modo da privare la Cina delle armi nucleari di quest'ultima, sorvegliando anche le nuove costruzioni di materiale nucleare. La conseguenza di questa seconda soluzione era di evitare che la Cina potesse segretamente fabbricare armi nucleari e sofisticati sistemi di difesa.

I timori di Becker vennero confortati dalla lettera di risposta[68] da parte di Paul H. Kreisberg, direttore dell'Ufficio degli Affari per l'Asia comunista, che descrisse l'intenzione degli Stati Uniti di far sì che la Cina partecipasse alle misure riguardanti il controllo delle armi ed il disarmo. Nonostante la risposta negativa, Kreisberg non voleva porre allarmismi sulla possibilità di una minaccia militare da parte cinese in quanto le limitazioni economiche imposte dagli Stati Uniti rendevano impossibile che la Cina sviluppasse il suo arsenale nucleare e di certo non avrebbe mai intrapreso delle azioni che avrebbero potuto portare alle sua sconfitta. Lo stesso direttore, inoltre, riteneva il primo suggerimento di Becker, concernente un aiuto statunitense nei confronti della Cina, impossibile da realizzarsi in quanto questo avrebbe dovuto implicare la volontà di Pechino di accettare un aiuto esterno. Il senso di indipendenza e di orgoglio nazionale che caratterizzava questo paese non gli permetteva di considerare l'opportunità di un aiuto esterno per il suo sviluppo economico; per Kreisberg l'unico modo per riavvicinarsi alla Cina era quello di sfruttare il conflitto sino-sovietico agendo in modo da favorire l'una o l'altra parte anche a seconda dei propri interessi.



3.3. Reazione cinese all'avvicinamento degli Stati Uniti



Le aspettative della Cina quando Nixon divenne presidente nel 1969 furono esaustivamente espresse in una nota di protesta spedita ai diplomatici americani circa tre settimane dopo l' "Inauguration Day" in cui si dichiarava che Nixon ed il suo predecessore Lyndon Johnson erano "sciacalli della stessa tana"[70]. La Cina non aveva, all'inizio, ragione di credere che Nixon fosse diverso dagli altri presidenti democratici che lo avevano preceduto; John Kennedy e Lyndon Johnson avevano occasionalmente parlato della possibilità di migliorare i rapporti con la Cina, ma alla fine non avevano fatto nulla. Nixon, al contrario, fu il primo che già negli anni '40 descrisse il partito comunista cinese semplicemente come un burattino nelle mani dell'Unione Sovietica .

I primi tentativi fatti dagli Stati Uniti per avvicinarsi alla Cina non ebbero il risultato sperato tanto che, dopo il boicottaggio da parte cinese dell'incontro diplomatico che si doveva tenere a Varsavia nel maggio 1969 , gli statunitensi decisero di non usufruire più di mezzi ufficiali per avvicinare la repubblica comunista ma solo di incontri non ufficiali o segreti.

I cinesi sembrarono gradire di più incontri più discreti senza l'intervento di funzionari diplomatici, come dimostra la lettera[73] indirizzata al presidente da parte di un nazionalista giapponese T. Kawai, il quale, dopo aver incontrato il Premier Chou En-lai a Macao nel febbraio 1969, rese noto il desiderio da parte del Primo Ministro cinese di voler incontrare il presidente degli Stati Uniti per discutere di un possibile piano di cooperazione tra i due paesi. Nonostante gli Stati Uniti non fossero certi dell'autenticità della testimonianza del nazionalista giapponese , continuarono nella loro politica di apertura nei confronti della Cina.

Il primo segno tangibile da parte cinese che esprimeva la vera volontà di migliorare le relazioni con gli Stati Uniti venne dato dall'Istituto di ricerca sul problema Cina (China Problem Research Institute)[75] il cui direttore Yih Jee stilò il 1° ottobre 1969 un programma dettagliato intitolato "Modi e Mezzi per migliorare le relazioni tra Stati Uniti e Cina" , sottoposto all'attenzione del Premier Chou En Lai e reso noto al governo americano il 28 gennaio 1970. La relazione si basava sul fatto che Cina e Stati Uniti erano due grandi potenze i cui rapporti dovevano migliorare e basarsi su Cinque Principi , stabiliti nella conferenza di Bandung del 1955, 1. rispetto per la sovranità e l'integrità territoriale di tutti gli stati; 2. non-aggressione; 3. non-ingerenza nei affari interni degli stati; 4. uguaglianza e beneficio reciproco; 5. coesistenza pacifica; solamente attraverso il rispetto reciproco e, successivamente, il canale diplomatico si sarebbe potuto aprire un varco nel muro innalzato tra i due paesi.

L'Istituto infine descrisse passo dopo passo come Stati Uniti e Cina avrebbero dovuto agire in concreto in uno scambio equo di dare e avere. Il programma si articola in vari punti:


A.   Riduzione graduale e reciproca condanna dei mezzi di propaganda ostili.


B.   Richiamo da parte degli Stati Uniti del proprio ambasciatore a Taipei (Washington deve dimostrare di considerare Taiwan parte della Cina).


C.   Rilascio da parte della Cina dei prigionieri politici americani (inizialmente sarà la Cina a farlo per dimostrare la sua buona volontà nei confronti degli Stati Uniti).


D.   Una dichiarazione da parte degli Stati Uniti in cui il paese si impegnasse a non sostenere alcun attacco armato da parte del partito nazionalista del Kuomintang contro la Cina comunista e ammetta che la presenza della Settima Flotta nello Stretto di Taiwan serviva solo come mezzo per sorvegliare gli atti di guerriglia dello stesso partito nei confronti della Cina; gli Stati Uniti avrebbero dovuto inoltre sottolineare nuovamente il loro atteggiamento di non ostilità nei confronti della Cina.


A.   Una dichiarazione da parte della Cina di voler veramente migliorare i suoi rapporti con gli Stati Uniti sulla base dei Cinque Principi e di fornire dei suggerimenti su come porre una soluzione politica al problema di Taiwan piuttosto che una armata.


B.   Alla prima dichiarazione gli Stati Uniti devono far seguire una seconda in cui manifestano la loro volontà di migliorare le relazioni con la Cina e di attenersi alla Dichiarazione del Cairo riguardante alla questione di Taiwan.


C.   Una dichiarazione da parte della Cina in cui accetta che Taiwan rimanga sotto il regime di Chang .


D.   Gli Stati Uniti avrebbero dovuto reiterare il loro atteggiamento a favore della Cina per far sì che essa occupi il suo legittimo posto nelle Nazioni Unite e venisse eliminato l'embargo al paese.


E.    Una dichiarazione da parte della Cina in cui si impegna a preservare la pace e la sicurezza nella regione del Sud-Est asiatico.


F.    Ritirata della Settima Flotta statunitense.


G.   Un incontro con i Primi Ministri dei due paesi in modo da rendere effettivo il riconoscimento diplomatico reciproco e la sovranità dei due paesi.

H.   Incontri e scambi con gli ambasciatori dei rispettivi paesi.


Oltre ai passi qui sopra elencati tra i progetti del direttore Jee era presente anche il desiderio di favorire gli incontri di varia natura: culturale, scientifica o sportiva tra cinesi ed americani. Si fecero promotori di questi scambi i fondatori della Sino-American Peoples Friendship Association[78] (Associazione per l' Amicizia tra il popolo cinese ed americano) i cui principali impegni erano:


A.   Visite ed incontri reciproci individuali o di gruppo.

B.   Scambi culturali ed artistici.

C.   Aiuto reciproco e scambi commerciali.

D.   Incoraggiamento al dialogo ed alla comprensione tra i due paesi.


I propositi del China Problem Research Institute vennero accolti di buon grado dal governo americano che ebbe la prova della buona fede e del vero impegno preso dalla Cina quando venne rilasciato dai cinese il vescovo James Walsh dopo 13 anni di prigionia, accusato di spionaggio e sabotaggio, suscitando il compiacimento non solo degli americani, ma anche della minoranza cattolica presente in Cina[79].

I principali aspetti della politica della Cina vennero ribaditi anche nell'intervista fatta dal giornalista Edgar Snow a Chou En-lai e resa nota al Dipartimento di Stato per mezzo di un telegramma[80] proveniente dal consolato di Hong Kong. Una prima parte venne pubblicata nel quotidiano Epoca il 13 dicembre 1970 ed una seconda nel People's Daily il 25 dicembre dello stesso anno.

L'intervista si sviluppa secondo tre tematiche principali: la politica generale, il rapporto tra gli Stati Uniti e Taiwan, il disarmo, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica.


POLITICA GENERALE

L'intervista di Snow non rivelava alcun nuovo slancio nella politica della Cina. E' importante notare come l'aspetto portante della linea politica di Chou En-lai riguarda la "coesistenza pacifica" tra i paesi includendo i suoi attuali rapporti con l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti. La razionalizzazione di questa politica era descritta efficacemente da Snow come "cauto ottimismo rivoluzionario". Ad esempio il 90% della popolazione voleva la rivoluzione "prima o poi", ma allo stesso tempo politiche più flessibili e meno drastiche sono, nell'immediato, l'intereresse principale della Cina. Chou sottolinea inoltre l'importanza, nelle sue relazioni con gli Stati Uniti, di Taiwan e indicava come uno dei suoi scopi imminenti il rafforzamento della posizione del governo cinese nei riguardi del problema dell'isola.


STATI UNITI E TAIWAN

Il Premier cinese ribadiva i due principi su cui si basava la soluzione rispetto alla politica di Taiwan che aveva già espresso nel suo discorso del 1968. Il primo si basava sul fatto che gli Stati Uniti dovevano riconoscere che la Repubblica di Taiwan era una parte inalienabile del territorio cinese e chiedeva semplicemente l'allontanamento delle forze militari statunitensi dal territorio invece che l'immediato allontanamento come nel 1968. Nel 1968 il secondo principio si basava sul fatto che Stati Uniti e Cina avrebbero dovuto concludere un accordo sulla base dei Cinque Principi[81] di Coesistenza Pacifica; ora, secondo l'intervista di Snow, Chou descriveva come secondo principio il desiderio di mettere in pratica la coesistenza pacifica tra i due paesi e non più di ipotizzarla. Il Primo Ministro manifestava la sua completa disponibilità per trovare un accordo sulla questione delle "aggressioni armate" statunitensi nell'area taiwanese, e ribadiva che l'era delle "due Cine" era finita e, per questo, gli Stati Uniti dovevano rispettare il principio della non-ingerenza nelle questioni che riguardavano Taiwan, e quindi la Cina.

Già precedentemente, in un telegramma[82] inviato al Segretario di Stato americano dall'ambasciata di Hong Kong erano state rese note le intenzioni da parte della Cina nei confronti di Taiwan, ossia la ferma intenzione di avere il controllo sull'isola anche attraverso l'uso delle armi. Alcuni dei motivi che spinsero Pechino ad avere Taiwan erano: 1. eliminare la minaccia della legittimità del territorio cinese posta dalla presenza di Taiwan; 2. riconquistare un territorio che il governo cinese considerava storicamente una sua provincia; 3. occupare una posizione strategica importante.


IL DISARMO, GLI STATI UNITI E L'UNIONE SOVIETICA

Nei riguardi dell'Unione Sovietica, il Primo Ministro parlava sempre in termini positivi con la prospettiva di stabilire nuovi rapporti di "amicizia e di buon vicinato", ma specificava anche che una soluzione riguardo al conflitto scoppiato ai confini dei due paesi non era ancora stata trovata. L'ostacolo principale, se non il solo, secondo Chou En-lai si basava sul rifiuto sovietico di accettare l'accordo che prospettava come "misura temporanea" quella di ritirare le truppe di entrambi dalle zone di conflitto.

Dall'intervista apparve evidente come Chou En-lai cercasse di dare l'impressione che la Cina fosse preparata ad agire in direzione di una distensione sia con gli Stati Uniti che con l'Unione Sovietica, forse nella speranza di ottenere delle concessioni da entrambi. Nonostante egli fosse cauto nel definire i termini per un avvicinamento con entrambi i paesi, concluse dicendo che, mentre con l'Unione Sovietica la via di un accordo per quanto riguardava la presenza armata nei territori più caldi fosse ancora lontana, si sarebbe potuto trovare un punto di incontro con gli Stati Uniti per risolvere la "questione Taiwan".



3.4. Distensione delle relazioni commerciali tra Cina e Stati Uniti: riduzione e successiva abolizione dell'embargo



La graduale riduzione delle restrizioni commerciali imposte alla Cina fu uno dei principali obiettivi della politica di Nixon anche perché rappresentava una delle richieste costanti da parte della Cina per riaprire il dialogo con gli Stati Uniti. A testimonianza di questo è il telegramma[83] inviato dal Senatore Mansfield al Dipartimento di Stato americano in cui suggeriva come primo passo per riaprire il dialogo con la Cina l'abolizione delle restrizioni commerciali e di circolazione delle persone. La Cina, infatti, dopo la rottura con l'Unione Sovietica perseguiva una politica autarchica con lo scopo di rendersi libera ed indipendente economicamente dal resto del mondo; il principio su cui si basava questo suo desiderio di indipendenza era il rifiuto di accumulare debiti con gli altri paesi.

Migliorare le relazioni commerciali con la Repubblica comunista non faceva parte della politica del "people to people" iniziata da Nixon nei confronti di questo paese, in quanto, l'incidenza degli scambi con la Cina nel commercio americano sarebbe stata estremamente modesta, ma era necessaria in previsione del risultato politico che avrebbe portato. Il National Committee fu il primo organo che fece da tramite tra Stati Uniti e Cina e che si interessò di stabilire i passi principali da compiere per raggiungere la riduzione dell'embargo almeno per quanto riguardava i beni non strategici. Venne stabilito che la Far East Trading Company, la cui direzione era ad Hong Kong, sarebbe stata l'unica agenzia privata ufficialmente nominata per gestire le esportazioni e le importazioni di entrambi i paesi per tutto il tempo necessario affinché gli scambi commerciali tra Stati Uniti e Cina fossero tornati alla normalità. Raggiunto tale scopo, la Trading Company avrebbe cessato di ricoprire un ruolo così esclusivo e sarebbe rimasta una normale agenzia privata di commercio senza alcuna capacità ufficiale. Era anche necessario che il Congresso degli Stati Uniti modificasse al più presto le leggi che impedivano al Consolato americano di Hong Kong di rilasciare le licenze di esportazione necessarie per iniziare il commercio con la Cina .

La riduzione delle restrizioni commerciali e di circolazione delle persone si sviluppò in due fasi successive: la prima nell'estate del 1969 che portò ad una parziale riduzione dell'embargo e delle restrizioni di circolazione e la seconda, definitiva, il 14 aprile del 1971. L'azione del 14 aprile fu in risposta alla Risoluzione del Senato n°82, presentata dal Senatore McGovern[85]. Questa Risoluzione constava di tre parti che riguardavano tutte la politica degli Stati Uniti nei confronti della Repubblica popolare cinese e la terza, in particolare, si riferiva alla necessità di ridurre le restrizione economiche e di circolazione per favorire scambi culturali e scientifici tra i due paesi. Il presidente Nixon, proprio il 14 aprile, annunciò la sua decisione di autorizzare il commercio diretto con la Cina dei beni non strategici come strategia facente parte della sua politica di rimozione degli ostacoli che non permettevano un avvicinamento tra i due paesi. Il 10 giugno il presidente notificò il termine dell'embargo con la Cina imposto nel 1950 e la pubblicazione sia di una lista di beni autorizzati ad essere esportati sia di quelli autorizzati ad essere importati dal paese comunista. Inoltre affermò che si stavano vagliando altre merci da aggiungere alla lista generale per le esportazioni e per quanto riguarda gli articoli non presenti nella stessa, essi sarebbero stati considerati caso per caso e, se necessario, sarebbe stato loro attribuita un'autorizzazione speciale. La lista generale venne stilata facendo riferimento al livello di sviluppo tecnologico della Cina e tutti gli articoli omessi sarebbero stati sottoposti a ulteriori controlli per considerare il reale significato e supporto strategico che avrebbero potuto avere per la potenza comunista.

Nel Bollettino dell'Ufficio degli Affari Esteri[86] venne specificato che il commercio tra i due paesi sarebbe stato condotto da parte statunitense per mezzo di società private e sarebbe stato finanziato da canali commerciali anch'essi privati. Le imprese americane, che desideravano prendere contatti con i compratori cinesi, avrebbero potuto riferirsi alla più vicina Ambasciata della Repubblica popolare (che in Canada era situata al Juliana Apartements, 12° piano, 100 Bronson Avenue, Ottawa 4, Ontario) o ai rappresentanti delle filiali del Trade Corporation di Hong Kong: China Resources Corporation, Bank of China Building, Hong Kong, B.C.C. o alla China Arts and Crafts (H.K) Ltd., al Dipartimento delle Esportazioni (Export Departement), alla Star House, Kowloon, Hong Kong, B.C.C. Il Bollettino riportava altresì che le importazioni dalla Cina comunista erano soggette alle stesse restrizioni poste all'Unione Sovietica e ai paesi dell'Est-Europa e le merci non facevano parte del trattamento tariffario destinato alle nazioni più favorite, inoltre le importazioni erano soggette alle normali condizioni governative utilizzate per tutte le risorse del mondo, inclusi i controlli sul cotone tessile, l'anti-dumping e le tasse di dogana.

Il presidente Nixon sottolineò, nel sua relazione del 25 febbraio 1971[87], come l'apertura dei contatti commerciali con la Cina non implicasse l'approvazione del suo governo, ma era solo "un passo ulteriore" che gli Stati Uniti avevano compiuto per "rimuovere gli ostacoli che impedivano un contatto tra i due paesi" e porre fine al lungo isolamento che aveva separato 800 milioni di persone dal resto del mondo.

Le decisioni del presidente suscitarono l'approvazione di molti; fra cui, Mrs Bruce B. Benson, presidente della Lega delle Donne Votanti degli Stati Uniti (The League of Women Voters of the United States) che si interessava dei problemi legati ai rapporti tra Stati Uniti e Cina da molti anni[88]. Altre testimonianze vennero date dai (Members of Congress for Peace Trough Law) che, in una lettera indirizzata al presidente, manifestarono il loro consenso e resero nota una risoluzione del Senato, passata con 77 voti a favore e 3 contrari, la stessa a cui si riferiva la relazione di Nixon del febbraio '71, in cui si asseriva che "quando gli Stati Uniti riconoscono un governo straniero ed attuano scambi di qualsiasi tipo con esso (diplomatici, commerciali, culturali) ciò non implica che debbano necessariamente approvare il modo di fare, l'ideologia o la politica di quel governo". Le reazioni dei media furono molte anche nell' aprile del 1971, e non solo da parte dei giornali locali, ma anche esteri; essi espressero pareri favorevoli favori nei confronti delle decisione del presidente Nixon, ma cautele soprattutto per la reazione di Mosca che si sentiva ancora più allontanata dalla Cina, nonostante l'accordo economico siglato con la stessa un anno prima .


Reazioni interne

Il New York Times, il Baltimore Sun e Il Washington Daily News pubblicarono degli editoriali sulla riduzione delle restrizioni commerciali. Il Times lo definì "un passo molto importante verso la normalizzazione dei rapporti tra Cina e Stati Uniti" ("a major step towards normalization of Chinese-American relations"). Più cauto fu il Daily News che scrisse che l'azione del presidente fu ideata per mostrare la sua volontà a relazionarsi con la Cina, ma in realtà il governo avrebbe proceduto in maniera più attenta. Marvin Kalb di CBS-TV definì l'apertura commerciale a favore della Cina come la continuazione della politica dell'Amministrazione di due anni prima; Richard Valeriani di NBC-TV disse che tale politica era motivata da esigenze commerciali e diplomatiche, mentre Dan Rather di CBS Radio si domandò come avrebbe agito Mosca a tutto questo.

La stampa riportò che i Senatori Jackson, Stennis, Cranston e Brooke approvavano l'iniziativa; il Senatore Mansfield disse che il presidente "aveva intrapreso un' iniziativa lodevole finalizzata a riaprire il commercio dei beni non strategici con la Cina", descrivendo la sua azione come "l'ultima dopo una serie di progressivi tentativi di restaurare un certo grado di civiltà tra i due paesi". Il Senatore era certo che anche il Senato avrebbe approvato pienamente le decisioni presidenziali.


Reazioni dall'estero

L'Europa occidentale, l'Asia e l'Africa manifestarono le loro opinioni in riferimento alle decisioni del governo statunitense in ambito commerciale. I titoli più frequenti erano: "Nixon apre la strada al commercio con la Cina dopo l'incontro di ping-pong a Pechino" (London Times); "Nixon coglie al volo l'opportunità offertale dalla Cina" (France-Soir) e "Il presidente Nixon apre la strada per migliorare le relazioni con la Cina" (Die Welt).

Le domande più frequenti della stampa europea riguardavano le reazioni russe al disgelo tra Cina e Stati Uniti, se un miglioramento nelle relazioni tra i due paesi fosse stato possibile senza alcuna soluzione dei problemi della Repubblica cinese di Taiwan e se esistesse un filo conduttore tra i recenti miglioramenti nelle relazioni tra i due paesi e la guerra in Indocina. Molti commenti puntualizzarono come la Repubblica popolare cinese chiaramente distinguesse le relazioni con gli Stati Uniti da quelle con l'Unione Sovietica ed Hanry Schwartz nel suo editoriale[92] descrisse questo atteggiamento. Schwartz sottolineò subito come la nuova via appena intrapresa dalla Cina non poteva non suscitare nervosismo da parte di Mosca che si sentiva isolata ed allontanata dal partner comunista a favore di una potenza capitalista. Il fatto stesso che i cinese boicottassero molti incontri con i giornalisti russi preferendo giornalisti, studenti, artisti, atleti, turisti e, soprattutto, politici americani non faceva che alimentare da parte Mosca forte intolleranza nei confronti della situazione. La Pravda e l'Izvetia riportavano come questa nuova alleanza disturbasse Mosca e la interpretavano come una mossa cinese e statunitense per isolare l'Unione Sovietica a livello internazionale. All'interno del Politburo, come Schwartz riportò, la situazione era molto incerta. Si ipotizzava la possibile divisione tra "falchi" e "colombe", ossia tra coloro che preferivano separarsi definitivamente dalla Cina ed attuare un politica molto dura nei confronti del nuovo asse Washington-Pechino e coloro che prendevano in considerazione la possibilità di carpire l'attenzione dei nuovi potenziali alleati con l'offerta di concessioni ad uno od entrambi i paesi.

In Asia la stampa giapponese commentava la notizia con riserbo sottolineando lo stato di disagio tra gli uomini d'affari giapponesi che temevano una possibile competizione con gli Stati Uniti nel mercato cinese. Anche la reazione decisa di Taiwan non si fece attendere e un editoriale del suo principale giornale locale portava il titolo: "Gli Stati Uniti stanno sbagliando passo dopo passo?. Nel titolo del South China Morning Post "La nuova politica di Nixon verso la Cina incoraggiata da un ampio sostegno - Nessun grande boom commerciale è atteso" si notò come il problema Taiwan rimanesse. Nel Bangkok Post si leggeva che "la liberalizzazione delle relazioni commerciali tra Stati Uniti e Cina avrebbe potuto contribuire al miglioramento della situazione nel mondo".

Non solo la stampa asiatica mise in evidenza l'attuale politica, ma anche i governi manifestarono la loro posizione. Il Ministro degli Esteri giapponese in un discorso non ufficiale espresse il suo consenso dicendo che l'apertura commerciale rappresentava un passo importante che avrebbe potuto portare ad un diminuzione delle tensioni nell'Est-Asia e migliorare le relazioni tra Cina e Stati Uniti. Il portavoce della Repubblica federale tedesca rilasciò una dichiarazione nella quale affermò che il governo federale stava seguendo con "vivo interesse" il disgelo ed il comportamento della Cina nei confronti dell'Europa occidentale.

Gli sviluppi commerciali successivi tra i due paesi furono siglati dall'incontro[93] tra Jack Froebe, uno dei rappresentanti del Consiglio di Sicurezza Nazionale, e Peter P.S. Ching presidente del Sino-American Trade Council. In questo incontro Ching manifestò la volontà del suo governo di redigere una Sino-American Trade Corporation con una sede distaccata ad Hong Kong e di creare un Trade Council ed un Trade Corporation simili in Canada che fossero però indipendenti dall'organizzazione statunitense, ma capaci di agire in nome degli stessi Stati Uniti di modo che la Cina potesse commerciare anche con il Canada stesso. Froebe chiarì il fatto che l'attuale politica non imponeva alcuna restrizione nelle importazioni dalla Repubblica popolare cinese e nel caso delle esportazioni ogni transazione sarebbe stata sottoposta ad approvazione prima di essere effettuata.

Gli sviluppi successivi dei rapporti commerciali tra Stati Uniti e Cina furono conseguenze di ulteriori passi che il presidente Nixon compì per continuare la sua politica di distensione. Nelle fasi iniziali il governo statunitense non considerava il commercio un aspetto prettamente legato alla politica del "people to people", successivamente divenne una delle sue componenti principali.



3.5. La "diplomazia del ping pong" e le sue conseguenze



Uno degli eventi più eclatanti che ebbe risonanza a livello mondiale fu l'invito cinese il 7 aprile del 1971 alla squadra di ping pong americana, che stava partecipando ad un torneo in Giappone, a visitare la Cina prima di rientrare in patria. La squadra americana, prima di giungere in Cina, visitò dal 10 al 18 aprile prima Pechino poi Shanghai e, infine, Canton dove fu accolta con grande entusiasmo dalla popolazione locale. Il 14 aprile Chou ricevette tutta la squadra insieme agli accompagnatori sportivi e ai giornalisti sportivi di Associated Press, Life e National Broadcasting Company e dichiarò che la visita " apriva una nuova pagina nelle relazioni tra i cinesi e gli americani". Era la prima volta che un gruppo americano visitava ufficialmente la Cina dopo l'instaurazione del regime comunista nel 1949 [94]. L'episodio rappresentò un ulteriore passo avanti nel cammino di riconciliazione tra i due paesi e fu estremamente significativo in quanto l'invito da parte cinese avvenne durante il 24° Congresso del Partito Comunista Sovietico che la Cina puntualmente boicottò preferendo organizzare il singolare incontro con la squadra di ping pong degli Stati Uniti.

L'evento provocò reazioni favorevoli soprattutto nella zona dell'Est-Asia. Ad esempio il Segretario degli Esteri filippino Romulo espresse la speranza che i due paesi avrebbero giocato "rispettando le regole internazionali"[95] ed il 4 giugno 1971 decise di mandare una delegazione commerciale a Pechino. Dalla relazione del Bureau of Intelligence and Research del 4 giugno 1971 si nota come molti paesi del Sud-Est asiatico avevano considerato la possibilità di aprire relazioni più proficue con la Cina sfruttando così l' apertura con gli Stati Uniti .

Non tutti i paesi del Sud-Est asiatico avevano instaurato relazioni formali con Pechino. Solo la Birmania intratteneva, tra tutti, relazioni diplomatiche con il governo cinese, mentre gli altri paesi avevano cercato di trovare degli accordi con il governo comunista in quanto erano consapevoli dell'enorme potenzialità della Repubblica popolare cinese. Il problema, per molti paesi, era costituito dalla minoranza cinese, numericamente esigua, ma economicamente molto forte, che era difficilmente assimilabile tanto che il processo di integrazione fu lungo e difficile. Il paese che riuscì più facilmente ad assimiliare la popolazione cinese fu la Tailandia in quanto, nonostante la maggioranza degli abitanti fosse cinese, esisteva un folto gruppo di Sino-Thai che riuscì a preservare le sue origini rimanendo in contatto con il resto della popolazione.

Nonostante le loro paure a causa del domino politico della Cina, ciascun paese del Sud-Est asiatico parve ricercare un normale rapporto con Pechino in particolare l'Indonesia, le Filippine e Singapore.

In Indonesia, il Ministro degli Esteri Malik rispose prontamente all'episodio della visita della squadra di ping pong americana a Pechino, dichiarando alla stampa che era una buona notizia e che sperava che la Cina avrebbe adottato, da quel momento in poi, nuove linee di politica estera in futuro. L'Indonesia, disse, stava intraprendendo alcune iniziative al fine di normalizzare i suoi rapporti con la Cina a patto che la smettesse di interferire negli affari interni del governo.

Dalle parole di Malik si poteva notare una certa ambivalenza nella politica indonesiana nei confronti della Cina e la presenza di un disaccordo tra i militari ed i funzionari politici. Il punto di vista espresso da Malik e da altri funzionari del Ministero degli Esteri era che degli sforzi dovevano essere compiuti al fine di ricreare un clima di pacifica coesistenza e di dialogo con Pechino. I militari, al contrario, consideravano il partito comunista cinese una minaccia e per questo motivo volevano riaprire un dialogo con la Cina, ma senza che il suo partito ritornasse fisicamente in Indonesia; alcuni membri dell'esercito indonesiano, spinti da nuove prospettive commerciali, erano tentati di avvicinarsi anche a Taiwan e stabilire relazioni anche con la Repubblica cinese.

A Singapore, la stampa locale espresse commenti positivi riguardo la visita della squadra americana di ping pong a Pechino. Il governo fu più restio nell'esprimere le sue reali opinioni sul fatto e manifestò una profonda ansietà a causa della diversa atmosfera nel Sud-Est asiatico verso la Cina. Questa ansietà rifletteva la situazione scomoda in cui Singapore si trovava in quel momento, in quanto a causa della maggioranza della popolazione di nazionalità cinese il paese avrebbe voluto evitare di aprire qualsiasi canale di comunicazione con la Repubblica comunista. Il Primo Ministro Lee Kuan Yew era della convinzione che la maggior parte dei cinesi di Singapore sarebbe rimasta leale al paese che li ospitava ed immune dalle pressioni esercitate dall'esterno e continuò spiegando come in generale il paese fosse condizionato dalla Cina, come dimostravano i recenti collassi economici di alcuni giornali locali che si diceva venissero finanziati dalla stessa Pechino. Il problema di Singapore era anche di natura economica perché l'apertura di canali commerciali tra la Cina, la Malaysia e l'Indonesia avrebbe fatto perdere proficui scambi commerciali con entrambi i paesi.

Le Filippine approvarono il disgelo nelle relazioni tra Washington e Pechino, con alcune riserve considerando il legame di amicizia che avevano nei confronti di Taiwan. Il 5 maggio il presidente Marcos, al fine di inviare una missione commerciale in Cina, ordinò che le posizioni filippine nei confronti della Repubblica cinese venissero riviste. Il Segretario degli Affari Esteri, Romulo, aveva precedentemente sottolineato come, un'eventuale apertura delle relazioni diplomatiche con Pechino, non avrebbe cambiato la posizione del governo filippino, riguardante l'entrata della Cina nelle Nazioni Unite.

I risultati ottenuti dagli Stati Uniti fino a questo momento non sarebbero stati gli unici, grazie anche alla volontà del presidente Nixon di assecondare alcune richieste da parte del governo cinese, una fra tutte l'ammissione alle Nazioni Unite e, di conseguenza, la rivisitazione della questione di Taiwan.














CAPITOLO QUARTO




Il riconoscimento della Repubblica popolare cinese e l'entrata nelle Nazioni Unite




Premessa



Il riconoscimento e l'entrata nelle Nazioni Unite della Repubblica popolare cinese erano i due passi necessari che avrebbero dato una svolta definitiva ai rapporti tra Stati Uniti e Cina, ma per raggiungere entrambi gli obiettivi era necessario un incontro tra le due parti.

Nixon, dopo l'annuncio cinese di voler incontrare un rappresentante del governo statunitense per discutere sull'avvenire dei due paesi, incaricò Kissinger di recarsi a Pechino per definire i dettagli dell'incontro con Chang Kai-shek e, grazie all'intervento del Pakistan, riuscì a raggiungere la Cina senza che la missione fosse resa nota. La visita si svolse tra il 9 e l'11 luglio 1971 ed ebbe importanti risvolti: innanzitutto vennero appianate le ultime divergenze tra i due governi e venne fatta chiarezza sulla politica che entrambi i paesi avrebbero adottato. Gli Stati Uniti ribadirono la loro completa estraneità riguardo a qualsiasi azione armata da parte del governo di Taiwan contro la Cina e chiesero a quest'ultima, una mediazione per la risoluzione del conflitto vietnamita, cosa che però non avvenne in quanto il governo cinese non aveva intenzione di rovinare i suoi rapporti con il Vietnam del Nord. La conseguenza più importante della visita di Kissinger fu il fatto che il governo cinese si dimostrò favorevole ad un incontro con il presidente Nixon ed il 15 luglio il presidente rese noto ufficialmente al suo paese la sua intenzione di fare visita al presidente cinese Mao.

L'assenza di Kissinger favorì, inoltre, l'entrata della Cina nell'Organizzazione delle Nazioni Unite secondo la proposta albanese che sosteneva la necessità di ammettere la Repubblica popolare espellendo tutti i rappresentanti di Taiwan. Il governo statunitense aveva presentato diverse opzioni tutte in difesa del seggio del governo nazionalista (doppia rappresentanza, mantenimento dei rappresentanti della Repubblica nazionalista nell'Assemblea Generale), in quanto non voleva venire meno al trattato di difesa reciproca, Mutual Defense Treaty, che era stato stipulato nel 1954. Tutto questo non fu sufficiente ed il 25 ottobre del 1971 la Cina entrò nelle Nazioni Unite ed i rappresentanti del governo nazionalista vennero espulsi.

Riguardo al problema del riconoscimento della Cina comunista anche i maggiori paesi europei manifestarono la loro posizione; i primi furono l'Italia ed il Canada. Entrambi erano favorevoli al riconoscimento, ma premevano anche per la difesa degli interessi dell'isola di Taiwan anche se erano consapevoli che la doppia rappresentanza non era di facile realizzazione ed entrambi i governi cinesi l'avevano rifiutata. Nel 1970 il governo canadese ed italiano riconobbero la Repubblica popolare cinese e, successivamente, anche altri paesi europei quali il Belgio, l'Austria e la Germania, attuarono questa politica. In particolare la Germania approfittò della situazione per rendere noto agli Stati Uniti il desiderio della Repubblica democratica tedesca di essere anch'essa ammessa alle Nazioni Unite insieme alla Repubblica federale.

La Cina, nonostante le prime difficoltà iniziali, si inserì con efficacia nell'apparato dell'Organizzazione affrontando le prime questioni che le si presentarono con attenzione e risolutezza. L'intenzione della Cina, come membro delle Nazioni Unite, era quello di rinsaldare maggiormente i rapporti con i paesi dell'Asia orientale e di ricoprire il ruolo di leader nella difesa dei diritti e degli interessi dei paesi del Terzo Mondo. Infatti prese posizione contro il terrorismo nel Medio Oriente, sulla necessità di regolare il dispendio di risorse in ambito ambientale e di intraprendere iniziative atte a favorire lo sviluppo economico di questi paesi.

Con l'espulsione di Taiwan dalle Nazioni Unite, gli Stati Uniti si trovarono a dover riorganizzare il loro rapporto con il governo nazionalista ed a fondarlo su nuove basi rispetto a quelle del 1954. Essi si impegnarono a fornire aiuti sia militari che economici all'isola, nonostante non facesse più parte delle Nazioni Unite, e secondo i risultati raggiunti nel 1972, un anno dopo la sua espulsione, il governo statunitense fu di parola. Taiwan aumentò notevolmente il suo prodotto interno lordo e riuscì anche ad imporsi nel mercato internazionale.



4.1. La visita di Henry Kissinger a Pechino e la partecipazione della Repubblica popolare cinese alle Nazioni Unite



Uno dei principali scopi del "grand design" era il riconoscimento della Repubblica popolare cinese e la successiva entrata della stessa nelle Nazioni Unite. Questo secondo evento segnò definitivamente la fine dell'isolamento cinese. Questo progetto non era di facile realizzazione e le implicazioni politiche erano molte, una fra tutte quale ruolo avrebbe giocato Taiwan in tutto questo.

I primi segnali sull'importanza di un riconoscimento formale della Cina comunista vennero dati dal Senatore Mansfield, dall'Ambasciata di Taipei,

con un telegramma[98] al Dipartimento di Stato americano il 30 marzo 1968, in cui sottolineava la necessità di risolvere la questione di Taiwan in quanto essa rappresentava "l'elemento più importante per ricostruire delle relazioni stabili". Il senatore, già durante l'amministrazione Johnson, aveva manifestato il suo desiderio di voler visitare la Cina ed instaurare dei proficui rapporti con essa in quanto la riteneva indispensabile per porre termine alla guerra in Vietnam.

Dopo la visita della squadra di ping pong americana a Pechino, venne divulgata la notizia che il governo cinese avrebbe invitato tre rappresentanti del partito democratico (i senatori Edward M. Kennedy, Edward Muskie e George Mc Govern) in Cina i quali, seguendo le orme dei loro avversari politici, avevano prospettato il possibile riconoscimento della Cina nelle Nazioni Unite ed il ritiro delle truppe americane da Taiwan. In quel tempo Nixon e Kissinger non avevano più ricevuto notizie da parte di Chou En-lai, ma finalmente ad aprile il Primo Ministro cinese, attraverso intermediari pakistani, fece sapere che era disponibile ad un incontro con un emissario statunitense per ulteriori chiarimenti.

Il problema che si presentava ora era che la Cina aveva invitato anche gli avversari politici di Nixon per cui, tramite il canale pakistano, il presidente americano fece sapere, in un messaggio il 28 aprile 1971, che, durante la visita del suo rappresentante, non ci dovevano essere altre "visite politiche". Gli americani cercarono di risolvere la questione incaricando Vernon Walters, funzionario militare a Parigi, di incontrare l'ambasciatore cinese Huang Zhen per ribadire che il primo incontro sino-americano doveva avvenire in modo libero e quindi i cinesi dovevano tenere le distanze dal gruppo dei democratici .

Un rappresentante americano fu ufficialmente invitato e Nixon decise che doveva essere Kissinger in quanto, offrendo l'incarico a qualcun altro, egli avrebbe dovuto condividere con lui il successo della missione, al contrario, mandando il suo stretto consigliere, avrebbe potuto facilmente controllare la situazione senza perdere la notorietà che gli era necessaria per una sua futura rielezione[101]. La visita venne programmata dal 9 all'11 luglio e venne organizzata in gran segreto con l'aiuto del Pakistan. Ufficialmente la Casa Bianca annunciò la partenza di Kissinger per un tour in Asia; una volta raggiunto il Pakistan il presidente Khan preparò un jet che avrebbe portato Kissinger a Pechino.

Nixon e Kissinger non avevano ancora pensato a come dire al Segretario di Stato Rogers della visita tanto che decisero alla fine di mentirgli; una volta partito Kissinger, Nixon ordinò a Haig di informare Rogers sui reali spostamenti del suo consigliere.

Arrivato a Pechino, Kissinger venne accolto con diffidenza in quanto i cinesi temevano che gli americani fossero più interessati alle conseguenze che la visita avrebbe portato nel loro paese che alla valenza politica della stessa in relazione ai rapporti tra i due paesi. Il tema principale su cui ruotò il colloquio tra Kissinger ed il primo ministro cinese fu Taiwan: Kissinger andò ben oltre le promesse fatte a Varsavia: egli assicurò Chou che gli Stati Uniti non avrebbero sostenuto qualsiasi attacco taiwanese contro la Cina o qualsiasi azione diretta all'indipendenza dell'isola. Taiwan non fu l'unico argomento di discussione. Infatti se Kissinger accettò la maggior parte delle condizioni imposte dai cinesi su Taiwan, in cambio chiedeva un aiuto per porre fine alla guerra del Vietnam. Kissinger voleva ottenere il sostegno della Cina per raggiungere un accordo che potesse lasciare il governo del Vietnam del Sud, capeggiato da Nguyen Van Thieu, con le sue forze intatte. La risposta cinese fu molto ambigua, in quanto la posizione della Repubblica popolare cinese si basava sull'allontanamento delle truppe americane dal Vietnam.

In un'intervista, avvenuta il 7 maggio 1997, Smyser ricordò che "niente venne risolto [riguardo al Vietnam], Chou En-lai disse che i vietnamiti stavano combattendo la guerra ed era compito loro terminarla". Alcuni giorni dopo la visita di Kissinger in Cina, Chou andò segretamente ad Hanoi assicurando il Vietnam del Nord che la Cina avrebbe continuato a sostenerlo anche se presentò al paese la necessità di scendere a compromessi se si voleva porre fine alla guerra[102]. Il Vietnam del Nord rigettò con tale veemenza quest'ultima possibilità da far sì che la Cina dovesse rifiutare le ultime richieste di Nixon di un ulteriore aiuto per terminare la guerra.

Gli Stati Uniti premevano per finire la guerra in Vietnam perché temevano l'entrata in guerra della Cina a fianco del Vietnam del Nord proprio come aveva fatto durante la guerra in Corea inviando parte delle sue truppe al di là del confine. Questo timore non permise agli Stati Uniti di pensare ai nuovi sviluppi che la guerra avrebbe potuto avere; già durante la presidenza di Eisenhower gli americani avrebbero potuto minare il porto di Haiphong o bombardare Hanoi, ma non lo fecero, perché erano coscienti del fatto che questo avrebbe comportato la partecipazione della Cina nel conflitto e la caduta del Vietnam del Sud avrebbe aperto la via alla vittoria delle forze comuniste in tutto il sud-est asiatico, dove il presidente Mao Tse-tung stava cercando di diffondere la rivoluzione.

Anche la Cina, da parte sua, aveva i suoi timori; temeva che le forze nazionaliste guidate da Chiang Kai-shek tentassero di riconquistare il territorio cinese dal quale erano fuggiti e che gli americani li sostenessero i

in questa impresa; con la visita di Kissinger tutte queste paure finalmente svanirono.

Un ulteriore argomento di conversazione fu inevitabilmente l'Unione Sovietica; la Cina voleva difendersi dalle minacce sovietiche lungo i suoi confini e l'amministrazione Nixon stava cercando di disturbare Mosca al punto tale di da rendere i leaders sovietici maggiormente interessati ad una possibile distensione con gli Stati Uniti. In un memorandum di Kissinger a Nixon vi era scritto: "Vogliamo che la nostra politica verso la Cina dimostri a Mosca che non può parlare in nome di tutti i paesi comunisti, che accordarsi con noi le porterebbe dei vantaggi"[103].

A Pechino Kissinger assicurò Chou En-lai che gli Stati Uniti avrebbero tenuto informata la Cina su ogni accordo che essi avrebbero raggiunto con l'Unione Sovietica che avesse riguardato i suoi interessi personali. Il primo ministro cinese, data l'importanza della promessa, volle che venisse messa per iscritto e Kissinger lo rassicurò sul fatto che Nixon gli avrebbe sicuramente spedito una lettera in cui si impegnava in quanto detto prima. La lettera venne spedita tramite Vernon Walters a Parigi e venne deciso, tramite gli intermediari pakistani, che la sede dei prossimi incontri tra i due paesi sarebbe stata Parigi[104]. Poche settimane dopo, Kissinger divulgò la promessa originale fatta al governo cinese riferendo all'ambasciatore Huang Zhen a Parigi che gli Stati Uniti avrebbero informato la Cina riguardo a qualsiasi incontro che avessero avuto "con altri paesi socialisti", includendo così non solo l'Unione Sovietica, ma anche l'Europa orientale ed il Vietnam del Nord .

I risultati più importanti che Kissinger ottenne dalla sua visita a Pechino furono l'invito del governo cinese ad incontrare il presidente Nixon nella capitale comunista e l'entrata della Cina comunista nelle Nazioni Unite.

L'esigenza di far entrare la Repubblica popolare cinese nelle Nazioni Unite derivò da ciò che accadde durante la guerra di Corea negli anni '50, quando l'Unione Sovietica abbandonò il Consiglio di Sicurezza per protestare contro la mancata ammissione dei delegati della Cina di Mao, mettendo in pericolo l'approvazione delle due risoluzioni che condannavano rispettivamente, la Corea del Nord per aver invaso la Corea del sud e la seconda contro l'intervento armato cinese a favore dei coreani del nord, definito un "atto di aggressione"[106]. Memori di ciò che era successo durante il conflitto in Corea gli Stati Uniti compresero che la continua presenza della Cina nazionalista nelle Nazioni Unite impediva agli stessi di attuare, all'interno dell'Organizzazione, un' efficace "azione di polizia" nei confronti dei paesi che mettevano a repentaglio gli equilibri mondiale.

L'iter che venne seguito per raggiungere quest'ultimo importante risultato non fu semplice in quanto fin dal principio si era posto il problema di come gestire il rapporto con Taiwan, la quale occupava uno dei seggi permanenti nel Consiglio di Sicurezza, in relazione alle richieste della Cina.

Mansfield ribadì l'esigenza di attuare una politica caratterizzata dalla presenza di un sola Cina (One China policy) perché l'idea della duplice rappresentanza era irreale ed improponibile secondo la Cina che era ferma nella sua posizione di voler annettere la Repubblica di Taiwan nei suoi territori, e secondo Taiwan che non voleva scendere a compromessi con la Cina[107]; anche Kissinger fece sapere da Pechino, dove stava organizzando la visita del presidente, che non avrebbe sostenuto la doppia rappresentanza.

La partecipazione della Repubblica popolare cinese alle Nazioni Unite poneva importanti questioni che portavano ad insediare se non a modificare gli equilibri internazionali; gli Stati Uniti non sapevano come agire davanti le richieste della Cina riguardo a Taiwan perché questo significava espellerla dalle Nazioni Unite a favore della Repubblica comunista e venire meno agli impegni presi uno fra tutti il Mutual Defense Treaty del 1954, attraverso il quale la potenza americana era impegnata a difendere Taiwan e le isole Pescadores da qualsiasi attacco armato[108].

La posizione statunitense riguardo ai termini stabiliti per l'entrata della Cina comunista nelle Nazioni Unite venne divulgata nel primo di una serie di Bollettini[109] provenienti dal Dipartimento di Stato che presentava il problema secondo diversi aspetti.

L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella sua ultima sessione, affermò che ogni cambiamento in riferimento alla politica di rappresentanza della Cina nelle Nazioni Unite doveva essere considerata come una "questione importante"[110], secondo il risultato della votazione avvenuta nel 1969: 73 a favore, 47 contrari e 5 astenuti, e per questo era necessaria la maggioranza di 2/3 dei membri dell'Assemblea per l'approvazione di qualsiasi decisione (Articolo 18,2 Carta delle Nazioni Unite) . Gli Stati Uniti manifestarono il loro accordo rispetto a questa posizione e rispetto al fatto che venne bocciata la cosiddetta soluzione albanese, per mancanza della maggioranza, (58 a 44 con 23 astenuti) che consisteva nell'espulsione dei rappresentanti di Taiwan che occupavano uno dei cinque seggi permanenti nel Consiglio di Sicurezza a favore della Repubblica comunista .

La maggior parte degli ambasciatori delle Nazioni Unite aveva avvertito che non c'era stata una ragione valida da parte dell'Assemblea di votare differentemente da come aveva votato; la querelle sino-sovietica aveva lasciato l'Assemblea in uno stato di incertezza, si temeva che la Russia avrebbe potuto interpretare un possibile sostegno nei confronti della Cina come un attacco diretto verso di lei[113].

Un'altra soluzione prospettata dal Governo era la formula francese, che venne rigettata da entrambi i paesi in causa. Essa proponeva la doppia rappresentanza considerando Taiwan e Cina come due territori distinti. Gli Stati Uniti erano consapevoli della volontà delle Nazioni Unite di far entrare la Cina comunista nella sua interezza, ossia includendo anche Taiwan, ma non erano d'accordo sul fatto che fosse la Cina a dettare i termini della partecipazione.

L'editore di Foreign Affairs, Hamilton Fish Armstrong, suggerì ad Henry Kissinger, in una lettera, un'altra soluzione, ossia, la possibilità di annettere la Cina comunista alle Nazioni Unite, concedendole un posto nel Consiglio di Sicurezza e nell'Assemblea Generale e mantenere i rappresentanti di Taiwan solo nell'Assemblea Generale con un voto di eleggibilità come la Russia aveva chiesto ed ottenuto per la Bielo Russia e per L'Ucraina[114], in questo modo si sarebbe evitato che la Russia utilizzasse il suo potere di veto per impedire a Taiwan di mantenere il suo posto nell'Assemblea .

Le Risoluzioni del Senato n°37[116] e n°82 , la prima introdotta dall'onorevole Jacob K. Javits e la seconda dal Senatore Mc Govern, mostravano come il Senato approvasse tutte le decisioni prese al fine di normalizzare i rapporti tra gli Stati Uniti e la Cina in ambito economico e sociale, ma ribadiva anche come gli Stati Uniti non approvassero la possibilità di privare Taiwan del suo posto nell'Assemblea Generale. Mentre il primo paragrafo della Risoluzione n°82 trattava il problema della rappresentanza della Cina nelle Nazioni Unite, sottolineando come gli Stati Uniti fossero "pronti a vedere la Repubblica popolare cinese giocare un ruolo costruttivo nella comunità internazionale", il secondo paragrafo si riferiva all'aspetto del riconoscimento. Si diceva che la posizione di Pechino non poteva migliorare se gli Stati Uniti avessero continuato ad "occupare" Taiwan, territorio che la Cina considerava come "provincia cinese sulla quale avere la sovranità". "Pechino ribadiva che la presenza statunitense nella Repubblica nazionalista interferiva con la gestione degli affari interni della stessa" e andava contro ad uno dei principi fissati nella conferenza di Bandung del 1955. La Cina poi andò oltre, affermando che il trattato di reciproca difesa firmato nel 1954 tra Stati Uniti e Taiwan era illegale e qualsiasi altro contatto diplomatico doveva essere interrotto.

Alla conferenza del 1° giugno 1971[118] il presidente Nixon annunciò che "è presente un significativo cambiamento di opinione tra i membri delle Nazioni Unite riguardo alla questione dell'ammissione della Repubblica popolare cinese"; continuò dicendo ai propri corrispondenti che un'analisi di questo cambiamento da parte della sua amministrazione era stata sottoposta "all'attenzione della Repubblica di Taiwan e di paesi terzi". Quando questo studio sarebbe stato terminato egli continuò, "allora decideremo quale posizione tenere noi Governo degli Stati Uniti nella prossima sessione delle Nazioni Unite di questo autunno, e per quel tempo prenderemo in considerazione il problema nella sua particolarità".

Il Segretario di Stato Rogers annunciò la nuova politica statunitense ad un incontro tra i corrispondenti del Dipartimento di Stato il 2 agosto 1971 all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Dopo un'introduzione generale sulla politica di Nixon dal giorno delle sue elezioni, Rogers puntualizzò l'aspetto riguardante l'entrata della Repubblica popolare cinese nelle Nazioni Unite ed il rapporto del suo paese con Taiwan; "Gli Stati Uniti, egli disse, sosterranno le azioni dell'Assemblea Generale in riferimento all'assegnazione del seggio al paese comunista, allo stesso tempo essi si opporranno a qualsiasi decisione della stessa Assemblea atta ad espellere la Repubblica nazionalista o a privarla della rappresentanza nelle Nazioni Unite". " La nostra consultazione, che iniziò molto tempo fa, indicò come la questione del posto della Cina nel Consiglio di Sicurezza è un problema che potrebbe essere rivolto a molte nazioni, ma alla fine sarà il Consiglio di Sicurezza, secondo la Carta delle Nazioni Unite a prendere la sua decisione. Gli Stati Uniti, da parte loro, saranno preparati a vedere la questione risolta in base alle decisioni prese dai membri delle Nazioni Unite.

"Le nostre consultazioni hanno anche mostrato che qualsiasi azione diretta a privare la Repubblica nazionalista di una rappresentanza all'interno dell'Organizzazione avrebbe incontrato una forte opposizione da parte dell'Assemblea Generale ed ovviamente da parte degli stessi Stati Uniti.

.La posizione degli Stati Uniti è che se le Nazioni Unite vogliono continuare a ricoprire il ruolo di "peace-keeping", devono considerare la realtà che è intorno a loro. In questo modo essi coopereranno con coloro i quali, qualunque sia la loro opinione riguardo alle relazioni tra Taiwan e gli Stati Uniti, desiderano che la Repubblica nazionalista sia rappresentata nelle Nazioni Unite.

" Il risultato sarà ovviamente deciso dai 127 membri delle Nazioni Unite; da parte nostra crediamo che la decisione sia completamente in linea con il desiderio del Presidente Nixon di normalizzare le relazioni con la Cina nell'interesse del mondo intero e con la posizione statunitense di voler che la Repubblica nazionalista mantenga il suo seggio per contribuire alla pace ed alla stabilità mondiale"[119].

Nonostante la ferma intenzione statunitense di difendere gli interessi di Taiwan, sostenuta anche da Giappone, Australia e Nuova Zelanda il 25 ottobre 1971 l'Assemblea Generale rese nota l'entrata definitiva della Repubblica popolare cinese alle Nazioni Unite con la conseguente espulsione dei rappresentanti di Taiwan dal seggio che occupavano. Il risultato venne determinato da tre votazioni separate. Mentre gli Stati Uniti vinsero la prima riguardo la forma procedurale della risoluzione che considerava l'espulsione di Taiwan una "questione importante" e trattata quindi secondo l'art. 18,2 della Carta delle Nazioni Unite, persero la seconda e la terza votazione con un margine di 55 a 59 con 15 astenuti per la prima e di 76 a 35 con 17 astenuti la seconda . Il primo a manifestare il proprio dissenso nei confronti della decisione presa dall'Assemblea Generale fu il Segretario Rogers che la definì come "la decisione più sfortunata che avrebbe portato in futuro a conseguenze sfavorevoli", inoltre, espresse la speranza che questa azione non avrebbe indebolito le Nazioni Unite stesse e ribadiva il fatto che l'espulsione di Taiwan non avrebbe compromesso il legame tra gli Stati Uniti e l'Organizzazione, né ridotto il sostegno economico che il paese, in qualità di maggior contribuente, le dava.

Il pensiero di Rogers andò anche a Taiwan e ai futuri rapporti con il paese alla luce del risultato della votazione; a nome degli Stati Uniti si impegnò a mantenere i rapporti con la Repubblica nazionalista sia a livello economico che politico tenendo conto delle esigenze del paese e delle sue reazioni iniziali alla notizia.

Secondo il diario personale di H.R Haldelman, Rogers incolpò Kissinger della sconfitta perché la sua seconda visita a Pechino avvenne proprio durante la votazione decisiva e la sua assenza fece perdere dei voti importanti, utili per difendere Taiwan dall'espulsione[122].

I nuovi rapporti che si erano costituiti con la Cina avevano fatto sì che gli Stati Uniti diventassero più sensibili anche agli avvenimenti del Sud-Est asiatico, infatti sostennero il Pakistan nella guerra contro l'India.

I primi passi per la ricostruzione dei rapporti tra la Cina e gli Stati Uniti erano stati compiuti, ora, dopo che le basi erano state poste, era necessario continuare nella politica di riconoscimento.



4.2. Il ruolo giocato dalle potenze europee e dal Canada nel riconoscimento della Repubblica popolare cinese



La distensione sino-americana venne favorita anche dal ruolo svolto dalle potenze europee, in particolare dall'Italia, e dal Canada che, riconoscendo la Cina negli anni '70, spinsero gli Stati Uniti a fare lo stesso, mossi dal desiderio di mantenere i rapporti con l'Europa ed il governo canadese.

La notizia dell'intenzione italiana di voler riconoscere la Cina comunista venne divulgata dal Dipartimento di Stato il 6 gennaio 1969[123], ma Nenni, Ministro degli Esteri, informò l'ambasciatore Ackley il 23 gennaio. Nel colloquio con l'ambasciatore, Nenni chiarì che la decisone non derivava da una formale posizione del Gabinetto, ma da un accordo raggiunto durante la formazione del nuovo Governo (Governo Rumor) e che avrebbe informato ufficialmente la Camera dei Deputati il 25 gennaio . Il progetto non era di facile realizzazione in quanto Pechino richiedeva che l'Italia rompesse ogni rapporto con Taiwan e gli assicurasse il voto per la futura entrata nelle Nazioni Unite o in qualsiasi altra organizzazione internazionale. L'Italia era molto più favorevole ad una doppia rappresentanza in seno alle Nazioni Unite perché questo le avrebbe permesso di mantenere i rapporti con entrambi i governi cinesi. La notizia di un possibile riconoscimento italiano della Cina comunista non venne accolta con gran favore da Taiwan, la quale informò Bundy che se l'Italia o il Canada avessero perseguito nei loro intenti il governo nazionalista avrebbe immediatamente interrotto i rapporti con entrambi e richiamato i loro ambasciatori . L'ambasciatore Chou Shu-kai riferì al governo statunitense che non capiva come l'Italia avesse deciso proprio in questo momento, dopo la morte di Mao e l'imminente convocazione della Nona Conferenza del Partito Comunista, di intrecciare rapporti con la Cina comunista, una situazione molto delicata ed una decisione ancora più delicata visto che anche l'Italia stava convivendo con un governo da poco nominato. Bundy cercò di rassicurare l'ambasciatore sottolineando il fatto che il governo italiano non aveva preso ancora una posizione chiara, ma che stava valutando la possibilità di un riconoscimento formale ; gli Stati Uniti invitarono più volte il governo di Taiwan a non reagire frettolosamente nei confronti dell'Italia e del Canada sulla base non di un formale riconoscimento, ma su di una semplice possibilità che sarebbe anche potuta rimanere tale se entrambi i paesi non avessero accettato di sottostare alle condizioni di Pechino, ossia di chiudere le ambasciate di Taiwan nelle rispettive capitali .

Le rassicurazioni da parte del governo statunitense non furono sufficienti per impedire che il governo di Taipei si preoccupasse di ciò che ormai era considerato inevitabile; il primo Ministro Wei in un telegramma[128] al Segretario di Stato sottolineò come qualsiasi tentativo da parte degli Stati Uniti o di Taiwan di impedire il riconoscimento sarebbero stati vani ed il tanto temuto "effetto palla di neve" ("snowballing effect") che, secondo il Ministro, avrebbe coinvolto altri paesi europei, non si sarebbe fatto attendere.

Le intenzioni definitive del Governo Rumor vennero descritte nell'editoriale del Corriere della Sera del 31 gennaio 1969[129], in cui si descriveva come il progetto politico presentato da Nenni non si fondava su ragioni economiche, come la maggior parte dei paesi europei (Francia, Germania e Gran Bretagna in primo luogo) aveva inizialmente ipotizzato, ma derivava dal progetto presentato nel 1964 dal Primo Ministro Saragat che sottolineava, in quegli anni, come il riconoscimento della Cina comunista non doveva essere un'ipotesi, ma una realtà e quindi si doveva discutere non sul "se" farlo, ma sul "quando" e sul "come" farlo. Nell'editoriale si descriveva come la fine della rivoluzione culturale ed il ritardo dei colloqui di Varsavia avessero influenzato l'Italia a considerare quello il momento giusto per agire. Nenni dichiarò che la rottura tra la Cina e l'Unione Sovietica rappresentava la fine dell'isolamento cinese e la fine di un regime impostole dalla potenza moscovita.

Il governo italiano non aveva ancora pensato alla formula di riconoscimento più adatta, era certo del fatto che sarebbe stata una soluzione di lungo termine in modo da facilitare lo "sviluppo di un mondo meno estremista", ma non sapeva cosa rispondere alla domanda che Saragat aveva posto cinque anni prima ossia "come". L'Italia voleva aprire un dialogo con Pechino senza necessariamente chiudere i rapporti con Formosa, ma sapeva che una soluzione salomonica come quella della doppia rappresentanza non sarebbe stata completamente efficace ed avrebbe maggiormente rafforzato la posizione sovietica nel voler legittimare la Germania democratica oltre alla già legittimata Germania federale. Nenni comunque ribadì, facendo riferimento all'estrema reazione che Taiwan ebbe dopo il riconoscimento della Cina da parte della Francia, che se l'isola avesse deciso di far richiamare i suoi delegati da Roma questa sarebbe stata una sua libera scelta e non la volontà italiana. La risposta da parte del governo di Taipei non si fece attendere. Infatti in un intervista rilasciata dall'ambasciatore della Repubblica nazionalista Hsu Shao-Chang al settimanale italiano di destra Lo Specchio[130] il 2 febbraio, l'ambasciatore dichiarò che l'annuncio italiano di voler riconoscere la Cina comunista "fosse una forma di tradimento, una posizione incredibile che contrastava con la tradizionale amicizia tra la Cina nazionalista e l'Italia". L'ambasciatore inoltre manifestò il suo rammarico riguardo al fatto che l'Italia avesse messo al corrente il governo statunitense e giapponese delle sue intenzioni, ma non il governo di Taipei che era il diretto interessato e ribadì la ferma posizione di ritirare i delegati dal Roma qualora il riconoscimento fosse avvenuto. Circa un anno dopo l'Italia riconobbe la Cina comunista ed insieme a lei anche il governo del Canada il quale seguì un iter parallelo a quello italiano.

In un'intervista avvenuta il 22 gennaio, il Ministro degli Affari Esteri Sharp rese noto che il governo canadese aveva in programma di riconoscere la Cina comunista e l'ambasciatore Linder disse che i primi scambi tra i due paesi sarebbero avvenuti tramite visite ufficiali nel paese[131] e, nei confronti di Taiwan, Sharp non escluse la possibilità di rompere i rapporti con il governo nazionalista se questo avesse impedito o ritardato il suo piano politico nei confronti della Cina popolare. Nonostante questa netta posizione iniziale, il governo canadese fece sapere che avrebbe fatto il possibile per preservare il rapporto con Taiwan e la sua posizione nelle Nazioni Unite anche se riteneva fosse opportuno approfondire i suoi contatti diplomatici con la Cina dato che quest'ultima era sua partner commerciale da molto tempo .

In un telegramma[133], diretto all'ambasciata di Taipei, il governo canadese fece sapere che non avrebbe sostenuto la doppia rappresentanza e che era pronto a confermare la sua posizione nei confronti di Pechino. L'ambasciatore canadese Ritchie disse che il riconoscimento della Repubblica popolare come unico governo legittimo cinese, non avrebbe implicato la rottura dei rapporti con Taiwan, ma i possibili scambi culturali e commerciali, che vi sarebbero stati, si sarebbero svolti con il territorio di Taiwan e non con il governo nazionalista. Anche il Canada, come l'Italia riconobbe il governo comunista negli anni '70 e dopo il riconoscimento di questi due paesi si realizzò l' "effetto palla di neve" tanto temuto dal Primo Ministro taiwanese Wei. Infatti altri paesi europei valutarono un piano politico a favore della Cina popolare tra cui: il Belgio, l'Austria, la Germania.

La posizione del Belgio era simile a quella italiana e canadese, infatti l'ambasciatore belga Harmel ebbe degli incontri con il Ministro degli Affari Esteri Sharp e con Nenni per discutere le modalità riguardanti il riconoscimento della Cina comunista. Il governo belga considerava la Repubblica popolare un'entità politica che non poteva essere ignorata, ma allo stesso tempo si dovevano salvaguardare gli interessi della Repubblica nazionalista[134]. Il Belgio si sentiva particolarmente vicino alla posizione di Taiwan, come venne riportato dall'ambasciatore giapponese a Bruxelles Otabe , in quanto entrambi erano dei piccoli paesi e per questo il Primo Ministro Davignon non avrebbe voluto che i due governi interrompessero i loro rapporti. Il governo belga si dichiarò favorevole alla soluzione albanese, anche se poneva delle riserve per quanto riguardava l'espulsione dei rappresentanti di Taiwan dalle Nazioni Unite, avrebbe voluto che questi ultimi mantenessero il loro ruolo almeno nell'Assemblea Generale. Anche l'Austria manifestò il suo interesse riguardo al riconoscimento della Cina, facendo comunque presente il problema di Taiwan e la sua volontà di voler mantenere i rapporti con l'isola visto che le opportunità di commercio ed investimento tra i due paesi stavano aumentando. Le perplessità che il Primo Ministro Waldheim espresse in un telegramma sia all'Italia che al Canada erano generalmente le stesse degli altri paesi, ad esempio le reazioni di Taiwan alla politica degli Stati Uniti e degli altri paesi che proponevano la soluzione albanese riguardo all'entrata della Cina comunista nelle Nazioni Unite; inoltre il governo viennese non approvava il fatto che fosse Pechino a dover dettare le condizione per uscire dal suo isolamento, invitando i paesi che lo sostenevano ad interrompere i rapporti con Taiwan.

La Germania approfittò della questione della rappresentanza della Cina popolare per presentare al governo degli Stati Uniti il problema della separazione delle due Germanie (Repubblica federale tedesca e Repubblica democratica tedesca) e la relativa rappresentanza nelle Nazioni Unite di entrambe .

Nel Telegramma del 1971 il governo della Repubblica democratica tedesca invitò il governo statunitense a considerare il problema della doppia rappresentanza anche per la Germania. L'Ufficio degli Esteri fece notare come:


La decisione degli Stati Uniti, contrariamente alla politica attuata fino a quel momento, di non impedire più alla Repubblica popolare cinese di entrare a far parte delle Nazioni Unite, deriva dal fatto che essi accettano il principio che qualsiasi governo effettivo può essere considerato membro delle Nazioni Unite senza che siano necessarie altre qualifiche. Questo può dunque essere applicato anche ad altre nazioni divise. L'appartenenza di una delle due parti, di una nazione divisa, alle Nazioni Unite o in altre agenzie specializzate e l'esclusione dell'altra può essere superata più facilmente ora. Alla luce di questo non risulta più giustificabile la negata partecipazione alle Nazioni Unite della Repubblica democratica tedesca.


Sulla base di queste premesse il governo di Bonn esaminò il problema paragonando la situazione cinese a quella tedesca, ma portando diverse argomentazioni:


Erano presenti delle differenze sostanziali tra la divisione della Germania e il problema della Cina.


A.   La realtà geografica e la popolazione erano differenti. I due stati germanici includevano popolazione e territorio della Germania; Taiwan, al contrario, paragonata alla Cina comunista era un territorio limitato e geograficamente separato dalla Repubblica popolare. Il fatto che Taiwan non fosse parte della Cina comunista era stato anche dimostrato dal fatto che fosse stata sotto dominio straniero per molti anni.


A.   La divisione della Germania fu imposta dall'esterno, come conseguenza della guerra mondiale persa dal governo tedesco. Il distacco di Taiwan dalla Cina era stato il risultato di una disputa interna cinese; l'isola divenne il rifugio del partito nazionalista sconfitto dalla guerra civile.

B.   Le due parti della Germania erano legate non solo dal desiderio della popolazione di appartenere ad una singola nazione, ma anche legalmente dal comune impegno di voler ridare alla Germania, nella sua interezza, il potere vittorioso di un tempo. Un elemento internazionale di questo tipo mancava in Cina, la situazione era stata creata dai diretti interessati e solo loro potevano porvi rimedio. Sotto questo punto di vista era impossibile pensare che tra Taiwan e la Cina esistesse un legame psicologico e culturale forte tanto quanto quello fra le due Germanie.


A.   Cina e Taiwan rifiutavano una possibile doppia rappresentanza nelle Nazioni Unite in quanto entrambi i governi si dichiaravano espressione del territorio cinese nella sua integrità. In Germania, al contrario, il desiderio della RDT[138] di entrare a far parte delle Nazioni Unite insieme alla già presente RFT era un modo per suggellare la divisione tra le due nazioni. La RDT e la RFT negavano di far parte della stessa nazione germanica, ciò che li separava erano elementi storici e culturali. La RFT considerava la partecipazione alle Nazioni Unite di entrambe le repubbliche tedesche una possibilità, nell'interesse sia internazionale che della Germania, ma questo poteva accadere solo se l'unità della nazione fosse stata mantenuta attraverso l'instaurazione di speciali relazioni tra i due stati ed il loro riconoscimento nella sfera internazionale.


La Germania, in relazione all'entrata della Cina nelle Nazioni Unite, non poneva grosse obiezioni; essa non avrebbe sostenuto la doppia rappresentanza in quanto questa, secondo il governo tedesco, presupponeva una coesistenza pacifica tra Taiwan e la Cina e questa al momento non era presente. In ragione di questo invitava Taiwan ad un confronto diretto con Repubblica popolare qualora avesse voluto mantenere il suo seggio nell'Organizzazione. In difesa della sua causa, la Germania sottolineava il fatto che tale confronto non fosse necessario tra RDT e RFT in quanto questo era già avvenuto e la coesistenza tra le due parti era già presente.



4.3. Il ruolo della Cina nelle Nazioni Unite



L'entrata della Repubblica popolare cinese nelle Nazioni Unite nell'ottobre 1971 segnò l'inizio di una nuova era nell'organizzazione mondiale. L'amministrazione americana considerava la presenza di cinque potenze che cercavano di preservare gli equilibri mondiali: gli Stai Uniti, l'Unione Sovietica, la Cina, il Giappone e l'Europa orientale, ma all'interno dell'Organizzazione delle Nazioni Unite la difficoltà era quella di gestire le difficili relazioni tra Cina, Unione Sovietica e Stati Uniti.

La presenza della Cina nelle Nazioni Unite aveva senza dubbio complicato la politica decisionale dell'Organizzazione, ma la serietà delle intenzioni di Pechino non erano solo testimoniate da una politica attenta e controllata senza grosse recriminazioni per la protratta assenza nell'Organizzazione, ma anche dalla presenza, in larga misura, di 49 delegati di grande importanza e competenza[140].

Per circa due anni il governo cinese assunse un atteggiamento di tipo dualistico all'interno dell'Organizzazione: nei dibattiti generali iniziali nell'Assemblea Generale, i portavoce di Pechino attaccavano in modo tenace ed inflessibile i loro nemici facendo leva sui loro sostenitori, ma nei successivi processi diplomatici multilaterali, la relativa inesperienza cinese in campo diplomatico fece agire il governo in modo molto più cauto. Dopo il 1972, i delegati del governo poterono muoversi in modo più efficace e competente, considerato il fatto che avevano acquisito una maggior conoscenza e familiarità con la complessità delle politiche e delle procedure decisionali delle Nazioni Unite.

I maggiori problemi che la Cina, come membro permanente del Consiglio di Sicurezza, dovette affrontare furono cinque:


a.     La guerra indo-pakistana;

b.     i problemi relativi la Terzo Mondo;

i.      il mantenimento della pace con un particolare riguardo alla  situazione di Cipro;

B.   la continua crisi in Medio Oriente;

C.   la disputa per il controllo del canale di Panama.


Il "debutto" cinese nel Consiglio di Sicurezza avvenne durante la guerra indo-pakistana. In quell'occasione il Consiglio di Sicurezza era paralizzato, non a causa di un impasse tra Stati Uniti ed Unione Sovietica, come era accaduto durante la guerra di Corea[141], ma a causa del confronto tra la Cina e la potenza sovietica. I tre veti presentati dall'Unione Sovietica in nome della sua alleata, ossia l'India, andarono a discapito dell'alleato cinese: il Pakistan. I colloqui tra i rispettivi delegati furono sempre più accesi, rasentando l'accusa ed il rimprovero, raramente incontrati nella storia del Consiglio di Sicurezza. Il delegato cinese Huang Hua in un colloqui con il portavoce russo Yacov Malik, accusò "gli imperialisti sovietici" di "condurre una politica basata sull'aggressione, l'ingerenza, la sovversione e l'espansione". Riferendosi al delegato russo soprannominadolo "Mister Malik", il rappresentante di Pechino denunciò inoltre l'Unione Sovietica di aver tradito l'ideologia del marxismo-leninismo per cercare di instaurare un governo simile al Manciukuò (il governo fondato dal Giappone in Manciuria nel 1932) nell'est del Pakistan per avere il controllo del continente, circondare la Cina, e rafforzare le proprie posizioni per contendersi con le altre superpotenze l'egemonia mondiale . Era chiaro, da questo scambio di battute, che l'incomprensione tra le due potenze comuniste era molto più profonda di quanto potesse essere quella tra gli Stati Uniti e la Cina o tra i gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica.

La Cina presentò il suo primo veto nei confronti dell'ammissione del Bangladesh alle Nazioni Unite. Essa giustificò la sua decisione dicendo che il governo di Dacca aveva violato le due precedenti risoluzioni che lo invitavano a far rimpatriare tutti i prigionieri di guerra, i civili che erano stati catturati e a ritirare le truppe indiane dal Bangladesh[144].


In occasione della riunione del Consiglio di Sicurezza ad Addis Abeba, in Etiopia, la Cina fece il suo primo tentativo per ottenere la leadership nei paesi più piccoli del Terzo Mondo. Essa sostenne con tenacia tutte le risoluzioni che vennero adottate dal Consiglio contro i governi di minoranza bianca presenti in Sud Africa, Rodesia e Portogallo. Sottolineò più volte il fatto che il governo cinese non aveva nulla in comune con il comportamento biasimevole di questi governi. La Cina si trovò ad essere, in alcune di queste risoluzioni, d'accordo con l'Unione Sovietica, ma in generale cercò di tenere le distanze dalle potenze comuniste e di votare autonomamente.


Nelle Nazioni Unite si pensava che l'entrata della Cina avrebbe significato la fine delle poche forze di peace-keeping ancora presenti, soprattutto a Cipro. La forza di pace cipriota era sotto l'esclusiva giurisdizione del Consiglio di Sicurezza e la sua esistenza dipendeva dall'estensione del suo mandato, che veniva rinnovato ogni sei mesi. Fino a quando i maggiori beneficiari della forza di Cipro, Turchia e Grecia, fossero rimasti entrambi membri della NATO, si pensava che la Cina avrebbe posto il veto su tutte le operazioni; in realtà al momento della votazione la Cina si astenne con il risultato che la forza cipriota continuò ad esistere in base ad un difficile consenso triangolare tra Cina, Stati Uniti ed Unione Sovietica.


Sulla questione del terrorismo in Medio Oriente, la Cina inizialmente condusse una politica pro-palestinese. Per preservare la propria sicurezza nazionale, essa aveva tutte le intenzioni di mantenere vive le tensioni presenti in Medio Oriente: innanzitutto perché qualsiasi soluzione del problema avrebbe potuto portare alla riapertura del Canale di Suez[145], permettendo all'Unione Sovietica facile accesso all'Oceano Indiano e mettere così a rischio le linee di comunicazione tra la Cina ed i suoi "amici" arabi ed africani . Secondariamente, la presenza di tensioni nel Medio Oriente, avrebbe spinto le forze militari sovietiche nell'area, riducendo la loro presenza nelle linee di confine con la Cina stessa. La continuazione del conflitto avrebbe messo a rischio l'evolversi della distensione russo-americana , specialmente in Europa, ridotto le possibilità di successo della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa ed ancora una volta limitato la presenza sovietica nei confini con la Cina.

A ragione di queste considerazioni, la Cina assunse un atteggiamento molto duro nei confronti di ciò che definì come "Israeli Zionist aggression" e accusò le due superpotenze di "agire in collusione" nelle Nazioni Unite per prevenire il recupero delle terre arabe . sfruttando la situazione di difficoltà che vivevano i palestinesi e gli altri popoli arabi per tentare di ottenere il dominio sulle riserve petrolifere del paese a spese dei diritti nazionali, dell'integrità e della sovranità territoriale[147]. Essendo sostenitrice delle attività rivoluzionarie, la Cina si oppose agli sforzi delle Nazioni Unite diretti a porre dei freni alle azioni terroristiche, come quella che coinvolse 11 atleti olimpionici israeliani a Monaco. La Cina sosteneva che il problema degli atti terroristici doveva essere risolto con i paesi che ne erano coinvolti e non attraverso i trattati internazionali. In una votazione la Legal Committee, una coalizione creata da arabi, africani e forze comuniste (cinesi e sovietiche) adottò una risoluzione che condannava tutti gli "atti terroristici a scopo repressivo fatti da regimi coloniali o stranieri". Attraverso questa risoluzione la Cina era riuscita a ricoprire il ruolo di leader nella gestione dei problemi che riguardavano il Terzo Mondo e a guadagnarsi la fiducia degli stessi incolpando i paesi occidentali di agire nei loro confronti con la forza.


La riunione del Consiglio di Sicurezza che si svolse a Panama offrì alla Cina un'altra opportunità per sottolineare il suo attivo sostegno nei confronti dei paesi del Terzo Mondo. In quella occasione gli Stati Uniti sostenevano che il problema sul controllo del canale riguardasse solo essi stessi e Panama, gli altri membri del Consiglio, invece, lo consideravano un problema coloniale dell'Emisfero occidentale e pertanto ritenevano necessario l'intervento delle Nazioni Unite. La Cina sostenne questa visione con tenacia ed il suo ruolo di leader del Terzo Mondo fu ancora più chiaro in questa occasione.

Come membro dell'Assemblea Generale la Cina si trovò di fronte problemi di diversa natura quali:


A.   il disarmo;

B.   lo sviluppo;

C.   l'ambiente;

D.   il problema economico;

E.    l'Università delle Nazioni Unite.


La posizione cinese riguardo al disarmo era caratterizzata da una certa ambiguità: da una parte la Cina si ritrovò incapace di opporsi apertamente all'iniziativa sovietica di organizzare una conferenza mondiale sul disarmo perché questo avrebbe messo a repentaglio la sua posizione agli occhi del Terzo Mondo; dall'altra accettare una politica basata su un disarmo radicale avrebbe aumentato la sua inferiorità nucleare nei confronti dell'Unione Sovietica. Fu difficile per la Cina uscire da questo dilemma, ma finalmente alla fine decise di difendere il suo diritto di continuare i tests nucleari, una decisione che venne accolta con grande rammarico dai paesi del Terzo Mondo.

La Cina non aderì ai tre trattati sul controllo delle armi stipulati sotto la protezione dell'Assemblea Generale: l'Outer Space Treaty, il Nuclear Nonproliferation Treaty, ed il Seabed Treaty, ma fu interessante notare come non violò nessuno dei tre.


Una certa incertezza caratterizzò anche la posizione cinese riguardo lo sviluppo economico in quanto si trovava ad essere, da una parte una potenza nucleare e dall'altra una nazione economicamente povera ed in via di sviluppo. Il governo cinese cercò quindi di sostenere tutte le iniziative presentate dalla maggioranza dei paesi del Terzo Mondo nell'Assemblea per attuare programmi di sviluppo e partecipò in maniera attiva alle iniziative organizzate dall'UNDP (United Nations Development Program).

Anche nell'ambito del Programma sull'Ambiente delle Nazioni Unite la Cina sostenne la posizione dei paesi del Terzo Mondo, che definirono i bisogni ambientali in termini di sviluppo. Lo slogan "l'inquinatore deve pagare"[148] fu originariamente cinese, ma poi venne lanciato con la stessa forza sia dagli Stati Uniti che dall' Unione Sovietica. In questo contesto la Cina sollevò una questione fondamentale, sottolineando come gli Stati Uniti, che da soli rappresentano circa il 6% della popolazione mondiale, consumavano più del 50% delle risorse ecologiche mondiali; il mondo, secondo la Cina, a queste condizioni, poteva permettersi solo la presenza degli Stati Uniti d'America. Il governo cinese rese nota l'urgenza della crisi ambientale ed il bisogno di un approccio di tipo globale per poterla risolvere. Quando si presentò il problema di trovare una sede per il nuovo Segretariato Ambientale nato nel dicembre del 1972, la Cina appoggiò la posizione del Terzo Mondo che voleva situarlo a Nairobi, in Kenia, mentre gli Stati Uniti si opposero fortemente a questa soluzione.


La Cina ricoprì un ruolo chiave nel porre fine alla diatriba scoppiata tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica riguardo all'intenzione americana di ridursi l'imposta sul bilancio dal 31% al 25%. L'Unione Sovietica voleva che gli Stati Uniti incrementassero il loro contributo fino al 38% invece di diminuirlo. La Cina allora propose che il proprio contributo venisse aumentato gradualmente nel corso degli anni dal 4% al 7% in modo da bilanciare le perdite di denaro dovute alla diminuzione di quello americano.


Nel dicembre 1972 l'Assemblea Generale approvò una risoluzione che istituiva un'Università delle Nazioni Unite. Solo l'Unione Sovietica ed alcuni stati dell'Europa orientale erano contro questa proposta. La Cina, sia perché l'Unione Sovietica era contraria, sia perché il Giappone giocò un ruolo fondamentale nella realizzazione della proposta, votò a favore.

L'entrata della Cina nelle Nazioni Unite in generale non provocò eccessivi squilibri. Il governo prese presto familiarità con i processi decisionali all'interno dell'Organizzazione e, anche se per la risoluzione di alcuni problemi la presenza cinese fu difficile da gestire, per altri invece si rivelò molto costruttiva. L'entrata della Cina nelle Nazioni Unite avvenne in un momento in cui le fortune reali delle Nazioni Unite erano in ribasso, ma anche in un momento in cui stava crescendo la pressione per un qualche tipo di azione governativa mondiale che facesse fronte ai problemi realmente universali, in particolare per quanto riguarda l'ambiente. Essa coincise inoltre con la fine di un capitolo della storia e l'inizio di uno nuovo; essa infatti coincise con la fine dell'imperialismo americano[149].



4.4. La politica statunitense nei confronti della Repubblica nazionalista di Taiwan prima e dopo il riconoscimento della Cina popolare



L'entrata della Cina nelle Nazioni Unite avvenne seguendo la soluzione albanese e quindi a spese della Repubblica nazionalista di Taiwan; questo comportò, da parte statunitense, una completa rivalutazione e riorganizzazione dei rapporti con la stessa.

Quando nel 1949, con la nascita della Repubblica popolare cinese, Chang Kai-shek fondò nell'isola di Taiwan la Repubblica nazionalista, gli Stati Uniti intrecciarono con questa rapporti di collaborazione e sostegno sia all'interno delle Nazioni Unite che nei confronti di minacce esterne, prima fra tutte la Cina popolare che rivendicava la sovranità territoriale dell'isola.

La politica attuata dagli Stati Uniti a Taiwan prendeva il nome di "policy of open options"[150] attraverso la quale la potenza americana intendeva promuovere la stabilità economica e politica del paese sostenendolo ed incoraggiandolo nel suo progetto di sviluppo economico e di cooperazione nel sud-est asiatico.

Il primo accordo importante tra i due paese risalente al 1954 fu il Mutual Defense Treaty, un accordo di difesa che impegnava, soprattutto gli Stati Uniti, a difendere Taiwan da possibili attacchi armati. L'accordo non si riferiva solo ad interventi, ma anche agli aiuti militari che avrebbero permesso al governo dell'isola di difendersi anche autonomamente con un arsenale moderno. Questo tipo di politica permise alla Repubblica nazionalista di poter godere, negli anni '70, di una forza militare consistente anche se sotto determinate condizioni quali:


A.   la Repubblica nazionalista doveva essere a conoscenza degli aiuti che gli Stati Uniti programmavano di offrirgli periodicamente e doveva fare le proprie richieste in base ai proprio stato finanziario;


a.     gli Stati Uniti dovevano continuare con gli aiuti in denaro e magari aumentare anche l'ammontare degli stessi;


a.    gli Stati Uniti dovevano continuare a fornire assistenza, rendendo disponibili l'equipaggiamento più costoso.


Taiwan venne sostenuta dal governo americano anche dal punto di vista economico e politico. Infatti gli Stati Uniti si erano impegnati a far sì che la Repubblica taiwanese mantenesse la sua posizione nelle Nazioni Unite per poter instaurare relazioni diplomatiche con altri territori del Sud-Est asiatico. La riapertura del dialogo con la Cina comunista mise a repentaglio tutti questi impegni, in quanto anche se gli Stati Uniti misero al corrente Chang riguardo alla loro intenzione di riavere dei rapporti con la Cina di Mao perché questo era un elemento che rientrava nella politica delle open options, ora le richieste del governo nazionalista non potevano essere tutte indistintamente esaudite. Gli Stati Uniti dovevano rispondere anche alle condizioni della Cina comunista e, quindi, il problema consisteva nel cercare di soddisfare le aspettative di entrambi i governi senza venire meno alla parola data; se per la Cina il Mutual Defense Treaty non aveva alcun valore, per gli Stati Uniti rappresentava un impegno nei confronti di Taiwan che non doveva essere sottovalutato.

Con l'entrata della Cina comunista nelle Nazioni Unite secondo la soluzione albanese, la situazione si fece sempre più delicata: gli Stati Uniti avevano fatto di tutto per difendere il seggio di Taiwan, ma senza successo e, nonostante le promesse del governo statunitense di continuare a difendere gli interessi del governo nazionalista, Chang fece sapere, tramite Yupin, vescovo di Nanchino, di sentirsi tradito[151], perché andava contro la politica di difesa messa in atto dal governo americano fino a quel momento. Gli Stati Uniti, al contrario, anche dopo l'espulsione di Taiwan continuarono a difendere gli interessi del governo nazionalista permettendo che 150 cittadini, membri del servizio civile internazionale delle Nazioni Unite, non venissero dimessi dal loro incarico dalla Repubblica popolare e continuarono a sostenere l'economia del paese come dimostra il memorandum ad Henry Kissinger del Segretario Esecutivo Theodore L. Eliot, Jr del 2 novembre 1972. Nel memorandum veniva descritta la situazione economica di Taiwan un anno dopo la sua espulsione dalle Nazioni Unite e si sottolineava come Taiwan avesse incrementato il PIL dall'11% al 12% e come fosse riuscita, grazie al sostegno statunitense, ad imporsi anche nel mercato internazionale sia in Europa che in Giappone.




























CAPITOLO QUINTO




1972: L'anno del disgelo




Premessa



Il 1972 fu un anno ricco di avvenimenti importanti che suggellarono il definitivo riavvicinamento tra Stati Uniti e Cina. Il più importante tra questi fu la visita di Nixon in Cina e la conseguente stipulazione dell'accordo denominato Joint Communique.

La visita si svolse tra il 21 ed il 28 febbraio con l'approvazione di buona parte della popolazione americana. Nixon ed il suo consigliere Kissinger riponevano molte aspettative su questa impresa: da una definitiva soluzione dalla "questione di Taiwan" alla convivenza con le altre potenze nell'Asia, in particolare Unione Sovietica e Giappone. Per quanto riguardava la fine della guerra del Vietnam non c'era alcuna speranza dopo il fallito incontro con Le Duc Tho, il negoziatore del Vietnam del Nord, organizzato pochi giorni prima della partenza del leader americano.

Il risultato più importante dell'incontro tra Chou En-lai e Nixon fu la stipulazione del trattato che prese il nome di Joint Communique, ma più conosciuto come Shanghai Communique, dal nome delle città in cui venne redatto. L'accordo venne stilato il 27 febbraio e si basava sui cinque principi della "coesistenza pacifica" che avevano caratterizzato fin dall'inizio la politica di distensione americana nei confronti della Cina. Il Communique si basava sull'intenzione di entrambi i paesi di avviare dei rapporti sempre più stretti non solo di carattere economico, ma anche culturale, (scambi di visite da parte di scienziati e altri operatori, oppure esibizioni sportive sull'esempio del primo invito cinese della squadra di ping pong americana) e questi scambi culturali vennero facilitati dalla creazione di Uffici di Collegamento (Liason Office). Riguardo alla "questione di Taiwan" sia americani che cinesi manifestarono chiaramente le loro posizioni: i primi, ribadendo la loro estraneità nei confronti dei movimenti indipendentisti presenti nell'isola e affermando che, nonostante Taiwan fosse una parte della Cina, i rapporti con essa non si sarebbero modificati ed il Mutual Defense Treaty sarebbe rimasto valido. I secondi, sottolinearono che la liberazione di Taiwan era un problema del governo cinese e quindi non ci dovevano essere ingerenze esterne e ribadirono che l'isola era una provincia cinese chiedendo agli Stati Uniti il ritiro delle loro forze militari.

Con il trattato (Shangai Communique) tutto il panorama politico mondiale mutò radicalmente: alla guida del continente asiatico erano presenti ora quattro potenze, Stati Uniti, Cina, Giappone ed Unione Sovietica. Ciascuna di queste potenze aveva delle caratteristiche distinte sia dal punto di vista economico che militare ed i loro rapporti bilaterali erano definiti in termini di cooperazione e di competizione allo stesso tempo.

La visita di Nixon, oltre ad aver portato dei risultati più che soddisfacenti dal punto di vista diplomatico, fu anche un evento politico di grande importanza in quanto era la prima volta che un presidente americano faceva visita alla Cina. Questo portò a reazioni diverse da parte dei media e della popolazione locale.

Stanley Karnow, uno dei giornalisti che accompagnò Nixon durante il suo viaggio, descrisse le difficoltà da parte dei media di raccontare oggettivamente i fatti relativi alle vicende in Cina a causa, sia della poca conoscenza di quella realtà, sia delle difficoltà ad entrare nel paese dovute al vigente regime comunista. Solo dopo la "diplomazia del ping pong" la situazione andò migliorando, il governo cinese cominciò a rilasciare interviste con più facilità e ad accogliere i giornalisti americani. In occasione della visita di Nixon si cercò di evitare qualsiasi notizia sulla Cina che avrebbe potuto compromettere la riuscita del viaggio ed in generale gli articoli sulla vicenda erano poco specifici e inneggiavano alla mediazione tra i due paesi.

La reazione della popolazione locale differì a seconda della classe sociale di appartenenza: negli strati socialmente più alti la presenza del presidente americano venne vista in modo molto favorevole e venne anche riconosciuta l'importanza diplomatica dell'impresa; da parte della popolazione "ordinaria" la visita passò inosservata provocando lo sconcerto dello stesso presidente e della First Lady.



5.1. La visita di Richard Nixon nella Repubblica popolare cinese



Il 15 luglio 1971 Nixon annunciò, in una trasmissione televisiva, da Burbank, in California, il suo futuro viaggio verso la Cina programmato prima del maggio 1972, in risposta all'invito avuto dal premier Chou En-lai. Nel suo messaggio il presidente rese noto al pubblico il precedente viaggio di Kissinger, che fu determinante per arrivare a questo risultato, e precisò che l'iniziativa non doveva recare danno ad altre nazioni, ma essere d'aiuto per instaurare la pace, non solo per la generazione attuale, ma anche per le generazioni future[153].

Le reazioni alla notizia furono in generale positive in quanto, ciò che veniva considerato erano le future conseguenze che questa impresa avrebbe avuto a livello mondiale; Ray Peterson, nell'editoriale del The Chronicle del 22 luglio 1971, mise in evidenza come le implicazioni sarebbero state molteplici: una possibile pace in Indocina o il miglioramento delle condizioni di alcuni paesi dell'Asia e dell'Africa che temevano l' "imperialismo americano"[154].

La visita venne organizzata per la seconda settimana di febbraio, dal 21 al 28 febbraio 1972. Alla vigilia della partenza, Nixon e Kissinger tentarono l'ennesima iniziativa politica per porre fine al conflitto in Vietnam che non venne ricordata nemmeno nelle loro memorie perchè non andò a buon fine. Il 6 febbraio, per mezzo del canale diplomatico francese, il presidente ed il suo consigliere chiesero alla Cina di organizzare un incontro con Le Duc Tho, il negoziatore del Vietnam del Nord, in territorio cinese, che sarebbe dovuto avvenire durante la visita del presidente americano. Il governo degli Stati Uniti promise che, se questo fosse avvenuto, la situazione in Indocina sarebbe stata discussa con "giustizia e generosità"[155]. Dal punto di vista del presidente americano, un simile incontro si sarebbe potuto rivelare un'ottima strategia diplomatica che avrebbe dimostrato al mondo l'intenzione degli Stati Uniti di far terminare la guerra in Vietnam il più presto possibile.

Il tentativo fallì, il governo cinese rifiutò seccamente la richiesta proveniente dalla Casa Bianca sottolineando che esso sosteneva il Vietnam del Nord e non avrebbe spinto Hanoi a negoziare con gli Stati Uniti[156].

Più si avvicinava la data della partenza, più Nixon era cosciente del fatto che la sua politica di apertura nei confronti della Cina non avrebbe concretizzato uno degli obiettivi più importanti, ossia la fine della guerra in Vietnam. Il 15 febbraio, due giorni prima la sua partenza per la Cina, (prima di raggiungere Pechino avrebbe fatto delle tappe intermedie), Nixon annotò ciò di cui avrebbe voluto parlare con Chou riguardo al Vietnam:

V.Nam V.Nam

1.We are ending our involvement. 1.Termineremo il nostro personale coinvolgimento.

2.We had hoped you would help.    2.Abbiamo sperato che voi [gov.cinese] avreste voluto aiutarci

3.We must end it honorably. 3.Dobbiamo porre fine al conflitto con onore[157].


Il 18 febbraio durante la sua prima tappa nelle isole Hawaii, il presidente cercò di porre chiarezza nei suoi pensieri e schematizzando la situazione:


What they want Cosa vogliono:

1.Build up their world credentials.   1.Creare le loro credenziali mondiali.

2.Taiwan.   2.Taiwan.

3.Get U.S. out of Asia.  3.Mandare via gli Stati Uniti dall'Asia.


What we want Cosa vogliamo:

1.Indochina (?) 1.Indocina (?).

2. Restrain Chicom 2.Controllare l'espansione dei cinesi expansion in Asia. comunisti Asia.

3.Reduce threat of confrontation  3.Ridurre la minaccia di

by Chinese Super Power.   confronto con la superpotenza cinese.




What we both want Cosa entrambi vogliamo:

1.Reduce danger of confrontation   1.Ridurre il pericolo di un

and conflict.   confronto e di un conflitto.

2.A more stable Asia.  2.Un continente asiatico

più stabile.

3.A restrain on U.S.S.R.  3.Un controllo

sull'Unione Sovietica.


Kissinger ed altri consiglieri di Nixon diedero dei suggerimenti al presidente su come rivolgersi a Mao Tse-tung dato che nessun uomo politico americano aveva mai incontrato il presidente cinese da almeno un quarto di secolo. Sempre durante la sua sosta nelle Hawaii il presidente americano si annotò questi consigli:


Treat him (as Emperor)  Trattarlo (come un'imperatore)

1.Don't quarrell.   1.Non discutere.

2.Don't praise him (too much). 2.Non lodarlo (troppo).

3.Praie the people, art, ancient.    3.Elogiare le persone, l'arte, l'antichità.

4.Praise poems. 4.Lodare le poesie.

5.Love of country.    5.Amore per il paese.


Per Nixon il problema non era tanto Mao, quanto la strategia che avrebbe dovuto attuare durante la sua visita per ottener dei risultati soddisfacenti.

Cinque giorni dopo, mentre si stava preparando all'incontro con Chou En-lai, Nixon cercò di schematizzare ciò che avrebbe detto al premier cinese. La sua idea era quella di fare delle concessioni ai cinesi riguardo Taiwan, ottenendo però in cambio un aiuto per terminare la guerra in Vietnam:



Taiwan=Vietnam Taiwan=Vietnam.

1.Your people expect action     1.Il vostro popolo si aspetta

on Taiwan   un'azione su Taiwan.

2.Our people expect action on 2.Il nostro popolo si aspetta

Vietnam  un'azione sul Vietnam


La visita si svolse tra il 21 ed il 28 febbraio 1972 e l'evento fu di grande importanza in quanto era la prima volta che Nixon ed il premier cinese si incontravano faccia a faccia, perché tutto ciò che sapevano l'uno dell'altro era stato sempre filtrato da Henry Kissinger in persona. Per questo motivo, una volta giunto a destinazione, Nixon rese noto a Kissinger il suo desiderio di voler parlare una volta con Chou En-lai senza la sua presenza, ma, durante la permanenza del presidente in Cina , questo faccia a faccia non avvenne mai. Nixon e Kissinger avevano una particolare linea di condotta che avrebbero seguito nell'incontro che avrebbe coinvolto non solo i due paesi in questione, ma anche altri .

L'Unione Sovietica era senz'altro uno dei possibili argomenti di conversazione; Nixon schematizzò i principali obiettivi legati a questo paese:


Russia Russia:

1.Mantain balance of power.     1.Mantenere l'equilibrio di potere.

2.Restrain their expansion 2.Controllare la loro espansione

(if our interests are involved).   (se vengono coinvolti i nostri interessi).

3.Try to reduce tension between us.  3.Cercare di ridurre le tensioni tra di noi.

4.Make no deals with them we don't 4.Non fare alcun accordo con loro (i russi) che non abbiamo offerto

offer to you.   anche a voi (cinesi).

5.Will inform you on all deals.   5.Vi (ai cinesi) terremo informati su ogni accordo[163].


Attraverso questa presentazione, Nixon ed il suo collaboratore cercavano di

preparare la Cina ad un possibile accordo russo-americano sul controllo delle armi e tentare de far cessare le paure da parte del governo cinese sul fatto che gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica avrebbero potuto agire a danno della Cina stessa. Gli Stati Uniti assicurarono la Cina, dichiarando che avrebbero fatto di tutto per impedire una possibile invasione russa nei suoi territori, ma allo stesso tempo volevano cercare di migliorare i loro rapporti con la potenza moscovita. Il governo statunitense avrebbe posto i due paesi sullo stesso piano: ciò che sarebbe stato offerto all'uno, sarebbe stato successivamente offerto anche all'altro.

L' altra potenza che fece parte della politica decisa da Nixon e Kissinger fu il Giappone. Secondo il presidente americano era necessario che Stati Uniti e Cina agissero di comune accordo anche nei confronti dei paesi periferici alla Cina stessa.

Il Giappone fu l'argomento più delicato che venne affrontato. Il principale obiettivo di Nixon e del suo collaboratore era di preservare le basi americane, le loro truppe e la protezione nucleare in difesa del Giappone. I dispiegamenti in Giappone erano un mezzo, da parte statunitense, per rimanere nel continente asiatico anche dopo la fine della guerra in Vietnam[164]. Nixon era anche preoccupato del ritorno di Okinawa al Giappone; il governo nipponico aveva insistito riguardo la rimozione delle armi nucleari da Okinawa, nonostante avesse garantito agli Stati Uniti la possibilità di reinstallarle in caso di emergenza.

Il governo cinese era sempre stato fortemente contrario alla presenza americana in Giappone, ma ciò che temeva maggiormente erano le conseguenze che la crescita economica del paese avrebbe portato; esso temeva inoltre che il ritiro delle truppe statunitensi da Taiwan avrebbe potuto incoraggiare gli alleati giapponesi a stazionare con le loro forze nell'isola. L'unica soluzione per convincere la Cina della buona fede degli Stati Uniti era quella di assicurare al governo comunista che il governo americano avrebbe continuato a vigilare sul Giappone, tenendo sotto controllo sia il suo sviluppo militare sia la sua influenza politica nel continente asiatico.

Dagli appunti personali di Nixon si nota che la sua intenzione era quella di agire nell' interesse sia del Giappone sia della Cina e di controllare le mosse del primo perché era anche nell'interesse degli Stati Uniti di non voler perdere l'influenza che avevano raggiunto nel continente asiatico.

Seymour Hersh, nel suo libro Price of Power, sembra smentire le intenzioni di Nixon, in quanto sostiene che il presidente americano aveva minacciato più volte la Cina di lasciare il Giappone libero di sviluppare le armi nucleari se essa non avesse accettato la protezione statunitense nei confronti del Giappone. Nel libro si legge che Nixon disse ai suoi accusatori, in una testimonianza segreta nel giugno 1975, durante il Watergate, "Noi abbiamo raggiunto questo accordo con la Cina. le abbiamo detto che se ci avesse impedito di controllare i giapponesi, noi avremmo lasciati liberi questi ultimi di ampliare il loro arsenale nucleare. I cinesi risposero, 'Noi non lo vogliamo' "[165].

Hersh non trovò alcuna prova che potesse confermare che la minaccia contro la Cina fosse stata realmente lanciata anche la CIA non ebbe alcuna notizia certa al riguardo; ciò di cui si era sicuri era che anche gli Stati Uniti non erano così favorevoli a che il Giappone diventasse una potenza nucleare.

Nixon approfittò dell'incontro anche per affrontare temi molto più delicati quali il Vietnam e Taiwan. Le aspettative di Nixon e di Kissinger riguardo al Vietnam erano state già ridimensionate dopo il fallimento della missione del 6 febbraio, quando la Cina rifiutò di organizzare un incontro tra gli Stati Uniti e Le Duc Tho. " Ho detto che ho compreso pienamente i limiti dei nostri colloqui e che non mi sono fatto illusioni sul fatto di porre fine alla guerra del Vietnam"[166].

L'unica sicurezza che il governo cinese diede agli Stati Uniti è che esso non avrebbe mai agito come durante la guerra in Corea, ossia non avrebbe mai inviato truppe in Vietnam come fece negli anni '50; allo stesso tempo Chou chiese a Nixon e a Kissinger di ritirare le truppe dal Vietnam. Infine, il Premier cinese cercò di spingere Nixon ad eseguire il volere del suo governo prospettandogli la possibilità che il governo cinese avrebbe potuto trattare con i Democratici, i quali avevano già presentato alla Cina un piano per porre fine al conflitto. Più che una minaccia, questo per il governo americano, e in particolare per il presidente, doveva essere una sorta di avvertimento: che non pensasse di essere venuto in Cina per ricevere aiuto dalla stessa per la fine del conflitto perché anche la Cina aveva i suoi interessi da mantenere[167].

Taiwan fu l'aspetto più difficile. Esso rappresentava l'argomento di rottura tra le due parti, il quale non venne trattato, privatamente, tra Nixon e Chou En-lai, ma sarebbe stato comunque anche citato formalmente nel trattato che si sarebbe sottoscritto alla fine della visita: lo Shanghai Communique. Kissinger iniziò a lavorare su questo progetto già in ottobre quando era ritornato a Pechino, dopo la sua prima visita a luglio, per organizzare la visita di Nixon e, in quell'occasione, Kissinger era solito dire al vice Ministro degli Esteri Quiao Guanhua, dopo le estenuanti sessioni di conversazioni, che avvenivano una volta terminata la cena, "Dopo una cena con il pollo alla pechinese non si poteva non essere d'accordo su tutto"[168].

Nixon fu in grado di andare ben al di là di ciò che poi verrà definito dal trattato. I suoi obiettivi riguardo Taiwan e ciò che era disposto ad offrire alla Cina erano chiari:


Taiwan Taiwan:

1.Taiwan is part of China.  1.Taiwan è parte della Cina.

2.Won't support Taiwan 2.Non sosterremo l'indipendenza

indipendence. di Taiwan.

3.Try to restrain Japan.    3.Tentare di tenere sotto controllo il Giappone.

4.Support peaceful resolution.  4. Sostenere risoluzioni pacifiche.

5.Will seek normalization.    5.Cercheremo la normalizzazione.


Come si può notare gli Stati Uniti, dopo l'entrata della Cina nelle Nazioni Unite, sostennero sempre che Taiwan era parte della Cina e ribadirono la completa estraneità agli atti indipendentisti nell'isola. Il governo cinese ribadiva anche il desiderio di veder ritirate le truppe statunitensi dalla regione, preferibilmente entro un termine preciso, e gli Stati Uniti posero una condizione al ritiro, ossia che questo sarebbe dovuto avvenire alla fine della guerra del Vietnam, cercando in questo modo di sollecitare una reazione nel governo cinese. Gli americani speravano anche che si raggiungesse una soluzione pacifica per quanto riguarda Taiwan in modo da impedire che la Cina potesse riconquistarla con la forza.


5.2. Lo "Shanghai Communique"



La "settimana che cambiò il mondo", come venne definita a posteriori, ebbe come principale risultato la stipulazione del trattato denominato Joint Communique meglio conosciuto come Shanghai Communique, perché venne firmato a Shanghai tra il 27 ed il 28 febbraio 1972 da Nixon e dal Premier Chou En-lai.

Secondo la Comunità Internazionale, un accordo alla fine di un incontro internazionale rappresenta o una dichiarazione sul fatto che si è raggiunta un'intesa tra le parti coinvolte, o un'espressione di cordialità e di reciproca collaborazione, o un impegno a cercare di porre soluzioni pacifiche per risolvere delle incomprensioni tra le parti. Questi tipi di trattati non sono vincolanti come quelli formali ratificati secondo i processi costituzionali dei rispettivi paesi né sono vincolanti come gli accordi esecutivi.

Lo status legale dello Shanghai Communique si presenta in modo ancora più mutevole. In questo tipo di trattati, che hanno più l'aspetto di un comunicato, nessuna delle due parti può ritenere l'altra responsabile degli impegni presi se questa, per qualsiasi ragione, decide di non onorarli.

La fine di un accordo formale non può avvenire se non con l'uso di metodi che sono in linea con i termini del trattato stesso; attraverso ad esempio accordi taciti o espliciti tra le parti; a causa della violazione dei presupposti dell'accordo da parte di una delle parti; per volere di uno dei contraenti quando questa ritenga che i termini dell'accordo siano stati cambiati; a causa dell'inserimento di una nuova norma che può essere in conflitto con il trattato; infine, il trattato formale può venir meno qualora siano cessate le ostilità tra le parti coinvolte[169].

Il contenuto dello Shanghai Communique[170] mostra i differenti punti di vista di America e Cina e le loro essenziali differenze nell'ambito del sistema sociale e della politica estera. Esso si basa su "i cinque principi sulla pacifica coesistenza", che fecero sempre parte della condotta politica americana nei confronti della Cina . Sulla base di questi principi, Cina e Stati Uniti dichiararono:


il progresso verso la normalizzazione delle relazioni tra Cina e Stati Uniti è nell'interesse di tutte le nazioni;


entrambi desiderano ridurre il pericolo di conflitti militari internazionali;


nessuno dovrebbe cercare di instaurare un potere egemone nell'Asia e ciascuna parte si oppone agli atti compiuti da qualsiasi altra nazione o gruppi di nazioni per stabilire questa egemonia;


nessuno è preparato a negoziare in nome di una terza nazione o fare accordi con altre nazioni[172].


Per quanto riguarda la cosiddetta "questione Taiwan", entrambe le parti manifestarono chiaramente le loro rispettive posizioni. La Repubblica popolare cinese dichiarò:


La questione di Taiwan è una questione cruciale che impedisce la normalizzazione dei rapporti tra Cina e Stati Uniti, il Governo della Repubblica popolare cinese è l'unico governo legale della Cina. Taiwan è una provincia della Cina che è ritornata a far parte della madrepatria; la liberazione di Taiwan è un problema interno alla Cina nel quale nessun' altra nazione ha il diritto di interferire; e tutte le forze e le installazioni militari statunitensi devono ritirarsi da Taiwan. Il governo cinese si oppone fermamente a qualsiasi attività che ha lo scopo di creare "una sola Cina, una sola Taiwan";"una sola Cina, due governi"; "due Cine" e "una Taiwan indipendente" o afferma che "la status di Taiwan debba ancora essere determinato[173].


Gli Stati Uniti dichiararono sulla "questione Taiwan" quanto segue:


Gli Stati Uniti riconoscono che tutti i cinesi che si trovano in ciascuna parte dello Stretto di Taiwan affermano che esiste una sola Cina e che Taiwan è una parte della Cina. Il governo degli Stati Uniti non mette in dubbio questa posizione. Esso ribadisce il proprio interesse affinché la questione di Tawain venga risolta pacificamente dal governo cinese. Con questi presupposti, il governo statunitense rende nota l'intenzione di ritirare le truppe e le installazioni militari da Taiwan. Allo stesso tempo, ridurrà progressivamente la presenza delle proprie forze ed installazioni militari da Taiwan quando le tensioni nell'area diminuiranno[174].


La nuova formula che venne utilizzata nello Shanghai Communique riguardo Taiwan fu presa in prestito da ciò che il Dipartimento di Stato americano aveva redatto due anni prima in preparazione dei colloqui di Varsavia[175].

Il Dipartimento di Stato, volontariamente tenuto all'oscuro da Nixon e Kissinger sulle trattative in corso a Pechino, manifestò il suo dissenso riguardo a quello che sarebbe poi stato il Communique; in quanto il trattato citava esplicitamente impegni che gli Stati Uniti si erano presi nei confronti del Giappone, della Corea del Sud e con le Filippine, ma non menzionava simili accordi con Taiwan. Rogers e Green sottolinearono che molti nativi di Taiwan non erano d'accordo sul fatto che Taiwan fosse parte della Cina. Il Dipartimento di Stato discusse, inoltre, sul linguaggio utilizzato nella formula propositiva del Communique in cui si leggeva che "i cinesi di ciascuna parte dello Stretto di Taiwan", (invece che "tutti i cinesi"), erano d'accordo sul nuovo status di Taiwan. Essi non avevano la possibilità di sapere, incalzarono Rogers e Green, che Nixon e Kissinger erano andati ben oltre nelle loro concessioni ammettendo che Taiwan fosse parte della Cina e opponendosi all'indipendenza dell'isola. Dopo estenuanti trattative gli Stati Uniti riuscirono a stilare il trattato riguardo a Taiwan secondo l'espressione più gradita al Dipartimento di Stato, anche se il governo cinese non volle cambiare la sua posizione. Nello Shanghai Communique definitivo, infatti, si fece riferimento a "tutti i cinesi".

Il trattato faceva riferimento anche a specifici accordi riguardo l'espansione commerciale e la promozione di scambi culturali e scientifici tra i due paesi, i cui la politica del people to people ha la sua maggiore espressione.

Un'immediata conseguenza della visita di Nixon in Cina fu la riduzione del personale militare americano tanto che nel 1976 le truppe rimanenti in Quemoy e Matsu sarebbero state definitivamente richiamate; tuttavia il coinvolgimento militare americano nei confronti della Repubblica nazionalista continuò ulteriormente.

Dal punto di vista economico gli investimenti statunitensi aumentarono, garantiti soprattutto dai gruppi di investimento d'oltremare e da altre agenzie autorizzate dalla Banca di Import-Export degli Stati Uniti. Per quanto riguarda il mantenimento dei rapporti con Taiwan, gli Stati Uniti accolsero molte missioni commerciali provenienti dalla Repubblica nazionalista, che portarono ad incrementare le esportazioni e le importazioni dell'isola.

Gli Stati Uniti avevano sempre manifestato la loro volontà di mantenere ottimi rapporti con Taiwan e, da ciò che si può dedurre dai risultati registrati dopo il Communique, il governo statunitense mantenne le sue promesse: venne preservata la validità del Mutual Defense Treaty e venne espressa la volontà di risolvere la questione di Taiwan in modo risoluto, ma pacifico[176].

Nell'ambito degli scambi culturali, numerosi dottori e scienziati americani visitarono la Cina e viceversa; vennero favoriti anche i contatti scolastici tra i due paesi e, sulla base della prima visita della squadra di ping pong americana in Cina, gruppi di acrobati provenienti dal Shenyang Acrobatic Troupe si esibirono nelle maggiori città americane .

La vera vittoria di Nixon consisteva nell'essere riuscito ad intrecciare rapporti più costruttivi con la Cina comunista, senza che questo andasse a ledere il legame persistente con Repubblica nazionalista di Taiwan. A differenza di altri paesi come il Canada, il Giappone e la Francia, i quali furono costretti a chiudere le ambasciate taiwanesi se volevano mantenere i rapporti con la Cina, gli Stati Uniti non si piegarono mai al volere di Mao e, anzi, il presidente cinese fu costretto ad accettare la creazione di "Liason Office" a Washington, mentre Taiwan manteneva la sua ambasciata.

La creazione del "Liason Office" avvenne durante la visita di Kissinger a Pechino nel 1973. Nixon era stato appena eletto per la seconda volta presidente e la guerra in Vietnam si era conclusa con gli accordi di Parigi. In questo clima più rilassato Kissinger e Chou organizzarono una serie di incontri che portarono i due paesi ad essere ancora più uniti. In uno dei suoi memorandum segreti al presidente, Kissinger scrisse:


Viviamo una situazione straordinaria, la Repubblica popolare cinese sarà sempre più vicina a noi. Nessun leader mondiale ha lo stessa immaginazione di Mao e Chou, né la capacità e la volontà di perseguire una politica di così ampio raggio[178].


Nei loro incontri, Kissinger ribadì al leader cinese le rassicurazioni fatte da Nixon l'anno precedente, ossia che gli Stati Uniti non avrebbero sostenuto Taiwan ed avrebbero tenuto sotto controllo il coinvolgimento giapponese con i fatti che riguardavano l'isola. L'assistente del presidente andò anche oltre, promettendo al premier cinese che ulteriori passi per la normalizzazione dei rapporti sarebbero stati compiuti dopo il 1974 e sarebbero continuati anche nel 1976[179].

Anche durante questa visita ci furono dei risultati concreti: la Cina propose che nelle capitali dei due paesi si installassero degli Uffici di Collegamento per far sì che funzionari cinesi potessero lavorare a Washington e quelli americani a Pechino. I risultati superarono di gran lunga le aspettative e Kissinger, ne informò subito il presidente:


Dal [luglio, 1971] abbiamo progredito molto più velocemente e con più continuità di quanto chiunque avrebbe potuto predire, o di quanto il resto del mondo avrebbe potuto fare. In poche parole, abbiamo iniziato degli accordi taciti[180].


Il termine tacit allies tradotto come "accordi taciti" riassume il nuovo tipo di relazioni che si vennero a creare tra Washington e Pechino, erano alleanze, mai rese note formalmente, né agli americani né al resto del mondo.


Il "Liason Office", o Ufficio di Collegamento, aprì pochi mesi dopo il Communique del 23 febbraio; venne capeggiato dall'ambasciatore David Bruce e venne composto da giovani sino-americani del Dipartimento di Stato che avevano diversi compiti, sia importanti che mondani[181].

Gli Uffici di Collegamento rappresentarono il primo passo per la costruzione delle infrastrutture che servivano da base per il commercio tra Stati Uniti e Cina, visti gli sviluppi che si erano avuti dopo il Communique.

Alla fine del 1972, il Dipartimento del Commercio istituì il Bureau of East-West Trade, al fine di focalizzare in modo più approfondito i problemi legati alle monolitiche corporazioni commerciali estere. Lo sforzo principale di questo Ufficio fu la creazione National Council for United States-China Trade, una corporazione privata che non aveva scopo di lucro. Secondo la personale descrizione fatta dallo stesso Consiglio:


Il National Council fornisce gli elementi fondamentali per l'inizio dei contatti commerciali tra i due paesi inclusi quelli con il China Council for the Promotion of International Trade (CCPIT) e le agenzie commerciali della Repubblica popolare cinese. Promuove la divulgazione di informazioni commerciali per i membri interessati delle comunità commerciali degli Stati Uniti e delle corporazioni della Repubblica popolare cinese. Il National Council costituirà un forum per la discussione dei problemi del commercio dove possono essere intraprese attività che favoriscano il commercio, la cooperazione economica ed altre relazioni tra le imprese degli Stati Uniti e le appropriate entità della Repubblica popolare cinese.

Il National Council organizzava visite con il CCPIT; sponsorizzava le visite commerciali delle missioni commerciali e di altre delegazioni specializzate statunitensi; assisteva gli uomini d'affari ad ottenere degli incontri in Cina; aiutava le missioni cinesi e le delegazioni speciali nelle loro visite negli Stati Uniti; forniva alla Cina i dati relativi all'economia americana, alle fiere, alle esibizioni, alle associazioni commerciali ed industriali e alle leggi e ai regolamenti pertinenti.



5.3. La reazione della popolazione locale



Nonostante fosse passata un'intera generazione di isolamento e di contro-propaganda, la prima volta che gli americani arrivarono in Cina, trovarono un territorio ospitale.

I più di 300 americani tra ufficiali, tecnici e corrispondenti, che accompagnarono il presidente Nixon e la First Lady, vennero guardati dai cinesi, che si riversavano nelle strade al loro passaggio, con indifferenza mista a curiosità e a divertimento. Durante il vero e proprio incontro con il presidente americano, Mao e Chou furono molto cordiali con Nixon e Kissinger nonostante le passate incomprensioni e le differenze che caratterizzavano le due parti.

Le reazioni cinesi rispetto all' "invasione" americana differivano a seconda dello stato sociale e si possono suddividere in quattro categorie:


Al livello più alto, il presidente Mao accolse Nixon nella sua abitazione solo tre ore e mezza dopo il suo arrivo a Pechino e permise alle televisioni cinesi di filmare la scena. Dopo che il presidente cinese diede la sua benedizione alla visita ufficiale del Capo di Stato americano, le iniziali reazioni poco espansive lasciarono il posto ad un'effusiva cordialità e ad un grande interesse da parte della stampa cinese. Durante la settimana di visita si inneggiava al "culto del presidente Nixon" e il suo nome e la sua immagine apparvero giorno dopo giorno nelle prime pagine del People's Daily[182].


Ad un livello più basso, i rappresentanti del Primo Ministro, le guide e gli interpreti, che dovevano aiutare sia Mao che Nixon, erano gentili e generalmente efficienti, ma allo stesso tempo sembravano irritati a causa del modo di lavorare disorganizzato e pieno di pretese della stampa americana.


Un terzo tipo di reazione venne osservato tra i "cittadini ordinari", i quali erano stati precedentemente informati sul fatto che sarebbero entrati in contatto, sebbene per poco, con una realtà diversa dalla loro. Essi erano operai, contadini, insegnanti, studenti ed altre persone simili a quelli che erano stati scelti per guidare il presidente Nixon e sua moglie in giro per la città. Tutta questa gente si dimostrò molto gentile ed amichevole, presentava tutti gli americani fossero degli amici[183].

La maggior parte dei cinesi erano restii a farsi fotografare tranne quelli che erano ben vestiti e già predisposti a voler essere ritratti con il presidente lungo la Grande Muraglia, o nelle Tombe dei Ming o nel parco di Hangchow.


Venivano infine la reazione dei veri "cinesi comuni", della massa. Quando veniva chiesto loro che cosa ne pensavano della visita di Nixon nel loro paese essi rispondevano che se era questo il volere del loro presidente, allora anche loro erano d'accordo.

Questa reazione passiva ed indifferente sull'evento che, per gli americani, era il più sensazionale di tutta la storia, si rispecchiava anche nel comportamento delle persone nelle strade e nei negozi intente nelle loro faccende quotidiane.

Quando il presidente e la First Lady visitarono le Tombe dei Ming alcuni cinesi li fissarono a lungo, ma altri continuarono la loro passeggiata o le loro attività senza mostrare alcun interesse particolare. Nixon rimase disorientato da questo comportamento, abituato alle innumerevoli domande da parte dei russi o degli abitanti dell'Europa orientale durante le sue precedenti visite ufficiali



5.4. La reazione dei media



Secondo l'opinione di Stanley Karnow, uno dei giornalisti che accompagnò Nixon durante la sua visita in Cina, i "reportages" americani non avevano esaltato l'importanza della Cina e della sua evoluzione storica. Dalla nascita della Repubblica popolare i media avevano generalmente modificato il loro punto di vista per adattarlo al momento che dovevano descrivere .

Scorrendo gli articoli giornalistici dal 1950 in poi, sembrava che questi mancassero di equilibrio e di obiettività, avendo nel passato frequentemente esaltato il regime comunista passato, ora si aveva l'impressione che si fossero mossi nella direzione opposta, descrivendo il governo cinese in termini oltre modo positivi. L'aspetto pericoloso di questa situazione venne sottolineato da Doak Barnett, membro del Brookings Institution, che disse: "le illusioni a fin di bene . lasciano maggior posto ai fraintendimenti" . Il rischio che si correva era quello di sostituire un pregiudizio con un altro, limitando la possibilità di percepire la vera realtà.

Gli stessi cinesi contribuirono significativamente a limitare le opinioni degli americani sul proprio paese: per molti anni il governo comunista non permise a giornalisti americani, alcuni dei quali si trovavano ad Hong Kong di entrare nel paese. La colonia britannica considerata una sorta di osservatorio dal quale cercare di farsi un'idea sulla realtà cinese, ma non permetteva certo di carpirne la sua vera essenza. E' necessario a questo punto fare una precisazione. Se i cinesi frenarono in un certo qual modo la possibilità statunitense di avere una visione oggettiva della Cina, è anche vero che la stampa americana ebbe comunque le sue manchevolezze. Karnow attribuiva ciò a due fattori precisi: in primo luogo i media e l'opinione pubblica condividevano un sentimento duplice nei confronti della Cina, d'amore e di odio che li portava alcune volte ad eccedere con le dimostrazioni di affetto ed altre con quelle di ostilità; in secondo luogo entrambi condividevano una profonda ignoranza verso la realtà cinese che li portava spesso a ridurre il loro scetticismo ed ad aumentare la loro ingenuità.

Nessun americano fu più vicino alla Cina ed ai suoi leaders di quanto lo fu Edgar Snow. Snow viaggiò intensamente in Cina ed ebbe accesso a molti luoghi ufficiali, che erano proibiti agli stranieri e non notò alcuna tensione nel partito comunista contrariamente a quanto riportavano i quotidiani americani. Nel suo libro The Other Side of the River, pubblicato nel 1962, sottolineò come l'ignoranza era di casa non solo tra coloro cui era vietato entrare nella Repubblica popolare, ma anche fra i responsabili delle testate che non formavano o assumevano degli specialisti in grado di conoscere approfonditamente la realtà comunista . Solo pochi giornalisti avevano familiarità con la lingua cinese ed erano al corrente sulla storia cinese antica e moderna; gli specialisti erano frequentemente guardati con sospetto. Ad esempio, a Hong Kong, un corrispondente che parlava un fluente cinese e avere una buona conoscenza della realtà locale venne screditato dal suo editore accusandolo di non poter ricoprire altri ruoli in altri paesi.

Questo episodio dimostra il poco interesse che i media avevano nei confronti della Cina. Essi furono maggiormente coinvolti dalle vicende cinesi durante la rivoluzione culturale o quando il presidente americano Nixon decise di visitare la capitale.

Prima del disgelo gli americani sentirono l'esigenza di conoscere di più riguardo la cultura cinese; nel suo libro The American People and China, Steele nomina numerosi editori, lettori di quotidiani e utenti televisivi che desideravano ricevere informazioni più oggettive e precise sulla Cina[187].

L'episodio che modificò la situazione fu l'invito della squadra americana di ping pong a visitare la Cina nell'aprile del 1971; i cinesi cominciarono a rilasciare il visto ai giornalisti americani per pubblicizzare il tour della squadra e allo stesso tempo, autorizzarono Edgar Snow a pubblicare su Life un'intervista a Mao Tse-tung, in cui dichiarava il suo desiderio di accogliere il presidente Nixon nel suo paese . Poco tempo dopo, Nixon, ad un incontro tra editori a Washington, manifestò il proprio entusiasmo alla proposta del presidente cinese; in questa occasione i media furono usati, da entrambe le parti, per promuovere il loro futuro incontro.

Più volte si è ripetuto che, per migliorare le relazioni con la Cina, gli Stati Uniti avevano sempre agito seguendo due alternative: ufficialmente o seguendo una via diplomatica più segreta, come la visita di Kissinger nel luglio 1971 a Pechino. Dopo il ritorno di Kissinger ed il successivo annuncio da parte di Nixon di una sua futura visita al presidente Mao, vennero scelti molti giornalisti americani che iniziarono ad entrare in Cina, ed il tono dei loro articoli differiva radicalmente da ciò che veniva scritto prima di questi eventi. Il New York Times, se tempo prima definiva il governo della Cina comunista come il "regime più totalitario del 20° secolo" , ora pubblicava articoli affermando che la dottrina del presidente Mao aveva "spinto la Cina in una continua rivoluzione che sta producendo una nuova società comunista".

Tale era l'importanza della visita di Nixon in Cina che si evitò di fare qualunque commento che potesse compromettere la visita. Questa tendenza al silenzio e alla mediazione era dovuto alla possibilità da parte del governo cinese di cancellare la visita, qualora avesse ipotizzato un'interferenza da parte degli Stati Uniti negli affari interni del paese.

Il presidente era seriamente preoccupato a causa della stampa ed in particolare della televisione, che lo avrebbe seguito durante lo svolgersi di tutta la sua visita, perchè era cosciente dell'impresa senza precedenti che avrebbe compiuto e del conseguente impatto che avrebbe avuto sull'opinione pubblica statunitense.

Nonostante gli sforzi fatti dal governo americano per far accettare a quello cinese un cospicua rappresentanza televisiva durante la visita del presidente, il ruolo compiuto dai mezzi di informazione, durante questa viaggio, non portò ad importanti conseguenze. Alcuni giornalisti accusarono il presidente Nixon ed i cinesi di esercitare un controllo troppo stretto sui media e di impedire loro di agire liberamente.

I quotidiani ed i settimanali considerarono la visita come un'occasione per inviare i propri corrispondenti dalla Casa Bianca piuttosto che degli specialisti nel settore. I soli giornalisti che, durante la visita, si concentrarono solo sugli affari del governo cinese furono Henry Bradsher del Washington Star, R.H. Shackford dello Scripps-Howard Chain, Robert Keatley del Wall Street Journal e Stanley Karnov del Washington Post; gli altri trattarono l'episodio solo come " evento spettacolare", essendo stati affascinati più dalle apparenze che della realtà[190].



5.5. La reazione di Mosca alla visita di Nixon a Pechino



Il principale obiettivo degli Stati Uniti era sempre stato quello di migliorare i rapporti con la Cina comunista, senza che questo fosse andato a discapito di un eventuale avvicinamento diplomatico con l'Unione Sovietica. Proprio per questo motivo il governo statunitense aveva cercato di tenere il Cremlino il più all'oscuro possibile riguardo la sua politica di apertura con la Cina, tentando anche di minimizzare i risultati fino a quel momento ottenuti.

L'Unione Sovietica era convinta ad esempio che gli Stati Uniti non avrebbero mai rinunciato a Taiwan o alla politica delle "due Cine"[191], come era convinta che la politica commerciale basata sull'abolizione dell'embargo fosse solo un modo, da parte del governo statunitense, di promuovere l'industrializzazione nella Repubblica popolare cinese.

Sulla base di queste convinzioni, all'annuncio della visita di Nixon a Pechino il governo moscovita reagì in modo sorpreso e preoccupato allo stesso tempo. Esso temeva che l'avvicinamento dei due paesi rappresentasse una minaccia per il suo governo, nonostante Nixon avesse più volte ribadito nel suo annuncio formale che non avrebbe fatto nulla che avrebbe potuto ledere gli interessi di altre nazioni.

Il governo sovietico manifestò il suo dissenso anche nei confronti dello Shanghai Communique, in particolare per il linguaggio utilizzato e per alcuni passaggi; ad esempio la parte che asseriva che sia la Cina sia gli Stati Uniti si "opponevano agli sforzi compiuti da altre nazioni o gruppi di nazioni per instaurare l'egemonia nelle regioni dell'Asia", trovava l'Unione Sovietica in forte disaccordo in quanto sembrava confermare i timori sovietici su una possibile ingerenza sino-americana in Asia e, forse, anche altrove. Questa preoccupazione iniziale spinse i sovietici a porre maggior attenzione nelle loro dichiarazioni pubbliche riguardo alle loro proposte sull' impiego di metodi per la "sicurezza collettiva" in Asia[192], che Washington aveva a lungo definito come un mezzo da parte dei sovietici per estendere la loro influenza nell'area.

Nel complesso è possibile notare come l'Unione Sovietica, all'inizio, si sentì fortemente minacciata dall'incontro tra Nixon e Chou En-lai e dagli effetti che una più approfondita cooperazione tra Stati Uniti e Cina avrebbero potuto avere nei confronti dei suoi interessi, ma poi decise di sfruttare la possibilità di creare contatti bilaterali costruttivi tanto con la Cina quanto con gli Stati Uniti. L'interesse dell'Unione Sovietica era infatti quello di non rimanere isolata e di sfruttare il desiderio statunitense di mantenere i rapporti con la potenza sovietica dimostrando, così, la sua imparzialità nei confronti dei due giganti comunisti.



5.6. La creazione di nuovi equilibri dopo lo Shanghai Communique



L'immediata conseguenza dello Shanghai Communique, fu simbolica, ma fu subito seguita da passi concreti per il miglioramento delle relazioni tra Cina e Stati Uniti. Dopo la costituzione degli Uffici di Collegamento seguirono la normalizzazione dei rapporti sino-giapponesi. Pechino moderò in modo decisivo la sua cattiva propaganda nei confronti della rimilitarizzazione del Giappone e mostrò, attraverso vari canali, il suo desiderio di discutere sulla possibile formalizzazione dei rapporti con i successori del primo Ministro Sato. Quando Kaukei Tanaka sostituì Sato alla guida del Giappone come Primo Ministro nel 1972, venne organizzato un incontro a Pechino con Chou En-lai nel corso del quale venne stilato un accordo tra i due paesi, nominato Chou-Tanaka Statement, con il quale la potenza nipponica chiuse ufficialmente i suoi rapporti con Taiwan per stabilire relazioni diplomatiche con la Cina. Le conseguenze di questi eventi furono immediate in quanto tutte le potenze in Asia si trovarono obbligate a riorganizzare la loro politica e le loro posizioni nel continente.

L'Unione Sovietica, ad esempio, non continuò solamente a rafforzare le sue posizioni militari in Asia, ma cercò anche di incrementare le sue attività economiche e politiche per cercare di competere con la Cina. Mosca dimostrò di essere più flessibile nei confronti degli Stati Uniti e del Giappone. Nel 1972 venne organizzato nella capitale sovietica un incontro con Nixon nel corso del quale i russi si dimostrarono favorevoli all'adozione di nuove misure di controllo sugli armamenti e vollero definire un piano politico per rendere più assidui gli scambi commerciali tra le due potenze. Nei confronti del Giappone, furono intensificati gli incontri per la formazione di attività commerciali di scambio in Siberia; dal punto di vista diplomatico si profilava la possibilità di stipulare un trattato di pace formale.

L'effetto principale dell'accordo tra Stati Uniti e Cina fu quello di accelerare il processo di cambiamento che in Asia era iniziato già negli anni '60 e permettere così a tutte le nazioni di adattarsi alla presenza di quattro potenze nel territorio: Cina, Stati Uniti, Unione Sovietica e Giappone.

Le quattro potenze sopra nominate, che erano le protagoniste della politica e dell'economia asiatica, avevano caratteristiche distinte. Dal punto di vista militare erano presenti due super potenze (Stati Uniti ed Unione Sovietica), una potenza nucleare emergente (la Cina), ed una nazione (il Giappone) che era ancora povera in termini militari.

Dal punto di vista economico la situazione era molto diversa. Tre delle potenze erano economicamente molto avanzate (Stati Uniti, Unione Sovietica e Giappone), mentre una (la Cina) poteva essere considerata ancora in via di sviluppo; il Giappone, che militarmente era la più debole, era in ascesa dal punto di vista economico. Politicamente l'influenza dei quattro paesi variava: Stati Uniti e Cina esercitavano una forte pressione nella regione asiatica, mentre Giappone ed Unione Sovietica ricoprivano un ruolo secondario.

Un'altra caratteristica della nuova situazione di equilibrio che era venuta a crearsi, era la diversa qualità dei rapporti bilaterali che si erano formati tra i paesi in questione: gli Stati Uniti e il Giappone erano legati da un patto di sicurezza reciproca, la Cina e l'Unione Sovietica erano chiusi in confronto ostile e gli altri rapporti bilaterali, (Stati Uniti - Unione Sovietica; Stati Uniti - Cina; Cina - Giappone e Giappone - Unione Sovietica) erano definiti da cooperazione e competizione allo stesso tempo.

Ciò che emergeva era un nuovo panorama multipolare in cui il ruolo di ciascuna parte era estremamente importante e la pace e la stabilità dipendevano dal grado di interazione tra le potenze.











C







APITOLO SESTO




La distensione sino-americana ed il conflitto indocinese


Premessa



La guerra del Vietnam ebbe un impatto distruttivo sulla politica, sullo spirito e sul senso di unità degli americani.

Con la conferenza di Ginevra del 1954 si segnò la conclusione della guerra di liberazione indocinese dalla dominazione coloniale francese e gli accordi che ne derivarono stabilirono la ritirata della truppe francesi dall'Indocina, l'accessione all'indipendenza dei tre stati che la componevano: Laos, Cambogia e Vietnam. Per quest'ultimo governo venne stabilito che, fermo restando il principio dell'unità, integrità ed indipendenza, esso sarebbe stato diviso in due parti in attesa di una libera consultazione sul futuro politico vietnamita. I due rispettivi governi sarebbero stati il Vietnam del Nord formato dai Viet Minh, ossia gli indipendentisti dominati dall'influenza comunista ed il Vietnam del Sud anticomunista. La linea di confine tra i due territori sarebbe stato il 17° parallelo. Nessuna delle due parti in cui il Vietnam era stato diviso rispettò gli impegni sottoscritti, i comunisti di Hanoi ed il governo filoamericano con sede a Saigon non fecero altro che rafforzare le rispettive posizioni. La permanenza della separazione tra i due stati portò al riaccendersi della lotta, portando l'infiltrazione delle forze nazionaliste (o nord-vietnamite) nel sud e successivamente all'escalation dell'intervento americano. Gli Stati Uniti parteciparono al conflitto in Vietnam al tempo dell'amministrazione Kennedy con 16.000 consiglieri, l'idealismo ed il senso di dover compiere una missione, cosa che aveva prodotto un attivismo straordinario. Si pensava che l'aggressione comunista fosse la punta di diamante di un'ideologia omogenea guidata da un blocco sino-sovietico monolitico.

L'amministrazione Johnson aveva aumentato gradualmente l'impegno ed inviato più di 500.000 uomini americani nelle giungle inospitali dell'Asia sud-orientale per combattere quello che riteneva il test di una teoria della guerra rivoluzionaria diretta da Mosca e da Pechino[193].

Una volta impegnate le forze americane, l'unico obiettivo logico e valido era quello di vincere. Le amministrazioni Kennedy e Johnson, intrappolate tra le loro convinzioni e le loro inibizioni, si impegnarono in misura tale da mettere a repentaglio la posizione degli Stati Uniti a livello mondiale, data la confusione che regnava nel paese in quegli anni. Il conflitto vietnamita, infatti, divenne il tema dominante della vita sociale americana e scosse gli Stati Uniti in profondità, mettendo a dura prova i valori originari della convivenza americana, il carattere "libero e liberale" della politica americana; il senso dell'azione americana nel mondo.

Tutto ciò si ripercosse su ogni aspetto della vita americana: dai mass media (la televisione portò per la prima volta, in ogni casa, l'immediata e cruda realtà delle distruzioni di guerra), alla letteratura, alla vita accademica, alla ricerca scientifica. Erano questi gli anni dell'esasperazione antiamericanista degli americani stessi. Essa era un movimento di rivolta partito dai ghetti neri e soprattutto dai campus universitari, che mise in discussione le tradizioni ed i luoghi comuni dell'American way of life[194].

Questo fu lo scenario che si trovò Nixon quando nel 1969 venne eletto per la prima volta presidente e la necessità di terminare la guerra con onore diventò una realtà.

La formula che Nixon lanciò per il Vietnam era apparentemente semplice perché questa si risolveva in una parola: "vietnamizzazione"del conflitto, cioè disimpegno americano senza rinuncia agli obiettivi politici. Il termine aveva un contenuto implicito: vietnamizzare significava diminuire il peso dell'intervento americano ed avviarsi verso un accordo di pace che metabolizzasse la sconfitta dei progetti nutriti in particolare dai suoi due predecessori, Johnson e Kennedy.

La vietnamizzazione non doveva essere l'unico mezzo, secondo Nixon, per porre termine al conflitto, ma era necessaria anche una seconda mossa politica che avrebbe portato al definitivo isolamento delle forze vietnamite comuniste in un ambiente geografico ostile in cui l'unica forza amica era l'India. Questa seconda mossa fu la politica di distensione nei confronti della Repubblica popolare cinese che culminò con la visita del presidente nel 1972.

La vietnamizzazione ottenne il risultato sperato da Nixon. Infatti, dopo una serie di rinvii dovuti ad esitazioni sia da parte del Vietnam del Nord sia sa parte del Vietnam dl Sud, venne siglato il 27 gennaio 1973, nella conferenza di Parigi, il trattato di pace che pose fine alla guerra del Vietnam. Gli accordi firmati dal Segretario di Stato americano e dal Ministro degli Esteri del Vietnam del Nord riguardavano il cessate il fuoco, la liberazione dei prigionieri e le operazioni di sminamento nei porti del Vietnam del Nord. Il Giappone avrebbe voluto partecipare alla conferenza per sottolineare il suo ritorno politico nella regione del Sud-Est asiatico, ma mentre gli Stati Uniti erano d'accordo sulla partecipazione del Giappone alla conferenza, Hanoi non era favorevole.

I negoziati di pace portarono alla divisione del Laos in due governi, uno controllato dalle forze comuniste del Pathet Lao e l'altro era il governo filo-occidentale di Vientiane e alla formazione del Consiglio Politico Nazionale di Coalizione, il quale aveva il compito di sostenere il governo di coalizione nel porre a termine agli accordi di pace. La situazione, per quanto riguarda la Cambogia, era molto più complessa, in quanto erano molte le potenze interessate a questo stato. La Cina avrebbe voluto il Laos e la Cambogia sotto il suo controllo perché questo le avrebbe permesso di essere uno degli stati più forti in Asia; l'Unione Sovietica si batteva perché voleva che il Vietnam del Nord ottenesse il controllo della Cambogia e del Vietnam del Sud, in modo da accerchiare la Cina ed estendere la sua influenza nel Sud-Est asiatico.



6.1. Il ruolo sovietico



La politica di distensione di Nixon nei confronti della Cina fu un'importante strategia diretta, non solo ad intensificare i rapporti tra Stati Uniti e Cina, ma indirettamente in relazione al conflitto nel Vietnam, a privare il Vietnam del Nord di uno dei suoi più importanti sostenitori.

Il Vietnam del Nord, appoggiato dal suo secondo alleato, l'Unione Sovietica, comprese che era necessaria un'immediata politica espansionistica che portasse ad ottenere il controllo sull'Indocina. L'Unione Sovietica, da parte sua, disturbata dalle conseguenze che la distensione sino-americana avrebbe avuto, considerò l'opportunità di esercitare la sua influenza su Hanoi a scapito della Cina stessa.

Il presidente Nikolai Podgorny giunse ad Hanoi, in visita, il 3 ottobre del 1971. La sua visita fu annunciata dopo che Pechino e Washington resero nota l'intenzione del presidente americano di incontrare Mao in Cina. La missione sovietica rimase nel Vietnam del Nord fino al marzo del 1972 e, durante questo periodo, venne consegnata al Vietnam del Nord una parte considerevole dell'arsenale sovietico, compresi carri armati, artiglieria a lungo raggio e missili.

La possibilità di un intervento americano non era nemmeno stata presa in considerazione date le imminenti elezioni presidenziali, la linea politica pacifista assunta dal candidato all'opposizione Mc Govern, l'opinione pubblica che era contro ad un intervento armato e la visita di Nixon a Mosca programmata per maggio.

Alla notizia che l'Unione Sovietica aveva fornito armi al suo alleato, gli Stati Uniti risposero attaccando Haiphong il 16 aprile. Nixon giustificò pubblicamente questo gesto dicendo: "I paesi che forniscono armi al Vietnam del Nord per renderlo in grado di posizionarle in vista di un possibile attacco da parte del Vietnam del Sud devono prendersi le loro responsabilità."

Pechino non si oppose all'attacco americano al Vietnam del Nord, la cui strategia politica era quella di rafforzarsi come stato, grazie all'aiuto dell'Unione Sovietica, favorendo il ruolo dell'URSS che la stessa avrebbe voluto ricoprire ad Hanoi. La Cina, infatti, avrebbe voluto l'Indocina divisa tra il Vietnam del Nord e del Sud con Laos e Cambogia deboli, perchè se Hanoi fosse riuscita ad ottenere il controllo su tutta l'Indocina, essa avrebbe potuto essere uno degli stati dell'Asia più potenti confinanti con la Cina.

Il presidente Nixon sorprese sia Hanoi sia Mosca quando annunciò che aveva minato i porti del Vietnam del Nord, rendendo noto che le mine sarebbero state attivate l'11 di maggio e avvisando Mosca che, se non avesse rimosso tutte le sue navi prima di quella data, esse avrebbero rischiato molto.

Nixon, riferendosi al processo di distensione con la Cina, si rivolse direttamente sia a Mosca sia ad Hanoi. A Mosca disse:


"Noi non vi chiediamo di sacrificare i vostri principali amici. Ma noi non possiamo permettere all'intransigenza di Hanoi di cancellare le prospettive che insieme abbiamo così pazientemente preparato. Siamo alla soglia di una nuova relazione che può essere utile non solo per entrambi i nostri paesi, ma per raggiungere la pace mondiale. Siamo preparati a continuare nel costruire questo rapporto. Se falliamo, la responsabilità sarà solo vostra".[196] Nixon sottolineò che le relazioni che Mosca aveva con gli Stati Uniti erano più importanti per Mosca di quelli che aveva con il Vietnam del Nord e che, se non fosse andato in visita a Mosca, la colpa sarebbe stata dell'URSS".


Ad Hanoi il presidente disse:


"la vostra gente ha già sofferto troppo nel perseguire la sua smania di conquista. Non mescoliamo la loro agonia con una continua arroganza. Scegliete invece la via della pace che compensi i vostri sacrifici, garantisca la vera indipendenza e annunci un'era di riconciliazione".


Al Vietnam del Sud, Nixon disse:


"Voi continuerete ad avere il nostro fermo sostegno contro possibili aggressioni. E' il vostro spirito che determinerà l' inizio della battaglia. E' la vostra volontà che darà forma al futuro del vostro paese".


Il 29 maggio gli Stati Uniti firmarono con l'Unione Sovietica un unico documento che era una dichiarazione tesa a trovare una soluzione pacifica alle incomprensioni che si erano create.

Il presidente Nixon, durante il Congresso del 1° giugno rese noti pubblicamente i suoi scopi riportando anche i risultati ottenuti dopo l'incontro con Mosca:


Un'immagine rimarrà sempre indelebile nella nostra memoria, la bandiera degli Stati Uniti d'America che sventola alta per la brezza primaverile al di sopra dell'antica fortezza del Cremlino a Mosca. Nessuno avrebbe creduto, anche poco tempo fa, che quei due simboli evidentemente inconciliabili sarebbero stati visti insieme come li abbiamo visti.

Il problema della fine della guerra del Vietnam, che impegna le speranze di tutti gli americani, è stato uno degli argomenti più discussi nella nostra agenda . sia gli Stati Uniti che l'Unione Sovietica condividono il desiderio di raggiungere una pace più stabile nel mondo.


Mentre Kissinger stava raggiungendo Pechino, l'Unione Sovietica mise al corrente Hanoi della situazione creatasi dopo l'accordo con gli Stati Uniti del 15 giugno 1972. Quando il presidente Podgorny giunse ad una nuova intesa con Hanoi, Kissinger stava rassicurando Pechino che la distensione sino-americana era consolidata e che nuovi passi avanti sarebbero stati fatti nei negoziati che avrebbero portato al ritiro della forza militare americana dal Vietnam.



6.2. I negoziati e la fine della guerra



Il 17 giugno gli Stati Uniti smobilitarono definitivamente le rimanenti brigate nel Vietnam del Sud, ponendo fine ufficialmente alle possibili battaglie di terra e mantenendo circa cento mila uomini tra forze navali ed aeree. Il 18 giugno, a Calcutta, dopo aver terminato la sua visita ad Hanoi, il presidente Podgorny annunciò ai giornalisti che i negoziati di pace, interrotti da Nixon il 13 marzo, si sarebbero svolti a Parigi. Il 29 giugno Nixon annunciò che i negoziati sarebbero stati ripresi il 13 luglio a Parigi "con la speranza che il Vietnam del Nord sia preparato a negoziare in modo serio e costruttivo".

Il Primo Ministro nipponico, che voleva come rappresentante del Giappone, sedersi al tavolo delle trattative con Unione Sovietica, Stati Uniti e Cina, disse ad una conferenza stampa che le nazioni asiatiche si sarebbero riunite in una conferenza, organizzata dopo la fine della guerra, per ideare un piano per il mantenimento della pace e per la ricostruzione nelle zone colpite. Attraverso la sua richiesta, il Giappone voleva manifestare il suo interesse, in qualità di una delle potenze più importanti dell'Asia.

Dato che le elezioni americane si stavano avvicinando, Henry Kissinger cercò di velocizzare le trattative di pace, che dovevano svolgersi tra Washington, Parigi e Saigon tra settembre ed ottobre. La sessione che si svolse a Parigi dall'8 all'11 ottobre stabilì la linea politica da seguire durante la fase finale dei negoziati.

A causa di successive revisioni, volute sia dal Vietnam del Nord sia al Vietnam del Sud, le trattative subirono dei ritardi. Il 14 dicembre Kissinger tornò a Washington e, durante una conferenza stampa alla Casa Bianca, riassunse la situazione: "I negoziati avevano già una loro configurazione e quindi si poteva arrivare ad una soluzione a breve". Kissinger disse anche che il presidente aveva deciso "che non potevamo impegnarci in una sciarada con il popolo americano. Ora siamo in una posizione curiosa: sono stati fatti grandi progressi, anche nei negoziati. L'unica cosa che manca è la decisione da parte di Hanoi di risolvere i rimanenti problemi"[197].

Gli Stati Uniti ripresero i bombardamenti contro il Vietnam del Nord ammonendolo che i bombardamenti sarebbero continuati fino a quando non si fosse raggiunto un accordo. L'attacco cessò alla vigilia di Natale, ma riprese il 27 dicembre.

Il 30 dicembre il presidente Nixon ordinò il cessate il fuoco a nord del 20° parallelo e dopo gli incontri di Parigi tra Kissinger e Tho, il presidente ordinò, in segno di pace, il cessate il fuoco anche nel Vietnam del Nord.

La guerra si concluse ufficialmente il 27 gennaio 1973. Il Segretario di Stato William P. Rogers ed il Ministro degli Esteri del Vietnam del Nord, Nguyen Duy Trinh, firmarono gli accordi riguardanti il cessate il fuoco, la liberazione dei prigionieri e le operazioni di sminamento dei porti del Vietnam del Nord. Il Ministro degli Esteri del Vietnam del Sud, Tran Van Lam e Nguyen Thi Binh, del governo comunista provvisorio (PRG), firmarono solo l'atto di pace e tre dei quattro protocolli. Ogni documento venne redatto in lingua inglese e vietnamita e venne data una copia a ciascuna delle quattro parti coinvolte nelle trattative.



6.3. Il ruolo del Giappone



Il 27 gennaio 1973, a Tokyo, il Primo Ministro Kakuei Tanaka, prima dell'apertura della sessione della Dieta, disse:


Il Giappone, che è una potenza economica molto competitiva, non dovrebbe essere solo il destinatario della pace, ma dovrebbe partecipare alle operazioni di pace ed assumersi le sue responsabilità. Il problema più impellente che il nostro paese deve affrontare ora è il contributo che noi possiamo dare per la creazione di una pace ferma e duratura nel Vietnam. Il Giappone si impegnerà per la ricostruzione della penisola indocinese. La politica internazionale in Asia è molto più complicata di quella europea e non sarà semplice costruire le basi per una nuova stabilità in questa parte del mondo.

Ma, se venisse stabilito un luogo per il dialogo e se venissero adottate misure migliori per portare avanti la ricostruzione dopo la guerra, allora la pace potrebbe portare alla stabilità in tutta l'Asia[198].


Il discorso di Tanaka esprimeva la richiesta giapponese di partecipare alla conferenza di pace di Parigi che si sarebbe tenuta entro trenta giorni dall'ordine di cessate il fuoco e, implicitamente, sottolineava il desiderio da parte del Giappone di essere considerato una potenza con un ruolo importante in Asia.

Il 27 gennaio, il Ministro degli Esteri Masayoshi Ohira, ribadì la volontà giapponese di ricoprire un ruolo impegnativo nella sfera internazionale dicendo che era necessario che le Nazioni Unite si rafforzassero in vista di una nuova realtà politica che si stava formando. Gli interessi nazionali della Cina, del Giappone, dell'Unione Sovietica e degli Stati Uniti stavano cambiando in relazione alla distensione sino-americana ed alla conclusione formale della guerra del Vietnam. Il Sud-Est asiatico avrebbe formato un microcosmo all'interno di un macrocosmo.

Herry Kissinger arrivò ad Hanoi il 10 febbraio del 1973 per ulteriori discussioni su come procedere per normalizzare le relazioni tra i due stati.

Entrambe le parti dichiararono che "il completamento degli accordi di Parigi sul Vietnam avrebbero positivamente contribuito alla causa della pace in Indocina nel Sud-Est asiatico sulla base del fermo rispetto per l'indipendenza e la neutralità dei paesi della regione. Esse si accordarono per l'istituzione di una Commissione economica tra gli Stati Uniti ed il Vietnam del Nord incaricata di migliorare i rapporti economici tra i due paesi".

Kissinger arrivò a Pechino il 15 febbraio, dove venne ricevuto da Mao Tse-tung e dal Primo Ministro Chou En-lai. Essi riaffermarono la validità dello Shangai Communique e si accordarono per la creazione di Uffici di Collegamento per intensificare i rapporti tra i due paesi.

In questo incontro, Kissinger e Chou parlarono anche della guerra del Vietnam e Kissinger chiese al premier cinese se la Cina avesse interrotto il

flusso di armi diretto nel Vietnam del Nord. Egli rispose:


Il problema è se i principali paesi ora riconoscono che l'accordo in Vietnam offre a tutti l'opportunità di riportare quella zona, per la prima volta dopo una generazione, ad un periodo di tranquillità e di permettere agli abitanti dell'Indocina di risolvere i propri problemi senza forzature e senza pressioni esterne.


Kissinger ribadì:


Lei deve considerare che i leaders della Repubblica democratica del Vietnam hanno trascorso la maggior parte della loro vita in prigione o conducendo atti di guerriglia o di guerra internazionale. Non hanno mai avuto l'opportunità di partecipare incontri diplomatici normali con gli altri paesi, o di concentrarsi sull'evoluzione della pace del loro paese e della loro regione.

Lei dovrebbe considerare il programma di aiuto economico non solo come un programma di ricostruzione, ma anche come un tentativo di rendere capaci i leaders del Vietnam del Nord di lavorare insieme con altri paesi, in particolare con l'Europa occidentale, in una relazione più costruttiva. la visita fa parte di un tentativo di liberarsi dalle ostilità per andare verso la normalizzazione.


A Kissinger venne chiesto che ruolo avrebbe avuto il Giappone nel Sud-Est asiatico ed egli sottolineò che gli Stati Uniti erano d'accordo su un eventuale ruolo di primo piano della potenza nipponica nel continente asiatico: "Noi non abbiamo obiezioni da fare su qualsiasi programma di aiuto che il Giappone destini al Vietnam del Nord o a qualsiasi altro paese della penisola Indocinese. Crediamo che questo potrebbe essere una conseguenza naturale del senso di responsabilità che il Giappone nutre nei confronti del continente asiatico per la stabilità in Asia." Quando gli venne chiesto perché il Giappone non fosse stato invitato a partecipare alla conferenza di Parigi, egli rispose: "I partecipanti. sono stati selezionati attraverso un accordo tra le parti che hanno negoziato il trattato di pace. Non facciamo alcuna obiezione sulla partecipazione del Giappone, ma possiamo non raggiungere l'unanimità riguardo la sua partecipazione alla conferenza". Kissinger con quest'ultima affermazione intendeva dire che gli Stati Uniti avevano sostenuto l'idea di includere il Giappone, ma Hanoi[199] non era dello stesso parere.



6.4. Il ruolo degli Stati Uniti



Henry Kissinger rese nota una nuova linea politica che avrebbe adottato nei riguardi dell'Europa il 23 aprile del 1973, all'annuale incontro dell'American Newspaper Publishers Association. Gli vennero fatte domande sulla situazione in Indocina ed egli ribadì che l'accordo per il cessate il fuoco era stato "sistematicamente, per non dire cinicamente, violato dall'altra parte." Insistette, dicendo che: "Nessuno può credere che noi stiamo cercando un pretesto per rimanere coinvolti nella situazione del Sud-Est asiatico". Riguardo al possibile ruolo che il principe Norodom Sihanouk, rifugiatosi a Pechino dopo la sua detronizzazione, avrebbe ricoperto in Cambogia, Kissinger affermò che gli Stati Uniti erano pronti ad affidargli un ruolo di responsabilità se il principe ne avesse avuto le capacità.

Il problema non era che importanza avrebbe avuto il principe Sihanouk, ma se gli Stati Uniti sarebbero stati in grado di mantenere la pace in una situazione in cui erano coinvolti anche i loro interessi nazionali.

Il Vietnam del Nord e del Sud erano impegnati in una perenne e storica guerra per il potere; i politici indocinesi si rifacevano a modelli conosciuti dai loro predecessori prima dell'interludio coloniale in cui Laos e Cambogia erano stati territori dei Thai e dei vietnamiti. Con il passare del tempo la situazione divenne molto più complicata, mentre Mosca e Pechino cercavano di assicurarsi il sostegno perduto, gli Stati Uniti ed il Giappone diventavano due elementi molto importanti se non vitali per il destino dell'Indocina[200].

La Casa Bianca annunciò il 25 aprile che Kissinger e Le Duc Tho si sarebbero incontrati di nuovo a Parigi a metà maggio per discutere il modo per rendere effettivo l'armistizio. Il Vietnam del Nord suggerì che qualsiasi progresso negli incontri sarebbe dipeso dal rinnovo dell'aiuto economico, da parte degli Stati Uniti, nei confronti del Vietnam del Nord e dalla rimozione di tutte le mine nei porti.

Il 13 giugno venne stilato il trattato di pace a Parigi ; esso conteneva 14 punti, lo scopo di questo ulteriore accordo era quello di raggiungere il cessate il fuoco in Indocina. Nel trattato, l'unico riferimento a Laos e Cambogia era l'articolo 20 in cui si richiedeva il cessate il fuoco in entrambe le regioni.

Il problema degli Stati Uniti era quello di risolvere la situazione nella penisola indocinese, sostenendo gli interessi della Cina ed ostacolando l'ambizione di Hanoi di unire la regione sotto il suo controllo.



6.5. La conferenza di Parigi: Laos e Cambogia



La guerra del Vietnam aveva coinvolto non solo le parti direttamente impegnate (Vietnam del Nord e del Sud con le rispettive potenza alleate), ma si anche il Laos e la Cambogia, a causa degli attacchi degli Stati Uniti finalizzati a contenere i rispettivi governi filo-comunisti.

Il Laos divenne indipendente nel 1954. La conferenza di Ginevra del 1954, che avrebbe dovuto rappresentare la fine della guerra di liberazione dell'Indocina, prevedeva la formazione di un governo unitario, con l'integrazione della forze politiche comuniste del Pathet Lao. La riunificazione non avvenne mai pienamente anche se venne raggiunto un accordo tra i due governi a Vientiane nel 1957. L'anno dopo le elezioni vennero vinte dal Neo Lao Haksat (Fronte patriottico laotiano), espressione politica del governo del Pathet Lao. Questo successo fu la rovina della sinistra in quanto i conservatori, nel Laos e Negli Stati Uniti, si resero conto che con l'applicazione della normalizzazione costituzionale si sarebbe assistito, con ogni probabilità alla scalata del potere con metodo democratico, da parte di un movimento di fede comunista. Si creò così, da parte dei partiti anticomunisti laotiani, un Comitato per la difesa degli interessi nazionali che cercò di attuare una politica per arginare l'avanzata comunista. Dopo una serie di rivoluzioni e controrivoluzioni, assistiti dai centri di influenza straniera, mentre affluivano sempre più ingenti rifornimenti militari degli Stati Uniti alle forze di destra, i partiti conservatori vinsero le elezioni del 1960 confinando i comunisti "ribelli" del Pathet Lao nelle zone rurali. Le rappresaglie di questi ultimi contro il governo centrale non finirono.

Con l'intensificarsi della guerra in Vietnam, la situazione nel Laos non migliorò in quanto le rappresaglie da parte del governo comunista divennero sempre più frequenti ed il Laos, suo malgrado, si trovò coinvolto anche nel conflitto in quanto attraverso il suo territorio passavano i rifornimenti che dal Nord giungevano al Sud. Questo fatto unito alla volontà di reprimere il governo comunista del Pathet Lao, (che dava rifugio e sostegno a 65.000 Viet-Cong), spinse il governo statunitense a bombardare la regione più volte, non solo lungo la linea di confine, ma anche nei villaggi e nelle sedi industriali e ad allestire un esercito di "irregolari" nella Piana delle Giare, zona di confine tra i due governi laotiani.

Il 20 febbraio 1973 venne firmato il cessate il fuoco tra i due governi laotiani.

L'accordo del 1973 conteneva i seguenti punti: "Le parti, il Laos, gli Stati Uniti, la Tailandia e gli altri paesi stranieri devono rispettare rigorosamente e rendere effettivo l'accordo."

Non vi era alcun riferimento riguardo al ruolo che il Vietnam del Nord avrebbe ricoperto nel Laos ed in particolare non si menzionavano le 65.000 truppe vietnamite che si pensava fossero nella regione. L'accordo continuava descrivendo "l'attuale situazione nel Laos, esso era diviso in due zone sotto il controllo di due governi differenti", che dovevano risolvere i problemi del paese "sulla base dell'uguaglianza e del rispetto reciproco. Nessuna delle due parti doveva tentare di opprimere od ostacolare l'altra". Ciò che quest'ultima frase implicava venne maggiormente specificato nel seguito del trattato: "I diritti e le libertà delle persone devono essere rispettate, per esempio, il diritto alla privacy, la libertà di pensiero , di parola stampa, di espressione, di riunione, di creare organizzazioni politiche ed associazioni, di circolazione."

In base a questo accordo l'ordine di cessate il fuoco iniziò in entrambe le zone il 22 febbraio del 1973. Due delle clausole del trattato di pace erano che "tutte le forze armate dei paesi stranieri devono cessare completamente ed in modo permanente qualsiasi azione militare nel Laos" e che "le forze armate di entrambe le parti devono cessare qualsiasi forma di invasione sia in terra che in aria." L'accordo del 1973 rese formale la divisione del Laos, la parte est controllata dal Pathet Lao, abitata da popolazione non laotiana e di ideologia comunista, mentre il governo di Vientiane controllava i territori al di là del fiume Mekong, dove la popolazione era di nazionalità laotiana e di ideologia filoccidentale.

L'accordo prevedeva che entro 30 giorni entrambe le parti istituissero un governo di coalizione provvisorio in cui i due governi fossero rappresentati in modo equo. Il ruolo di questo governo provvisorio sarebbe stato quello di "portare a termine tutti gli accordi ed i programmi politici su cui le parti avevano raggiunto un'intesa".

L'accordo del Laos del 21 febbraio 1973 portò alla creazione del National Political Coalition Council.


Il Consiglio. ha il dovere di consultarsi con il National Provisional Coalition Governement sui più importanti problemi relativi alla politica interna ed estera e di assistere il governo nel porre a termine gli accordi firmati, di sostenere il . governo di coalizione nel tenere le elezioni generali per stabilire l'assemblea nazionale e il governo di coalizione nazionale.


La parte più significativa dell'accordo era l'istituzione dell'Assemblea Nazionale e del governo di coalizione nazionale "Secondo lo spirito dell'Art. 6 del Cap. II del Communique di Zurigo del 22 giugno 1961, le due parti avrebbero mantenuto i territori sotto il loro temporaneo controllo."[201]. In questo modo, le due parti, sottolinearono come alcune cose stessero cambiando, mentre altre rimanevano immutate. Ad esempio il Laos avrebbe continuato ad essere diviso lungo linee politiche, geografiche ed etniche che si delineavano tra nord e sud secondo una logica che conferiva più territori al governo comunista e più popolazione.

L'accordo del 1973 includeva, inoltre, la seguente nota ottimistica: "le due parti riconoscono la dichiarazione del governo degli Stati Uniti attraverso la quale essi si impegnano a sanare le ferite della guerra ed a continuare la ricostruzione del dopoguerra in Indocina. Il governo di coalizione nazionale terrà degli incontri con il governo degli Stati Uniti riguardo alla possibilità di adottare lo stesso trattamento anche nei confronti del Laos".[202]

Il 12 marzo venne firmato il testo della dichiarazione "riconoscendo che gli accordi firmati garantiscono la fine della guerra, il mantenimento della pace in Vietnam, il rispetto dei diritti fondamentali della popolazione vietnamita ed il diritto di autodeterminazione della popolazione del Vietnam del Sud e della popolazione indocinese tutta."[203].

La soluzione adottata per il Vietnam incluse il Laos e la Cambogia, sottolineando "la responsabilità delle parti coinvolte di rispettare l'indipendenza, la sovranità, l'unità, l'integrità e la neutralità territoriale della Cambogia e del Laos come stipulato nell'accordo del 27 gennaio del 1973".

Il presidente Nixon tenne una conferenza stampa il 3 marzo ed annunciò che il presidente Nguyen Van Thieu avrebbe visitato la California il 2 aprile e, durante la stessa conferenza, il presidente rispose alle domande che gli vennero rivolte riguardo alla conferenza di Parigi. Riguardo al Laos, Nixon sottolineò che "l'allontanamento di tutte le forze straniere", secondo la politica della "vietnamizzazione"[204] era la chiave per la definitiva soluzione della situazione che il presidente considerava più semplice di quella che caratterizzava la Cambogia.

Anche la Cambogia, come il Laos, ottenne l'indipendenza con la conferenza di Ginevra, anche se l'influenza francese rimase forte ancora per molto tempo. Dagli accordi del '54 si disponeva l'immediata integrazione dei combattenti Khmer Issarak nella comunità nazionale. Dello sforzo di ricostruzione si incaricò il sovrano Norodom Sihanouk, che seppe portare avanti una politica socialista, non marxista e neutralista grazie alla quale riuscì a mantenere unito il popolo cambogiano, sottraendolo condizionamenti delle grandi potenze.

La difesa della neutralità della Cambogia da parte di Sihanouk si mosse su due piani: contro gli Stati Uniti e contro il Vietnam. Nel 1963 il governo di Phnom Penh rinunciò a tutti gli aiuti, economici e militari, degli Stati Uniti per non lasciarsi tacitamente condizionare e nel 1965 Sihanouk arrivò a rompere i rapporti con Washington. Nei confronti del Vietnam la politica del governo cambogiano fu più sottile: Cambogia e Vietnam erano divisi da una rivalità tradizionale, e Sihanouk non poteva trascurare questo presupposto, valido sia per Saigon che per Hanoi, ma la guerra tra i due Vietnam prospettava al principe una scelta che poteva riuscirgli utile per bilanciare un'influenza con l'altra. Naturalmente la neutralità della Cambogia era più apparente che reale. Il territorio cambogiano era utilizzato dai guerriglieri del FNL sudvietnamita sia come zona di transito sia come retrovia ed era d'altra parte oggetto di frequenti incursioni delle forze armate americane sulla base del "diritto all'inseguimento".

Il principe Sihanouk cercò sempre, durante il suo dominio, di bilanciare la presenza delle forze straniere nel suo territorio, considerando l'interesse nazionale molto più importante dell'interesse di classe. La sua politica nazionalista venne, però, contrastata dalla borghesia nascente che faceva degli aiuti stranieri, in particolare americani, il suo punto di forza. Questi contrasti fecero sì che il principe cedette alle pressioni statunitensi, chiamando al governo il generale Lon Nol e Sirik Matak, sostenuto dal governo americano. Nel giugno 1969 vennero stabilite nuove relazioni con gli Stati Uniti, che garantivano il rispetto delle frontiere. Sihanouk ristabilì l'equilibrio convocando il Congresso nazionale che ribadì le direttrici tradizionali della politica della Cambogia. La vittoria del principe fu di breve durata, in quanto, mentre era in visita ufficiale in Francia, scoppiarono gravi incidenti giustificati apparentemente da partigiani vietnamiti. Fu la tolleranza manifestata da Sihanouk per lo stazionamento di truppe nord-vietnamite e dei Viet-Cong in territorio cambogiano il principale motivo addotto dal generale Lon Nol quando il 18 marzo 1970 detronizzò il principe. Sihanouk trovò ospitalità a Pechino, dove creò il Fronte di liberazione nazionale (FUNK). Il movimento rivoluzionario creato da Sihanouk veniva sostenuto da Hanoi e dalla Cina e proprio per impedire il crollo del regime di Lon Nol e distruggere il comando e i campi di raccolta dei Viet-Cong in Cambogia, gli Stati Uniti decisero di bombardarla. L'attacco durò alcuni mesi portando, da un lato a rallentare l'avanzata delle forze "rosse", ma dall'atro aumentando il credito del FUNK presso una popolazione terrorizzata da una guerra troppo simile a una guerra "coloniale"[205]. Dopo il ritiro delle truppe americane la situazione divenne precaria, in quanto il governo di Lon Nol non aveva raggiunto una forza tale da resistere alle puntate dei guerriglieri e l'influenza dell'esercito di Sihanouk divenne sempre più forte. Proprio in relazione a questa situazione il presidente americano, durante la conferenza, di Parigi disse:

La situazione in Cambogia è molto più complessa perché non ci sono forze governative che possono negoziare le une con le altre. le prospettive in Cambogia non sono così positive come quelle in Laos, ma crediamo che la ritirata delle forze del Vietnam del Nord dalla Cambogia sia la chiave per risolvere la situazione. Se le forze armate si allontaneranno dal territorio e se i Cambogiani potranno, in questo modo, determinare il proprio futuro, noi crediamo che le probabilità di una cessate il fuoco in Cambogia siano reali.[206]


Dopo che l'accordo venne firmato il 27 gennaio 1973, in un'intervista, sul ruolo che la Cina avrebbe ricoperto, riguardo all'accordo sul cessate il fuoco, l'ambasciatore William Sullivan ribadì che la Cina voleva che la penisola indocinese fosse composta dai due Vietnam e che Laos e Cambogia fossero indipendenti. Un Vietnam unito con Laos e Cambogia sotto il suo controllo avrebbe portato in Asia la formazione di uno degli stati più forti, ricoprendo un ruolo importante in ambito economico in concorrenza con quello svolto dalla Cina.

L'Unione Sovietica, al contrario, voleva che il Vietnam del Nord ottenesse il controllo della Cambogia e del Vietnam del Sud. Questo faceva parte di un programma politico definito dalla stessa potenza sovietica per circondare la Cina ed estendere la sua influenza nel Sud-Est asiatico.

Il premier sovietico Aleksei N. Kosygin manifestò il suo sostegno al principe Sihanouk, ma, contrariamente alla Cina, non riconobbe il nuovo governo istituito dal principe a Pechino, dopo la sua detronizzazione, e mantenne le sue ambasciate a Phnom Penh.

La potenza che più di tutte aveva gradito i termini dell'accordo di Parigi era stata dunque la Cina, che da una frammentazione dell'assetto indocinese traeva l'auspicio di poter esercitare un'influenza durevole e meno remota di quella sovietica. In relazione alla situazione in Cambogia gli accordi misero in evidenza nuovi caratteri della situazione indocinese.

Il regime filoamericano di Lon Nol non era riuscito a consolidarsi, in quanto si trovò a dover fronteggiare due fazioni di comunisti, l'una avversaria all'altra: il gruppo dei Khmer Issarak, filovietnamiti, ed il gruppo dei Khmer rossi, che rivendicavano una loro propria originalità di programma e che consideravano i Nord-Vietnamiti come il loro principale avversario, che con gli accordi di Ginevra del 1954 li aveva abbandonati alla repressione di Sihanouk. Mentre i Khmer Issarak, che controllavano la parte orientale del paese, avevano desistito dalla lotta armata in osservanza agli ordini di Hanoi, i Khmer rossi, attestati nella regione nord-occidentale della Cambogia, sotto la guida di Pol Pot avevano allacciato rapporti con il governo provvisorio di Sihanouk a Pechino, cioè avevano stretto legami con la Cina popolare dalla quale avevano ottenuto aiuti militari e alimentari.

A meno di un anno dopo il ritiro delle truppe americane dal Vietnam, lo scenario diventava sempre più complesso. I sovietici appoggiarono in modo sempre più imponente il Vietnam del Nord in modo da controbilanciare le intese sino-americane controllando la Cina dal sud. A loro volta i cinesi avevano individuato nella Cambogia il mezzo per tenere in scacco il Vietnam rafforzato ed unificato sotto l'ala protettiva dei Sovietici. Giunti alla conclusione che solo i Khmer rossi potessero ostacolare le mire imperialistiche dell'Unione Sovietica e del Vietnam, i governi cinesi offrirono a Pol Pot un completo appoggio nella lotta contro Lon Nol, in modo da rendere possibile una rapida azione dei suoi uomini in coincidenza con l'avanzata nord-vietnamita verso Saigon. Le forze di Pol Pot riuscirono ad abbattere il regime di Lon Nol e ad occupare la capitale della Cambogia il 17 aprile 1975, mentre contemporaneamente il governo neutralista del Laos veniva abbattuto da un colpo di Stato organizzato il 21 aprile dal Pathet Lao (filovietnamita).

In apparenza, nella primavera del 1975 tutta la penisola indocinese era sotto il controllo di forze comuniste. In realtà queste erano però divise da rivalità profonde, determinate dai rispettivi rapporti con la Cina. Il Vietnam, incapace di normalizzare i suoi rapporti con gli Stati Uniti, si sentì minacciato dall'ipotesi di una pressione congiunta sul fronte cinese e su quello cambogiano. Infatti in Cambogia i Khmer rossi avviarono subito una vasta repressione contro i Khmer Issarak e contro chiunque si opponesse alla loro avanzata, una repressione ispirata all'estinzione di tutti gli oppositori del regime che gli uomini di Pol Pot intendevano instaurare.

La pace che il Vietnam sperava di aver raggiunto nel 1975 non fu dunque immediata o esente da forti condizionamenti di politica esterna. L'andamento dei rapporti fra le grandi potenze isolava in pratica il Vietnam nel suo difficile compito di ricostruzione interna, dopo oltre 30 anni di guerra; lasciava la Cambogia in un limbo politico-giuridico, dopo che nel 1977 si ruppero i rapporti diplomatici con il Vietnam e Cambogia ed isolava il Laos in un contesto carico di incertezze e conflitti.





CONCLUSIONE



La politica di apertura nei confronti della Repubblica popolare cinese iniziata

dal presidente Nixon ebbe importanti riscontri, sia per la Repubblica popolare cinese sia nell'ambito internazionale.

Prima del trattato siglato tra Nixon e Mao nel febbraio 1972, gli Stati Uniti rinunciarono alla loro vecchia posizione su Taiwan e riconobbero a Pechino il diritto di occupare il seggio cinese nel Consiglio di Sicurezza. Questo decisivo cambiamento, insieme al trattato di cooperazione del 1972, portarono a modificare l'intero equilibrio mondiale. Il mondo, dopo essere stato per molto tempo bipolare, diventa tripolare, se non pentapolare con l'apparizione, insieme all'Unione Sovietica, dell'Europa orientale e del Giappone.

I successori di Nixon adottarono la stessa strategia politica basata sulla riservatezza dei contatti, ma persero di vista lo scopo principale della distensione nixoniana, che era quello di avvicinarsi tanto alla Cina quanto all'Unione Sovietica, impegnandosi di fatto solo con la Repubblica cinese. Il risultato fu che la Cina, facendo tesoro dell'esperienza acquisita nei continui contatti con le delegazioni americane, divenne esperta nel gestire i problemi internazionali a suo favore. Avendo raggiunto un'intesa con gli Stati Uniti, la Cina ritenne di poter ottenere aiuti economici e militari pur trascurando le sollecitazioni americane per quanto riguardava il rispetto dei diritti umani. L'elemento chiave della politica estera di Jimmy Carter era rappresentato proprio da questi ultimi, ma Carter non adottò alcun tipo di provvedimento nei confronti della Cina. L'interesse del presidente e del suo consigliere Brzezinski era rivolto principalmente all'Unione Sovietica.

Reagan, al contrario, cercò di consolidare il rapporto con la Cina ed allo stesso tempo di non abbandonare Taiwan, continuando a inviare aiuti militari ed economici nell'isola.

Alla fine degli anni Ottanta la politica di George Bush confermò la lungimiranza della scelta di Kissinger e Nixon. Grazie a Deng Xiaoping e al programma delle "Quattro modernizzazioni", la Cina riformò la propria economia e registrò tassi di crescita che superarono in alcuni anni il 10% .

Per gli Stati Uniti e per l'Occidente la Cina non era più soltanto un occasionale cobelligerante sul fronte della guerra fredda o un utile interlocutore nella complicata situazione asiatica. Era anche uno dei più promettenti mercati mondiali. L'industria americana se ne accorse e sostenne con i suoi interessi la politica estera della Casa Bianca. La politica di Bush non venne appoggiata completamente da tutta la società americana, in quanto esistevano alcuni gruppi di pressione trasversali che non approvavano, soprattutto per ragioni morali ed ideologiche, la politica cinese del presidente americano e la situazione peggiorò nell'89, dopo i moti studenteschi che si scatenarono nella piazza di Tienanmen. Ma George Bush conosceva molto bene la Cina, essendo stato responsabile dell'Ufficio di Collocamento sino-americano alla fine degli anni Settanta. Sapeva che i tempi della sua trasformazione sarebbero stati necessariamente lunghi, era convinto che nulla potesse danneggiare la sua evoluzione quanto l'ostracismo degli Stati Uniti.

Tre anni dopo venne eletto Bill Clinton che propose una nuova politica, pretendendo un maggior rispetto dei diritti umani, pur considerando la Cina un'importante "partner strategico".

L'attuale amministrazione è guidata dal figlio di George Bush, George W. Bush, il quale ha presentato un piano politico molto diverso dal suo predecessore, una linea politica più brusca. I problemi aperti tra le due potenze possono essere ricondotti a quelli di trent'anni fa. Il primo fra tutti è Taiwan, che il governo comunista considera la provincia ribelle, ma che ha sostenuto la candidatura del nuovo presidente ed ora Bush si trova a dover decidere se vendere armi all'isola come promesso; per quanto riguarda la violazione dei diritti umani, che avviene sistematicamente in Cina, gli Stati Uniti condannano la repressione del dissenso dei religiosi che rifiutano di sottoporsi ai vincoli del Partito comunista. Nell'ambito della difesa, se Nixon ritenne necessario eliminare il sistema di difesa ABM (Safeguard) per instaurare dei rapporti con la Cina, ora la Cina contesta i piani americani di voler realizzare una difesa che potrebbe essere estesa anche a Taiwan, ovvero al territorio che Pechino considera suo. Il governo americano giustifica questo suo progetto dicendo che lo scudo spaziale (Nmd) e in particolare il suo settore asiatico (Tmd) sono esclusivamente mirati a proteggersi dalle minacce di paesi "ostili" come Iran, Iraq e Corea del Nord. Nell'ambito economico, gli sforzi congiunti di Washington e Pechino per portare la Cina nell'Organizzazione mondiale del commercio (WTO), hanno facilitato la ripresa dei rapporti tra i due paesi dopo l' "accidentale" bombardamento americano dell'ambasciata cinese a Belgrado durante la guerra in Kosovo (1999).

A rendere ancora più difficoltosa e lenta la soluzione a questi problemi è la recente crisi, che ha coinvolto i due paesi, dovuta alla collisione tra un aereo spia americano ed un caccia cinese sopra il Mar della Cina meridionale. Quest'incidente è costato la vita ad un pilota cinese e ha rimesso in gioco i rapporti, mai ben definiti, tra Cina e Stati Uniti. Dopo ripetute accuse da una e dall'altra parte ed il vano tentativo americano di riavere il velivolo, senza che venisse studiato dai cinesi, la crisi può considerarsi risolta anche se la Cina ha ribadito di non ritenersi soddisfatta. La svolta che ha chiuso l'incidente è la recente notizia del 10 giugno riguardo al probabile ingresso della Cina nell'Organizzazione mondiale del commercio entro la fine dell'anno. Bush vuole in questo modo sfruttare al massimo il ruolo di partner commerciale che la Cina potrebbe ricoprire, data l'importanza che le sue esportazioni stanno assumendo in tutto il mondo.

Non si può dire che i rapporti tra Stati Uniti e Cina siano consolidati, date le recenti vicende, ma è viva la volontà di mantenerli, in quanto gli Stati Uniti si rendono conto dell'importanza che ricopre la Cina sia a livello politico sia a livello economico e la Cina da parte sua si rende conto che solo per mezzo degli Stati Uniti potrà raggiungere i suoi scopi. La strada è ancora lunga e forse ci saranno altri momenti di crisi tra i due paesi, ma i risultati ottenuti da Nixon trent'anni fa dovranno essere preservati e maggiormente consolidati.



























INDICE ALLEGATI



pag.


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by Yih Jee, Director of the China Problem Research Institute   189


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Il termine "grand design" non è comune nel vocabolario americano e venne usato la prima volta nella relazione annuale del 1970. Cinque anni più tardi lo storico contemporaneo inglese Geoffrey Barraclough parlò del libro di Kissinger "Grand design-the word spanning arch he was building" (New York Review of Books, 7/8/'75, p.23).

Il giornalista Joseph Kraft osservò che Nixon e Kissinger "tendevano ad appropriarsi dello stile gollista in ambito diplomatico caratterizzato da segretezza, cambiamenti improvvisi e l'uso di visite di Stato dall'aspetto teatrale"(Washington Post, 12/11/'73).

La diatriba tra Johnson e de Gaulle a causa di un'aperta critica da parte del presidente francese in relazione alla politica statunitense in Vietnam. Essa portò all'allontanamento della Francia dalla NATO nel 1966 pur mantenendo buoni rapporti con la Cina comunista.

nome in pyinin di Pechino.


Washington Post

Y.P. Davydov, Doktrina Niksona , pp.17-18.


F. Shurmann, The foreign policy of Richard Nixon (The grand design), University of California, Berkley, 1988, pp. 65-66.






F. Shurmann, op. cit. p. 67.

F. Shurmann, The foreign policy of Richard Nixon (The grand design), University of California,

Berkley, 1988, pp. 82-83.

Kissinger a proposito del cambiamento di strategia intrapreso dagli Stati Uniti disse: " .Ciò che iniziò come una discussione altamente esoterica sulla strategia militare si trasformò in uno dei maggiori segnali nei confronti della Repubblica popolare cinese che ci suggerì di migliorare i nostri rapporti con questo paese".

Y. P. Davydov, Doktrina Niksona, p.27.



Washigton Post

New York Review of Books, 7/8/'75, p. 23.


Il giornalista del Washington Post Joseph Alsop, che generalmente rispecchiava nei suoi articoli il pensiero di Nixon, quando gli chiese perché avesse deviato gli entusiasmi dal partito cinese del Kuomintang a quello comunista egli rispose che non aveva cambiato opinione. Egli aveva sempre ammirato il popolo cinese e, avendo visto il buon operato dei comunisti, egli continuò semplicemente a nutrire ammirazione per la popolazione al di là delle barriere ideologiche.





C.f.r. CAP II, p.21.

Memorandum, 6 ottobre 1969, Box 18, Folder "Ex 34-2, 1969-1970" White House Central Files, CO 34-2, (National Archives, Washington DC).

"This move is evidence of a significant change in relations [between Peking and Moscow].

Eichbuchl, 15 agosto 1969, Box 20, Folder "Gen CO 34-2, 1969-1971" White House Central Files, CO 34-2, (National Archives, Washington DC).

C.f.r. CAP I p. 14.

". Yet the door is not shut".

Memorandum al Dipartimento di Stato, 3 settembre 1969, p.3, Box 57, Folder "Ex FO, 5-2, 1969-

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Memorandum, 27 gennaio 1969, Box 20, Folder "Gen CO 34-2, 1969-71", White House Central Files, (National Archives, Washington DC).




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". Sarebbe imprudente, comunque, esagerare la "minaccia" posta dalla Cina comunista".  

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Per maggiori approfondimenti sul significato giuridico di "questione importante": B. Conforti, Le Nazioni Unite, Padova, Cedam, 1996, pp. 92-99.

Il testo dell'art. 18,2 della Carta delle Nazioni Unite è in T. Ballarino, Organizzazione internazionale, Celuc, 1998, p. 231.

Per una visione completa della votazione sul problema della rappresentanza cinese nel Consiglio di Sicurezza dal 1951 al 1970, c.f.r. allegato p. 195.

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Lettera di Hamilton Fish Armstrong ad Henry Kissinger, 24 maggio 1971, Box 6, Folder "CO 34-2, P.R.C. , [1971-74]", White House, Confidential Files, (National Archives, Washington DC).

Intervista a Lord Avon da parte della BBC, 24 giugno 1971, Box 21, Folder "Gen CO 34-2, 1971-74", White House, Central Files, (National Archives, Washington DC).

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Telegramma dall'Ambasciata di Taipei DS-322, 24 gennaio 1969, Box 5, Folder "Departement of State", (National Archives, Washington DC).

Nei documenti viene utilizzata l'abbreviazione GOI per intendere il governo italiano (Governement of Italy); ".l'intenzione dell'attuale governo italiano è solo di considerare tutte le possibilità".

Telegramma dall'ambasciata di Taipei al Segretario di Stato, 24 gennaio 1969, Box 5, Folder "Departement of State", (National Archives, Washington DC).

Telegramma dall'ambasciata di Taipei al Segretario di Stato americano, 24 gennaio 1969, Box 5 Folder "Departement of State", (National Archives, Washington DC).

Telegramma da parte dell'ambasciata a Roma al Segretario di Stato americano, 31 gennaio 1969, Box 5, Folder "Departement of State,Ex FG11", (National Archives, Washington DC).

Telegramma dall'ambasciata di Roma al Segretario di Stato, 30 gennaio 1969, Box 5, Folder "Ex FG 11", (National Archives, Washington DC).

Memorandum per il Segretario di Stato americano Bundy da Thomas P. Shoesmith, 23 gennaio 1969, Box 5, Folder "Ex FG 11", (National Archives, Washington DC).

Telegramma dall'ambasciata di Ottawa all'ambasciata di Taipei, 7 febbraio 1969, Box 5, Folder "Ex FG 11", (National Archives, Washington DC).

Telegramma dall'ambasciata di Ottawa all'ambasciata di Taipei, 1 febbraio 1969, Box 5, Folder " Ex FG 11",(National Archives, Washington DC).

Telegramma dall'ambasciata di Bruxelles al Segretario di Stato americano, 29 gennaio 1969, Box 18, Folder "Ex 34-2, 1969-70", (National Archives, Washington DC).

Telegramma dall'ambasciata di Tokyo al Segretario di Stato americano, 30 gennaio 1969, Box 18, Folder "Ex 34-2, 1969-70", (National Archives, Washington DC).

Telegramma dall'ambasciata di Vienna, 26 aprile 1969, Box 18, Folder "Ex 34-2, 1969-70",(National Archives, Washington DC).

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Repubblica democratica tedesca.

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Approssimativamente 80.000 soldati pakistani e 10.000 civili dell'est del Pakistan rimasero in mani

indiane contrariamente alla S/RIS/ 307 (1971) e alla A/RIS/2793 (XXVI), 7 dicembre 1971.

Per un maggior approfondimento sulla crisi di Suez, Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1992, Roma-Bari Laterza, 1999, pp.899-911.

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New York Times, 4 marzo 1973.








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