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"Le imprese pubbliche e le regole della concorrenza"

politica



"Le imprese pubbliche e le regole della concorrenza"




1. Nozione d'impresa pubblica.


Non solo le imprese private, ma anche quelle pubbliche devono conformarsi al diritto della concorrenza, perchè le imprese pubbliche, più di quelle private, sono tendenzialmente considerate dai pubblici poteri come strumenti di attuazione di finalità pubbliche ed in quanto tali formano spesso oggetto di un trattamento preferenziale che le pone in situazione di vantaggio rispetto alle altre imprese. Risulta abbastanza eviden­te che, per le imprese che ne godono, la finalità pubblica di tali misure preferenziali non rappresenta soltanto un incentivo a trarne vantaggio, ma anche una forma di giustificazione e di legittimazione di tali vantaggi, e dunque toglie ordinariamente all'impresa titolare della posizione di privilegio ogni pur residuale dubbio circa l'opportunità di approfittarne.

In diritto italiano, anche se non è esplicito il divieto per i pubblici poteri di adottare nei confronti delle imprese pubbliche misure che si pongono in contrasto con il diritto italiano della concorrenza viene esplicitamente ribadito che le imprese pubbliche sono soggette come le altre al diritto della

concorrenza e che vi si debbono conformare, senza che la con­cessione di misure di privilegio a tali imprese da parte dei pub­blici poteri possa giustificare il comportamento anticoncorren­ziale delle imprese stesse.

Dal momento che la distinzione fra imprese pubbliche e imprese private richiamata dall'art.8 n. 1 della Legge n.287/90, non corrisponde ad una diversa disciplina giuridica nei con­fronti delle une e delle altre, l' esatta delimitazione dei due con­cetti non è determinante. Più semplicemente, si può affermare che quando lo Stato direttamente, o indi­rettamente attraverso i pubblici poteri (le Regioni o altri enti territoriali), esercita «un'influenza dominante per ragioni di proprietà, di partecipazione finanziaria, o della normativa che la disciplina», si ha un'impresa pubblica. V'è da aggiungere che l'"influenza dominante" può essere presunta «quando i poteri pubblici, direttamente o indirettamente, de­tengano la maggioranza del capitale, dispongano della maggioranza dei voti o possano designare più della metà dei membri degli organi di am­ministrazione, di direzione o di vigilanza dell'impresa di cui trattasi» . Sulla base di questi criteri è questa in particolare l'ipotesi contemplata dall' art.8 n.1 della Legge 287/90, che si riferisce non solo alle imprese pubbliche, in generale, ma anche, in particolare, alle imprese" a prevalente partecipazione statale".



La definizione di impresa pubblica adottata dalla Commissione ed avallata dalla Corte di giustizia, è estremamente pratica. La sua formula­zione è dovuta al fatto che, come chiarito dalla stessa Commissione, lo Stato e, più in generale i pubblici poteri, possono influenzare il compor­tamento di imprese pubbliche anche senza esserne pro 737f51h prietari e senza detenere una partecipazione azionaria di maggioranza, possono farlo av­valendosi di opportune disposizioni statutarie o del potere di indirizzo e di controllo sui relativi organi di gestione o di sorveglianza.

La correttezza di questo approccio «sostanziale» è risultata indiret­tamente confermata anche dalla Sentenza «Van der Kooy»3. In quella occasione, la Corte di giustizia ha dedotto la propria convinzione sulla sussistenza di un «controllo» da parte dei pubblici poteri anche con riferimento ad effetti pratici.



2. Il sistema economico comunitario e lo stato imprenditore.


Il sistema economico comunitario, che è basato sull'economia di mercato e sulla libertà di concor­renza, riconosce in via esplicita allo Stato la possibilità di intraprendere attività economiche a portata generale.

In armonia con l' art. 295 del Trattato di Amsterdam , viene lasciato impregiudicato il regime della proprietà all'in­terno degli Stati membri e resta salvaguardato «il principio di ugua­glianza tra le imprese pubbliche e private ». Lo Stato può dunque partecipare, e di diritto partecipa in più modi alle attività produttive. Lo fa ri­servandosi l' esercizio di determinate attività avvalendosi di imprese di diritto privato di cui detiene l'intero capitale; attraverso la partecipazio­ne al capital azionario di imprese private.

In tutti Paesi dell'Unione, in varia misura a seconda dei tempi e delle circostanze si è registrato e si registra l'assunzione da parte dello Stato di attività imprenditoriali al fine di far fronte a servizi di pubblica utilità, salvare posti di lavoro in periodi di crisi economica, effettuare inve­stimenti che i meccanismi di mercato non sono in grado di realizzare, rilanciare aree regionali deboli o sostenere settori economici in forte dif­ficoltà. L'opportunità di nazionalizzare o privatizzare, imprese e settori economici è continuamente discussa a livello politico ed economico in tutti i Paesi senza che la questione assuma rilevanza per la Comunità. Nella redazione del Trattato si è in sostanza partiti dal riconoscimento della diversità delle situazioni vigenti nei Paesi membri riguardo al regi­me proprietario senza che ne sia stata prevista una qualsiasi forma di ar­monizzazione.

Il ruolo dello «Stato imprenditore» non è riconosciuto dalla sola normativa primaria della Comunità Economica Europea (il Trattato CEE). È avallato dall'Esecutivo comunitario tanto che la Commissione ha esplicitamente riconosciuto che «le imprese pubbliche possono costi­tuire, su scala nazionale, uno strumento particolarmente valido per la realizzazione di obiettivi di politica economica e sociale» .

Anche se il Trattato non proibisce il mantenimento delle imprese pubbliche esistenti nè la creazione di imprese pubbliche nuove, l' art. 295 del Trattato di Amsterdam non si traduce in una garanzia assoluta, in una conferma dell'assetto esistente momento dell'entrata in vigore del Trattato negli Stati con­traenti; costituisce per gli Stati membri una riserva che li abilita a di­sporre del regime proprietario senza che l'ordinamento comunitario possa condizionarne gli eventuali mutamenti.

Per quanto concerne l'Italia, va rilevato che la scelta Costituziona­le4, comportante l'adozione di un sistema economico di tipo «misto», è risultata del tutto compatibile con la successiva adesione al sistema co­munitario.

La partecipazione dello Stato alle attività produttive è la risultante di una tradizione più che centenaria e, tenuto conto delle proporzioni raggiunte, ha assunto un ruolo particolarmente importante che è stato tuttavia incrinato, soprattutto nell'ultimo decennio, dalla strumentaliz­zazione e dalle  malversazioni partitocratiche .



3. Gli effetti sulla concorrenza e le regole stabilite dal Trattato.


Il raggiugimento degli obiettivi fissati dal Trattato di Roma, ed il conseguente perfezionamento del mercato comune europeo, hanno comportato la realizzazione di uno spazio senza frontiere, di un mercato interno europeo, nel quale è assicurata la libera circolazione di beni, ser­vizi, capitali e persone. Uno degli strumenti più importanti agli effetti del conseguimento di un obiettivo tanto ambizioso va individuato nella disciplina della concor­renza alla quale è demandato il compito di evitare che le regole del mer­cato siano distorte.

Cosa succede, tuttavia, con riferimento alle imprese pubbliche? Co­me chiarito dalla Commissione, «la libera circolazione delle merci e dei servizi e l'unità del mercato comune non potrebbero essere garantite se il comportamento di alcune categorie di imprese sfuggisse all'applicazione delle disposizioni del Trattato» .

In effetti, la partecipazione dello Stato ad una attività economica implica rischi rilevanti: soprattutto, il rischio che lo Stato confonda la funzione di autorità pubblica che le è propria con quella di imprendito­re; ma anche della possibilità che approfitti della propria, straordinaria forza economica, finendo col rendersi responsabile di abusi a danno dei propri concorrenti o dei consumatori.

Con riferimento al primo rischio, è da tener conto che le problema­tiche richiamate si manifestano quando le risorse statali vengono utiliz­zate dallo Stato nella sua duplice veste di imprenditore e di pubblico po­tere: in tal caso, la sovrapponibilità «delle motivazioni e responsabilità tipiche dell'uno e dell'altro» può finire con l'aprire problemi.

Nella seconda ipotesi, grazie alla forza economica che gli deriva dal­le ingenti risorse messe a disposizione dai contribuenti, lo Stato è messo in condizione di operare quale imprenditore sui generis e, senza curarsi del profitto, può rifinanziare all'infinito quelle, tra le proprie aziende che, per la mancanza di strutture idonee, o per il perseguimento di fini di carattere sociale o di sviluppo (regionale o settoriale), non sono su­scettibili di alimentare redditi aziendali.

In effetti va rilevato che, per le imprese pubbliche, il criterio opera­tivo è generalmente dato dalla economicità e non dal profitto. Per le imprese private chiamate a competere con questi "concorrenti anoma­li" che grazie alle risorse statali non possono morire - si presenta una si­tuazione non facile il rischio è che risulti turbata l'allocazione ottimale delle risorse. Paradossalmente aziende competitive possono soccombere di fronte alla concorrenza di aziende non competitive.

Soprattutto per ovviare a questi rischi, i padri fondatori delle Comunità europee hanno previsto che le regole di concorrenza vengano applica­te tanto alle imprese private quanto alle imprese pubbliche.

Il principio ha trovato conferma in una specifica norma del Trattato: l'art. 86 del  Trattato di Amsterdam. Ai sensi del primo comma di tale articolo, salvo limitate eccezioni, gli Stati membri non possono emanare o mantenere, nei confronti delle imprese pubbliche misure contrarie alle norme del Trattato. Conseguente­mente le imprese pubbliche non sono libere di agire sul mercato come meglio credono; non possono ostacolare la libera circolazione delle mer­cato o mettere in vigore pratiche concordate del tipo vietato dall' art. 81; ai sensi dell' art. 82, non sono abilitate ad abusare della loro posizione dominante sul mercato. Ugualmente, è inibito alle imprese pubbliche di praticare le operazioni di dumping. Lo Stato, infine, in ottemperanza al disposto dell'art. 87, par. 1, non può erogare aiuti in fa­vore delle proprie imprese, se non nei casi previsti specificamente dal Trattato.

Al pari delle imprese private, le società a proprietà pubblica sono te­nute a rispettare il gioco della concorrenza e vengono messe in condi­zione di non poter approfittare della straordinaria forza economico-giu­ridica che il loro proprietario, lo Stato, conferisce loro. D'altra parte, riconosciuto il principio dell'applicabilità delle regole di concorrenza al­le imprese pubbliche, non è configurabile alcun valido motivo per con­sentire agli Stati di intervenire con un regime di aiuti alle proprie impre­se che sia atto a falsare i princìpi del libero mercato.

Come precisato dalla Commissione, «la libertà incontestabile di uno Stato membro di scegliere il regime di proprietà che più gli si addice, la­scia immutata la sua responsabilità di fare in modo che, tanto la gestione del settore pubblico quanto il comportamento sul mercato delle imprese pubbliche, siano conformi alle regole del Trattato». Nel sistema previ­sto dal Trattato, «soggetti privati e pubblici sono posti su uno stesso pia­no; siano essi aziende, amministrazioni o enti, qualora forniscano beni e/o servizi verso il pagamento di un prezzo, ricadono nella nozione di impresa o di società commerciale e, nell'esercizio della loro attività, sono anch'essi esposti alle regole della concorrenza». La concorrenza co­stituisce dunque la «filosofia» alla quale debbono essere ispirati i com­portamenti di tutte le aziende che stanno sul mercato, incluse quelle pubbliche.

La competenza a vigilare sul rispetto delle regole di concorrenza da parte delle imprese pubbliche spetta, ai sensi dell'art. 86, par. 3, alla Commissione4. In forza dello stesso comma, la Commissione è competente ad adattare provvedimenti strumentali per poter valutare adegua­tamente la natura e la portata precisa delle relazioni finanziarie tra gli Stati membri e le loro imprese pubbliche.

Le misure suscettibili di assumere la forma di un aiuto di Stato do­vranno essere notificate alla Commissione.

Per quanto concerne l'Italia, l'applicabilità dell' art. 87 alle imprese pubbliche non si presenta in maniera tale da stravolgere il sistema. Anche in Italia una delle caratteristiche fondamen­tali dell'impresa pubblica e, o dovrebbe essere, il vincolo a provvedere al proprio finanziamento e ad acquisire la capacità di autosufficienza econo­mica senza ricorrere al prelievo di tributi o, comunque, di prestazioni ob­bligatorie in denaro. L'autosufficenza deve essere intesa come attitudine della gestione a remunerare, con i ricavi provenienti dallo svolgimento della propria attività, tutti i fattori produttivi, compreso il capitale neces­sario per le prosecuzione dell'attività e per il suo sviluppo.

L' art. 86 va considerato, innanzi tutto, quale disposizione di con­ferma e di precisazione dell'art. 10, 2° comma dello stesso Trattato di Amsterdam , è espressione di una particolare sensibilità all'esigenza della pa­rità di trattamento tra industria pubblica e privata e la risultante della volontà politica di dare a tale esigenza una risposta sul piano legi­slativo. Non ne viene tuttavia limitata, in alcun modo, la portata del­l' art. 295 : gli Stati membri conservano la loro piena autonomia di inter­venire sul regime di proprietà nei modi ritenuti opportuni.



4. La mancanza di trasparenza nelle relazioni tra lo Stato e le sue imprese.


Tutti gli Stati membri hanno economie miste: tutti hanno un settore pubblico più o ,meno consistente. Ciò è particolarmente vero per l'Italia. Secondo il più recente rap­porto del CEEP , per il complesso dei settori dell'economia ita­liana, agricoltura esclusa, le imprese pubbliche rappresentavano nel 1987 il 15,8% dei lavoratori dipendenti, il 19% del valore aggiunto e il 24% degli investimenti totali. Se si escludono le pic­cole imprese (fino a 19 dipendenti) e i servizi finanziari tali cifre risultano ancora superiori: sempre per lo stesso anno e per l'Italia la quota delle imprese pubbliche sale al 25% dei lavoratori dipen­denti, al 24% del valore aggiunto e al 47% degli investimenti totali.

In tutti gli Stati membri l 'importanza relativa, il ruolo e le funzioni delle imprese pubbliche sono state, sono e saranno oggetto di delicati dibattiti politici, che era normale cercare che restassero riservati al processo politico nazionale, evitando una loro trasposizione al livello comunitario. Di questa riserva è espressione l'art. 295 del Trattato di Amsterdam che recita: « Il presente trattato lascia del tutto impregiudicato il regime di proprietà esi­stente negli Stati membri ».

L 'art. 295 quale che sia il suo preciso significato giuridico, viene generalmente inteso come espressione del principio fonda­mentale di non discriminazione della Comunità in materia di pro­prietà privata o pubblica delle imprese.

Gli Stati membri sono dunque legittimati a nazionalizzare singole imprese o interi settori dell'economia come pure a priva­tizzare imprese soggette al controllo pubblico.

La Comunità non ha mai interferito nelle decisioni di nazio­nalizzazione, come quelle francesi del 1982, ne ha mai contestato la decisione di principio di privatizzare, sebbene le modalità della privatizzazione abbiano spesso sollevato delicati problemi di discriminazione nei confronti dei cittadini di altri Stati membri.

Ci si può chiedere se il diritto di nazionalizzazione implichi anche quello di organizzare il settore nazionalizzato senza alcuna limitazione: se sarebbe, ad esempio, legittimo nazionalizzare l'in­tero settore bancario, creare un solo grande ente bancario di Stato e assegnargli il monopolio di tutte le operazioni bancarie, eli­minando la concorrenza nazionale ed estera.

L 'esempio può apparire eccessivo e assolutamente irrealistico, ma non era così una ventina d'anni fa. Allora la maggioranza deg1i esperti di diritto comunitario avrebbe probabilmente ricono­sciuto il diritto illimitato di uno Stato membro di monopolizzare un intero settore dell' economia, purchè fosse rispettato il solo divieto espresso del Trattato CEE, cioè l'art. 37 sui monopoli a carattere commerciale per l' importazione e l' esportazione di pro­dotti. Non esiste però una disposizione analoga per i servizi ne per i monopoli di produzione. Questo silenzio non significa però che è lasciata la piena discrezionalità e ciò si evince chiaramente dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Gli Stati membri non hanno il diritto incondizionato di istituire o mantenere monopoli al di fuori dei settori contemplati dall'art. 37. Per il commercio di beni e servizi ciò risulta chiaramente dalla più recente giurisprudenza della Cor­te di giustizia. Per i monopoli di produzione per ora la risposta è meno evidente. La non discriminazione tra proprietà pubblica e privata, sorta di coesistenza pacifica garantita dalla legge fra imprese pubbliche e private, esige che entrambe le cate­gorie di imprese siano sottoposte, in linea di principio, al rispetto delle stesse norme: poichè le imprese delle due categorie sono in concorrenza reciproca sul mercato, non è ammissibile che l'una o l'altra di esse sia privilegiata o discriminata. Il Trattato Amsterdam san­cisce questo principio con estrema chiarezza affermando all'art. 86, par. 1: « Gli Stati membri non emanano ne mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme del presente trattato, specialmente a quelle contemplate dagli artt. da 81 a 89 inclusi ».

Per poter discernere in quali casi lo Stato ha assunto nei confronti delle proprie imprese il ruolo di potere pubblico ed in quale quello di imprenditore, la Commissione ha dovuto affrontare in via preliminare la questione di come rendere trasparenti le relazioni finanziarie intercor­renti tra poteri pubblici ed imprese pubbliche.

Per la Commissione, la quale ai sensi dell' art.86 , comma 3, è competente a vigilare sul rispetto da parte delle imprese pubbliche delle disposizioni relative agli aiuti di Stato, le difficoltà sono derivate, ed an­cora derivano, principalmente da tre fattori: dalla mancanza di traspa­renza nelle relazioni tra gli Stati membri e le loro imprese; dalla com­plessità delle problematiche; dalla «resistenza passiva» opposta dai Go­verni i quali cercano di evitare la notifica degli aiuti o ritardano la forni­tura dei dati richiesti .

La Commissione, che si era più volte lamentata delle difficoltà in­contrate nel valutare il comportamento di alcune imprese pubbliche a causa della mancanza di trasparenza dei loro conti di gestione, attraver­so la «relazione sulla politica di concorrenza riferita al 1977», dette noti­zia di aver iniziato ad elaborare un progetto di Direttiva volto ad im­porre una maggiore trasparenza.

I lavori preparatori della norma si sono conclusi soltanto nel giugno 1980 con l'emanazione, da parte della Commissione, della Direttiva «re­lativa alla trasparenza delle relazioni finanziarie fra gli Stati membri e le loro imprese pubbliche», il cui «scopo essenziale è quello di promuovere un'applicazione efficace, alle imprese pubbliche, delle norme degli artt. 87 e 88 del Trattato riguardanti gli aiuti statali». La Direttiva, la cui le­gittimità è stata confermata da una pronuncia della Corte di giustizia, trova la sua base giuridica nel par. 3 dell' art. 86 per il quale la Commis­sione, nell'assolvere gli speciali compiti di vigilanza sulle imprese pub­bliche che le derivano dai primi due commi dello stesso articolo, è com­petente ad emanare, nei confronti degli Stati membri, Direttive o Deci­sioni.

La Sentenza con la quale la Corte ha confermato la piena legitti­mazione della Direttiva, oltre a precisare i limiti del potere normativo del­la Commissione, ha finito con l' avallarne l' azione normativa quale modo di attuazione delle sue prerogative in tema di aiuti di Stato.

Attraverso la Direttiva, la Commissione ha inteso contribuire a ren­dere certo il diritto per aver precisato i criteri atti a «distinguere chiara­mente fra il ruolo dello Stato in quanto potere pubblico ed in quanto pro­prietario». Proprio per questo, ha imposto agli Stati membri, art. 1, di tenere, con le proprie imprese, relazioni trasparenti, da cui risultino in maniera chiara: i trasferimenti, e la loro effettiva utilizzazione, effettuati a carico dei poteri pubblici sia direttamente sia attraverso imprese pub­bliche od altri enti finanziari.



5. L'atteggiamento della Commissione nei confronti delle imprese pubbliche: la Direttiva sulla trasparenza 80/783.


In un primo tempo, non sembra che la Commissione abbia dato adeguato peso  alla possibilità che gli interventi dello Stato in favore delle proprie imprese diano luogo a comportamenti distorsivi della concor­renza , ma tale posizione è stata ben presto corretta .

In effetti,  quando le imprese pubbliche operano su un mercato sia nella veste di produttori sia in quella di consumatori, si trovano spesso in concorrenza con altre imprese ed il loro comportamento può facil­mente influenzare gli scambi infracomunitari.

Che lo Stato, nella qualità di proprietario, possa imporre a carico delle proprie imprese particolari responsabilità in materia di investimen­ti, occupazione, ricerca, sviluppo settoriale o regionale, non sembra du­bitabile ma «nè gli Stati nè le imprese pubbliche possono far appello a un qualsivoglia  privilegio del settore pubblico ». Come rilevato dalla stes­sa Corte dei Conti italiana, «l'intervento pubblico in tanto sarà e potrà essere gestione in quanto sia capace di stare sul mercato».

Se le responsabilità imposte comportano costi addizionali che le singole impre­se non sono in grado di sostenere, lo Stato potrà intervenire in loro so­stegno con agevolazioni ma solamente nei limiti consentiti dalle norme del Trattato relative agli aiuti di Stato. In particolare lo Stato, quando intenda assicurare particolari servizi di pubblica utilità, dovrà optare per le soluzioni che si rivelino meno distorsive della concorrenza.

Con l'entrata in vigore del mercato unico, l'interrelazione tra im­prese private e pubbliche dei vari Stati membri è divenuta maggiore: ne deriva che un comportamento distorsivo della concorrenza operato da una impresa pubblica può facilmente provocare effetti negativi in altri Stati. Proprio per questo la Commissione si è sentita, ancora di più, in­dotta «a garantire l'eguaglianza delle opportunità tra imprese pubbliche e private», a combattere i privilegi di cui beneficia il settore pubblico.

La Commissione, dopo le pressioni del Par­lamento affinchè elaborasse misure per « eliminare le distorsioni della concorrenza fra imprese pubbliche e imprese private» ha finalmente tolto dal disuso assoluto lo strumento previsto dell'art. 86 par.3, emanando in primo luogo - in data 25.6.1980- ­l'importante direttiva sulla trasparenza delle relazioni finanziarie fra gli Stati mem­bri e le loro imprese pubbliche.

Quanto agli scopi, la direttiva vuole dotare la Commissione di uno strumento per accertare che gli Stati non concedano alle imprese aiuti incompatibili con il mer­cato comune, accertamento che presuppone la trasparenza delle relazioni finanzia­rie tra gli Stati e le imprese pubbliche, definite come quelle nelle quali i poteri pubblici «possono esercitare, direttamente o indirettamente, un'influenza domi­nante per ragioni di proprietà, di partecipazione finanziaria o della normativa che [le] disciplina».

Affievolitesi un po' le resistenze degli Stati e continuando in modo preoccupan­te il trasferimento di ingenti somme dagli Stati alle imprese, nei settori prima esclusi, la Commissione con direttiva n. 85/413 del 24.7.1985 ha esteso l'obbligo della trasparenza anche nei settori della distribuzione dell'acqua e dell'energia, delle poste e delle telecomunicazioni, dei trasporti e degli enti pubblici di credito.

Al momento quindi sfuggono agli obblighi della direttiva solo:

-le imprese che effettuano prestazioni di servizi che non sono suscettibili di pregiudicare in modo sensibile gli scambi tra Stati membri;

- le banche centrali e l'istituto monetario lussemburghese;

- gli enti pubblici di credito, per ciò che concerne i depositi da parte delle autorità pubbliche di fondi pubblici alle condizioni normali del mercato;

- le imprese pubbliche il cui fatturato, al netto delle imposte, sia inferiore ai 40 milioni di ECU (art. 4 direttiva n. 80/723 modificata dalla direttiva n. 85/413).

Le relazioni finanziarie la cui trasparenza è da assicurare sono, in particolare, il ripiano di perdite di esercizio, la dotazione, i conferimenti a fondo perduto o i prestiti a condizioni privilegiate, i vantaggi finanziari (come mancata percezione di benefici o non restituzione di crediti), la rinuncia ad una remunerazione normale delle risorse pubbliche impiegate oppure la compensazione di oneri imposti dai poteri pubblici (art. 3).

La direttiva impone agli Stati membri un unico obbligo, di natura contabile, consistente nel far risultare se le assegnazioni di risorse pubbliche operate dai pubblici poteri alle imprese pubbliche interessate siano effettuate direttamente oppure tramite altre imprese pubbliche od enti finanziari e quale sia l'utilizzazione effettiva di tali risorse (art. 1).

Gli Stati membri devono vegliare affinchè i dati necessari al fine sopra indicato siano tenuti a disposizione della Commissione per cinque anni e le siano comuni­cati, qualora essa li richieda ( art. 5). La direttiva prevede, a partire dal 1 ° novembre 1993 l'obbligo per gli Stati membri di comunicare su base annuale alla Commissione le informazioni finanziarie sopra descritte concernenti le imprese del settore manifatturiero, mentre non è prevista alcuna comunicazione automatica per quanto concerne le imprese degli altri settori. I dati devono essere comunicati alla Commissione, su sua richiesta, insieme ai relativi elementi di valutazione. Si tratta di un onere meno gravoso di quello previsto dal progetto originario di Direttiva per cui gli Stati membri avrebbero dovuto notificare alla Commissione, in via pre­ventiva, ogni distribuzione di risorse alle imprese del settore pubblico. La differenza tra l' onere previsto nella proposta, e quello effettivamente espresso nella Direttiva, è sostanziale: consiste nel fatto che alla Com­missione non è stato attribuito un compito di supervisione sulla maniera di condurre le imprese pubbliche, che le sarebbe derivato da una notifi­cazione costante di tutte le operazioni finanziarie, ma la facoltà di inter­venire e di avere a disposizione le informazioni quando ritenga che un conferimento di risorse costituisca un aiuto di Stato.

Un vero e proprio onere di comunicazione sistematica delle infor­mazioni di carattere finanziario è stato tuttavia previsto per le imprese pubbliche che operano nel settore manifatturiero.

La Direttiva, assicurando la «trasparenza» delle relazioni finanzia­rie, rende praticabile la facoltà, già spettante alla Commissione, di con­trollare se gli aiuti sono stati concessi senza previa notifica, e se l'im­prenditore pubblico si è comportato in maniera assimilabile a quella di un imprenditore privato.

Anche così edulcorata la direttiva non è piaciuta ad alcuni Stati (Inghilterra, Francia e Italia) che l' hanno impugnata davanti alla Corte.

Essi sostenevano l'incompetenza della Commissione; la discriminazione fra im­prese pubbliche e private e la violazione del principio di uguaglianza. La Corte con sent. 6.7.82 non ha ritenuto fondata nessuna delle accuse.

In primo luogo viene affermata la competenza della Commissione per adottare provvedimenti di portata generale nei limiti necessari all'esercizio del dovere di sorveglianza che le affida l'art. 86 par.3, anche se queste norme concernono una ma­teria (gli aiuti degli Stati) per la quale l'art. 89 attribuisce il potere regolamentare al Consiglio (la direttiva non detta regole sostanziali, ma contiene solo misure strumentali-conoscitive). La Corte rigetta poi l'argomento della discriminazione tra imprese private e pubbliche sottolineando che i due gruppi di imprese non si trovano in situazioni comparabili, poichè le imprese private determinano la loro strategia industriale e commerciale in funzione di esigenze di redditività, mentre le imprese pubbliche, essendo sottoposte all'influenza dei pubblici poteri, possono vedere le loro decisioni influenzate da fattori di ordine diverso che conducono allo stabilirsi, fra esse ed i poteri pubblici, di relazioni finanziarie diverse rispetto a quelle che esistono fra le autorità pubbliche e le imprese private (n. 21).

Quanto al principio della parità di trattamento, secondo la Corte le esclusioni sono obiettivamente giustificate o perchè le imprese dei settori esclusi sono già sottratte al regime concorrenziale o perchè fanno già oggetto di disposizioni co­munitarie che garantiscono una adeguata trasparenza.

Quanto al problema dei rapporti fra la direttiva e le norme in tema di aiuti, taluno ha temuto una sovrapposizione della procedura da essa instaurata con quel­le degli artt. 87 e 88. Si ritiene invece che si è su due piani diversi: l'attuazione della direttiva appare preliminare e strumentale rispetto all'applicazione degli artt. 87 e 88, in quanto fornirà alla Commissione uno strumento per discernere se un particolare flusso finanziario dallo Stato alle imprese da esso controllate sia un aiuto oppure vada valutato come un qualsiasi normale intervento di chi detiene pacchetto azionario (ad es. aumento di capitale): solo nel primo caso scatterà l'ulteriore indagine per sapere se l'aiuto è compatibile o no con il Trattato (ed in ciò ha ragione la Corte nel precisare che la direttiva non dà alcuna definizione di aiuto).

In secondo luogo il campo di applicazione degli artt. 87 e 88 è diverso, soggettivamente ed oggettivamente, da quello dell'art. 86. Non c'è dunque mo­tivo per invocare le due prime norme allo scopo di limitare l'applicazione della seconda. Infine si tratta di uno strumento di cui la Commissione non gode ai sensi dell'art. 88.

È certo che per consentire un efficace intervento ex artt. 87 e 88 avrebbe dovuto prevedersi non solo un'informazione automatica (che è prevista solo per il settore manifatturiero) e sistematica, ma altresì che essa fosse preventiva: la difficile ricer­ca di un compromesso ha infiacchito lo strumento.



6. La situazione italiana: La legge Prodi e la sua evoluzione.


Nonostante il « reciproco avvicinamento » che ha interessato negli ultimi anni gli ordinamenti nazionale e comunitario, avvicinamento caratterizzato da un lato dall'ingresso ed elevazione a valore costituzionale in Italia del principio del mercato, e dall'altro dall'accresciuta valenza delle istanze sociali nell'« acquis » comunitario, sussistono ancora dei settori nei quali disposizioni nazionali originate da particolari scelte di politica economica e sociale possono dar luogo a conflitti con le norme comunitarie a tutela della concorrenza e del mercato.

Fra tali disposizioni nazionali deve essere annoverato l'articolo 2-bis del D.L. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 aprile 1979, n. 95, recante « Provvedimenti per l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi » (meglio nota come « Legge Prodi », come sarà definita nel prosieguo), relativo alla garanzia del Tesoro per alcuni debiti delle grandi imprese in crisi, ammesse alla procedura di amministrazione straordinaria. Questa norma infatti, in caso di applicazione indiscriminata della Legge Prodi,  può dar luogo a violazioni degli articoli 87 e 88 del Trattato di Amsterdam.

Come noto, la Legge Prodi costituisce un'alternativa al fallimento e disciplina l'amministrazione straordinaria di « grandi » imprese commerciali in situazioni di « crisi », nella prospettiva di un loro « risanamento » (articolo 2,5° comma) « in quanto possibile » (ibidem), da conseguire secondo un piano predisposto da uno o più commissari governativi, incaricati di gestire la procedura. Il piano deve essere « coerente con gli indirizzi della politica industriale, con indicazione specifica degli impianti da riattivare e di quelli da completare, nonchè degli impianti o complessi aziendali da trasferire e degli eventuali nuovi assetti imprenditoriali » (ibidem).

La nozione di « grande impresa » si deduce dal primo comma dell'arti­colo 1 della Legge Prodi, ed è quella di un'impresa astrattamente assogget­tabile a fallimento ai sensi dell'articolo 1 della Legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267), che abbia da almeno un anno un numero di addetti, compresi quelli ammessi alla « cassa integrazione », non inferiore a trecento. A sua volta la situazione di « crisi » descritta dalla Legge Prodi si concretizza in un'esposizione debitoria verso il sistema bancario e gli enti di previdenza e assistenza sociale non inferiore a 80,444 milioni di lire , superiore a cinque volte il capitale sociale e risultante dall'ultimo bilancio approvato. La procedura di amministrazione straordinaria viene altresì di­sposta in caso di accertamento giudiziale dello stato di insolvenza dell'im­presa o in caso di omesso pagamento ai dipendenti di almeno tre mensilità di retribuzione.

Un articolo 1 bis inserito nella Legge Prodi dal D.L. 23 gennaio 1993, n. 17, convertito dalla legge 25 marzo 1993, n. 80 (d'ora innanzi, « L. 80/93 ») prevede un ulteriore caso di applicazione dell'amministrazione straordinaria, costituito dalle imprese con almeno trecento dipendenti (compresi quelli in « cassa integrazione » ) , il cui stato di insolvenza sia stato determinato dal­l' obbligo di restituire allo Stato, ad enti pubblici o a società a prevalente partecipazione pubblica, di somme non inferiori al51 % del capitale versato e comunque a 50 miliardi di lire, in forza di « decisioni di organi comunitari adottate in applicazione degli artt. 92 e 93 del trattato istitutivo della Comunità economica europea ».

li D.L. 23 dicembre 1993, n. 532 ha aggiunto un comma 1 bis della Legge Prodi, allargandone ulteriormente l'ambito di applicazione ad imprese in stato di insolvenza che abbiano avuto nell'ultimo triennio un numero medio di addetti ( compresi quelli in « cassa integrazione » ) non inferiore ad ottocento, ed abbiano un'esposizione debitoria verso lo Stato, enti pubblici o società a prevalente capitale pubblico per una somma non inferiore al51 % del capitale versato e comunque non inferiore a 50 miliardi di lire, in relazione a finanziamenti concessi per innovazioni tecnologiche ed attività di ricerca.    Come si vede, quindi, provvedimenti successivi hanno via via dilatato l'ambito di applicabilità della Legge Prodi, rendendola sempre più simile ad uno strumento di politica economica e sociale spesso consistente nell'artifi­cioso differimento dell'uscita dal mercato di imprese irreversibilmente de­cotte.

L' esposizione appena svolta dei casi di ammissione all' amministrazione straordinaria sarebbe sufficiente a palesare il rischio di violazione di norme comunitarie in caso di applicazione impropria della Legge Prodi, specie in considerazione del « rimedio » all'obbligo di restituzione di aiuti di Stato disposto dalle autorità comunitarie, previsto dall' articolo 1-bis, comma 1, idoneo ad avviare un pericoloso gioco di azione e reazione tra provvedimenti comunitari e nazionali.

Tuttavia, la disposizione che più appare in contrasto con i principi comunitari in materia di aiuti di Stato è senza dubbio l'articolo 2-bis, relativo alla garanzia del Tesoro per i debiti delle imprese ammesse all'amministra­zione straordinaria.

L' articolo 2-bis della Legge Prodi prevede la possibilità che il Ministero del Tesoro garantisca in tutto o in parte i debiti che le società in ammini­strazione straordinaria contraggono con istituzioni creditizie per il finanzia­mento della gestione corrente e per la riattivazione ed il completamento di impianti, immobili ed attrezzature industriali.

In via generale, l'intervento dello Stato volto a fare ottenere finanzia­menti ad un'impresa incapace (per l'assenza di proprie garanzie patrimoniali) di procurarseli autonomamente è considerata dalla Corte un aiuto di Stato. Inoltre anche la garanzia di debiti di alcune imprese da parte dello Stato è considerata un aiuto vietato dall'articolo 87 , specie se tale garanzia, come si deduce dalla formulazione dell'articolo 2 bis, sembra non implicare necessariamente il risanamento della beneficiaria. Ciò avviene ad esempio nel caso delle garanzie concesse per il finanziamento della gestione corrente. Una simile illazione è altresì suffragata dal fatto che, come già evidenziato sopra, il programma predisposto dai commissari implica un risanamento solo « in quanto possibile » (articolo 2,5° comma, Legge Prodi).

Con la pubblicazione del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (in G,U. no 185 del 9 agosto 1999) giunge a conclusione, dopo circa un ventennio, l'esperienza della legge Prodi (d.l. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito in 1.3 aprile 1979, no 95).

L 'intervento del legislatore in questa delicata materia appare quantomai opportuno in quanto la normativa del 1979 era stata fatta oggetto di molteplici censure da parte degli organi comunitari (Commissione europea prima e Corte di Giustizia delle Comunità europee poi), che in diverse occasioni ne avevano asserito l'incompatibilità con le disposizioni e gli orientamenti comunitari in tema di aiuti di Stato, con conseguente effetto lesivo del principio di concorrenza.

Con la l. 30 luglio 1998, n, 274, veniva pertanto conferita al Governo la delega a provvedere alla ridefinizione della disciplina dell'istituto che, nell'occasione, vede anche mutare la propria denominazione da "amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi" a "amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza". Sostanzialmente invariata si presenta la finalità precipua dell' istituto che, nei casi in cui il dissesto dell' impresa comporti allarmanti ricadute sul piano economico-sociale, mira alla salvaguardia, sussistendo determinati presupposti, del "bene­impresa", la cui rilevanza si coglie tanto sotto il profilo della produzione quanto sotto quello dell' occupazione.

Il decreto legislativo in oggetto prende le mosse dall'esposizione della natura e delle finalità dell'amministrazione straordinaria; questa viene definita come la procedura concorsuale della grande impresa commerciale insolvente ed è diretta alla conservazione del patrimonio produttivo, tramite la prosecuzione, la riattivazione ovvero la riconversione dell'attività (art. 1).

In secondo luogo viene circoscritto l'ambito di soggetti che possono essere ammessi alla procedura; specificamente possono accedere all'amministrazione straordinaria le imprese, anche individuali, soggette alla legge fallimentare e che presentano, congiuntamente, i seguenti requisiti: lavoratori subordinati in misura non inferiore alle duecento unità (inclusi quelli che eventualmente fruiscono del trattamento di integrazione guadagni), nonchè "debiti per un ammontare complessivo non inferiore ai due terzi tanto del totale dell'attivo dello stato patrimoniale che dei ricavi provenienti dalle vendite e dalle prestazioni dell'ultimo esercizio" (art. 2).

Ulteriore requisito è posto dall'art. 27 che subordina l'ammissione alla procedura alla condizione che l'impresa dichiarata insolvente presenti concrete prospettive di recupero; tale risultato deve realizzarsi, alternativamente, mediante "la cessione dei complessi aziendali, sulla base di un programma di prosecuzione dell'esercizio dell'impresa di durata non superiore ad un anno" ("programma di cessione dei complessi aziendali"), ovvero "tramite la ristrutturazione economica e finanziaria dell'impresa, sulla base di un programma di risanamento di durata non superiore a due anni" ("programma di ristrutturazione").




Così l' art. 2, secondo alinea, della Direttiva n. 80/723 CEE, sulla trasparenza.

La richiamata definizione chiarisce in maniera esauriente la nozione di impresa pubblica anche se va rilevato che, come precisato dalla stessa Corte di giustizia,( nella Sentenza "Imprese pubbliche - trasparenza nelle relazioni finanziarie con lo Stato" cause riunite 188-190/80), punto 24 della motivazione, le disposizioni dell art. 2 «non hanno lo scopo di definire [la nozione di impresa pubblica] quale compare all'art.90 del Trattato, ma di stabilire i criteri necessari per circoscrivere la categoria di imprese le cui relazioni finanziarie coi pubblici poteri sono soggette all'obbligo di informazione con­templato nella Direttiva»-.


Così il punto 25 della motivazione della già citata Sentenza «Imprese pubbliche - trasparenza delle relazioni finanziarie con lo Stato», cause riunite 188­- 190/80.


Sentenza del 2 febbraio 1988, in cause riunite 67, 68 e 70/85.


L'art.295 del Trattato di Amsterdam(art. 222 del Trattato di Roma) dispone che: «il presente Trattato lascia del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri» .


Così la Commissione nella Decisione 21 dicembre 1993, n. 94/118/CE, «relativa all'aiuto che l'lrlanda intende conferire al gruppo Aer Lingus, un'impresa operante prin­cipalmente nel settore dei trasporti aerei» (in G.U.C.E. n. L 54, del 25/2/94, p. 30).


Così la «Sesta relazione sulla politica di concorrenza», riferita al 1976 (Lussem­burgo 1977).


L' art. 41 della Costituzione dispone che: ..l'iniziativa economica è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, al­la libertà, alla dignità: umana.

La Legge determina i programmi e i controlli opportuni perchè l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.


Una recente ricerca dell' ISPES ha evidenziato che «oltre un quarto della ricchezza nazionale viene prodotto nel settore pubblico»( così il Rapporto Italia '90). La ricerca ha messo, tuttavia, in luce che un intervento troppo massiccio dello Stato ha finito col com­portare scompensi nel sistema. V'è da aggiungere che la realizzazione del mercato interno e dell'Unione europea, ha assecondato l'esigenza di ridurre I'importanza strategica del settore pubblico.


Così la Commissione nella "Sesta relazione sulla politica di concorrenza".

In base al principio della economicità le imprese devono mirare a coprire almeno i costi. Ciò comporta che non vi sia «nulla in contrario al fatto che vi siano degli investi­menti che possono originariamente concludersi con un perdita di esercizio giustificata dal particolare fine sociale, ma questo non deve tradursi in una regola d'azione»

Come chiarito dalla Corte di giustizia nella Sentenza del 16 giugno 1987, in causa 118/85, «Commissione delle Comunità europee contro Repubblica italiana", «Traspa­renza delle relazioni finanziarie tra gli Stati membri e le imprese pubbliche" (in Raccolta 1987-6, p. 2599), al punto 7 della motivazione, le imprese pubbliche soggette alla disciplina della concorrenza sono quelle che svolgono «attività economiche di natura in­dustriale o commerciale che consistono nell'offrire beni e servizi sul mercato" escludendo con ciò le ipotesi in cui lo Stato svolge il ruolo di potere pubblico.

L'art86/3 del Trattato di Amsterdam (art. 90, par. 3 del Trattato istitutivo della CEE) dispone infatti che: «la Commissione vigila sull'applicazione del presente articolo».


Art.5 del Trattato CEE.

Art.222 del Trattato CEE.

L'enterprise publique dans la Communautè Economique Europèenne: Annales du CEEP 1990(vol.II).

Tipico, ad esempio il caso «Alfa Romeo" (Decisione della Commissione 89/661/CEE, del 31 maggio 1989, «relativa agli aiuti concessi dal Governo italiano all'impresa Alfa Romeo (settore automobilistico)" in G.U.C.E. n. L 394, del 30/12/89, p. 9), in cui la Commissione, ha sanzionato l'incompatibilità di alcuni aiuti a distanza di 4 anni dalla loro erogazione. Dopo aver chiesto al Governo italiano alcune informazioni relative ad apporti di capitale non notificati con una lettera del1 ° ottobre 1986, anche per via della scarsa collaborazione prestata durante la procedura di indagine amministrativa la Commissione non ha potuto assumere la Decisione prima del maggio



Nella «Seconda relazione sulla politica di concorrenza», la Commissio­ne afferma, punto 124, che non costituisce un problema il fatto che lo Stato im­prenditore conduca un'azione «dettata da imperativi che superano i limiti della semplice ricerca del profitto» in quanto «questa caratteristica inerisce alla proprietà pubblica, di cui all'art. 222 ammette l'esistenza con la sua particolare vocazione». È solo nei casi più gravi - prosegue la Commissione - in cui sia evidente l'intezione dello Stato di sostenere una impresa fino al superamento delle difficoltà economiche, che l'Esecutivo comunitario potrà determinare «in base ad una conoscenza dell'attività di questi organismi e a poste­riori» [...] «se le loro assunzioni di partecipazioni abbiano o meno degli effetti di aiuto».


La «Quinta relazione sulla politica di concorrenza», riferita al 1975 (Lus­semburgo 1976 ), punto 159, la Commissione osserva che: «il comportamento delle imprese pubbliche che possono valersi delle risorse dello Stato per un periodo piuttosto lungo può porre un problema di distorsione della concorrenza. Infatti, tali imprese non so­no sempre obbligate a rispettare gli stessi criteri di redditività delle imprese private dello stesso settore;in molti casi esse non possono farlo, dato il tipo di gestione imposto dallo Stato».

Secondo l'ultimo aggiornamento dell'ammontare indicato nel primo comma dell'ar­ticolo 1 della Legge Prodi (in origine, 35 miliardi di lire), operato con decreto del Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato del 30 aprile 1996, in G. Uff. 7 maggio 1996, n.105





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