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IL DECISIONISMO DI CARL SCHMITT

politica



IL DECISIONISMO DI CARL SCHMITT


1.La definizione della sovranità come chiave di volta del decisionismo schmttiano.

"Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione"[1]: con questo celebre ( e celeberrimo ) Spruch si apre il famoso saggio di Carl Schmitt del 1922 dedicato alla Teologia politica.

Uno scritto, quello in questione, che, a ragione, può essere ritenuto l'essenza della visione politica e giuridica di Schmitt nota anche come dottrina del decisionismo. In Teologia politica il momento in cui la decisione assurge al ruolo di summa auctoritas è proprio quello in cui lo stato di eccezione[2] si manifesta in tutta la sua forza dirompente.



Schmitt sente che è necessario che sia così, è necessario cioè che le sue caratteristiche siano l'imprevedibilità e la non preventiva regolamentazione, che esso sia, per così dire, perfettamente pensabile ma non sensibilmente conoscibile. Se, ragionando per assurdo, l'ordinamento giuridico contemplasse una situazione di tale eccezionalità, i due concetti intorno ai quali si dispiega il suo decisionismo - quello di sovranità e di decisione - perderebbero tutta la loro peculiarità e, perché non ammetterlo, il loro fascino. Schmitt ne è perfettamente consapevole quando utilizza, quasi con spregiudicatezza, il caso di eccezione per dimostrare che la definizione di sovranità come decisione è possibile solo se "non è applicabile al caso normale, ma ad un caso limite"[3].

L'essenza della sovranità, infatti, viene quasi offuscata nella normalità e si palesa invece nell'eccezione; lo studio della stessa e del potere sovrano che in essa si esplica, dunque, è anche e soprattutto studio della normalità e della sovranità ad essa associata, ma occultata, come scrive ancora Schmitt, dietro una "crosta di ripetizioni"[4].

La prima considerazione che possiamo fare allora è che il concetto di eccezione è senz'altro usato in Teologia politica principalmente in chiave euristica, come mezzo per conoscere il generale perché "l'eccezione è più interessante del caso normale. Quest'ultimo non prova nulla, l'eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola; la regola stessa vive solo dell'eccezione"[5]. Si noti come l'insistenza con cui Schmitt contrappone l'una all'altra lo porti, quasi inevitabilmente, a squilibrare il rapporto; proprio quest'ultimo passo del saggio del 1922, infatti, sembra suggerire un'interpretazione che dà al caso d'eccezione un altro tono, diverso e certo più pregnante: dire che "la regola stessa vive solo dell'eccezione" significa, in buona sostanza, segnare il primato dell'eccezione sulla normalità. Questa impostazione finisce con l'essere legata a doppio filo all'esaltazione fascista del 'concreto' e del 'vitale' e con l'avere spaventosi punti di contatto con la storia della Germania nazista. "L'eccezione e tutte le cose spaventose del XX secolo - si legge in un interessante volume pubblicato in Italia nel 1994 - hanno al nocciolo a che fare col fatto che ( in qualche misura ) gli uomini ( e i tedeschi per primi ) permisero che ci si convincesse ad assumere l'eccezione come norma e la preparazione alla morte come fondamento della vita" .

Si delinea così una doppia declinazione, potenzialmente contraddittoria, del riferimento al caso eccezionale: esso viene utilizzato in prima battuta come concetto-limite atto a criticare la pretesa della normalità di proclamarsi 'Tutto', ma, contemporaneamente, nell'opporlo alla normalità, il politologo tedesco fonda una 'totalità dell'eccezione' che si proclama a sua volta come 'Tutto' svilendo, o tentando di svilire, il valore del caso normale.

Così, paradossalmente, il potere si manifesta solo nelle circostanze eccezionali, anzi, di più: il potere esiste solo in tali circostanze, nella normalità il suo esercizio ordinario è mera routine.

"In tempi normali - scrive Schwab, utilizzando una felicissima immagine - il sovrano ( per Schmitt ) [.] dorme, per essere poi prontamente destato al momento cruciale, cioè al confine tra normalità e stato d'eccezione"[7].

Schnur, commentando la definizione di sovranità di Schmitt, afferma che non si può negare che la stessa possegga "il merito di aver messo in luce un aspetto della realtà fino a quel momento trascurato dall'attenzione giuridica. Essa, tuttavia, essendo concepita ad un solo livello, è priva di significato nella situazione di normalità.

Ma quest'ultima situazione [.] non è meno interessante del caso d'eccezione"[8].

E' chiaro che il primato assegnato all'eccezione da Schmitt affonda le sue radici in un rifiuto, per così dire ideologico, della norma.

L'esaltazione dell'eccezione e della "filosofia della vita concreta"[9] di contro alla normalità e al razionalismo non è che la spia di una vera e propria lotta ingaggiata da Schmitt contro la legge.

Lo scopo è di far prevalere, contro le pretese borghesi di generalità e astrattezza, un diritto che non si costruisce intorno alle norme, ma intorno alla forza del provvedimento concreto, intorno alla decisione. Il pensiero liberale viene preso di mira dal politologo tedesco anche perché esso si è orientato verso una progressiva espulsione dell'eccezione dal campo del diritto. Già in Kant "il diritto di necessità non è più in nessun modo diritto"[10]. In Kelsen, poi, lo stato di necessità è del tutto escluso in quanto l'unica realtà possibile è quella normativa.

Ciò sarebbe dovuto per Schmitt alla metamorfosi verificatasi all'interno della società per ceti che ha prescritto numerosi e sempre nuovi ostacoli al potere dello Stato. Il risultato è stato quella caratteristica situazione per cui la libertà del singolo è concepita come extrastatuale e illimitata, mentre il margine d'azione dello Stato è ristretto entro precisi limiti all'interno dei quali non c'è spazio per le necessità della politica.

Ma c'è un secondo motivo che spiega la ripugnanza dello Stato borghese di diritto verso l'eccezione: le analisi di Weber sono tutte indirizzate ad evidenziare il rapporto molto stretto esistente tra la moderna concezione del diritto e l'economia.

"L'industria capitalistica - scrive Weber - deve poter contare sulla continuità, sulla sicurezza e sulla oggettività del funzionamento dell'ordinamento giuridico, sul carattere razionale, e in linea di principio calcolabile, dell'accertamento del diritto e dell'amministrazione.

Altrimenti mancano quelle garanzie di calcolabilità che sono indispensabili per la grande impresa industriale-capitalistica"[11].

Per Mommsen, Weber è consapevole che la razionalità formale del diritto è un "presupposto sostanziale dei calcoli capitalistico-borghesi e risiede perciò nell'interesse delle classi borghesi"[12].

L'espulsione dell'eccezione dal diritto porta con sé lo svilimento del concetto di sovranità che è rilevante per Schmitt solo in una situazione di fatto eccezionale. Solo allora infatti le competenze ordinariamente attribuite tacciono giacché non trovano applicazione le norme che le attribuiscono e si presenta il problema della competenza sulla competenza ovvero il problema del "chi decida intorno alle competenze non regolate dalla Costituzione"[13].

Si badi, la sovranità viene ad esistere per Schmitt solo insieme alla decisione riuscita, la d 242h78c etermina, ma, contemporaneamente, viene essa stessa determinata. A questo proposito vale la pena di riportare quanto afferma, in uno dei più interessanti studi italiani sul caso- Schmitt, Giuseppe Duso, che ritiene sia da escludere l'esistenza di "un soggetto pre e a-politico, che si costituisce cioè come tale fuori dalla sfera politica e appaia legittimato nella sua detenzione del potere politico" .

Il soggetto diviene sovrano solo nel decidere e in ciò è la sua indeducibilità, la sua infondatezza; è sovrano solo in quanto è riuscito a decidere, paradossalmente fondato proprio da ciò che a lui richiederebbe fondazione: è la decisione a renderlo Principe.

Si registra così la massima divaricazione tra Schmitt e la riflessione classica sulla sovranità: ciò che dovrebbe dare una giustificazione e chiudere l'ordinamento, viene mostrato, senza occultamento, come ingiustificato. Nella normalità è possibile indicare la competenza e, quindi, il perché del chi decide; nel caso di eccezione invece è il nudo fatto che una decisione sia stata presa a determinare il sovrano, un'altra decisione, purché efficace, sarebbe stata sovrana allo stesso modo.

La definizione della sovranità attraverso l'eccezione, dunque, segnala, di pari passo con il suo recupero, la crisi del soggetto sovrano in quanto soggetto sì fondante, ma infondato, destinato probabilmente a soccombere dinanzi ad altri soggetti sovrani che ne sveleranno la costitutiva nullità.

"Schmitt sembrerebbe [.] enfatizzare il momento innovativo, di rottura beneficamente 'catastrofica' della decisione rispetto agli equilibri costituzionali vigenti e, almeno sotto il profilo teorico, condividere con Nietzsche e Max Weber un elemento di sostanziale discontinuità con la tradizione etico-politica europea: la crisi di fondamenti su cui si reggeva il soggetto classico della sovranità"[15].

Nel decidere, allora, il soggetto sovrano afferma sì se stesso e il proprio potere ma, contemporaneamente ( e, diremmo, paradossalmente ), come notò efficacemente uno degli 'allievi' socialdemocratici di Schmitt, Otto Kirchheimer[16], l'infondatezza del potere, la precarietà di tutte le decisioni e dunque la continuamente sfuggente traslatività della sovranità nelle società conflittuali. E' questo un aspetto fondamentale del decisionismo schmittiano che, benché rivolto, a nostro avviso, al recupero della visione sostanziale del potere, non si esaurisce nell'apologia dello stesso, ma ne svela le sue intrinseche debolezze.

Per chiarire esaustivamente questo punto è necessario partire dall'analisi dell'altro concetto-chiave del decisionismo, quello di decisione.

Mario Nigro scrive che "Il guaio è che il nostro studioso, se ha sempre parlato di decisione politica a proposito degli argomenti più vari, non ha mai dedicato al concetto un'apposita riflessione. Tutti gli scritti di Schmitt ruotano intorno al concetto di decisione, nessuno se ne occupa espressamente ed esaurientemente"[17]. Resta così il problema di che cosa intenda Schmitt per decisione politica: essa è un fatto storico, un'idea-forza, un'entità reale o un momento emblematico? E' un fatto istantaneo o un processo? Le domande potrebbero - e a ragione - moltiplicarsi , senza peraltro giungere ad una risposta che possa dirsi del tutto coerente. Sembra indubbia la sua valenza di idea-forza del decisionismo e, nel contempo, il suo avere un significato molto più che simbolico. La decisione è un fatto reale, è concreta. La sua concretezza è consapevolezza della situazione storica particolare, capacità realistica di non sfuggire alla sfida del presente in cui si agisce, di separarsi dalle illusioni generate dalle filosofie della storia progressiste o dalle nostalgie tradizionalistiche.

La decisione è concreta in quanto si confronta con il reale sapendo di non poter contare, a causa del processo di secolarizzazione e del conseguente weberiano politeismo dei valori, su alcun fondamento comunemente ed indiscutibilmente accettato.

Essa deve collocarsi in tale, frammentata, realtà, definire il campo delle proprie possibilità di scelta, scegliere e, quindi, limitare la propria tendenziale indeterminatezza, derivante dalla convinzione che, una volta eclissatisi sostanza e fondamento, tutto diventi equivalente ed indifferentemente possibile.

Quando nella sua Theologie Politishe Schmitt scrive che, dal punto di vista normativo, la decisione è "nata dal nulla"[19], egli vuole dire che l'auctoritas non ha bisogno di diritto per creare diritto.

Si badi, ciò non significa affatto che la decisione per Schmitt sia extragiuridica ma solo che deve creare norme a partire da una situazione di assenza di norme: è quest'assenza che le dà fondamento, non certo l'ordinamento giuridico.

Ma, solo dal punto di vista delle norme e non del Diritto in generale, la decisione sul caso d'eccezione gli appare "nata dal nulla", capace di annullare la norma: quella decisione è esplicitamente trattata come un istituto giuridico, e il caso d'eccezione è definito un "concetto generale della dottrina dello Stato". Così, "entrambi gli elementi, tanto la norma quanto la decisione, permangono all'interno della giuridicità" .

Tutto ciò significa che la decisione non dovrebbe essere arbitraria (    anche se il rischio è che finisca con l'esserlo ), che, se è vero che essa non presuppone una sostanza che la fondi ma, anzi, un'assenza di sostanza ( o di Idea ), tuttavia, in quest'assenza sono impliciti anche un compito e un dovere: il rendere effettuale l'Idea del Diritto ovvero, anche se il termine non appare in quanto tale nel saggio sulla teologia politica, la sua rappresentazione.

La decisione, infatti, è l'azione che sta fra l'Idea e il caso concreto, l'azione che crea la forma giuridica.

Questo agire, però, non sta rispetto all'Idea in un rassicurante rapporto di rispecchiamento, anzi: tra l'Idea del diritto e il caso concreto c'è una pericolosa discontinuità, un disordine radicale, e, quindi, la prassi che su quell'abisso si apre non è un calcolo, ma, come scrive Carlo Galli "un salto, un'assunzione di rischio" .

Assumere radicalmente l'assenza di continuità tra Idea e caso concreto, riconoscere in ciò il concreto che spezza definitivamente la tautologia della mediazione moderna, è la decisione, "è il cuore del decisionismo schmittiano che esclude ogni fondabilità dell'ordine su di un qualsivoglia terreno saldo"[22]. Alla decisione Schmitt affida il compito di ricreare una possibile 'forma' rappresentativa, quella rappresentazione dell'ordine che, in passato assicurata dalla capacità della Chiesa Cattolica di fondere i diversi in una complexio oppositorum, è stata resa impossibile dalla modernizzazione e dalla conflittualità diffusa e sempre più difficilmente mediabile della società moderna.

La superiorità formale della Chiesa rivendicata da Schmitt in Cattolicesimo romano e forma politica, lungi dall'alludere ad una superiorità priva di aspetti contenutistici, consiste nella sua capacità di 'creare forma', di produrre ordine. La sua potenza politica sta nella sua capacità di riconoscere la conflittualità, senza ritirarsi lontano da essa, in astratte trascendenze assolute, né illudersi di annullarla totalmente: "non le si addicono - scrive Schmitt - né la disperazione delle antitesi, né l'illusoria alterigia della sintesi" . L'ordine degli opposti di cui la Chiesa è produttrice è, sì un ordine razionale, formale nel senso che compone i contrasti in un equilibrio superiore e conserva il senso classico della misura e della moderazione, ma, allo stesso tempo, è sostanziale nel senso che il suo modo di mediare non è un semplice amministrare contrasti e differenze, neutralizzandoli con la creazione di un apparato tecnico-amministrativo.

La Chiesa, infatti, conserva sempre un riferimento trascendente: la sua capacità formatrice è assicurata dal presentarsi come rappresentativa della persona di Cristo[24].

E' per questo che la sua mediazione non può identificarsi con un ordine tecnico-amministrativo: l'istituzione-Chiesa è pur sempre immagine visiva di una trascendenza, di un'ulteriorità assicurata dall'incancellabile riferimento all'incarnazione. Grazie a questo suo radicamento nel trascendente, la Chiesa può istituire un ordine che, diversamente dall'ordine moderno, non conosce scissioni o lacerazioni.

Ecco perché essa è, deve essere, un modello: così come la Chiesa, le sue istituzioni, ed in primo luogo il sacerdozio, rappresentano Cristo, così il Politico 'incarna' un'idea dato che "nessun sistema politico può durare, anche solo per una generazione, con la sola tecnica della conservazione del potere. Al 'politico' inerisce l'idea, dato che non c'è politica senza autorità, né c'è autorità senza un ethos della convinzione"[25].

Anche nel mondo del Politico è necessario conservare, sul modello della rappresentazione cattolica, un elemento di apertura alla trascendenza.

Questa trascendenza, però, non è più la trascendenza di Cristo, una trascendenza portata da una persona, incarnata, quanto piuttosto un richiamo ad un elemento non razionale, diremmo mitico[26], di scelta, di decisione. Se è vero che non può esservi vero politico senza forma e forma senza ulteriorità, idea, rappresentazione, è anche vero che l'epoca non permette di recuperare la Trascendenza e di operare un'autentica 'rappresentazione': "quando lo Stato diventa Leviatano scompare l'universo rappresentativo" .

Questa consapevolezza della scomparsa della possibilità di ricorrere al modello rappresentativo della Chiesa Cattolica fa nascere in Schmitt la convinzione che, fuori dall'universo rappresentativo, l'ordine possibile potrà riposare solo sulla sua stessa efficacia.

Alla sostanzialistica rappresentazione cattolica deve sostituirsi la funzionalistica decisione: l'ordine sarà ricostruito da chi sarà in grado, nella concretezza della situazione storica, di fare presa sul reale e di assicurare il massimo grado possibile di neutralizzazione attiva del conflitto.

E' da ricacciare, dunque, l'interpretazione che vede Cattolicesimo romano e forma politica come un testo sostanzialmente apologetico[28], una difesa del pensiero e della tradizione cattolici contro la deriva prima razionalistica e poi nichilistica della modernità.

Carlo Galli, pur mettendo in risalto le fonti cattoliche del pensiero schmittiano, ha sottolineato fortemente la distanza di Schmitt da recuperi degli aspetti sostanzialistici del cattolicesimo politico; il ricorrere alla decisione nasce dalla necessità di "allontanare da sé, per quanto possibile, la contraddizione" e produrre l'agognata unità.

D'altra parte è la sensibilità cattolica che permette a Schmitt di pensare con tanta radicalità lo Stato e la storia, di coglierne la 'modernità', la strutturazione categoriale, allo stesso tempo autonoma ( il Moderno come 'crisi' ) e incompleta ( la necessaria apertura alla trascendenza produttrice di ideologie 'fondative' ), di prendere sul serio l'autogiustificazione dello Stato ( la sovranità ) e di coglierne l'aspetto nichilistico senza nostalgie e moralismi.

Ma - concordiamo ancora con Galli - "il cattolicesimo è davvero in lui solo un 'punto di vista', non un'ideologia, perché, in fondo, Schmitt resta a tutti gli effetti un pensatore laico"[30]. Tenendo conto di queste considerazioni anche il rapporto teologia-politica appare molto più chiaro: in Teologia politica si legge che "tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati" . Il contatto tra teologia e politica risiederebbe, dunque, per Schmitt, nelle analogie tra le strutture sistematiche dei concetti teologici e giuridico-politici: la secolarizzazione avrebbe trasposto progressivamente ed inesorabilmente i primi nei secondi in ciò agevolata da un'affinità tra gli stessi che "s'impone sul piano teorico-giuridico e pratico- politico" . Quale esempio di concetto giuridico di origine teologica Schmitt assume come centrale quello di sovranità il cui attributo di 'onnipotenza' è ricavato dalla secolarizzazione del concetto del Dio personale per il Cristianesimo.

La chiave di lettura per la comprensione della teologia politica schmittiana sembrerebbe, dunque, l'interpretarla come una tesi sull'analogia strutturale dei concetti politici e di quelli teologici, ridurla a quella sociologia dei concetti giuridici di cui Schmitt tenta di delimitare un possibile statuto metodologico.

In realtà questa lettura in senso analogico-formale, per quanto coerente con la laicità della sua teoria politica, non ci appare del tutto soddisfacente: il legame tra teologia e politica ha una portata ed un senso diversi e ben più pregnanti. E' necessario a questo punto fare chiarezza: posto che "la verità sostanziale comunque attinta, non è mai solo umana ma implica sempre il dominio di una qualche forma di teologia"[33];e che la teoria politica di Schmitt, per quanto profondamente laica, trova anche nelle analogie e nelle differenze con la teologia la sua ragion d'essere, va subito detto che la teologia politica non è, nel suo caso, necessità di un fondamento dell'ordine politico, non laicizzato, religioso.

Si è già visto come in Cattolicesimo romano il richiamo ad una trascendenza sia esclusivamente di tipo formale, esso è la necessità, per chi agisce politicamente, di richiamarsi ad un complesso di valori e principi, ad un'Idea che dia senso al 'politico'. Dare una lettura cattolica, e cattolico-tradizionalista, del pensiero schmittiano, dunque, in base all'atteggiamento nostalgico che Schmitt ha nei confronti della modernità e al fatto che si palesano nella sua opera le influenze dei controrivoluzionari De Maistre, Bonald e Donoso Cortès, è semplificatorio e, in buona sostanza, significa stravolgere molti aspetti del suo pensiero.

Quello di Schmitt resta un pensiero profondamente laico: quando egli deve offrire un esempio di consapevolezza della portata teologica della sovranità, il suo campione è, infatti, non un teorico medievale ma proprio il più coerente fondatore della laicità dello Stato: Thomas Hobbes. In Hobbes Schmitt rintraccia l'assunzione degli elementi volontaristici e personalistici della sovranità: la teoria hobbesiana, da cui Schmitt prende spunto, si mostra consapevole dell'impossibilità di chiudere la forma politica con una legge impersonale ed astratta, della necessità, invece, che la forma venga posta da una decisione, creata da un atto di volontà.

Il pensiero di Hobbes è, per Schmitt, teologico-politico per eccellenza, non perché fondi la sovranità su un fondamento religioso, ma perché, prendendo atto della crisi dei fondamenti, assume la necessità di sostituire quel fondamento assente con la creazione artificiale dello Stato, creazione volontaristica e nominalistica. "La forma che egli ( Hobbes ) crea consiste nella decisione concreta, derivante da un'istanza ben precisa. Nel significato autonomo della decisione, il soggetto che la compie ha pure un significato autonomo accanto al suo contenuto. Per la realtà della vita giuridica ciò che importa è chi decide"[34].

La chiusura del sistema, il fondamento dell'ordine non sono mai assicurati, nella lettura schmittiana di Hobbes, da una legge naturale ma sono sempre decisi, posti senza una legittimità se non quella che nasce per il solo fatto di aver risposto adeguatamente alla concreta situazione storica in cui si agisce.

E' necessario e doveroso tenere conto del momento hobbesiano nel pensiero di Schmitt: solo così non si cede alla tentazione di liquidarlo come nostalgico della fondazione trascendente dell'ordine, solo così si comprende che esso è piuttosto la rivendicazione dell'elemento non prevedibile, non razionalistico, sempre contenuto nella fondazione dell'unità politica, elemento che s'incarna in un'ulteriorità già laicizzata, la decisione, che, per il modo in cui irrompe nella storia, può essere paragonata ad "una sorta di big bang politico"[35].

Come si è visto, la decisione politica non riposa su alcun fondamento - che ne costituirebbe sì la giustificazione ma costringerebbe Schmitt a riaffermare il fondamento come superiore ad essa - ed è, al tempo stesso, fondante. Si può progettare, porre nuove forme, per il politologo tedesco, solo sulla base di un atto che si riconosca libero, che trovi la propria giustificazione nella sua stessa esistenza e nel progetto cui dà vita.

Da una parte, dunque, il suo decisionismo è la riprova e lo specchio delle ambiguità del Moderno per la connessione al tema della crisi di fondamenti di cui sembra l'unico sbocco, dall'altro esso presenta un innegabile aspetto reattivo in quanto il suo obiettivo è quello di ricostruire una forma, di ricreare l'ordine perduto. Sarà possibile farlo tramite l'atto personale del Principe, perché egli è il titolare del monopolio della forza, è capace di esigere comportamenti, di creare le parole, di definirle, di usare un metalinguaggio o un supercodice che è quello dello stato, di imporlo ai sudditi per sua volontà.

Schmitt esalta la decisione "qualunque essa sia"[36], perché vale il detto "il meglio al mondo è un comando" e porta all'esasperazione l'opinione di Hobbes secondo cui qualunque decisione va bene purché eviti l'anarchia. La sua è una decisione che si realizza con la forza perché è pura e assoluta volontà soggettiva di comando che elimina la mediazione formale attraverso cui l'atto di volontà diviene comunicabile e conoscibile . I suoi effetti prescrittivi finiscono col riposare esclusivamente sulla puntualità e sulla forza contingente dell'atto medesimo, ridotto a 'fatto' materiale. La decisione diventa in questo modo autoreferenziale, è giusta perché atto assolutamente sovrano e, quindi, di per sé giusta. Sembra che si vada sfiorando il delirio di onnipotenza, ma il delirio non è solo vaneggiato, eccitazione dell'immaginazione, è azione. Il pericolo - è chiaro - risiede nella estrema labilità della linea di confine che separa l'azione decisiva da quella che è semplicemente espressione della forza bruta. Il potere e la forza rischiano così di confondersi, di diventare un tutt'uno, palesando "l'inattualità e l'improponibilità della 'grande politica' schmittiana, in quanto riduzione autoritaria della complessità" . In questa ottica, come si vedrà meglio in seguito, il decisionismo schmittiano finisce con l'essere strettamente legato ad una lettura del processo di secolarizzazione come demoniaco del potere che culminerà in una "teologia rovesciata" - la stessa di cui parla Matteucci a proposito di Hobbes - che si rivelerà una sorta di atea divinizzazione della forza. Il tutto culminerà, come ha efficacemente notato Bruno Iorio, in un "cattivo ateismo teologico in cui l'apparato repressivo viene prospettato come risolutivo ed esaustivo dell'intera nozione di potere" .



Politica e Diritto

Il pensiero politico di Schmitt si è sviluppato nel clima incandescente della repubblica di Weimar.

Appena uscita da una guerra che non sopportava di aver perso, la Germania s'incamminò a malincuore verso quella che è stata definita una democrazia improvvisata[42], priva cioè di radici nella tradizione politica tedesca.

Nei dibattiti della stessa Assemblea costituente di Weimar si sottolineava, anche da parte democratica, l'estraneità della cultura tedesca a un sistema - quello parlamentare - che pure dominava ormai l'Europa, un sistema che era stato uno dei principali fattori di differenziazione culturale e politica fra la Germania e l'Occidente. Schmitt sarà sempre polemico verso l'assetto politico ed ideologico della costituzione, senza attendere la crisi finale: già dal 1921 con La dittatura e nel '23, come vedremo, con il saggio sul parlamentarismo, ne mette in luce le debolezze. Il suo, però, non può definirsi semplicemente un rifiuto reazionario della costituzione di Weimar in quanto Schmitt finisce con l'accettarla, seppure interpretandola in modo diverso dai liberaldemocratici e dai socialdemocratici.

Per Schmitt, infatti, nonostante essa sia nata da una sconfitta ( non è stata preceduta da una rivoluzione ma dalla pace di Versailles ), è stata capace di prendere un'autentica decisione politica fondamentale intorno alla esistenza del popolo tedesco, la decisione di "dare al Reich tedesco il carattere di una democrazia costituzionale"[43].

Il compromesso complessivamente realizzato dalla costituzione di Weimar, contiene quindi per Schmitt, a questa altezza, anche una decisione autentica: la repubblica è uno Stato di diritto borghese, liberale che ha anche, subordinatamente, una legittimazione democratica e sociale. Nel suo pensiero, però, è già presente quella tensione fra l'elemento liberale e quello democratico della costituzione che esploderà quando la Repubblica verrà travolta, dopo il 1929, dalla una crisi economica e politica irreversibile.

A ciò si aggiunga che, per la sua forma mentis, il politologo non può essere ben disposto verso la democrazia parlamentare: non lo spinge in tal senso la sua formazione cattolica per lo più orientata verso il pensiero politico della Restaurazione e verso uno scetticismo radicale sulla bontà dell'uomo e sull'utilità della pacifica 'discussione'.

Ne deriva uno scetticismo profondo, una disperazione che lo porta ad un nichilismo negato da tentativi di ritorno, tramite il nuovo, all'antico. Sicuramente Schmitt deve avere presente il saggio di Michels sul partito politico, chiave di volta del parlamentarismo, in cui l'autore ne denuncia la struttura oligarchico-burocratica rivelando come ciò si traduca in un principio di autofinalizzazione politica , quando punta l'indice contro il sistema liberal-parlamentare che, nel momento in cui pensa di sancire la sua piena identità con lo Stato nella sovranità della norma, riporta una vittoria astratta.

Infatti, facendo riferimento al caso tedesco, lo spazio istituzionale e politico, via via strappato al potere del Reich, si rivela autoneutralizzato, al suo interno, dalle spinte e controspinte politiche provenienti dai partiti e dalle fazioni che, Stato nello Stato, estendono gradualmente la loro sfera d'influenza senza assumere dirette responsabilità politiche e decisionali.

Persino la decisione, che doveva nascere dalla discussione parlamentare come classica espressione della garanzia liberal- parlamentare della obiettività e della pubblicità di ogni scelta, si rivela, come rileverà, nel 1928, Otto Kirchheimer ( riprendendo Schmitt ), esclusivamente formale: "un Parlamento non è più dunque, luogo di discussione produttiva: è diventato luogo delle dichiarazioni pubbliche di opposti interessi di classe mentre le effettive decisioni sulle questioni politiche vengono prese in riunioni private, in commissioni ed incontri segreti" .

Nel suo saggio sul Significato attuale del parlamentarismo Schmitt, pur ammettendo lo stretto legame esistente nel XX secolo tra democrazia e parlamentarismo, rifiuta la riduzione dell'una all'altro ossia la loro equivalenza che ritiene artificiosa.

Questa è la convinzione che gli permette, recuperando in senso autoritario il concetto di democrazia, di attribuire al parlamentarismo e, con esso, al liberalismo ( nel suo aspetto normativo ) la causa dell'impotenza decisionale dello Stato e, quindi, la sua crisi perenne. A ben guardare, però, il politologo tedesco, nel porre le premesse per un modello di democrazia plebiscitaria, metaforizza, in termini estranei alla tradizione democratica, lo Stato della decisionalità sovrana.

Pensata in questi termini, la democrazia finisce col non essere il contrario della dittatura. "Bolscevismo e fascismo - scrive - sono certamente, come ogni dittatura, antiliberali, ma non necessariamente antidemocratici"[46]. Ciò è tanto più vero in quanto Schmitt riconosce che la salvaguardia dell'unità e dell'omogeneità del popolo può comportare, in alcuni casi, "la sospensione della democrazia in nome della futura, vera democrazia" , vale a dire la dittatura sovrana.

Il Parlamento - pensata in questi termini la democrazia - o diventa il simbolo di una utopica omogeneità nazionale oppure l'ostacolo in quanto luogo di contrattazione e difesa di fini particolaristici.

Quest'alternativa schmittiana è, dunque, solo retorica. Infatti, il Parlamento, come certo Schmitt non può non sapere, da un lato risponde ai gruppi sociali e di potere che lo esprimono, mentre dall'altro, non può non demandare ai partiti e ad loro organismi processi decisionali che, altrimenti, in una democrazia di massa, lo paralizzerebbero. L'esito è scontato, anche se Schmitt da questa alternativa deduce - strumentalmente - l'estraneità della democrazia dal Parlamento, attribuendo a quest'ultimo la responsabilità di impedire la realizzazione della democrazia e legittimando di conseguenza l'attuazione del suo concetto dottrinario di democrazia che si sedimenta essenzialmente nell'acclamazione del sovrano da parte del popolo. Ma il popolo di Schmitt non è un insieme di individui ragionanti, bensì una sorta di corpo mistico, attraversato da fremiti istintuali ed emotivi, carico di fattori storico-tradizionali non sottoposti a critica, ed, infine, ha bisogno di completarsi in un capo ( esattamente il contrario di ciò che diceva Rousseau a cui egli dice di rifarsi[48] ).

E' chiaro che, attraverso la sua critica al parlamentarismo, Schmitt abbia l'obiettivo di mettere in crisi lo Stato di diritto fondato sulla norma e sull'esercizio della democrazia parlamentare. Il suo avversario è naturalmente Kelsen che, in un celebre saggio del '26, ribadisce a chiare lettere  l'inscindibile legame tra parlamentarismo e democrazia .

Certamente anche Kelsen sa che la volontà del Parlamento non coincide con la diretta volontà del popolo, ma, a differenza di Schmitt, lo ritiene un fatto inevitabile in un moderno regime parlamentare dove "il concetto di libertà, quale concetto di autodeterminazione, si combina con l'ineluttabile necessità della divisione del lavoro"[50]. Ne deriva che il principio fondante il Parlamento e le sue procedure è la prassi del compromesso come d'altra parte dimostra la regola della maggioranza parlamentare, l'unica, secondo Kelsen, che garantisca un'integrazione in un clima di reciproca tolleranza .

Naturalmente ciò è inconcepibile per Schmitt: in una concezione dello Stato secondo il quale non esistono nemici ma solo concorrenti, è del tutto consequenziale che venga privilegiata la norma rispetto alla decisione che viene praticamente ignorata.

L'agire conforme a norme rende possibile la prevedibilità dei comportamenti e, quindi, in linea con la concezione secondo la quale lo Stato è al servizio di una società fondata sullo scambio, il calcolo razionale dei costi e dei profitti. Lo Stato diventa in tal modo solo "l'unità tecnico-economica di un sistema unitario di produzione e di scambio"[52].

In uno Stato siffatto la decisione, come si diceva, viene soppiantata dalla discussione: dalla discussione eterna in cui mai nulla viene veramente deciso. La borghesia - diceva il Donoso Cortès tanto caro a Schmitt - è una classe "discutidora": "è in questa direzione che essa si caratterizza, perché, in questo suo modo di fare è già implicito che vuole sottrarsi alla decisione"[53]. Secondo Schwab "il decisionismo di Schmitt deriva dalla polemica con il normativismo puro di Kelsen" ; accettata questa ipotesi, possiamo notare che la chiave di lettura della dicotomia normativismo-decisionismo sta nel cogliere la reductio ad unum, la riduzione della complessità promanante dalla classica tipologia weberiana delle forme di potere, quella razionale e quella carismatica: Kelsen assolutizza la prima, ribaltando il carisma sull'ordinamento giuridico positivo, attraverso la teoria della Grundnorm, Schmitt compie l'operazione diametralmente opposta, riducendo l'ordinamento giuridico positivo a derivazione del carisma politico tout court. Il mondo politico-giuridico di Schmitt è l'esatto contraltare di quello di Kelsen; si pensi al normativismo kelseniano: è un universo di norme, impersonale, governato da una sua logica interna che volontariamente ignora ciò che sta dietro alle norme. Ovviamente ciò non significa che a Kelsen sfugga che sono le mutevoli condizioni storiche a generare norme nuove, piuttosto egli non guarda a queste mutevoli condizioni bensì al mutare della norma che lo interessa purché avvenga secondo procedure prestabilite, cioè anch'esso secondo norme .

Ora è evidente che la politica che meglio si adegua a questo universo è la politica della legalità, centrista, riformista, senza salti e rotture. Una dottrina come questa, puramente giuridica, è, per Schmitt, unilaterale e mistificatrice. Essa rispecchia situazioni di tranquillità e omogeneità sociale ma mal si adatta alla situazione di crisi in cui versa la società moderna. Allora il normativismo depoliticizzato mostra tutti i suoi limiti, facendo emergere una politica surrettizia ed incapace di uscire dallo statu quo. Sembra naturale, dunque, che Schmitt veda la legalità come sanzione di determinati interessi a svantaggio di altri: si tratta di un'antica polemica, quella antiformalistica, secondo cui il giusto è l'utile del più forte o, viceversa, la legge è la difesa dei deboli contro i forti, questo perché le norme sono sempre riconducibili ad interessi e a circostanze.

Ne discende che la politica può, in alcuni casi, sospendere o violare la legge, creando così una situazione e un diritto nuovi. Intesa in tal senso l'opera di Schmitt è demistificatrice della legalità, ma, per la soluzione reazionaria che propone, a sua volta mistificatrice.

Va chiarito che l'intento di Schmitt non è soltanto quello di ridimensionare l'importanza della sfera normativa ma anche quello di ridare dignità al metagiuridico che Kelsen liquida come ciò che non avendo le caratteristiche del giuridico s'identifica con l'intero mondo dei valori, con la mutevolezza e la contingenza ideologica che, dal suo punto di vista, lo caratterizzano.

Invece in Schmitt il metagiuridico, perdendo quel carattere di pura negatività, il suo generico essere altro dal diritto, prende essenzialmente la struttura della politica. La politica, di cui la decisione giudiziaria non è altro che l'espressione, non può essere in alcun modo separata dal diritto in quanto "dietro ad ogni legge stanno sempre gli uomini che si servono della legge come di uno strumento di potere"[56]: essa, per esistere, dunque, ha bisogno di uomini concreti che la attuino, di una giurisprudenza che non si tenga lontana da punti di vista metagiuridici. Solo tramite il giudice, la legge, da norma pura, si trasforma in ordinamento concreto: "una legge non può attuarsi da sola; né può interpretarsi, definirsi o sanzionarsi da sola" .Nel saggio su I tre tipi di pensiero giuridico Schmitt tenta di isolare e contrapporre il pensiero normativista, quello decisionista e quello fondato sull'ordinamento concreto ed inventa la categoria del decisionismo giuridico rintracciandone in Hobbes - un Hobbes in cui, invertendo il rapporto tra stato di natura e stato sociale, la natura conflittuale di quest'ultimo funziona come definizione globale del fenomeno politico - il fondatore teorico.

In questo modo, lo stato sociale, interpretato in chiave autoritario- decisionista, non appare costruito contrattualmente ma da 'soggetto' si trasforma in 'oggetto' della decisione. Si noti come questo saggio, scritto nel periodo della militanza nel partito nazista, registri una forzatura strumentale: l'ordine ha ora un senso fortissimo, caratterizzato com'è da innegabili coloriture organicistico-comunitarie. L'esemplificazione pratica che Schmitt presenta di ciò a cui pensa quando parla di "koncretes Ordungsdenken" ce lo conferma: sono modelli di ordinamenti concreti "la vita in comune dei coniugi nel matrimonio, dei membri della famiglia del nucleo familiare, dei membri della stirpe nell'associazione di stirpe, dei membri di un ceto nel ceto, degli impiegati dello Stato, dei chierici della Chiesa, dei compagni di un campo di lavoro, dei soldati di un esercito"[58]. Naturalmente Schmitt non manca di criticare aspramente "la cosiddetta Scuola di Vienna, guidata da Hans Kelsen ( che ) ha propugnato con particolare 'purezza', negli anni 1919 32, la pretesa di un dominio esclusivo del normativismo astratto"[59], rimproverandole naturalmente di non leggere correttamente il rapporto norma- decisione. Se è vero, infatti, che la decisione non può fare a meno di esprimersi attraverso il mezzo tecnico della norma, non può negarsi che la separatezza che il positivismo giuridico utilizza per la soluzione del problema dei rapporti tra giuridico e metagiuridico sia uno strumento indocile, limitante e pericoloso.

La forma giuridica non può essere depurata dalla sua componente ideologica e politica perché, come si legge nel saggio sulla teologia politica, "non ha la vuotezza aprioristica della forma trascendente, poiché essa nasce proprio dalla concretezza giuridica. Essa non è neppure la forma della precisione tecnica, poiché questa risponde ad un interesse finalizzato, essenzialmente fattuale, impersonale"[60].

L'immagine formalistica del diritto finisce con l'essere un medium inadeguato, come prodotto tautologico della crisi di una borghesia che, finita la sua grande epoca ( il XVII e il XVIII secolo ) è ora costretta ad avvalersi di norme valide solo perché positivamente statuite.

In quest'ottica è naturale che, in un'ipotetica gerarchia tra i tre tipi di pensiero giuridico, il posto più basso sia occupato dalla norma e quello più alto, neanche a dirlo, dall'ordinamento concreto: ogni norma, infatti, presuppone una decisione che a sua volta presuppone un ordinamento concreto cui fare riferimento. E' chiaro che questa sintesi tra i tre diversi modi di pensare il giuridico riposa sulla valenza onnicomprensiva della Politica e sulla considerazione che il momento fondamentale sia la decisione che azzera le difficoltà del normativismo e dell'istituzionalismo, in quanto espressione della forza che finisce con l'essere l'unico reale criterio di giudizio. In stretta connessione con questa prospettiva di totale politicità viene così scopertamente a nudo il carattere autoritario del pensiero giuridico-politico di Schmitt: nella sua Teologia politica egli scrive che "per la realtà della vita giuridica ciò che importa è chi decide"[61], chi determina il contenuto dell'ordinamento concreto, chi stabilisce cosa sia l'ordine, chi decide insomma "in modo definitivo se questo stato di normalità regna davvero" .

Anche da questo punto di vista emerge, nettissima, la differenza tra il decisionismo di Schmitt, che concepisce il diritto e lo Stato a partire da una situazione eccezionale, trascurando volutamente i problemi della normalità e le tendenze opposte del kelsenismo, ma, più ampiamente, della moderna concezione dello Stato di diritto[63].

Confrontando questi due punti di vista emerge, con particolare chiarezza, la divergenza - diremmo 'radicale' - tra le due concezioni del diritto. Mentre il normativismo riconosce validità alle sole norme - di qui la distinzione tout court tra diritto e politica - la teoria schmittiana si fonda sul fatto materiale che una decisione sia stata presa e che da questa decisione discenderà l'ordinamento a dimostrazione della commistione - ineliminabile - tra politica e diritto. Quando Schmitt parla di 'ordinamento concreto' è chiaro che egli si riferisce ad un diritto caratterizzato da fattualità, effettività, che vengono a significare organizzazione concreta nella struttura sociale delle condizioni attraverso cui il diritto può affermarsi e, quindi, confronto, tramite le categorie del diritto, con i problemi dell'intera società.

Se si potesse liberare la teoria schmittiana del diritto dall'ipoteca autoritaria che la contraddistingue - impresa peraltro non semplice - si potrebbe apprezzare appieno la modernità della sua impostazione che si manifesta con la consapevolezza della politicità del diritto e appare tutta orientata al reperimento degli strumenti che risultino coerenti con la volontà politica che cerca di attuarsi. In quest'ottica la sua polemica verso l'intera tradizione della teoria del diritto finisce con l'essere l'espressione della grande, a tratti ossessiva, attenzione di Schmitt alle esigenze della politica. Una politica mortificata, a suo avviso, dalle lotte tra partiti di cui il Parlamento è divenuto teatro e che hanno trasformato lo Stato moderno in uno "Stato dei partiti"[64], da cui la decisione, la grande, mitica, decisione politica è stata espulsa. L'inquietante dubbio che la prospettiva schmittiana ci lascia, pur nella sua attuale comprensione della politicità del diritto è "non solo nel concreto pericolo di sopprimere la specificità tecnico-funzionale del diritto, ma ancor più nel vanificare quell'insopprimibile caratteristica di limite al potere che il diritto deve nella sua essenza mantenere" .









3. Il potere e la forza

Il decisionismo schmittiano, come abbiamo avuto modo di osservare, si mostra, in una prima analisi, privo di fondamenti: la decisione ed il potere sovrano che da essa discende sono "senza presupposti"[66], non trovano la loro giustificazione e la loro ragion d'essere in un qualche fondamento religioso. Anche per Schmitt come per Nietzsche, dunque, Dio è morto: tutte le credenze in una realtà o autorità ultima e trascendente sono andate irrimediabilmente perdute e ciò, grazie all'operare, inesorabile, del processo di secolarizzazione. L'uomo moderno vive per questo una crisi lacerante: adesso che sono cadute le illusioni e gli inganni della metafisica, egli è libero, ma, allo stesso tempo, solo. Non ci sono valori assoluti, anzi, i valori sono disvalori e - ciò che più lo inquieta - non esiste nessuna struttura razionale e universale che possa sostenerne l'impegno, non c'è nessuna Provvidenza, nessun ordine cosmico. Quello che Schmitt si auspica non è un ritorno - peraltro impossibile - ad un agire politico fondato sulla trascendenza ma, piuttosto, ad un agire politico in cui l'atto di decidere abbia il ruolo che gli compete, torni ad essere il quid essenziale del politico. Per Schmitt, infatti, occorre sempre tenere presente che "in ogni decisione, persino in quella di un tribunale che decide processualmente, sussumendo in modo conforme alla fattispecie, c'è un elemento di pura decisione che non può essere derivato dal contenuto della norma" . In un'ottica 'teologica' del politico, è necessario, quindi, sempre predisporre, per Schmitt, la presenza oscura ed arbitraria di un potere decisionale 'puro' che trascenda il livello apparente, normativo-fenomenico, per definirsi come Custode della Costituzione, vero superiorem non recognoscens. Si tratta ancora di una teologia politica intesa tradizionalmente ma il nuovo dio è la decisione, l'unica capace di dispensare ordine e sicurezza. L'analogia 'primaria' tra la trascendenza di Dio e quella del potere politico viene completamente capovolta e il rapporto di sudditanza politica - benché esemplato su quello intercorrente tra Dio e le sue creature - trova nella paura, e non più nel concetto tradizionale di amore cristiano, l'unico fondamento della propria effettiva vigenza. Ciò non deve meravigliare: scomparso il fondamento trascendente, il potere politico che rinnega il suo momento normativo si riduce ad essere 'forza' che si autolegittima. Per questo "la categoria più appropriata al fine di rendere conto delle debolezze strutturali del decisionismo è la categoria dell'usurpazione" . L'usurpazione si verifica ogni volta che il sovrano legittimo viene spodestato da chi non può esibire alcun titolo razionale che giustifichi il conquistato potere se non il 'nudo' fatto di essere riuscito a conquistarlo: è la forza bruta, la capacità di imporre la propria volontà di dominio che diviene potere politico. L'usurpatore, però, raggiunto il suo scopo, non vorrà essere chiamato effettivo tiranno ma, intrappolato nella logica del paradigma originario, pretenderà di essere riconosciuto come legittimo sovrano. Huizinga ha definito il politico schmittiano nei termini della dottrina della usurpazione, cioè come un "satanismo innalzante il male a norma e a segnale luminoso" . Il 'male' cui egli fa riferimento è un potere decisionale arbitrario ed indiscutibile ( letteralmente indiscutibile in quanto non sottoponibile a critica ) che impone il volere di colui che si è dimostrato tanto forte da decidere, è, per dirla ancora con le parole di Huizinga, "il riconoscimento incondizionato del diritto del più forte" . Non è un caso del resto che Schmitt, fra gli autori di formazione marxista, tragga la più forte sollecitazione da Sorel a cui deve la teoria del mito politico . In Sorel è ormai scomparsa la struttura teoretica e politica della mediazione: l'opacità della società borghese che, con le sue contraddizioni sociali, non consente alcuna pacificazione o superamento dialettico, non viene colta per nulla dalla cultura dominante che la mistifica nella mediazione piatta ed insignificante di un generico progressismo orientato all'omologazione sociale. Nelle sue Riflessioni sulla violenza egli scrive che solo la violenza rivoluzionaria, con la sua valenza mitica, è capace di riattivare dal basso, dalla parte degli oppressi, la sorgente delle migliori energie umane in quanto costituisce "una marcia verso la liberazione".

La violenza provocata dallo sciopero generale è per Sorel terribile ma non cattiva, è benefica perché "scuote la borghesia, risveglia il proletariato ed ha carattere morale perché combatte lassismo ed edonismo" .

Rispetto alla prestazione complessiva di Sorel quella di Schmitt non è più moderata ma più complessa. Questa complessità sta soprattutto nell'orientamento alla forma che in Schmitt accompagna sempre, con altrettanta originalità, l'assunzione dell'eccezione, della potenza del mito.

Quello che Sorel non vede, per Schmitt, è la possibilità di tenere insieme rivoluzione e ordine, senza estinguere la politica nell'autogoverno tecnico dei produttori; il mito politico insomma deve essere pensato, pur senza pacificarlo, anche in vista di una forma.

La decisione, secondo Schmitt, pur coincidendo con la forza e utilizzando la violenza, è capace non soltanto di distruggere il vecchio ordine ma anche di fondarne uno nuovo. Ma proprio il suo coincidere con la forza e, dunque, con la violenza, palesa come essa non sia in nessun modo riconducibile a quel margine di opacità ineliminabile che pur permane nei processi decisionali delle moderne democrazie.

In democrazia la decisione è sempre un momento relativo di un sistema poliarchico complesso che ne esplica le finalità programmatiche e l'orientamento politico di fondo in modo che l'opinione pubblica possa criticarlo e arrivare persino ad avversarlo.

Invece, la democrazia per Schmitt si sedimenta nell'acclamazione, ossia nella schietta emanazione popolare e si affida ad elementi muti quali la stirpe, il sangue o il suolo di cui il capo politico costituisce la più elevata sintesi nonché unico interprete autorizzato. Il capovolgimento, come si vede, è totale: l'eccezione è al posto della norma, la forza e la violenza al posto della ragione e della legalità, la cattiveria umana ( homo homini lupus ) della bontà, il tiranno è divenuto sovrano. Il tiranno soltanto, infatti, in quest'ottica dominata da una situazione di emergenza, può compiere il miracolo di ricompattare intorno a sé il popolo pur se ciò accade - è bene sottolinearlo - attraverso metodi coercitivi.

Schmitt, come si vede, non è immune dal rischio di una pericolosa risacralizzazione del potere che rappresenta anche il "limite immanente"[75] della sua costruzione teorica: la paura che accompagna sempre il rapporto tiranno-sudditi pregiudica l'unico vero miracolo di cui l'usurpatore ha bisogno, cioè di farsi obbedire spontaneamente, di ottenere un consenso non falsato dal terrore che sottende il suo dominio. Non sembra difficile a questo punto, smascherato criticamente il meccanismo schmittiano dell'usurpazione, comprendere come la celebrazione di un potere siffatto ( sanzionato solo dall'effettività ) nasconda un'implicita ammissione, da parte del tiranno, della propria inferiorità rispetto al legittimo sovrano.

Il politologo tedesco dimostra così di non aver recepito una fondamentale lezione: la sfida che il Principe è chiamato ad affrontare non è semplicemente la conquista del potere, ma, piuttosto, il riuscire a mantenerlo, magari con il consenso dell'antico nemico.

In Schmitt non v'è alcuna sensibilità a questo tema, ma soltanto una visione del potere come pura circolarità crescente su se stessa ( "la decisione nasce dal nulla" ), un comando senza egemonia, dunque. Viene a mancare una organizzazione "processuale" del potere, che ne garantisca la riproduzione dentro un utilizzo, in maniera allargata, delle risorse e del 'cervello sociale'.

Costruzione dell'egemonia e organizzazione del sapere, dunque, sono altri due punti di caduta del suo decisionismo. A questo va aggiunto l'aspetto tragico dello scenario schmittiano: quando Schmitt dice che l'unico ordine possibile non è altro che una creazione 'decisa' non fa che svelare tutta la fragilità e la relatività di un ordine siffatto. La decisione creatrice ne risulta paradossalmente depotenziata in quanto rischia di essere soppiantata da una successiva decisione parimenti efficace e dall'ordine che ne deriverà.

La relatività della decisione impone una considerazione su un aspetto non secondario del pensiero schmittiano: l'analisi della dicotomia amico-nemico attraverso cui Schmitt definisce la sua politologia e perfeziona la sua dottrina del decisionismo. Conseguente all'analisi del rapporto Politica/Diritto ( funzionale alla sua costruzione teorica ) è quella del concetto di 'politico' che Schmitt si propone di dare in senso positivo, poiché "è raro trovare una chiara definizione del 'politico'. Per lo più il termine viene impiegato solo in senso negativo come contrapposizione ad altri concetti, in antitesi come politica ed economia, politica e morale, politica e diritto, e all'interno del diritto poi di nuovo politica e diritto civile e così via"[76]. Lo stesso Bobbio, che non è un apologeta ma un autore attento e critico nei confronti di Schmitt, ammette che è sua l'invenzione del termine 'politico' utilizzato come sostantivo .

"Il 'politico' - scrive ancora Schmitt - deve [.] consistere in qualche distinzione di fondo alla quale però può essere ricondotto tutto l'agire politico in senso specifico"[78]. La distinzione politica cui egli fa riferimento è quella di amico ( Freund ) e nemico ( Feind ) a cui è possibile, a suo avviso, ricondurre le azioni ed i motivi politici: essa, in sostanza, offre a Schmitt l'unico criterio valido per l'individuazione di ciò che attiene alla sfera politica. La coppia schmittiana non è affatto banale, si tratta di una contrapposizione binaria diversa da città-campagna o comunità-società: queste dicotomie non portano all'esclusione, quella di Schmitt invece è ontologicamente tale da portare all'aut aut. E' la chiave per la comprensione della sua politologia che non ammette mediazione dialettica, che porta invece all'abolizione di una delle parti in quanto far politica è impegnarsi in una lotta a morte . Accompagna questa considerazione la solita polemica antiformalistica e antiliberale: ricondurre la politica al diritto è un errore o un'astuzia che maschera con nomi giuridici atti di forza e sfruttamento. Si tratta di un'impostazione molto diversa da quella di Kelsen, come abbiamo già avuto modo di notare, che "pur partendo anch'egli dalla constatazione del conflitto, dello scontro sociale, pone al termine del conflitto non l'abolizione di una delle parti ma il compromesso delle parti" .

Il problema che si pone adesso è: "chi è il nemico contro il quale si combatte? Non un privato al quale si contrappone un altro privato, ma un raggruppamento al quale si contrappone un altro raggruppamento"[81].

Quando Schmitt parla di nemico, infatti, non si tratta di metafora e simbolo, nemico non è l'avversario, è il nemico, hostis non inimicus, polemios non echtros, "il nemico è solo in nemico pubblico, poiché tutto ciò che si riferisce ad un simile raggruppamento, e in particolare ad un intero popolo, diventa per ciò stesso pubblico"[82]. Il nemico cui egli fa riferimento non è necessariamente cattivo, è semplicemente colui che si decide di considerare altro da sé, negazione di ciò che si è o si crede di essere, "è l'altro, lo straniero ( der Fremde ) e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in senso particolarmente intensivo, qualcosa d'altro e di straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possono venire risolti né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l'intervento di un terzo 'disimpegnato' e perciò 'impersonale' " .

Il contrasto non porterà alla mediazione, per l'altro non ci sarà integrazione, inclusione sociale, l'unica via possibile è la lotta che genererà naturalmente un vincitore ed un vinto[84]. La dicotomia amico-nemico è onnicomprensiva: i contrasti religiosi ed economici non sono che contrasti 'politici', perché possono sempre essere ridotti a contrapposizioni di amici e nemici che vogliono prevalere gli uni sugli altri.

L'epilogo - inevitabile in un ragionamento del genere - è la guerra che "non è [.] scopo o meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale"[85]: perché "il nemico deve essere posto in condizioni di non poter continuare la lotta" .

La questione ora è: chi decide quale sia il nemico? La risposta di Schmitt è semplice: è chi detiene il potere, il "pubblico", a decidere. Il nemico è tale solo per decisione, non semplicemente perché 'diverso'. Prima della decisione non esistono 'altri', è la decisione a renderli tali, è il potere che si regge in sé medesimo che è identità di potere, di suddito, di amico, che crea il nemico.

Karl Löwith pone bene in luce come il nemico per Schmitt non sia quello che era la Spagna papista per Cromwell, diversamente da quanto afferma lo stesso Schmitt. Il riferimento a Cromwell dimostra, per Löwith, la mancanza assoluta di un contenuto sostanziale, il fondamento nichilistico del concetto schmittiano della politica. "Per Cromwell - scrive L with - la Spagna era il nemico, ma non semplicemente perché la Spagna mettesse in pericolo l'esistenza della sua nazione casualmente, in un dato caso: anzi, la Spagna era per lui un nemico tale per natura, eterno, predestinato, e voluto da Dio, col quale non si poteva mai giungere ad un altro 'aggruppamento', un 'providential' e 'natural enemy put into him by God' " .

La scelta tra amico e nemico non è, invece, per Schmitt fatta sulla base dell'alterità pura e semplice ma solo in base alla discrezionalità del potere politico: per lui nella politica interna nemico è colui che il potere dichiara tale.

La necessità "di pacificazione interna porta, in situazioni critiche, al fatto che lo Stato, in quanto unità politica, determina da sé, finché esiste, anche il nemico 'interno' "[88]. Chi, all'interno dello Stato, non si sottomette e non si allinea è nemico. L'istituzionalizzazione della guerra civile che verrà praticata dai totalitarismi ( contro le opposizioni ), verrà poi estesa dai nazisti alla guerra tra Stati. Il totalitarismo impara così la lezione, ferocemente decisionista, di Schmitt : "colui che non è con noi è contro di noi" è il suo rozzo motto, e c'è da ammettere che anche se la frase in Schmitt è espressa in forma meno grossolana, la sostanza resta la stessa.

Senza voler entrare nel merito del nazismo di Schmitt[90], possiamo infatti osservare che, senza dubbio, la dicotomia amico-nemico e l'inevitabile guerra hanno avuto la loro dimostrazione pratica. Il nemico esterno - come la storia recente ha confermato - è stato aggredito e distrutto con la guerra, per quanto riguarda quello interno, poiché i regimi autoritari non possono ammettere che esistano nemici interni non domi, ecco che il nazismo, una volta eliminati i comunisti, i socialisti, i democratici, i liberali, ha avuto bisogno di trovarne altri, preferibilmente collegabili con quelli esterni.

Gli ebrei hanno rappresentato il gruppo ideale per incarnare questa figura del nemico interno ed insieme esterno ( 'l'internazionale giudaica in mostruosa combutta con il bolscevismo, la massoneria, le demoplutocrazie', come amava esprimersi la propaganda fascista ). Si è trattato in ogni caso di nemici assoluti - per riprendere la terminologia di Schmitt - , tali che non hanno avuto altro destino che il totale annientamento.

La riduzione della società alla coppia amico-nemico è, dunque, un altro dei limiti del decisionismo schmittiano, appare un'operazione non semplificatrice ma addirittura semplicistica e cela un troppo rapido invito ad un pericoloso aut aut. "Edipo - scrive molto suggestivamente Cacciari - ha persino dimenticato il senso dell'enigma che aveva risolto: che l'uomo è molti, che l'uomo ospita in sé innumerevoli doppi: è padre-figlio, figlio-sposo, madre-sposa, figlia-sorella, fratello-figlio, via via fino a quello che tutti in qualche modo abbraccia: amico-nemico [.]. Il nostro socius per eccellenza, noi stessi, è l'alter, è un altro, che ci sorprende o seduce o cattura o lacera, ma col quale, comunque co-abitiamo irrevocabilmente"[91].

In Schmitt la diversità 'decisa' tra 'noi' e gli 'altri' diventa la chiave del mondo, etica, religione, anche se è l'etica dell'utilitarismo e della felicità a senso unico: ciò che giova all'amico è giusto, la solidarietà predicata e praticata è quella del branco, quella del gruppo omogeneo. La 'diversità' deve, in un'ottica di questo tipo, essere bandita dalla società che non sa confrontarsi con essa, che la teme come potenzialmente destabilizzante. Ritorna così il limite del potere schmittiano, illegittimo e, al contempo, incapace di autolegittimarsi veramente se non attraverso l'uso della violenza esibita, in realtà, come patetico spauracchio contro il Behemoth di turno. Ma, come si è già avuto modo di osservare, il governo della violenza, della forza bruta è il governo del debole, di chi è consapevole di esercitare un dominio senza fondamenti: è naturale che tale dominio si senta continuamente minacciato ed intraveda soltanto nella distruzione del nemico ( potenziale o effettivo che sia ) il modo per conservare l'ordine creato.




C. SCHMITT, Politishe Theologie, Vier Kapitel zur Lehre der Souveränit t, M nchen Leipzig, Duncker & Humblot, 1922; trad. it. a cura di G. Miglio e P. Schiera, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità in Le categorie del politico, Bologna, Il Mulino, 1972, p.33.

"Ausnahmezustand" che non è semplicemente stato di guerra esterna o stato di assedio interno, ma, per Schmitt, concetto della sfera più esterna non contemplato dalla legge.

ibidem; p. 33.

ibidem; p. 41.

Ibidem.

C. G. Von KROCKOW, Die Deutschen in ihrem Jahrhunder 1890 - 1990, Hamburg, Rowohlt, 1990; trad. it. , Il dramma di una nazione. Germania 1890 - 1990, Bologna, 1994, p.417.

G. SCHWAB, The Challenge of The Exception. An Introduction to the Political Ideas of Carl Schmitt between 1921 and 1936, Berlin, Duncker & Humblot, 1970; trad. it. , Carl Schmitt. La sfida dell'eccezione, Roma - Bari, Laterza, 1986, p.85.

R. SCHNUR, Individualism und Absolutism, Berlin, Duncker & Humblot, 1963; trad. it. a cura di E. Castrucci e G. Orrù, Individualismo e Assolutismo, Milano, Giuffrè, 1979, p.50.

C. SCHMITT, Teologia politica cit. , p.41.

ibidem; p.40.

M. WEBER, Economia e società, Milano, Comunità, 1974, vol. II, p.403.

W. J. MOMMSEN, Max Weber e la politica tedesca ,Bologna, Il Mulino, 1993, p.579.

C. SCHMITT, Teologia politica cit. , p.37.

G. DUSO, La soggettività in Schmitt, in G. D. ( a cura di ) La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt, Venezia, Arsenale, 1981, p.62.

G. MARRAMAO, Terra e Mare, Roma-Bari, Laterza, 1994, p.81.

O. KIRCHHEIMER, In Quest of Sovereignty, in ID. Politics, Law and Social Change, New York-Londra, 1969, pp. 160 - 193.

M. NIGRO, Carl Schmitt fra diritto e politica, in "Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno", vol. XV, 1986, p.707.

Interessante, a riguardo, la riflessione di P. P. PORTINARO, La crisi dello jus publicum europeum. Saggio su Carl Schmitt, Milano, Comunità, 1982, p. 90, che, rilevata la mancanza di una distinzione tra norma e decisione, si chiede: "che cosa impedisce di vedere nella decisione contenuta nella sentenza giudiziaria null'altro che una norma individuale e nella decisione sovrana di un potere costituente, che dal disordine crea l'ordinamento giuridico, un principio facente funzione di norma fondamentale?".

C. SCHMITT, Teologia politica cit. , p. 56.

ibidem; p. 39.

C. GALLI, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Bologna, Il Mulino, 1996, p.336.

ibidem; p.336.

C. SCHMITT, Romischer Katholizismus und politische Form, Hellerau, Hegner, 1923; trad.it.a cura di Carlo Galli, Cattolicesimo romano e forma politica, Milano, Giuffrè, 1986, p.39.

Si noti ciò che scrive a riguardo A. SCALONE, "Katechon" e scienza del diritto in Carl Schmitt, in "Filosofia politica", XII, 1998.

C. SCHMITT, Cattolicesimo romano cit. , p.45.

La decisione acquista un carattere mitico che, in quanto tale, prescinde tanto dalla concreta estinzione dello Stato quanto dal carattere funzionalistico del nuovo 'politico'. A tal proposito C. BONVECCHIO, Decisionismo. La dottrina politica di Carl Schmitt, Milano, Unicopli, 1984, p. 319, scrive che essa: "come accade per gli eroi delle saghe, si attiva storicamente, in una ripetizione senza fine, tutte le volte che una situazione eccezionale richiede un intervento straordinario che riporti l'ordine sul caos".

ibidem; p. 50.

Ci riferiamo a G. MASCHKE, La rappresentazione cattolica. La teologia politica di Carl Schmitt con uno sguardo ai contributi italiani, in "Trasgressioni", 1991.

C.GALLI, Modernità. Categorie e profili critici, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 183.

C.GALLI, Il Cattolicesimo nel pensiero politico di Carl Schmitt in ( a cura di ) R. RACINARO, Tradizione e Modernità nel pensiero politico di Carl Schmitt, Roma-Napoli, Esi,1987, p. 22.

C.SCHMITT, Teologia politica cit. ,p.61.

C.SCHMITT, Politische Theologie II. Die Legende von der Erledigung jeder politischen Theologie, Berlin, Duncker & Humblot, 1970; trad. it. , Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, Milano, Giuffrè, 1992, p. 83.

G. PRETEROSSI, Carl Schmitt e la tradizione moderna, Roma Bari, 1996, p. 183.

C. SCHMITT, Teologia politica cit. , p. 58.

A.PREDIERI, Carl Schmitt, un nazista senza coraggio, Firenze, La Nuova Italia,1999, p. 177.

Si rimanda a C.PERELMAM, L. OLBRECHTS TYTECA, Traitè de l' argumentation. La nouvelle rhètorique, Paris, Presses Universitaires de France, 1958; trad. it. , Trattato sull'argomentazione, Torino, Einaudi, 1989, p.45, che ricordano l'interessante opera di J.MILL, A System of Logic, London, Parker Son and Bourn, 1843, trad. it. parz. , Come si ragiona. Il primo e il terzo libro del "Sistema di logica", Treviso, Canova, 1957, libro I, cap. III, par. 3, che scrive: "E' noto pressoché a tutti il consiglio dato da Lord Mansfield a un uomo dotato di buon senso pratico, che, nominato governatore di una colonia, si trovava a dover presiederne il Tribunale, senza avere né esperienza di processi, né una preparazione in fatto di diritto. Il consiglio era di dare subito una sentenza risoluta, che probabilmente sarebbe stata giusta, ma di non tentare di fornire delle ragioni, perché queste sarebbero state quasi inevitabilmente sbagliate".

C. SCHMITT, Legalität und Legitimit t, M nchen-Leipzig, Duncker & Humblot, 1932; trad. it. parz. , Legalità e legittimità, in Le categorie del politico, cit. , p.217.

Condivisibile, in questa ottica la posizione di C. G. KROCKOW, Der Dezisionismus bei Ernst Jünger, Carl Schmitt und Martin Heidegger, Gottingen, Philodìss, 1954, p. 91, che scrive: "Il gesto della risolutezza, tanto esasperato dal decisionismo, ha in fondo solo il significato di evitare ogni decisione in senso proprio, riferita cioè a contenuti determinati e quindi dotata di assunzione di responsabilità".

C. GALLI, La teologia politica in Carl Schmitt in ( a cura di ) G. DUSO, La politica oltre lo Stato, cit. , p. 134.

N.MATTEUCCI, Alla ricerca dell'ordine politico, Bologna, 1984, p. 131.

B.IORIO, Analisi del decisionismo. Carl Schmitt e la nostalgia del tiranno, Napoli, 1987, p.37.

La terminologia è di E. TROELTSCH, La democrazia improvvisata. La Germania dal 1918 al 1922, Napoli, Guida, 1977.

C. SCHMITT, Verfassungslehre, Berlin, Duncker & Humblot, 1928; trad. it. a cura di A. Caracciolo, Dottrina della costituzione, Milano, Giuffrè, 1984, p. 219.

"L'organo finisce col prevalere sull'organismo" scrive significativamente R. MICHELS, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Bologna, 1966, p. 495.

O. KIRCHHEIMER, Costituzione senza sovrano. Saggi di teoria politica e costituzionale, Bari, 1982, p. 31.






C. SCHMITT, Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus , Berlin, Duncker & Humblot, 1923, p. 22.

ibidem, p. 37.

Del rapporto con Rousseau che tale concezione schmittiana della democrazia pone si è occupato W. HILL, Gleichheit und Artgleichheit, Berlin, 1966, p. 182.

H. KELSEN, Il problema del parlamentarismo, in "Nuovi studi di diritto, economia e politica", IV, 1929.

ibidem, p. 184.

Per un'interpretazione 'liberale' di Schmitt si rimanda a L. STRAUSS, Anmerkungen zu C. Schmitt, Der Begriff des Politischen, in "Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitick", 1932, 57; trad. it. a cura di M. Ruggenini in ID. , Gerusalemme o Atene. Studi sul pensiero politico dell'occidente, Torino, Einaudi, 1998, p.397, che scrive: "Chi afferma il politico, come tale rispetta tutti quelli che lottano: egli è tollerante proprio come i liberali". Solo che per Schmitt, a differenza dei liberali, questa tolleranza, secondo Strauss, deriva dal rispetto per ogni serio convincimento, dove 'serio' finisce col significare 'orientato alla guerra'.

C. SCHMITT, Der Begriff des Polotischen, in "Archiv für Sozialwissenschaften und Sozialpolitik", LVIII, 1927; trad. it. Il concetto di ' politico', in Le categorie del politico, cit. , p.158.

C.SCHMITT, Teologia politica cit. , p. 80.

G. SCHWAB, Carl Schmitt. La sfida dell'eccezione cit. , p.78.

Scrive M.DOGLIANI, Costituente (potere), in" Dig. disc. pubbl.", vol. IV, Torino, Utet, 1989, p. 286: "non è il fatto che è capace di produrre il diritto ( nella ricostruzione kelseniana ), ma il diritto che è capace di riconoscere al fatto la capacità di produrre diritto".

C. SCHMITT, Das Problem des Legalit t, in "Die neue Ordnung", IV, 1950; trad. it. Il problema della legalità, in Le categorie del politico cit. , p. 279.

C. SCHMITT, Über die drei Arten des Rechtswissenschaftlichen Denkens, Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt, 1934; trad. it. parz. I tre tipi di pensiero giuridico, in Le categorie del politico cit. , p. 255.

ibidem; p. 258.

ibidem, p. 254.

C.SCHMITT, Teologia politica cit. , p. 59.

ibidem; p. 58.

ibidem; p. 39.

G. SCHWAB, Carl Schmitt. La sfida dell'eccezione, cit. , p.84, ricorda, in proposito, come, nella polemica con Kelsen, Schmitt affermava che "Kelsen ignorava la possibilità stessa di uno stato di eccezione. Kelsen, d'altra parte, poteva, a ragione, replicare che era Schmitt a non saper come regolarsi in una situazione normale".

C. SCHMITT, Der Hüter der Verfassung, Berlin, Duncker & Humblot, 1931; trad. it. a cura di A. Caracciolo, Il Custode della Costituzione, Milano, Giuffrè,1981, p. 136.

G. ZACCARIA, La critica del normativismo in La politica oltre lo Stato cit. , p. 147.

G. MARRAMAO, Carl Schmitt: la decisione senza presupposti e il fantasma dello Stato in La politica oltre lo Stato cit. , p. 70.

C. SCHMITT, Il custode della costituzione cit. ,p. 75.

La terminologia è di E. CASRUCCI, Teologia politica, un frammento di reinterpretazione, in "Filosofia politica", X, 1996.

B. IORIO, Analisi del decisionismo. Carl Schmitt e la nostalgia del tiranno, Napoli, 1987, p. 15.

J. HUIZINGA, La crisi della civiltà, Torino, 1974.

ibidem; p. 77.

Secondo G. SOREL, Considerazioni sulla violenza, trad. it. a cura di A. Sarno, Bari, 1909, p. 35, il mito non si discute perché irrazionale, esso "è al sicuro dalle confutazioni, poiché in fondo è identico alle convinzioni di un gruppo".

La convinzione che non le idee ma i miti muovano la storia, l'antirazionalismo, il linguaggio della politica, ossia un linguaggio privo di verità ma valutabile solo in termini di efficacia, come suscitatore di energie volitive, sono i punti di contatto rinvenibili tra Schmitt e Sorel.   

A.SARUBBI, Manuale di storia delle dottrine politiche, Torino, Giappichelli, 1991, pp. 616-617.

B. IORIO, Analisi del decisionismo cit. , p. 89.

C. SCHMITT, Il concetto di 'politico' , in Le categorie del politico cit. , pp. 101-102.

N.BOBBIO, De senectude e altri scitti autobiografici, Torino, Einaudi, 1996, p. 103.

C. SCHMITT, Il concetto di politico cit. , p. 108.

Schmitt non ha compreso la grande lezione democratica, per N. BOBBIO, Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1984, p. 24, che scrive: "Le così spesso derise regole formali della democrazia [.] hanno introdotto, per la prima volta nella storia, delle tecniche di convivenza volte a risolvere i conflitti sociali senza ricorrere alla violenza. Solo laddove vengano rispettate tali regole, l'avversario non è più un nemico ( che deve essere distrutto ) ma un'opposizione che domani potrà prendere il nostro posto".

A. CARRINO, Scienza e democrazia. Il decisionismo critico di Hans Kelsen, in "Dem. Dir.", 1991, n.4, p. 274.

D. FISICHELLA, Carl Schmitt: politica e liberalismo tra amicizia e inimicizia, in ID. , Dilemmi della modernità nel pensiero sociale, Bologna, 1993, p. 65.

C. SCHMITT, Il concetto di 'politico' cit. , p. 111.

ibidem; p. 109.

Viene in mente F. NIETZSCHE, Also spracht Zarat, 1883-85; trad. it. , Così parlo Zarathustra, in ID. , Opere, Milano, Adelphi, 1986, vol. VI, p. 58, il quale scrive: "i veramente vivi vogliono vincere e superare gli avversari".

C. SCHMITT, Il concetto di 'politico' cit. , p. 117.

K. Von CLAUSEWITZ, Von kriege, 1827; trad. it. , Della guerra, Milano, Mondadori, 1970, p. 42.

K. L WITH, Marx, Weber, Schmitt, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 144.

C. SCHMITT, Il concetto di 'politico' cit. , p. 130.

Nonostante ciò Schmitt è, più di altri, irriducibile ad essere etichettato come fautore di un qualche "ismo". Ciò non meraviglia N. BOBBIO, De senectude cit. , p. 145, secondo il quale: "Marx protestava di non essere marxista. Heidegger non ha mai voluto essere chiamato esistenzialista".

Sull'argomento si rimanda ai lavori di J.W. BENDERSKY, Theorist for the Reich, Princeton, Princeton University Press, 1983; trad. it. , Carl Schmitt teorico del Reich, Bologna, 1989, e di A. PREDIERI, Carl Schmitt, un nazista senza coraggio, Firenze, La Nuova Italia, 1999.

M. CACCIARI, L'arcipelago, Milano, Adelphi, 1997, p. 32.




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