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Le politiche regionali

economia politica



Le politiche regionali (cap. XV°)


Con la definizione "politiche regionali" intendiamo riferirci all'insieme delle azioni di politica economica che hanno come obiettivo primario la redistribuzione geografica del reddito tra le aree territoriali di un'economia; le politiche regionali nascono dalla necessità di sostenere la crescita e lo sviluppo dell'economia in zone geografiche specifiche, attraverso strumenti che cercano di favorire il permanere delle imprese pres 858c29i enti e la localizzazione, nelle aree individuate, di nuove attività produttive. Questo perché all'interno di un'economia possono esistere permanenti e significative differenze tra le aree territoriali che la compongono. Le differenze riguardano:

il livello del reddito pro-capite, che in alcune aree si mantiene significativamente inferiore rispetto al dato medio;

la composizione della struttura economica, le regioni con livelli di reddito più bassi presentano una struttura nella quale il settore primario riveste un peso maggiore ed il settore industriale un peso minore rispetto al dato medio;



indicatori socio-economici: il tasso di attività [= NS / pop.15-64 (basso)], il tasso di disoccupazione [= disoccupati / NS (alto)], tasso di occupazione [= occupati / pop.15-64 (basso)], forza di lavoro (occupati + disoccupati = NS).

Gli squilibri regionali e le teorie economiche.

o  Nella tradizione Keynesiana se le regioni sono assimilabili a economie chiuse, non vi è motivo per ritenere che tutte debbano convergere sui medesimi livelli di reddito; anzi al contrario vi sono motivi per ritenere che gli squilibri tra i livelli di reddito delle diverse regioni debbano permanere. Questa è nota come tesi della causazione cumulativa.

Se vale il principio della domanda effettiva, le imprese produrranno quello che si attendono venga loro domandato. Se una regione in un dato periodo ha espresso una ridotta domanda, le imprese di quella regione produrranno poco e distribuiranno poco reddito: ciò alimenterà una ridotta domanda e quindi non si potrà stimolare ulteriore produzione. Un insufficiente domanda è al tempo stesso causa ed effetto di una ridotta produzione e quindi di un ridotto reddito. Quindi le regioni in ritardo di sviluppo si trovano intrappolate in quella che viene denominata "trappola della povertà".

Un aumento della domanda dovuto all'incremento della domanda dall'esterno può rivelarsi efficace per far uscire le regioni in ritardo di sviluppo dalla trappola della povertà; però affinché tale intervento sia efficace è necessario che l'apparato produttivo della regione sia in grado di soddisfare la domanda addizionale.

o  La scuola di pensiero neoclassico sostiene che un fattore produttivo sarà impiegato laddove il suo rendimento marginale sarà più elevato, ma il rendimento marginale del fattore produttivo è tanto più elevato laddove vi è un minor accumulo del fattore stesso. Di conseguenza ogni fattore produttivo tenderà ad andare laddove ve ne sia di meno. Questa valutazione di convenienza nell'impiego dei fattori rappresenta una spinta alla convergenza fra le diverse zone (il fattore è più produttivo laddove ce ne è poco. Pertanto conviene impiegare i fattori laddove ve ne sono accumulati meno, si avrà perfetta convergenza).

Una seconda linea di argomentazione mette sotto indagine l'andamento decrescente della produttività marginale dei fattori. Vi sono validi motivi per ritenere che la produttività di un fattore non sia più elevata laddove ne viene impiegato di meno, ma al contrario lo sia laddove ne viene impiegato di più. All'origine del rendimento crescente del fattore vi sarebbero fenomeni di "learning by doing", ma anche economie di scala localizzate, esternalità positive di tipo tecnico e pecuniario. Fenomeni di questo genere sono invocati per spiegare l'esistenza dei distretti. Se vale il principio del rendimento marginale crescente di un fattore produttivo, non vi è alcun motivo per ritenere che vi debba esser una convergenza. Quindi le regioni in ritardo di sviluppo rimarranno tali in quanto le attività produttive verranno collocate laddove vi è abbondanza di fattori produttivi.

In riferimento all'Italia, nel 1992, Putnam ha sostenuto che la vera differenza nelle dotazioni iniziali, riguarda la dotazione di capitale sociale (la predisposizione degli individui a cooperare, senso civico di cooperazione, la mutua fiducia).

La misurazione delle divergenze regionali.

Gli indicatori che vengono utilizzati per la misurazione delle divergenze regionali sono gli stessi di quelli trattati nella distribuzione personale del reddito (scienze statistiche), ma in questo caso prenderemo come unità di indagine la regione:

o  Andamento, nel tempo, di un indice di dispersione dei livelli di reddito pro-capite: verrà calcolato lo scarto quadratico medio dei redditi pro-capite delle regioni, se col passare degli anni lo scarto quadratico medio va diminuendo ciò vuol dire che le differenze tra le regioni si stanno assottigliando ed avremo sigma-convergenza; viceversa, se lo scarto quadratico medio aumenta le differenze si accentuano.

o  Beta-convergenza: vi è convergenza in senso beta, all'interno di un gruppo di soggetti (regioni) ed in un dato periodo di tempo se si manifesta una correlazione negativa tra il livello di partenza del reddito pro-capite ed il suo successivo tasso di crescita, cioè la beta-convergenza sta ad indicare che crescono in misura maggiore i redditi in quelle regioni nelle quali il livello di partenza è minore.

Anche se i due processi danno risultati concordanti ciò non significa che la beta-convergenza  implica sigma-convergenza.

Vi sono alcuni economisti che pensano che la riduzione delle differenze fra le regioni si accompagna a buone performance globali di crescita macroeconomica, infatti la crescita macroeconomica comporterebbe una riduzione delle differenze, mentre periodi di recessione sarebbero associati all'allargamento delle differenze e ciò dovuto al fatto che la redistribuzione geografica comporta conflitti e costi.

L'esperienza storica delle politiche regionali italiane.

Nei primi decenni del Secondo dopoguerra, il principale problema all'origine del dualismo regionale in Italia veniva individuato nella insufficiente dotazione di capitale fisico delle regioni meridionali; così venne fondata (1950) la Cassa del Mezzogiorno col compito di realizzare la progettazione l'esecuzione di opere infrastrutturali pubbliche; ma si decise di chiuderla (1986) per diversi motivi:

a)  Negli anni Ottanta, si preferisce adottare politiche di sostegno al reddito delle famiglie;

b) Si diffondono sentimenti di opinione pubblica più freddi rispetto alla necessità di un intervento straordinario nelle regioni del Sud;

c)  Gli organi comunitari iniziano a ostacolarle, intravedendo in esse aiuti ingiustificati e lesivi della libertà di concorrenza.

Successivamente alcune competenze della Cassa furono trasferite all' "Agenzia per la promozione dello sviluppo nel Mezzogiorno" e poi (1988) a "Sviluppo Italia", struttura più snella per il finanziamento di investimenti e l'incentivazione di progetti di imprenditoria.

Ma la crisi economica successiva la primo shock petrolifero (1973-74) ha determinato un rallentamento dei flussi migratori dal Sud al Nord e questo spinse ad attuare politiche contro la disoccupazione nel Mezzogiorno; inoltre le politiche di sostegno dei redditi sono a loro volta state accusate di essere alla base di deprecabili episodi di spreco, di cattiva amministrazione e di distorsioni nel mercato del lavoro; infatti, queste, avrebbero rappresentato un disincentivo alla attiva ricerca di lavoro nel settore formale e avrebbero determinato un ampliamento delle attività di economia irregolare.

Le "nuove" politiche regionali e l'intervento dell'Unione Europea.

Solo alla fine degli anni Ottanta, la Comunità ha riconosciuto che la coesione sociale rappresenta un obiettivo da perseguire, a tal fine si sono definiti diverse linee di intervento:

Obiettivo 1)   : Ha come finalità il sostegno alle regioni in ritardo di sviluppo, definite come quelle nelle quali il reddito pro-capite è inferiore al 75% del reddito pro-capite medio dell'Unione Europea (YPCr ≤ 0.75 YPCUE);

Obiettivo 2)   : E' rivolto alle aree colpite da declino industriale;

Obiettivo 3)   : E' rivolto a regioni con disoccupazione di lunga durata e problemi di inclusione sociale di gruppi emarginati;

Obiettivo 4)   : E' rivolto a regioni con problemi di disoccupazione legata a riconversione industriale;

Obiettivo 5)   /a): Riguarda regioni con problemi di adeguamento strutturale dell'agricoltura e della pesca;

/b): E' relativo alle zone rurali vulnerabili;

Obiettivo 6)   : Alle zone a bassissima densità abitativa.

Tutti gli strumenti di intervento politico richiedono (e premiano) le capacità di cooperare e progettare dei soggetti "dal basso" e aderiscono al principio comunitario che intende premiare le capacità di concertazione, programmazione e partenariato:

Concertazione tra i soggetti pubblici e privati dell'area locale nell'elaborazione dei programmi;

Programmazione, cioè la capacità di stilare piani pluriennali di sviluppo;

Partenariato, cioè la collaborazione, nella fase di predisposizione dei piani, tra uffici della Comunità Europea e i policy-maker centrali e locali delle aree interessate.

Inoltre devono rispettare:

Addizionalità, l'intervento della Comunità non deve causare una riduzione dell'impegno dello Stato nazionale, bensì esserne un complemento;

Sussidarietà, la Comunità non deve intervenire qualora un obiettivo possa essere realizzato dall'ordinario intervento degli Stati nazionali.

Gli strumenti di intervento sono: i contratti di programma, le intese di programma, accordi di programma, i patti territoriali, i contratti d'area.







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