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LA RICCHEZZA DELLA NAZIONE

economia politica



INTRODUZIONE


Il trattato parte da un esame di quello che è stato lo sviluppo e le scelte effettuate a livello macroeconomico, dai policy makers italiani dagli anni 70 ad oggi inteso come il momento di ingresso nell' euro. Verranno esaminate le scelte e gli squilibri che si sono generati, nonché le manovre atte alla correzione.

Nella prima parte del libro si tratterà di dati storici con i grandi numeri dell'economia. Infatti l'Italia è riuscita a passare da una condizione di agricoltura totale ad una con uno sviluppo industriale pari ad i paesi più evoluti. Pur se notevoli sono stati i momenti di crisi e di forti problematiche, non si è mai assistito ad recessione dello sviluppo che è sempre stato crescente. Anche l'inflazione ha gravato molto sulla stabilità del mercato, e ciò ha richiesto molti sacrifici in termini fiscali.

Nella seconda parte del libro si discorre dei fatti economici più importanti di questo quarto di secolo nominando spesso un vizio ed una virtù. Il vizio è quello di aver agito senza la considerazione di non far gravare sulle generazioni future determinati pesi, accumulando squilibri crescenti. Poi la resa dei conti è arrivata e si è dovuto intervenire con incisività e sacrificio. Questo momento è stato all'atto dell'ingresso in Europa. La virtù invece è stata quella del sapersi adattare delle imprese private italiane su una scena internazionale forte e difficile, senza peraltro avere aiuti pubblici. Con l'avvento del mercato europeo si è ottenuta una maggiore trasparenza nel mercato e la caduta di molte barriere preesistenti. Si dovrebbe poi puntare ad una efficienza maggiore del mercato del lavoro e dei servizi di pubblica utilità. Il nodo da sciogliere è quello della concorrenza che vive nella mentalità, l'arretratezza del passato.



Nella terza parte si discorrerà dei problemi che si sono avuti nell'economia, dei nodi irrisolti, dell'inefficienza dell'amministrazione pubblica.




CAPITOLO 1

LA RICCHEZZA DELLA NAZIONE


Per misurare la ricchezza di una nazione si fa generalmente riferimento ad una grandezza di flusso che è il PIL. esso è la somma di ciascuna unità produttiva del paese definito dal valore aggiunto che è la differenza tra il valore della produzione e i costi per essa sostenuti. Del PIL si considera anche la somma dei redditi dei fattori impiegati nell'impresa (lavoro, capitale, interesse). Il PIL equivale anche alla somma di tutte le esportazioni, al netto delle importazioni. Da queste tre definizioni si desumono anche tre metodi di calcolo del PIL che consentono, integrandosi tra loro, di fornire un valore molto attendibile sul valore del flusso di ricchezza.

Misurare la ricchezza solo col PIL non risulta una valutazione completa, poiché non si possono considerare degli elementi immateriali che favoriscono comunque il benessere. Poi bisogna considerare che sulla scena internazionale vi sono monete diverse con diversi poteri di acquisto: per poter comparare i dati tra due paesi è necessario ricorrere a tassi di cambio artificiali, basati sul concetto di PPA (parità del potere di acquisto). Questo metodo consente di effettuare delle comparazioni anche dello stesso paese, ma nel tempo.


Nel 1997 il PIL italiano collocava il paese al sesto posto 949i81j nel mondo. Per considerare la ricchezza degli individui, si ricorre al prodotto pro capite. Seguendo il sistema dei cambi correnti, molti paesi risultano più ricchi dell'Italia, ma seguendo il metodo PPA, le differenze sono di gran lunga minori; è il caso di Germania e Giappone. Questi paesi dispongono di buone possibilità quando vanno a comprare all'estero, ma in patria hanno le stesse potenzialità di un italiano. Dagli anni 50 ad oggi il progresso è stato notevole, ha subito dei rallentamenti nel tempo, ma non si è mai arrestato. Pur negli anni 70 con delle forti instabilità economiche, la crescita non è mai stata bassa, ma al contrario.


La spiegazione di tale crescita si può ricercare in tre situazioni:

  1. catching up: è la condizione nella quale si trova chi risulta più arretrato, ma può progredire velocemente sulla base delle innovazioni già esistenti. Infatti in questo caso è facile per chi vuol progredire, prendere ad esempio chi già lo ha fatto: deve solo avvalersi delle tecniche che esistono. Non bisogna inventare nulla di nuovo ma sfruttare ciò che non si è ancora sfruttato.
  2. specializzazione flessibile: è il punto di forza delle imprese italiane che essendo di piccole dimensioni e a carattere familiare, riescono a sopperire da sole ai problemi della pubblica amministrazione e al mercato del lavoro. Poi c'è da considerare che tali piccole imprese possono plasmarsi più facilmente ai gusti dei consumatori, rimanendo sempre competitive.
  3. altro vantaggio è lo stock di ricchezza disponibile; infatti una componente fondamentale della ricchezza della nazione è appunto la ricchezza delle famiglie. Queste hanno dirottato nei vari anni la ricchezza posseduta tra, titoli o beni. La tendenza era verso gli investimenti più redditizi! Poi il grande vantaggio delle famiglie italiane è quello di avere un basso tasso di indebitamento e un elevato stock di risparmi.



PARTE PRIMA



CAPITOLO 2

LE MOLTE DIMENSIONI DEL BENESSERE


Esistono altri indicatori del benessere di una nazione: disoccupazione, inflazione, distribuzione del reddito, ed altri indicatori che non sono in grado di essere valutati direttamente (salute, istruzione, ecc.).


La disoccupazione è un male della società e crea dei costi in termini di non impiego di personale. Essa genera disuguaglianza e disagio nonché povertà diffusa. Per misurare le componenti della disoccupazione ci si rivolge a tre indicatori: tasso di occupazione, tasso di attività, tasso di disoccupazione. Per definire il disoccupato si sono introdotti dei criteri standard, poiché le condizioni sarebbero diverse da paese a paese.


essere senza occupazione;

essere disponibili a lavorare.

essere attivamente alla ricerca di un'occupazione.



Tasso di disoccupazione


U D   %

FL


La disoccupazione assume dei valori che sono molto diversi tra i vari paesi. È di rilievo notare come paesi stabili economicamente abbiano dei tassi di disoccupazione simili a quelli italiani. Il problema è vedere come si articola sul territorio questa piaga sociale. In più è rilevante differenziare se i disoccupati si alternano o se sono sempre gli stessi soggetti per molto tempo. Il grande problema italiano è che la disoccupazione è diffusa in modo anomalo soltanto nel sud, poiché nel nord i tassi sono tra i più bassi dei paesi sviluppati. La situazione è collegata strettamente a quell'insieme di problematiche che definiscono la "questione meridionale".


Tasso di attività


TA FL %

POP


Tasso di occupazione


TO O %

POP

Il tasso di attività è molto basso in Italia e diverso tra uomini e donne. Forse questo avviene per la facilità con cui si va in pensione.


Il tasso di occupazione è pure basso ed indica, attestandosi intorno al 51%, che un lavoratore in età lavorativa su due è effettivamente occupato.


Per ciò che riguarda l'inflazione, diremo che essa genera dei problemi anche più gravi della disoccupazione. Essa ha l'effetto di non ridistribuire equamente i redditi poiché alcune categorie di beni sono più tutelate rispetto ad altre, poi i consumatori non riescono a prevedere i rincari e risultano spiazzati sulle scelte da effettuare. Alcune categorie di lavoratori sono ad esempio più tutelate di altri, per esempio con i meccanismi di indicizzazione, di scala mobile.

La valutazione dell'inflazione è molto difficile, poiché si prende ad esempio un paniere potenziale. Per qualcuno poi potrebbe sembrare che i tassi di inflazione non siano rispondenti alla realtà: non si deve essere tratti in inganno solo dalla quantità dei prezzi, ma bisogna vedere se l'aumento è funzione di un miglioramento di efficienza di quel bene in questione.

In Italia l'inflazione ha avuto un andamento basso nei primi anni 50; nel 70-80 si è assistito ad incrementi paurosi anche a causa dello shock petrolifero; poi nel periodo 80 e fino ad oggi grazie al trattato che ci faceva entrare in Europa, l'inflazione è scesa a livelli minimi.

Oggi con la moneta unica è quasi impossibile parlare di tassi inflazionistici nazionali. Oggi è di gran lunga più interessante parlare non già dei prezzi dei beni, ma dei loro costi. Infatti se questi salissero e modificassero la dinamica dei prezzi, i riflessi peggiori sarebbero sulla competitività del sistema economico in generale. Tutto questo si rifletterebbe sullo sviluppo e sull'occupazione.



La concentrazione del reddito viene misurata con l'indice di GINI, un valore compreso tra 0 e 100. ma effettuare delle comparazioni internazionali è molto improbabile, dato che ci si dovrebbe basare su dati microeconomici non disponibili e comunque disomogenei. Negli anni 70 si è assistito ad un livellamento delle differenze di reddito con un indice di GINI basso; questo era il frutto di una politica di indicizzazione dei prezzi.


Per ciò che attiene ad una valutazione del concetto di povertà, possiamo dire come sia difficile poter fare una valutazione unica. Infatti nei vari paesi un povero potrebbe non essere povero in un altro luogo. La banca mondiale ha definito povero assoluto chi vive con meno di un dollaro al giorno, ma questo significherebbe che in molti paesi non ci sono poveri! Un criterio più valido è quello di definire povera una famiglia il cui reddito sia notevolmente più basso del reddito medio nazionale. Spesso si è portati a credere che i poveri siano gli anziani; questa è una considerazione errata, poiché risultano essere più disagiate le famiglie con minori dove un solo genitore lavora. Questo è forse dovuto ad una minore spesa sociale per gli assegni familiari ed a un aumento delle pensioni.


Tra gli altri indicatori del benessere possiamo identificare:

lunghezza della vita: infatti il benessere della società apporta miglioramenti che si ripercuotono sulla lunghezza della vita media.

Istruzione: un buon tasso di istruzione è il sintomo di una certa ricchezza del paese, poiché implica che i giovani non hanno grande necessità di mettersi subito a lavorare; poi un elevato tasso di istruzione fornisce una preparazione del personale molto elevata e quindi una buona propensione all'apprendimento.

Beni di consumo: la presenza di beni di consumo anche durevoli è il sintomo di una economia sana e ricca, infatti possedere dei beni che siano poi anche non indispensabili fa credere ad un certo benessere.

Strumenti di pagamento: l'utilizzo dei vari mezzi di pagamento è sintomo dell'evoluzione della società. Sotto questo aspetto l'Italia è ancora un poco arretrata, ma negli ultimi anni stà risalendo a colpi di catching up.


CAPITOLO 3

LA STRUTTURA

Consideriamo adesso come si presenta l'economia italiana in termini di struttura, quali sono i settori prevalenti e quale la posizione dell'Italia nel commercio con l'estero.


Se prescindiamo dagli scambi con l'estero, la struttura della domanda si viene a comporre di consumi ed investimenti. La loro proporzione indica il grado di impazienza dell'economia. C'è popolo che spende tutto e popolo che risparmia molto. L'Italia è un paese di risparmiatori, anche se negli ultimi anni ciò è stato poco trascurabile a causa del risparmio negativo del settore pubblico. Se intorno agli anni 70 l'incidenza degli investimenti sul PIL era intorno al 25%, attualmente si è scesi sotto il 20%. Questo probabilmente per l'aumento delle tecnologie che consentono un minore investimento rispetto al passato. Il tasso di interesse è un fattore importantissimo nelle decisioni di investimento.

Per quanto riguarda i consumi essi sono cresciuti praticamente del doppio rispetto agli anni 70; anche il tipo di consumo è variato: si è passati da forti consumi per beni primari, a consumi anche per beni di seconda utilità, nonché beni durevoli.


I settori produttivi.

Agricoltura: questo settore ha evidenziato un forte calo di addetti a partire dagli anni 50. l'esodo era ovviamente motivato dalle migliori retribuzioni che si ottenevano con gli altri settori. La quota agricola ancora oggi risulta consistente, ma è in continua diminuzione.

Industria: l'industria ha cominciato a contare molti aderenti con l'esodo dalle campagne. Poi con la scoperta del terziario vi è stato un ulteriore trasferimento. Nonostante tutto l'economia italiana ha delle solide basi sulle imprese. Caratteristica fondamentale di queste è l'essere di piccola dimensione, tanto che molti sono coloro che lavorano in imprese che contano meno di 10 addetti. La preoccupazione verso tali tipologie di impresa è che esse non hanno le strutture necessarie a competere a livello internazionale (non potendo sostenere il volume della produzione) e poi non sfruttano manodopera a basso costo come avviene per aziende in paesi in via di sviluppo o comunque di mercati emergenti. Queste considerazioni vengono fatte da decenni, ma si sono sempre rivelate infondate. Infatti la piccola impresa italiana ha puntato sulla flessibilità della produzione e sulla capacità di adattarsi alle mutevoli esigenze dei mercati.

Servizi: il terziario copre più del 60% dell'economia italiana. Esso è invaso in buona parte dalla pubblica amministrazione e dal commercio. Sono dei settori che non godono di concorrenza e notevoli sono le normative protezionistiche. Il settore commerciale e turistico sono divenuti una sorta di cuscinetto per arginare i licenziamenti e le non assunzioni di persone provenienti dall'industria.


Gli scambi con l'estero  

Le voci inerenti gli scambi con il resto del mondo danno luogo alla BILANCIA DEI PAGAMENTI CORRENTI. Essa si compone di quattro voci: merci (bilancia commerciale), servizi ( che è come sopra solo che tratta di immaterialità), redditi (tratta la remunerazione dei fattori produttivi, capitale e lavoro), trasferimenti (che erano un tempo le rimesse degli emigranti). Questo saldo se positivo arricchisce l'Italia, diversamente la impoverisce. Una bilancia in disavanzo deve essere prontamente corretta altrimenti si genera sempre un debito ulteriore. Anche un avanzo considerevole non è positivo poiché la collettività tenderebbe ad investire e consumare di meno.

Fino al 92 vi era un costante disavanzo in Italia. Successivamente questo si è ridotto fino ad annullarsi nel 97. la causa di ciò è da ricercarsi nella svalutazione monetaria che si è avuta dopo il 92 ma che non ha generato una spirale inflazionistica. Così si è avanzati negli scambi con l'estero riuscendo ad avere forti guadagni che hanno pareggiato il conto.

La caratteristica del mercato italiano è tutta volta al prodotto manifatturiero, dove l'Italia riesce ad avere forti consensi. Molto meno nei settori energetico e chimico. Il risultato risulta positivo ancor di più per non aver perso terreno come gli altri grandi paesi, innanzi ad economie emergenti e molto competitive.

Verrebbe da chiedersi se è giusto parlare di bilancia dei pagamenti in ambito nazionale dopo che ci si è immessi nell'area "EURO": tuttavia gli scambi e gli introiti riguardano una certa collettività; fino a quando si avrà una unica entità, non si prescinderà da tali valutazioni.



PARTE SECONDA


CAPITOLO 4

I DIFFICILI ANNI '70


Cercheremo adesso di spiegare quali sono stati gli eventi che hanno portato la nostra economia alla condizione attuale. Vedremo gli squilibri e gli ostacoli che si sono presentati. Quattro erano le caratteristiche degli anni 70:

riduzione del tasso di crescita;

emergere di un vincolo esterno;

squilibrio dei conti pubblici;

inflazione.


Per di più il paese dovette fare fronte a due shock:

conflitti sindacali;

esplosione dei prezzi petroliferi.


Dall'autunno del '69 alla crisi valutaria del '76

Le tensioni nascenti nel 69 arrivano dopo un periodo di sviluppo crescente e rapido dell'economia in Italia. Il rinnovo dei contratti aveva portato a questo momento di forte crisi. Nel periodo precedente al 69 si assistette a notevoli flussi migratori e ad un aumento del reddito nazionale di circa il triplo. La struttura italiana era caratterizzata da bassi costi e manodopera non specializzata in grande quantità.

La caratteristica della grande impresa in Italia era di essere controllata dal settore pubblico; alcuni interventi di programmazione economica fatti dallo Stato per intervenire direttamente, si dimostrarono fallimentari. Questo era evidente poiché l'Italia non aveva risorse proprie. Vennero messe in evidenza situazioni di degrado lavorativo, a partire dai salari fino agli orari di lavoro. La vertenza sindacale riuscì ad apportare cambiamenti che andarono a beneficio del lavoro dipendente. L'aumento che si verificò del costo del lavoro e i due shock esterni, diedero luogo ad una spirale inflazionistica che durò per quasi venti anni, col risultato che la produzione risultava frenata e ridotta rispetto agli anni precedenti.


La crisi valutaria comincia invece nel 71 quando il governo americano decide di svalutare il dollaro e di non garantire più la convertibilità in oro, facendo saltare i sistemi di cambio degli accordi di Bretton Woods. La lira subì delle fluttuazioni che non la rendevano stabile sulla scena internazionale; il deprezzamento insieme all'aumento dei prezzi al consumo e alla produzione portò grossi problemi al potere di acquisto dei salari, i quali pur essendo indicizzati sulla base della "scala mobile", non riuscivano a essere protetti dall'inflazione. Dal confronto con le parti sociali doveva nascere un accordo che nel 75 avrebbe portato un adeguamento ai salari.

Nel 73 un altro colpo arrivò all'economia italiana con l'aumento del prezzo del petrolio.

Fino al 72 l'economia era cresciuta, ma l'aumento dei prezzi delle importazioni accentuato dalla svalutazione, determinò un deterioramento della bilancia dei pagamenti generando un disavanzo considerevole. Si reagì con misure contenitive delle importazioni e con limiti quantitativi all'espansione del credito; ancora con degli interventi fiscali. Si ebbe una flessione produttiva e un clima di recessione generalizzato. Le imprese furono fortemente colpite da queste situazioni tanto da dover fare richieste di contributi pubblici.

Nel corso del 75 i conti con l'estero cominciarono a migliorare favorendo un allentamento della restrizione monetaria. Questo fece riprendere l'andamento della domanda interna con una certa rapidità. Si generò però un forte attacco speculativo sulla lira che costrinse nel gennaio del 76 alla chiusura del mercato dei cambi: ci fu una svalutazione della lira di circa un quinto.


Dalla stabilizzazione del '76 alla adesione allo SME

Gli shock subiti dall'esterno e la volontà di rimettere in ordine rapidamente un periodo di crisi, non hanno fatto altro che peggiorare la situazione; questo perché si trattava di una economia che tardava a reagire agli shock. Era necessario operare un rinnovamento della struttura produttiva. Si dovette frenare l'inflazione con un aumento del costo del denaro, facendo salire il tasso ufficiale di sconto. Per frenare l'esportazione di capitali venne introdotto un limite con sanzioni sia amministrative che penali. Anche se le esportazioni aumentarono, la bilancia commerciale fu frenata, anche a fronte di surplus dei servizi. Successivamente si ebbe una minor crescita dei costi delle materie e un contenimento delle perdite nei confronti del dollaro: tutto ciò portò verso un rapido riequilibrio del saldo dei pagamenti. Solo la risposta dell'inflazione tardò ad arrivare, dopo che il sistema di indicizzazione dei prezzi si fece prossima al 100%. Nel 77 per ottenere dei miglioramenti vennero definiti degli accordi riguardo talune indennità dei lavoratori e misure atte a prevenire assenteismo e accrescere la mobilità.

Nel periodo 78-80 le imprese ebbero dei miglioramenti nei loro bilanci tali da consentire degli investimenti. Fu questo l'inizio di un periodo di ammodernamento. Si puntò non sull'aumento della produzione, ma sulla ristrutturazione dei capitali, riducendo la manodopera e aumentando i guadagni.

È di questo periodo la volontà di costituire lo SME al fine di rendere le fluttuazioni di moneta stabili senza avere la possibilità di trovarsi cambi volatili che penalizzavano gli scambi tra gli operatori. Alla fine di un dibattito acceso, l'Italia entrò nello SME.


CAPITOLO 5

GLI ANNI OTTANTA: DISINFLAZIONE E ACCUMULO DI SQUILIBRI.

Negli anni ottanta l'inflazione si ridusse notevolmente rispetto agli anni precedenti. Questo fu possibile grazie a una politica monetaria restrittiva. Il meccanismo delle retribuzioni indicizzate fu definito inutile e si ebbe la necessità di una moderazione salariale.


Dall'adesione allo SME al controshock petrolifero del 1986

Subito dopo l'ingresso della lira nello SME si verificò nel 79 il secondo shock petrolifero. L'inflazione trovò sostegno nell'indicizzazione delle retribuzioni e nel rialzo dei margini di profitto. Lo sviluppo delle piccole imprese continuò e si continuarono a porre le condizioni per il risanamento. La ristrutturazione industriale continuò con politiche espansive di bilancio pubblico e con una ferma disciplina dei cambi. Dopo il secondo shock petrolifero i sindacati presero una sconfitta a causa del non avvenuto risanamento dell'efficienza produttiva che aveva causato forti aumenti dei costi di produzione. La vertenza FIAT fu di spunto per poter usufruire di un sistema di cassa integrazione e di pensionamenti anticipati. Tutto questo insieme alla continua fiscalizzazione degli oneri sociali, diede luogo ad un continuo indebitamento sul bilancio pubblico. In questo clima post aumento petrolifero si riuscì a registrare un non avvenuta spirale inflazionistica, si riuscì a contenerla pur avendo un dollaro in espansione.

Le politiche monetarie adottate miravano sia alla restrizione monetaria, sia dettate dalla decisione della Banca d'Italia di non obbligarsi più ad acquistare i titoli di Stato rimasti invenduti. Ancora contributi anti inflazionistici vennero da un contenimento degli aumenti salariali.

L'occupazione vide la traslazione del personale dall'industria al terziario anche a causa della ristrutturazione industriale. Ma questo fenomeno non impedì l'aumento della disoccupazione.

In generale possiamo dire che la disinflazione ha subito forti spinte dall'interno del paese con la politica monetaria restrittiva; e dall'esterno, con il cedimento del dollaro.


Gli squilibri crescenti, il risanamento incompleto e la crisi valutaria del 1992

Anche se dal 1986 al 1990 il PIL aumentò in modo costante, non si riuscì a sfruttare questa situazione di relativo benessere per migliorare i conti pubblici. Infatti il settore pubblico continuò a logorare i bilanci con spese pubbliche non efficienti. In più erano notevoli le spese per servizi sociali che rendevano i bilanci in disavanzo e in prospettiva futura non c'erano grosse migliorie. Si perde il controllo della spesa pubblica e si accumulano deficit. Ancora il cambio forte era dichiaratamente applicato con l'obiettivo di completare il processo di disinflazione. Nello stesso momento l'inflazione ritorna a salire e rimane inerte a causa di alcune situazioni quali:

insufficiente concorrenza nel terziario;

sistema di determinazione di redditi non correlati agli aumenti di produttività;

asimmetria tra prezzi della produzione e variazione dei costi delle materie;

modesto sviluppo delle industrie che non con sente di aumentare i ritmi della produzione.


Tra l'88 e il 92 i costi per il lavoro sono di gran lunga superiori allo sviluppo della produzione e la perdita di competitività delle imprese è evidente.

Si avvertono conseguenze di rilievo sul piano industriale che porteranno a due accordi tra le parti sociali e il governo, seguirà un periodo di moderazione salariale.

Il nuovo governo di tecnici incontrerà notevoli difficoltà nel predisporre delle misure correttive. Poi i vari referendum circa l'ingresso in Europa genereranno degli attacchi continui nei confronti della lira. Questa situazione era una tappa che si sarebbe verificata e che aveva avuto inizio nel 79 con il disegno di integrazione economica e finanziaria (SME). Alle fasi di liberalizzazione dei capitali e eliminazione di barriere non tariffarie, segue il trattato di Maastricht che avrebbe portato alla moneta unica. In esso erano presenti dei limiti che servivano a dare unicità nel vedere la stabilità dei membri, nonché un metro vero e proprio per valutare i confini contabili entro cui rimanere. Tutti i paesi dell'Europa guardano con attenzione alla situazione economica italiana e a tutte le manovre che vengono effettuate; in effetti l'Italia era ben lontana dai limiti minimi richiesti, perciò ha dovuto faticare e sacrificarsi non poco per dare attuazione alla moneta unica fin da subito.


CAPITOLO 6

IL RICUPERO DELLA STABILITA' E L'ADESIONE ALLA U.E.M.

Il periodo 92-96 vede l'Italia coinvolta in un periodo di instabilità dove la lira ritorna a fluttuare; le politiche economiche sono sconvolte da situazioni di scandali generali dove sono evidenti fenomeni di corruzione che interessano una parte consistente della classe dirigente. Vari governi tecnici si sono succeduti ed hanno avuto il merito di contenere l'inflazione tramite restrizioni monetarie: questo tutto in funzione dell'ingresso nella moneta unica fin dall'inizio. I conti pubblici sono in miglioramento.


Dalla crisi valutaria al rientro negli Accordi di cambio

Nel quadriennio in questione si cerca di mettere ordine in tre questioni fondamentali:

  1. relazioni con le parti sociali;
  2. politica di bilancio;
  3. politica monetaria.

Si cercherà di modificare il sistema delle relazioni industriali rimuovendo gli ostacoli che irrigidiscono il mercato del lavoro, e eliminando la scala mobile si darà vita ad un sistema di indicizzazione dei salari riferito all'andamento reale dell'economia. I salari risulteranno più bassi dell'inflazione e della crescita produttiva con il vantaggio di contenere la stessa inflazione.

La politica di bilancio risulta restrittiva con la conseguenza di cali dei consumi in seguito alle previsioni pessimistiche dei consumatori con probabili inasprimenti del prelievo fiscale. La domanda interna cala e insieme ad essa anche il PIL. le politiche di restrizione monetaria fanno abbassare i tassi di interessi e siccome i prezzi delle materie non erano aumentati, ecco che si verifica un espansione delle esportazioni con un rovesciamento della bilancia dei pagamenti che passa, nel giro di un anno dal passivo all'attivo. Nel 94 la crisi messicana trascina la lira che però non viene coinvolta in una spirale inflazionistica se non per un breve momento. La banca d'Italia regolando la quantità del tasso di sconto era riuscita a contenere l'inflazione e a generare un momento di disinflazione continuato e progressivo.

Anche se i conti pubblici risultano in miglioramento, il mercato del lavoro presenta ancora un buon numero di disoccupati con forti divergenze nel meridione. Il risanamento dei conti pubblici comincia a convincere gli operatori e poi vengono conclusi accordi soddisfacenti tra parti sociali e governo.

In questa situazione ritroviamo dei conti pubblici in risanamento, la riduzione dell'inflazione, la volontà della banca d'Italia di tenere dei tassi favorevoli alla stabilità di mercato; si verifica da qui una riduzione del debito pubblico.

Il cammino verso l'unione monetaria

Il cambio assicurato alla lira riflette i miglioramenti in atto che consente stabilità e una ritrovata competitività delle imprese italiane. La necessità di rispettare i parametri di Maastricht favoriscono degli interventi pubblici correttivi; osserveremo anche l'introduzione di una tassa per l'Europa . l'inflazione è in discesa e le previsioni di essa lo sono pure.

Il calo dell'inflazione, insieme al miglioramento dei conti pubblici, aprono la strada ad un allentamento della politica monetaria con la riduzione dei tassi di interesse.

Tutto ciò ha creato le premesse per uno sviluppo più consistente, con la conseguenza di poter entrare in area euro fin da subito. Ma per favorire una ripresa duratura e l'assorbimento della disoccupazione soprattutto localizzata, è necessario affrontare i nodi irrisolti da sempre della nazione italiana.





PARTE TERZA


CAPITOLO 7

LA QUESTIONE DEL SUD

La questione del sud risiede in politiche che sono state adottate nel passato e che hanno avuto esiti negativi. Il problema della disoccupazione è legato fortemente a problemi strutturali irrisolti e da una politica di assistenzialismo infruttifera e a volte dannosa. Nell'Italia del centro nord vi è disoccupazione, ma essa non ha caratteristiche gravi come nel sud, tanto da presentare un tasso che è inferiore a quello degli altri paesi europei. Il sud paga lo scotto di carenza di infrastrutture, corruzione diffusa e amministrazioni pubbliche inefficienti.


I fatti

Nel sud vi è un divario di circa il 15% col centro nord per quanto riguarda la disoccupazione; la ricchezza media delle famiglie è inferiore del 30%; povertà e disuguaglianza sono molto diffuse.poi nel sud vi è un tasso di occupazione agricola che è doppio e quello industriale è la metà; nel terziario le cose non migliorano affatto poiché occupato in buona parte dal pubblico. Poi ancora vi è una propensione alle esportazioni che è un terzo rispetto al nord con una conseguente bilancia dei pagamenti in costante disavanzo. Gli investimenti soltanto sono risultati superiori ma grazie alla partecipazione statale e ai sussidi che tra l'altro non hanno avuto alcun effetto nel tempo. Le imprese sono piccole e frammentate, con una esile struttura; le grandi imprese sono spesso di origine pubblica.


Le cause di fondo

Vi è una letteratura abbastanza folta che riguarda la questione del mezzogiorno. Le cause vengono spesso ricercate in ambienti lontani anche secoli. Ma la cosa che desta stupore è come mai pure dopo l'unità di Italia non si è avuta una spinta regolatrice che tendesse ad assottigliare i divari tra nord e sud. C'è chi parla addirittura della materiale lontananza del sud con i mercati di sbocco europei. Vero è che il progresso è mosso dalla voglia di profitto, ma se vi sono ostacoli oggettivi che da soli non si può superare, allora non si può pretendere il miracolo dei pochi: ci vuole il supporto del paese intero.

La convergenza neoclassica e i suoi limiti

Secondo questa teoria due aree che hanno un diverso livello di PIL dovrebbero tendere nel tempo a convergere, quindi a divenire stabili tra loro e senza grosse difficoltà. Fermo restando talune caratteristiche di forze in gioco. Anche se col tempo si ha la tendenza a dimenticare, un miglioramento nelle condizioni del sud c'è stato, ma la strada da fare è ancora tanta. Obiezioni sorgono se si pensa che miglioramenti sono stati pochi rispetto al tempo che è trascorso, poi il meccanismo di espansione si è bloccato e comunque non è detto che esso fosse stato spontaneo.

Negli anni di convergenza si è assistito ad un periodo di emigrazione dal sud al  nord. Poi il fenomeno si è arrestato forse a causa della diminuita facilità di trovare una occupazione o ancora per l'onerosità sia economica che morale del trasferimento.


Il ruolo dell'intervento pubblico

La teoria neoclassica lascia poco spazio a quello che potrebbe essere l'intervento pubblico nell'economia. Ma altre interpretazioni forniscono l'idea della ragione dell'intervento attivo dello Stato.

Una prima versione è una sfumatura più complicata della teoria neoclassica secondo la quale l'accesso alla tecnologia dovrebbe essere lo stesso per ogni regione. Qui per tecnologia si intendono un po' tutte le fonti dello sviluppo dalle infrastrutture alla pubblica amministrazione. Secondo questa teoria se due regioni non hanno le stesse opportunità, convergono su obiettivi diversi o non convergono affatto.

La seconda alternativa è quella della causazione cumulativa. Secondo tale teoria se una regione detiene una forma di sviluppo continuerà a mantenerla senza che altri possa convergere su di essa, come una sorta di vantaggio acquisito che n on potrà essere mai colmato.


Le politiche

La questione del meridione venne fuori già subito dopo l'unità. Molte furono le azioni compiute e che si compiono per far decollare il sud. Dalle leggi speciali agli incentivi. Era stata perseguita anche l'idea della causazione cumulativa con l'obiettivo di insediare delle imprese imponenti con la speranza che esse trascinassero tutto l'indotto. Ma queste grandi imprese risultavano come cattedrali nel deserto e generavano dei costi che spesso hanno costretto alla loro chiusura. Molti sono stati i tipi di incentivo ricevuti dal sud; molto spesso però essi andavano ad agevolare solo il fattore capitale, mentre il fattore lavoro non era minimamente interessato. Quindi sono sorti altri interventi e nonostante il sopravvenuto contenimento della spesa pubblica, gli aiuti sono giunti dai fondi comunitari. Addirittura burocratico italiano è così articolato e inefficiente che la comunità europea ha spesso minacciato l'Italia di ridistribuire ad altri i fondi non sfruttati, poiché la nazione non riusciva poterli investire. Un piano che si stà attuando in questi anni per lo sviluppo è il patto territoriale dove attraverso il coordinamento degli enti locali si tenta di dare rilancio ad una economia spenta.



L'efficacia degli interventi

La politica degli incentivi non si è dimostrata per niente produttiva. Infatti nell'ultimo venticinquennio lo sviluppo è risultato frenato. Anche se le politiche erano rivolte all'aumento dei fattori e non della produttività, il risultato è stato disatteso: basta guardare la massa dei disoccupati. Gli incentivi hanno dato un effetto deleterio. Si dice che nel sud manchi la capacità imprenditoriale, dove si intende la voglia di spingersi nel rischio verso mercati nuovi senza avere la speranza di aggrapparsi a incentivi pubblici. E questo solo per quanto riguarda delle scelte lecite! Bisogna riuscire ad eliminare le diseconomie esterne primo fra tutti quelle che sono dei mali sociali e che non dovrebbero esistere a prescindere da tutto; poi bisognerebbe supportare le imprese affinché esse si mantengano sulla retta via trovando sconveniente rivolgersi ad atti illeciti.

Bisogna evitare il protezionismo e favorire la libera contrattazione. L'esempio è lampante e storicamente provato. Però il tutto deve essere supportato dalla mancanza di barriere legali e dalla sicurezza nella contrattazione: ognuno deve sentirsi libero e tutelato nell'agire contrattuale. Solo instaurando un clima di stabilità e delle basi oggettivamente necessarie si può giungere ad un certo livello di benessere.


CAPITOLO 8

ECCESSO DI DEBITO, CARENZA DI STATO

La questione dello Stato va in due direzioni: una del risanamento del debito ed una nell'efficienza dei servizi pubblici. Spesso questi due fatti sono collegati tra loro e interdipendenti.


Disavanzi e debito pubblico

Dalla fine della seconda guerra mondiale molti paesi hanno avuto la tendenza a ricorrere all'indebitamento per far fronte a spese pubbliche che non trovavano riscontro nelle entrate. Essendo il debito creato dall'emissione di titoli di stato, si rendeva necessario non trovarsi nella condizione di non poter adempiere: nasce di qui la tendenza al bilancio in pareggio in modo da non trovarsi con eccessivi debiti.

Anche con l'ingresso nella moneta unica era richiesta una stabilità particolare per la quale si dovevano avere certi numeri di PIL, debito pubblico, ecc. Il mantenimento di conti pubblici senza debiti implicano un buono stato di salute della nazione e quindi una certa stabilità.


L'esperienza italiana

L'espansione della spesa pubblica ha origini più antiche rispetto ai 25 anni presi in considerazione. In tanto tempo il debito pubblico è stato sempre al rialzo mosso dagli interventi che lo Stato ha adottato nei confronti di una nazione in costante bisogno di aiuto per rilanciarsi. Vari settori come l'istruzione, la sanità e altri necessitavano di supporto. Ma le entrate non erano sufficienti. Dal 74 il prelievo fiscale cominciò a salire fino ad avere degli slanci particolari quando si era giunti ad organizzare il risanamento dei conti per entrare nella UME. Molte sono le cause che hanno portato a tali condizioni e certamente prima fra tutte quella di non aver rispettato i vincoli di bilancio e di essersi imbattuti sempre in inefficienze burocratiche. Attualmente il debito è tenuto sotto stretta osservazione e rende i bilanci rigidi al fine di mantenere le condizioni richieste da Maastricht.


Uno Stato carente

Negli ultimi anni si è affermata la convinzione di dover intervenire nei conti pubblici non solo con manovre di breve periodo, ma anche e soprattutto di lungo periodo. Infatti il grande problema italiano risulta essere quello dello stato sociale e in particolare le pensioni e la sanità. La maggior parte dei fondi si dirottano in questi settori mentre gli altri vengono praticamente accantonati o mal gestiti. Le esigenze di uno stato come quello italiano sono chiare, la popolazione è vecchia e si richiedono pensioni. Si deve intervenire in fretta ma non in modo drastico poiché queste manovre non possono essere rapide: devono avvenire gradualmente.

Un passo da compiere deve essere quello di garantire molta più tutela a coloro che intendono investire nell'impresa. Lo stato deve ripristinare la tranquillità e assicurare il corretto svolgimento delle transazioni. Purtroppo lo Stato risulta in questo ancora carente. Così passi enormi devono essere fatti per garantire uno sviluppo delle risorse materiali e immateriali, del personale e cercare di garantire una equa redistribuzione e allocazione delle risorse su tutto il territorio rimuovendo tutti gli ostacoli presenti.


CAPITOLO 9

MERCATI, COMPETITIVITA' E CONCORRENZA

Il mercato e la sua forma hanno un grande ruolo nella competitività di un paese. Esso deve essere di tipo concorrenziale e non avere sorta di barriere alcune. Poi vi deve essere una legislazione in grado di tutelare la non formazione di esse. In Italia la normativa antitrust risale al 1990. oggi in un mercato globale ma soprattutto europeo, si ha una tutela maggiore e incisiva.


Come nascono i limiti alla concorrenza

I limiti che incontra un mercato di concorrenza possono essere vari,  primo fra tutti la in convenienza di taluno a entrarvi. Esistono poi delle condizioni dove lo Stato aveva dei monopoli o dove le società che lo amministravano erano di tipo pubblico. Limiti alla concorrenza vengono posti anche a tutela della collettività, per esempio nel far divenire medico qualcuno si richiedono certi requisiti. La cosa importante di cui deve farsi carico lo Stato è che quando si verificano dei monopoli naturali o più o meno tali, esso intervenga al fine di prevenire e correggere eventuali abusi.


Due spinte riformatrici

Negli ultimi dieci anni si sono avute delle spinte riformatrici della regolamentazione anticoncorrenziale. Una regolamentazione è venuta a livello europeo e basata su quattro libertà di movimento: merci, servizi, capitali e persone. Sono stati aboliti i vincoli sulla circolazione delle merci, sulla circolazione di capitali con l'estero. Sono stati vietati gli interventi pubblici che turbavano la concorrenza con paesi stranieri e soprattutto agevolavano il contatto con sole imprese italiane. Sono stati aperti dei mercati alla concorrenza estera che prima erano addirittura monopolizzati, come le telecomunicazioni, il trasporto aereo, ecc.

L'altra regolamentazione ha origini interne e anche questa ha avuto un andamento tipo quella europea. L'autorità garante ha dovuto e deve spingere il Governo, il Parlamento e l'opinione pubblica ad incentivare la liberalizzazione. Sono state modificate delle situazioni nelle quali si imponevano dei prezzi-cartello, si è avuta l'apertura di vari mercati a quelle che sono le concorrenze straniere.


Banche e finanza

Dopo la riforma operata nel 1993 anche il sistema del credito italiano ha subito la caduta delle barriere della concorrenza. L'ingresso di nuovi operatori ha stimolato alla formazione di prodotti finanziari variegati ed interessanti e grazie alla buona propensione al risparmio delle famiglie italiane, possiamo vantare un sistema finanziario tra i più competitivi del mondo.

L'unica pecca è costituita dal mercato borsistico che ha dimensioni veramente ridotte.


Il mercato del controllo delle imprese e le privatizzazioni

Il mercato italiano è caratterizzato dall'avere un gran numero di piccole imprese che sono a conduzione familiare. Questa situazione che vede l'imprenditore capitalista genera una buona affidabilità al mercato. Anche le grandi imprese, quelle quotate in borsa sono spesso il frutto di una espansione della piccola impresa dove si ricercano capitali esterni. Negli altri paesi europei la situazione è ben diversa, come in Inghilterra dove vi è un numero elevato di imprese quotate, o in Germania. In tempi non lontani molte grandi imprese italiane erano a controllo statale. Questa condizione è cambiata anche per i grandi costi che esse comportavano e per una sorta di costante cattiva gestione dei vertici di impresa. Si è attuato un profondo cambio di tendenza con la privatizzazione, dove lo scopo non era tanto quello di favorire un introito dello Stato - che sarebbe stato irrilevante rispetto al debito pubblico -  quanto quello di favorire il mercato della concorrenza in più settori.


Competere in Europa, con l'Europa

In Italia ancora non viene a rilanciarsi la condizione di sfruttare le potenzialità dei meccanismi di mercato. Eppure è evidente come i settori meno protetti dalla concorrenza siano i più fervidi mentre quelli ritenuti strategici hanno fatto un bluff. In tutta Europa era tendenza al protezionismo, ma in molti paesi si è capito e sfruttato il potenziale della concorrenza. Tuttavia sembra che un ridimensionamento istituzionale sia in atto e vi siano delle condizioni di apertura a questi migliori stimoli.




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