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L'economia internazionale fino alla vigilia della grande crisi del 1929 - La crisi di riconversione del 1920/21

economia



L'economia internazionale fino alla vigilia della grande crisi del 1929


La crisi di riconversione del 1920/21

Alla fine della guerra nell'Europa centrale la fame causata dalla scarsezza della produzione agricola era un

problema pressante; per risolverlo gli Stati Uniti costituirono l'American Relief Administration che fornì aiuti

Paesi bisognosi. Tuttavia questi aiuti consistettero solo in derrate alimentari e non in materie prime

indispensabili alla ripresa industriale di cui quei Paesi scarseggiavano.

Nell'Europa occidentale e negli Stati Uniti il problema era la riconversione dalla guerra alla pace. In più in

Europa c'era anche l'urgenza della ricostruzione. Il timore era quello della disoccupazione causata dalla



massiccia smobilitazione delle truppe, ma questo timore fu smentito da un vero boom della domanda di beni

di consumo, e gli ex-soldati trovarono immediata occupazione nelle imprese sommerse da ordinativi. I prezzi

crebbero grazie alla febbre della ricostituzione degli stocks e dai movimenti speculativi, mentre i governi

mantenevano alto il livello della spesa e creavano potere d'acquisto aggiuntivo.

La crisi si verificò nel 1920, e colpì duramente soprattutto i Paesi che non avevano subito distruzioni dalla

guerra. La causa fu la flessione della domanda di beni durevoli, una volta ricostituite le scorte. Si trattò di

una tipica crisi di riconversione dall'economia di guerra a quella di pace, profonda ma di breve durata. Ad

aggravare la situazione si aggiunsero le politiche monetarie restrittive che avevano lo scopo di frenare

l'inflazione e la normalizzazione degli scambi internazionali, che accelerò l'ingorgo di merci sul mercato

mondiale.

L'iperinflazione in Germania

In Germania, come negli altri Paesi, il governo aveva autorizzato la Banca Centrale (Reichsbank) ad emettere

carta moneta non coperta dalle riserve 626b13g auree. Questa fu la prima causa che aprì il varco all'inflazione. Ma

altri fattori causarono addirittura una iperinflazione in Germania: il deficit del bilancio statale (che fece

aumentare la quantità di moneta circolante e quindi i prezzi), la bilancia dei pagamenti sfavorevole (per il

crollo delle esportazioni e l'aumento delle importazioni), l'aumento dei salari monetari (per l'incremento del

costo della vita), la fuga dei capitali all'estero e l'effetto psicologico del panico diffuso tra la popolazione per

la perdita del conflitto.

Nei primi tempi il rialzo del corso delle valute fu più rapido del rialzo dei prezzi sul mercato interno. Gli

stranieri quindi investirono massicciamente in Germania. Ma in seguito il rialzo dei prezzi fu più rapido

rispetto alla caduta del valore del marco all'estero perché il pubblico temeva una caduta sempre maggiore

del valore del marco. I prezzi crebbero così velocemente che la moneta esistente non fu più sufficiente per

effettuare gli acquisti di merci, il marco fu rifiutato nelle transazioni e le monete straniere entrarono in

circolazione al suo posto.

Il colpo di grazia fu dato dall'occupazione militare della Ruhr da parte della Francia che lamentava il mancato

pagamento di un'indennità di riparazione. Il governo tedesco per fronteggiare la crisi fu costretto a stampare

una grande quantità di moneta da cui derivò il definitivo crollo del marco.

Gli alleati, consapevoli del fatto che la Germania non sarebbe mai riuscita a pagare le riparazioni se non si

fosse sostenuto il risanamento monetario, istituì a tal fine un comitato presieduto dal generale americano

Dawes. Il piano Dawes prevedeva un pagamento delle indennità annuale a importo variabile a seconda della

congiuntura, in modo da non compromettere la stabilità della moneta. Nel 1923 fu creata una nuova banca

pubblica (la Deutsche Rentenbak) che emise una nuova moneta, il Rentenmark (marco-rendita) che si

sarebbe cambiata nel rapporto di un marco nuovo per 1000 miliardi di marchi carta. Il marco-rendita non era

garantito da una base aurea, ma solo nominalmente, da ipoteche sulle reali risorse del Paese. La garanzia

nominale fu però sufficiente ad assicurare la fiducia nella nuova moneta, anche perché governo e

Reichsbank attuarono una rigida politica di deflazione con emissioni limitate, crediti limitati, riduzione della

spesa pubblica e aumento della tassazione.

Questa nuova fiducia e l'inizio del risanamento delle finanze statali provocarono il rientro di ingenti capitali

trasferiti all'estero per salvarli dalla svalutazione. Nel 1924 si emise il Reichsmark, moneta che aveva il valore

di 1000 miliardi di vecchi marchi e che era finalmente garantito da una riserva aurea e di valute straniere.


Dal gold standard al gold exchange standard

L'urgente problema di ogni Paese al termine della guerra era quello di ricostruire il sistema monetario

ritornando alla convertibilità dei biglietti (sospesa durante il conflitto) per consentire la ripresa dei rapporti

economici internazionali.

Nel 1918 fu redatto il Cunliff Report, che auspicava il ritorno al gold standard basandosi sulle teorie classiche

di Ricardo, il quale affermava che la bilancia dei pagamenti si equilibrava naturalmente grazie ai meccanismi

del mercato. La Conferenza Finanziaria Internazionale di Bruxelles del 1920 sottolineò l'importanza del

ritorno alla base aurea, ma si ritenne che fosse necessario operare per gradi, perché la massa monetaria era

enormemente dilatata rispetto allo stock mondiale d'oro e si sarebbe verificata inevitabilmente una forte

deflazione che avrebbe intralciato la ricostruzione. La Conferenza Monetaria Internazionale di Genova del

1922, per risolvere questo problema, propose una nuova soluzione: l'adozione del gold exchange standard.

Questo sistema prevedeva di affiancare all'oro, come garanzia, delle riserve in divise-chiave, vale a dire

valute particolarmente forti (in particolare il dollaro), che avevano la prerogativa di essere convertibili in oro.

Le divise periferiche, invece, erano garantite da una riserva non necessariamente aurea, ma costituita anche

da divise-chiave. In questo modo si sarebbe economizzato l'oro presente sul mercato e si sarebbe evitata la

deflazione. Si raccomandò inoltre di riservare l'oro dalla circolazione monetaria interna e di riservarlo alle

transazioni internazionali, in lingotti e per somme elevate.

L'Inghilterra (da cui era partita questa proposta) sperava di attirare oro a Londra e di ottenere la

convertibilità della sterlina, in modo da farla diventare nuovamente valuta internazionale come il dollaro.

L'Inghilterra e il ritorno al gold standard nel 1925

In realtà prima della guerra la sterlina aveva avuto il ruolo che avrebbe dovuto essere stato dell'oro, in

quanto i movimenti aurei internazionali erano scarsi e si preferiva ricorrere alla sterlina, ritenuta una valuta

affidabile. I bisogni di finanziamento erano infatti cresciuti e richiedevano ulteriori strumenti di pagamento,

come appunto la sterlina in campo internazionale, che nel 1913 rappresentava ormai l'83% del valore degli

scambi. La sterlina aveva funzionato come principale strumento di riserva e di pagamento nelle transazioni

internazionali e Londra era diventata l'unico centro di finanziamento del commercio mondiale.

Inoltre le riserve in oro detenute dalla Banca d'Inghilterra potevano anche essere limitate rispetto alla

quantità di sterline emesse, in quanto la manovra del tasso di sconto consentiva di sanare eventuali squilibri

con l'estero. La Banca d'Inghilterra infatti, alzando il tasso di sconto (il costo del denaro), attirava capitali

stranieri, tratteneva a Londra i capitali depositati e frenava nuovi prestiti esteri a breve. Inoltre il maggiore

costo del denaro provocava un rallentamento dell'attività economica e quindi un calo dei prezzi; i Paesi

detentori di materie prime si affrettavano a vendere le proprie riserve a tutto vantaggio dell'Inghilterra che

ne era il principale acquirente. La bilancia dei pagamenti inglese restava quindi in equilibrio.

Esistevano anche altri strumenti di riequilibrio della bilancia dei pagamenti, come i movimenti di lungo

termine di capitali: i Paesi nuovi (Stati Uniti, Canada e Australia) potevano finanziare il deficit della loro

bilancia dei pagamenti grazie ai capitali che ricevevano dai Paesi industrializzati alla ricerca di investimenti

proficui per i loro capitali esuberanti. I Paesi debitori colmavano così i loro deficit senza ricorrere ai

pagamenti in oro, anche se a prezzo di una situazione fortemente vulnerabile.

La Prima Guerra Mondiale offrì a New York l'occasione di soppiantare Londra come piazza internazionale: la

Borsa londinese era infatti chiusa e gli Stati belligeranti avevano bisogno urgente di prestiti a breve e a lungo

termine che solo gli Stati Uniti erano in grado di fornire, per giunta a tassi vantaggiosi.

L'adozione del gold exchange standard sancì il definitivo sorpasso del dollaro sulla sterlina, decretando che la

divisa chiave per eccellenza fosse il primo. La sterlina era ancora importante negli scambi internazionali, ma

non era più convertibile. Il Gold Standard Act segnò il ritorno della convertibilità in oro alla parità

d'anteguerra, anche se a prezzo di prestiti da parte degli Stati Uniti. Il ritorno alla vecchia parità segnò una

rivalutazione del 10% della sterlina che comportò l'aumento dei prezzi delle esportazioni e la contrazione del

loro volume. Il governo cercò di porre rimedio livellando verso il basso i prezzi del mercato interno con la

riduzione dei salari monetari, che però non erano più flessibili come prima della guerra. Tutto questo, unito

alla crisi dei settori tradizionali della produzione, provocò grave scontento sociale.


Inoltre i numerosi capitali investiti a Londra (che superavano il valore della riserva aurea della Banca

d'Inghilterra) non erano più al sicuro dal disinvestimento come un tempo in quanto alla sterlina si

affiancavano alternative vantaggiose come il dollaro. La manovra del tasso di sconto, attuabile in

precedenza, ora non avrebbe più sortito risultati perché l'oro avrebbe potuto spostarsi su altre piazze (come

New York) in grado di offrire maggiori garanzie. L'Inghilterra quindi non era più in grado di mantenere sotto

controllo il sistema monetario come aveva fatto in passato.

La Francia dal dopoguerra al franco Poincaré

Francia e Belgio risultarono i Paesi più colpiti dalla guerra. La Francia, pur essendo vincitrice, aveva subito

gravissimi danni umani e materiali e inoltre l'inflazione era galoppante. Il governo, contando sulle riparazioni

tedesche, aveva emesso grandi quantità di carta moneta, ma i ritardi nei pagamenti tedeschi lo costrinsero a

chiedere ulteriori prestiti alle banche, aumentando l'inflazione e la fuga dei capitali all'estero.

Nel frattempo la ricostruzione procedeva con alacrità, tanto che nel 1925 poteva dirsi compiuta. Soprattutto

l'industria metallurgica e chimica si erano modernizzate ed erano diventate più efficienti. Come conseguenza

aumentarono le esportazioni che nel 1925 superarono le importazioni. L'inflazione fu una spinta verso la

modernizzazione perché rendeva conveniente indebitarsi da parte degli industriali; fu quindi sostanzialmente

una scelta politica del governo che intendeva sostenere l'industria.

Si trattava comunque di una scelta rischiosa che avrebbe potuto provocare il collasso della moneta, ma il

presidente Poincaré ristabilì la situazione monetaria nel Paese, dapprima aderendo al gold exchange

standard grazie alla riserva in sterline accumulata con gli avanzi della bilancia commerciale, in seguito

attuando una politica di deflazione, con l'aumento del tasso di sconto, l'inasprimento delle imposte e la

diminuzione dell'occupazione nel pubblico impiego.

Il franco riacquistò così la fiducia generale e i capitali esportati rientrarono gradualmente. La tendenza del

franco al rialzo fu provocata anche dalle voci che lo volevano convertibile in oro, come infatti avvenne nel

1928 (franco Poincaré, svalutato del 20% rispetto al suo valore d'anteguerra). Molti capitali in oro affluirono

in Francia, che inoltre convertì in oro le sue riserve in sterline, mettendo in seria difficoltà l'Inghilterra.


L'Italia fascista: il periodo liberista

L'Italia dopo la Prima Guerra Mondiale era in una situazione di grave crisi. La pace "mutilata", chiamata così

a causa delle condizioni insoddisfacenti per l'Italia, aveva creato diffuso malcontento tra la popolazione

delusa. L'economia non era sfuggita alla crisi di riconversione: l'industria metalmeccanica aveva subito una

crisi di sovrapproduzione (con il fallimento dell'Ilva e dell'Ansaldo, che trascinò con sé la Banca Italiana di

Sconto); la disoccupazione galoppava, accentuata anche dalla smobilitazione; lo scontento popolare provocò

gesti estremi come l'occupazione delle terre incolte, specie nel meridione, che il governo fu costretto a

riconoscere legalmente; si diffondevano infine le idee rivoluzionarie comuniste, in un clima politico quanto

mai instabile.

In questa situazione di disordine Mussolini si impose come colui che avrebbe riportato l'Italia ai fasti di un

tempo e salì al potere con un governo di tipo autoritario e nazionalista, cogliendo la fiducia delle masse

scontente e deluse. Il suo programma consisteva nella restaurazione dell'autorità statale e nel ritorno alla

libertà economica, mentre identificava nei socialisti i nemici diretti e si organizzavano anche bande armate

che commettevano atti di violenza e di terrorismo al fine di ristabilire l'ordine e di osteggiare gli scioperi.

Con il sostegno di liberali, cattolici, delle classi medie e degli industriali, ebbe inizio la prima fase del

fascismo, quella "liberale" (con il ministro De Stefani) : si affrancò l'iniziativa privata dai controlli statali, si

incoraggiarono gli investimenti privati e si attirarono i capitali stranieri, allo scopo di stimolare

l'industrializzazione. Queste iniziative in effetti ebbero successo, tanto che la produzione industriale e

agricola crebbe notevolmente dal 1922 al 1925, e il regime acquistò così popolarità.

Tuttavia il sistema economico italiano non era equilibrato, in quanto troppo dipendente dalla domanda

estera. La politica liberista aveva infatti favorito quei prodotti che non avrebbero potuto costituire nel lungo

periodo un avanzo della bilancia commerciale a causa del ristagno della domanda estera di questi prodotti.

Anche la bilancia dei pagamenti entrò in deficit a causa delle diminuzioni delle rimesse degli emigranti che

erano scesi di numero. Inoltre la lira era molto svalutata, i prezzi erano al rialzo così come il costo della vita.

A questo punto la politica economica del fascismo cambiò radicalmente con una profonda svolta dirigista

sotto la guida del ministro Volpi di Misurata. Nel campo della politica finanziaria si consolidò il debito

fluttuante, costringendo i detentori di titoli di Stato a breve termine a cambiarli in titoli a lungo termine

(prestito del Littorio) a causa dell'elevato tasso di interesse dei prestiti a breve. Il debito fluttuante si ridusse

ma i piccoli investitori e le banche che avevano investito a breve si trovarono in gravi difficoltà.

Inoltre, tra il 1925 e il 1926 furono stipulati accordi con Stati Uniti e Gran Bretagna per il regolamento

rateale dei debiti di guerra italiani. La finanza internazionale riconosceva così la legittimità del regime e i

presiti internazionali crebbero notevolmente.

Fu riorganizzato il sistema bancario, riservando alla sola Banca d'Italia la possibilità di emettere moneta, fu

ridotto il numero dei biglietti emessi dalla banca e fu imposta una restrizione del credito mediante un

aumento del tasso di sconto. La lira si stabilizzò (la famosa "quota 90") ed entrò nel gold exchange standard,

rivalutandosi del 25% rispetto al suo valore prebellico. Ma l'obiettivo di questa manovra era essenzialmente

politico: Mussolini volle dar prova di autorità e prestigio.

Questa politica finì per compromettere lo sviluppo ulteriore dell'economia italiana che entrò in una crisi di

stabilizzazione, con una diminuzione generale della produzione e dei prezzi. In realtà lo scopo del fascismo

era quello di affrancarsi dalla domanda estera per orientare la struttura produttiva verso quella interna.

L'espansione dell'economia mondiale tra il 1922 e il 1929

Nel 1928 la maggior parte delle monete era ormai stabilizzata secondo il sistema del gold exchange

standard, che tuttavia presentava molte differenze rispetto al gold standard. Le monete d'oro scomparvero

infatti dalla circolazione e l'emissione fu basata essenzialmente sulla fiducia. Inoltre l'adozione del gold

exchange standard consentì una riduzione della pressione sull'oro ma aumentò quella sulle divise convertibili,

senza contare la poco oculata scelta dei tassi di cambio. Si riteneva inoltre il gold exchange standard una

misura provvisoria in attesa del ritorno all'oro, esponendo le piazze di Londra e New York ad una eventuale

improvvisa richiesta di conversione che non sempre avrebbero potuto fronteggiare.

Nonostante questi problemi, la stabilità dei cambi dette avvio ad un nuovo sviluppo dell'economia mondiale.

Il 1925 fu l'anno che segnò l'inizio della ripresa: con il trattato di Locarno il clima internazionale divenne più


disteso, il volume del commercio mondiale superò quello prebellico, le grandi inflazioni avevano compiuto il

loro ciclo e la Gran Bretagna ritornò al gold standard.

L'Europa progredì particolarmente in questo periodo, anche se in modo diverso da Paese a Paese.

La Francia ritrovò in breve tempo una notevole prosperità economica, anche grazie alla restituzione

dell'Alsazia e della Lorena con le loro industrie tessili e miniere. I progressi furono notevoli anche nei nuovi

settori industriali, specialmente in quello automobilistico. La stabilizzazione del franco non arrestò

l'espansione dell'economia perché non era stata ripristinata la vecchia parità e quindi il franco era svalutato.

In Germania, dopo le perdite subite in guerra, la struttura produttiva fu riorganizzata in modo da ridurre i

costi di produzione e aumentare la produttività della manodopera, secondo il modello di Ford. Tuttavia

questo sistema creò una forte disoccupazione e si crearono trusts e cartelli, che acquisirono sempre

maggiore importanza politica e avrebbero formato l'ossatura della struttura economica nazista. L'espansione

tedesca fu notevole, ma le sue basi erano precarie in quanto consistevano soprattutto in prestiti esteri.

In Inghilterra la situazione era peggiore a causa del declino del commercio estero, della più agguerrita

concorrenza internazionale, per l'arretratezza delle industrie e per la notevole disoccupazione. Anche il

ritorno al gold standard, con la parità fissata ai valori d'anteguerra, faceva in modo di sopravvalutare la

sterlina ostacolando le esportazioni e aumentando le importazioni. L'economia quindi si arrestò, anche se le

nuove industrie (automobilistica, chimica, elettrica) poterono progredire.

Una situazione simile si verificò in Italia, dove la sopravvalutazione della lira portò deflazione interna e

disoccupazione. Per sedare il malcontento il fascismo passò alla fase interventista, proibendo scioperi e

serrate e approvando la legge Rocco con la quale si istituirono le Corporazioni, che avrebbero dovuto

rappresentare la mediazione dello Stato tra imprenditori e lavoratori, sostituendosi ai sindacati. In seguito

Mussolini iniziò il suo programma autarchico e dittatoriale dapprima con la cosiddetta battaglia del grano

(con cui tentò di arginare le importazioni di grano), consistente in protezioni al mercato interno, premi e

assistenza finanziaria agli agricoltori, poi con la bonifica integrale, diretta a rendere coltivabili le terre incolte

e aumentare il prodotto per ettaro.

Dopo la crisi deflazionistica del primo dopoguerra, gli Stati Uniti seppero risollevarsi grazie anche alla

maggiore stabilità dei cambi dovuta al ritorno alla base aurea. Lo sviluppo dal 1922 al 1929 fu rapidissimo e

spettacolare, in particolare nel campo delle costruzioni, dell'industria automobilistica (che stimolò a sua volta

le industrie sussidiarie) e dell'industria elettrica ad uso industriale e domestico. In questo periodo si diffuse

particolarmente la formula dell'acquisto a rate, che rese accessibili i beni più costosi alla larga massa. Lo

sviluppo fu facilitato anche dall'aumento degli investimenti, grazie alla crescita dei depositi bancari e alla

facilità di credito, anche verso i Paesi esteri.

Il Giappone non partecipò al generale sviluppo di questi anni, a causa della crisi del 1920-21 che colpì

industria ed agricoltura. A questa si aggiunse il grave terremoto di Tokyo-Yokohama del 1923 che costrinse il

governo ad attuare un programma di ricostruzione che provocò il deprezzamento dello yen e una grave crisi

bancaria. I trattati di pace ineguali imposti dagli Stati Uniti inoltre arrestarono l'imperialismo nipponico con

condizioni vessatorie a suo sfavore. Il Giappone aveva scarso potere contrattuale in quanto la sua politica

imperialistica si basava su prestiti esteri e sulla pressione militare, mentre il mercato interno era quasi

inesistente. I propri interessi economici si rivolgevano quindi verso l'Asia con il ricorso alle armi, cosa non

sempre gradita alle potenze occidentali. Il mercato interno ristagnava a causa del fatto che i contadini erano

ancora sottoposti ad un regime opprimente che assorbiva il loro potenziale potere d'acquisto.

Il generale progresso mondiale subirà una brusca battuta d'arresto nel 1929. Molti problemi ereditati dalla

guerra erano rimasti infatti insoluti: il sistema monetario internazionale non era stabile, le fondamenta della

prosperità europea rimasero strettamente dipendenti dal flusso di prestiti americani, mentre l'agricoltura

europea ristagnava e non offriva lavoro alla gran massa dei disoccupati. La situazione era simile anche in

America Latina.

Il boom di questo periodo fu indubbiamente inconsueto: i prezzi si abbassavano, i salari crescevano in modo

modesto, il tasso di disoccupazione restò elevato. La crisi sopraggiunse per l'eccessiva espansione che alcuni

settori industriali avevano subito durante la guerra, sia nei Paesi evoluti che in quelli meno sviluppati.





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