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La nascita delle banche in Italia: il sistema creditizio preunitario

economia



La nascita delle banche in Italia: il sistema creditizio preunitario



La formazione del sistema bancario italiano


La necessità di ottenere crediti e l'affinamento degli strumenti tecnici e degli istituti preposti a fornire servizi bancari, appartengono alla storia più recente, almeno a partire dalla seconda metà dell'Ottocento. Non che manchino, su scala europea, per non dire mondiale, esempi precedenti, tutt'altro, ma sono, per dirla con Fernand Braudel, il «trionfo di Lilliput», una germinazione di piccole o piccolissime banche che punteggiano i paesi più industrializzati.

In Italia, nel periodo preunitario, la situazione è caratterizzata dalla presenza di un sistema creditizio disorganico, privo di efficienti articolazioni e di settori specializzati, dove le Casse di risparmio ed i Monti di pietà sono gli istituti più diffusi. Nel solo Lombardo-veneto vi sono, nel 1846, ventidue delle ottanta Casse di risparmio esistenti in Italia ed i depositi della sola Cassa milanese sono nettamente superiori rispetto alle altre.



Se le capacità di risparmio rendono possibili questi risultati, non senza aver prima vinto la diffidenza verso le Casse, le difficoltà iniziano quando si tratta di erogare il credito. Il Lombardo-Veneto, a differenza di altri antichi Stati, non possiede né un istituto di emissione né una banca commerciale. Infatti, una costante della politica monetaria e creditizia del Governo di Vienna è rappresentata dal prevalere degli interessi imperiali su quelli delle singole province. Di qui il rifiuto a concedere la creazione di una banca di emissione lombarda, richiesta pressantemente avanzata dagli operatori economici di maggiore importanza, per facilitare tutte quelle operazioni di natura creditizia (cambio, sconto, ecc.) che avrebbero contribuito a sostenere le necessità del commercio lombardo, attraverso una maggiore disponibilità di capitali ed una oculata politica creditizia. Nonostante questa particolare situazione, l'attività bancaria, durante la prima metà dell'Ottocento, è delegata ai negozianti che divengono negozianti-banchieri o, semplicemente, banchieri, in modo particolare a Milano e Torino, dove il mercato della seta consente un significativo flusso di esportazione verso i paesi europei, Francia, Svizzera, Germania

Non manca, infatti, il tentativo di istituire una banca lombarda con l'appoggio delle Camere di Commercio delle maggiori città. La Camera di Commercio di Milano si incarica di raccogliere il capitale, 10 milioni di fiorini. A sottoscrizione avvenuta ed a statuto approvato, Vienna non concede l'istituzione della banca e, per gli operatori economici milanesi bisognerà attendere il 1859 perché a Milano sorga la sede della Banca Nazionale Sarda, la terza dopo quelle di Torino e Genova. Questo tentativo era dovuto, quasi necessariamente, alla trasformazione delle tradizionali strutture della società lombarda, a seguito della costante crescita industriale che porta ad evidenziare fenomeni importanti, come la concentrazione industriale e commerciale, la nascita e lo sviluppo di una classe operaia cittadina, l'affermarsi di una borghesia industriale che si affianca a quella intellettuale e professionale, oltre che alla tradizionale nobiltà. Questo insieme di cause consente alla Lombardia, come al Piemonte, di guardare con attenzione al potenziamento di forme di scambio commerciale con altri paesi europei, specialmente in campo tessile, nonostante l'Austria cerchi di favorire uno sviluppo intersettoriale attraverso le terre dell'Impero.

Tra gli anni'30 e '40 dell'Ottocento, le migliorie meccaniche introdotte nella filatura del cotone e nella tessitura della seta, del lino e dello stesso cotone, creano i presupposti per la nascita di forme industriali moderne che in breve tempo riescono ad imporsi sui mercati stranieri. Queste attività, come altre presenti in Lombardia, esigono un adeguato sostegno di credito a breve ed a media scadenza. Al contrario, la mancanza di istituti di credito specializzati, se si eccettuano le compagnie di assicurazione, le casse di risparmio e i banchieri privati, e la negoziabilità assai limitata degli strumenti del credito - mutui ipotecari, titoli di società per azioni, cartelle del debito pubblico, oltre naturalmente, moneta contante - mettono in evidenza l'inadeguatezza delle strutture di intermediazione bancaria, legate a forme di credito con garanzia fondiaria.

Infatti, se l'ipoteca è l'unica via percorribile per ottenere un credito, solitamente a lungo termine e sufficiente per sostenere spese relative a migliorie fondiarie, il meccanismo ipotecario risulta scarsamente fruibile per le esigenze delle maggiori attività economiche lombarde e, in modo particolare della seta. Un'altra forma negoziabile di ricchezza è data dai titoli delle società per azioni, soprattutto per finanziare imprese di assicurazione, di trasporti di illuminazione a gas e di banche, anche se vi sono delle forti riserve nei confronti di questi titoli, considerati negativamente dal momento che potevano finire nelle mani di sconosciuti. Per questi motivi, la forma societaria maggiormente utilizzata per dar vita ad imprese, e successivamente a istituti bancari, è la società in accomandita, in cui una parte dei soci era tenuta alla responsabilità illimitata.

In definitiva, nella prima metà del secolo XIX, l'attività di intermediazione bancaria è lasciata alla capacità e all'inventiva di banchieri , mercanti - banchieri o possidenti privati, attraverso la classica formula notarile del contratto di mutuo ipotecario. Accanto vi è ancora la presenza, ereditata dai secoli precedenti, delle istituzioni caritativo-assistenziali, divenute Congregazioni di carità e Corpi morali, che supportano le necessità dei comuni nella ricerca continua di liquidità. Le sole casse di risparmio sono in grado di svilupparsi e ramificarsi sull'intero territorio del paese proprio perché appartengono al filone dell'associazionismo e del solidarismo cristiano; molte, infatti, sono le trasformazioni del locale Monte di pietà, soprattutto nel Veneto. Gli stessi istituti di emissione, a parte la mancanza in uno degli stati a più forte tradizione industriale - la Lombardia -, presentano un processo di formazione incerto e risulta ulteriormente problematico l'inserimento di banche sotto forma di società per azioni.

Il punto di svolta "bancario" si colloca alla fine della seconda guerra risorgimentale. Nel 1859-1860, il futuro è preannunciato dallo sviluppo delle attività bancarie speciali, sulla spinta dell'impressionante accelerazione del processo di modernizzazione. I primi a muoversi - sottolinea Franco Bonelli - sono i milanesi, i quali conquistano il loro spazio nella proprietà e nella direzione della Banca Nazionale a fianco dei torinesi e dei genovesi. Poi è tutto un coro di progetti, di petizioni, di lettere al governo e alla Banca Nazionale per ottenere l'apertura di sportelli e, con essi, i vantaggi derivanti dalla circolazione dei biglietti e dal credito; e ancora di casse di risparmio e, immediatamente dopo, di banche popolari i cui azionisti era una folta rappresentanza dei più diversi ceti borghesi. Il numero delle città servite da sportelli triplica. Dopo i «libretti» di risparmio e i «biglietti», la borghesia conosce così il «credito», inteso a sua volta come «industria» nella quale investire. Nel volgere di poco più di un decennio l'Italia conosce una vera e propria «rivoluzione bancaria», paragonabile soltanto allo sconvolgimento che si è appena avuto sul piano politico, amministrativo e territoriale con la costituzione del Regno d'Italia.




La questione degli istituti di emissione


La «rivoluzione bancaria» si trasforma in «questione bancaria» per l'impronta data dal liberalismo italiano e per la discussione che avviene, all'interno del pensiero economico italiano, tra economia teorica ed economia pratica. I motivi riguardano il significato da attribuire all'attività bancaria e ai soggetti destinati a svolgerla e manca completamente il concetto di sistema bancario e, conseguentemente, quello di banca centrale, se si eccettua Cavour, che sostiene l'opportunità della creazione di un sistema bancario basato su una banca di circolazione e su un certo numero di istituti minori, ad essa collegati funzionalmente. Unicità della banca centrale non significa, necessariamente, unicità della banca di emissione.

Se, fino alla legge bancaria del 1936, manca nel nostro sistema la figura della banca centrale di emissione, ciò è dovuto al prevalere, tra le forze politiche, della teoria della pluralità e della libertà delle banche, mentre, nella pratica, risultano vincenti le teorie monopoliste. Infatti, le norme che accompagnano l'attività delle banche di emissione, in sostanza, le indirizza verso determinate categorie sociali: la media e alta borghesia commerciale e la grande aristocrazia finanziaria, che, per altro, sono le protagoniste della creazione di questi istituti. Queste banche alimentano, quindi, un autonomo circuito finanziario, tutto all'interno delle citate categorie sociali, senza rapporti con un secondo circuito finanziario, quella della piccola borghesia, dei lavoratori agricoli e degli operai, supportato dalle Casse di Risparmio e, verso la fine del secolo, dal credito cooperativo delle Casse Rurali e delle Banche Popolari che surrogheranno, in qualche modo, la mancanza di credito all'agricoltura, alle piccole industrie e al settore dell'artigianato.

Quindi, la scelta liberista dei governi della Destra sacrifica la possibilità di un maggior coordinamento delle leve monetarie, attraverso l'unificazione degli istituti di emissione e la creazione di decentrati istituti bancari operanti nelle esistenti realtà economiche con strumenti adatti ad incrementare le peculiari attività agricole, commerciali o industriali. Il mantenimento della pluralità degli istituti di emissione avviene nonostante che ben ottanta città - sono escluse soltanto Pistoia, Grosseto, Massa e Caltagirone - abbiano succursali o sedi della Banca Nazionale, mentre l'esercizio del credito fondiario ed agrario è affidato, con la legge del 21 giugno 1866, dopo numerose difficoltà e ripetuti rinvii, a cinque istituti del Regno: il Monte dei Paschi di Siena; la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde, per la Lombardia e Novara; l'Opera Pia S. Paolo di Torino, per il Piemonte; la Cassa di Risparmio di Bologna, per l'Italia centrale; il Banco di Napoli, per le province meridionali.

Inoltre, il problema dell'unificazione degli istituti di emissione non è soltanto di politica economica, ma assume ben presto significati che si intrecciano nell'intricata rete dei rapporti tra potere politico e potere bancario. Tra 1860 ed 1870, l'azione governativa nei confronti delle banche è caratterizzata da una strana procedura. Le leggi unitarie, emanate dopo i vari plebisciti, consentono alla Banca Nazionale degli Stati Sardi l'assorbimento delle banche operanti negli Stati minori: la Banca degli Stati Parmensi, la Banca per le Quattro Legazioni e l'Istituto di Credito Mercantile di Venezia. Al contrario, è conservato il diritto di emissione, ed ampia autonomia gestionale ed operativa, alla Banca Toscana, alla Banca Toscana di Credito per l'Industria e per il Commercio, alla Banca Romana (ex Banca dello Stato Pontificio), al Banco di Sicilia (ex Banco Regio dei Reali Domini al di là del Faro) ed al Banco di Napoli (ex Banco Regio di Napoli).

Come si può notare, si verifica, da un lato, l'assorbimento delle banche di alcuni Stati e delle province ex venete da parte della Banca degli Stati Sardi e, dall'altro, la conservazione delle autonomie bancarie nei restanti Stati preunitari, un privilegio che ricompensa l'inglobamento nello Stato unitario, lasciando inalterati i rapporti tra il potere politico locale e gli istituti di credito locali. Solo lo scandalo della Banca romana consente al Parlamento di ordinare una rigorosa Inchiesta, per cercare di rendere più trasparente la situazione bancaria del paese e le attività degli istituti di emissione, in modo particolare nei loro collegamenti con il mondo politico.

Gli avvenimenti che si succedono, sembrano portare verso una unificazione di fatto di questi istituti, in quanto l'istituzione del corso forzoso, dal 1866 al 1883, riconosce la validità sull'intero territorio nazionale dei biglietti della Banca Nazionale, mentre quelli emessi dalle altre banche hanno una circolazione regionale e locale. Ancora una volta, però, le pressioni politiche, esercitate attraverso i consigli di amministrazione delle banche, impediscono che si venga a capo della questione. La riprova del prezzo politico pagato con le annessioni si ha nel 1870, quando la presa di Roma ripropone il futuro della Banca dello Stato Pontificio, con la possibilità di assorbimento da parte della Banca nazionale. Quintino Sella, che pure è al corrente della poco edificante gestione precedente, deve comunque restare coerente con quanto stabilito nel plebiscito di annessione, che riconosce il privilegio di una banca di emissione, e decretarne la trasformazione in Banca Romana.

Ci vuole la grave crisi bancaria degli anni '90, accompagnata da numerosi fallimenti in Italia ed in altri paesi europei, per costringere il «ministero della lesina» Di Rudinì-Luzzatti ad una ulteriore ristrutturazione del sistema bancario italiano, con la quale le banche di emissione sono ridotte a tre: la Banca Nazionale diviene Banca d'Italia dalla fusione della Banca Nazionale del Regno con la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia, queste ultime due rimaste tali sino al 1926. Attorno a questi tre istituti sorge una serie di banche private che contribuiscono a formare una struttura bancaria più articolata e più rispondente alle necessità delle trasformazioni economiche del paese, in atto a partire dagli anni '80.



12. La crisi degli anni '90 e la riorganizzazione bancaria


Si sono analizzate, nel capitolo precedente, le vicende delle banche di emissione che, con le casse di risparmio, rappresentavano le forme bancarie più evolute, mentre il progetto di Cavour di una sola banca nazionale di emissione trovò l'opposizione insormontabile dei diversi localismi. Se la Banca Nazionale Sarda trasformò la sua ragione sociale in Banca Nazionale nel Regno d'Italia (ci vorrà tempo per trasformare il "nel" in "del"), il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia non vollero accettare alcuna limitazione alla loro autonomia.

Tuttavia, in concomitanza con il procedere dello sviluppo economico italiano, iniziarono a sorgere alcuni istituti di credito ordinario. 454d39e Da segnalare, tra i più importanti: la Società di Credito mobiliare italiano (1863), sul modello del Crédit Mobilier francese, con sedi a Torino e Firenze, il Banco di Sconto e Sete (1863) di Torino, la Banca generale (1871) di Roma e le prime Banche popolari, istituti di credito cooperativo promossi soprattutto da Luigi Luzzatti sul modello tedesco Schultze-Delitsch ( la prima Banca Popolare sorge a Lodi nel 1864). Ma è tra il 1870 ed il 1874 che si assiste in Italia ad un vero e proprio boom bancario: le banche di credito ordinario passano da 36 a 121 e le banche popolari da 48 a 109. Le cifre offrono la consistenza del peso che le banche assumono all'interno dell'intero sistema bancario italiano, limitando, nel contempo, il potere delle banche di emissione.

Dopo il 1874, nel panorama bancario italiano sorgono altri istituti: le Casse di risparmio postali, volute da Quintino Sella nel 1875 per dotare la Cassa di Depositi e Prestiti di mezzi più idonei a sostenere le finanze locali ed il debito pubblico (la Cassa di Depositi e Prestiti era nata con il compito specifico di finanziare le opere pubbliche dei comuni italiani); le Casse rurali che, a partire dal 1883, sorgono numerose in molte località rurali, come si vedrà in seguito, i Monti di Pietà delle città più importanti che vengono autorizzati a svolgere attività bancarie nel 1898.

Dal punto di vista dell'importanza che queste nuove banche hanno nell'intero sistema, va detto che sia i Monti che le Casse rurali ebbero un'influenza marginale, mentre meritano maggiore attenzione le Casse di risparmio, le Banche popolari e le Banche ordinarie.

Le Casse di risparmio detengono circa il 20% di tutto l'attivo bancario nazionale, ma mantengono una politica creditizia molto prudente, limitandosi, nei fatti,a finanziare mutui ipotecari e titoli di stato, almeno sino alla crisi del 1907, quando si apriranno ai crediti per opere pubbliche di particolare importanza ed ai privati che fossero forniti di idonee garanzie da parte delle banche di credito ordinario. 454d39e

Le Banche popolari si dimostrano, sin dalla loro nascita, assai più dinamiche e più disponibili alle necessità delle economie locali, in modo particolare agli investimenti della borghesia imprenditoriale e commerciale urbana, con una tendenza ad impegnarsi in operazioni a medio-lungo termine, pur con i rischi connessi a questo tipo di finanziamento.

Le Banche ordinarie di credito sono, di gran lunga, le protagoniste del finanziamento all'intero sistema economico italiano e, pur in presenza di alcuni fallimenti, legarono le loro attività ai progetti ferroviari, alla crescita delle necessarie infrastrutture (strade, porti, ecc.), al rinnovamento edilizio. Molte di queste banche, soprattutto quelle che operavano nelle grandi aree urbane - Torino, Firenze, Roma e Napoli - dopo un periodo di grande sviluppo, avvenuto nel decennio 1880, si trovarono ad affrontare una profonda crisi, dovuta all'affievolirsi della congiuntura industriale, pagata con una lunga catena di fallimenti, tra cui quelli del Credito mobiliare e della Banca generale, e di salvataggi da parte della Banca nazionale: la Banca tiberina, la Banca di Torino, la Banca romana, il Banco di Sconto e Sete.

L'Inchiesta parlamentare che seguì questa serie di fallimenti ripropose, con maggior forza, la necessità di un unico istituto di emissione. La fusione, nel 1893, tra la Banca Nazionale nel Regno d'Italia, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana, diede vita alla Banca d'Italia (di cui si parlerà nel paragrafo successivo) che ebbe compiti di coordinamento bancario e la quasi totalità dell'emissione monetaria, in quanto sia il Banco di Napoli che il Banco di Sicilia mantennero questo privilegio per una quota assai ridotta.

Per tali vie si giunse ad un primo riassetto del sistema bancario che si completò con la creazione delle prime due banche miste italiane che andavano a sostituire, nel finanziamento industriale, il Credito Mobiliare e la Banca generale. Con l'intervento del capitale e di uomini tedeschi, nascono, nel 1894 a Milano, la Banca Commerciale Italiana e, nel 1895, il Credito Italiano. A queste si aggiungeranno, altre due banche miste, sia pure di minore importanza: il Banco di Roma (fondato nel 1880) e la Banca Italiana di Sconto (proveniente da alcune precedenti trasformazioni bancarie: fino al 1898 è la Ditta Weil Schott & C; poi Società Bancaria Milanese; dal 1904 è Società Bancaria Italiana; infine, dal 1914, Banca Italiana di Sconto). Sulle loro vicende ci soffermeremo, in modo più dettagliato, nelle pagine sguenti.

Rispetto a Comit e Credit, il Banco di Roma e la Bis non facevano affidamento su capitali stranieri e su dirigenti di provata esperienza bancaria internazionale e non disponevano della migliore clientela per il loro decentramento rispetto ad aree di maggiore industrializzazione. Soffermiamoci, per un momento, sulle caratteristiche pertinenti alle banche miste, il cui modello è rappresentato dalle banche tedesche e, in qualche misure, quelle americane. Le banche miste esercitano il credito a breve, medio e lungo termine, al servizio della clientela per ogni attività che si renda necessaria. La banca mista è una banca e non una holding, presente nel sistema statunitense, e non ha come obiettivo l'acquisizione di partecipazioni nelle imprese e la loro gestione industriale, ma quello di funzione di banchiere con lo scopo di creare e consolidare le imprese stesse attraverso le seguenti modalità:

creazione ed ampliamento di un'impresa per mezzo di un sindacato di collocamento delle azioni guidato dalla banca, che di solito si riservava una modesta quota di azioni con le quali assicurare la presenza di un suo uomo nel consiglio di amministrazione con funzioni di controllo;

finanziamento a medio e lungo termine dell'impresa con scoperti di conto corrente, solitamente rinnovabili, e con l'accettazione di azioni in deposito contro fondi liquidi a scadenza predeterminata ( i cosiddetti riporti);

risoluzioni di eventuali crisi direttamente da parte della banca anche con l'aiuto di consorzi di grandi dimensioni;

fornitura di una serie di altri interventi: guidare nuove iniziative, offerta di pareri tecnici in caso di nuovi progetti, ecc. pur senza modalità programmatiche e continuative.

Ciò che manca alle banche miste, rispetto ai modelli stranieri, è una strategia settoriale, se si esclude il settore dell'elettricità e, parzialmente, quello siderurgico. Ciò è dovuto al fatto che la banca mista si assegna compiti finanziari e non tecnici-commerciali, anche per la mancanza di diffusa imprenditorialità tecnico-commerciale, assai diffusa nelle stesse banche-miste, e dimostrata nelle vicende del Banco di Roma e della Bis, come vedremo.


La costituzione della Banca d'Italia


Giovanni Giolitti era convinto che il riordino degli istituti di emissione fosse inevitabile e la crisi della Banca Romana fece precipitare la soluzione. Nell'estate del 1893, mentre lo scandalo era in pieno corso, fu presentato un disegno di legge che riduceva a tre gli istituti di emissione. La Banca Nazionale e le due banche toscane si erano accordate per fondersi, e la nuova Banca d'Italia si sarebbe accollata l'onere delle perdite della Banca Romana. Formalmente la liquidazione era a carico dello Stato, che delegava la Banca d'Italia alla sua gestione, versandole un deposito in buoni dei Tesoro. Inoltre la Banca era obbligata a liquidare entro dieci anni le immobilizzazioni che erano notevoli per i tre istituti che si fondevano. Si ponevano dei limiti alle operazioni di credito: lo sconto non poteva avere durata superiore ai tre mesi e le cambiali dovevano avere tre firme, le anticipazioni potevano essere solo su titoli di Stato o cartelle fondiarie, mentre si potevano tenere conti correnti. Sulla banca vigilava il ministero del Tesoro.

In questo modo si rimaneva ancora lontani dalla costituzione di una vera e propria banca centrale dal momento che la Banca d'Italia non aveva alcun potere verso gli istituti di credito ordinario. 454d39e Nella politica monetaria la sua autonomia era limitata dalle norme sulla emissione di biglietti e la sua arma principale era il tasso di sconto. Si era però compiuto un passo verso la razionalizzazione del sistema, anche se gli interessi locali, mantenendo i due banchi meridionali come banche di emissione, avevano mantenuto un loro potere locale.

Quasi a segnare uno spartiacque, nel giro di un anno, tra l'autunno del 1893 e quello del 1894, si verificano tre eventi di capitale importanza per la storia della banca italiana: la caduta dei Credito Mobiliare e della Banca Generale; la costituzione della Banca d'Italia; la costituzione della Banca Commerciale e del Credito Italiano.

La Banca Commerciale Italiana nasce per iniziativa di un gruppo di banche tedesche e svizzere che avvertono come in Italia ci sia un vuoto da riempire. Le banche tedesche erano già molto potenti e ricche di esperienza nel credito all'industria. Il loro modello era quello della banca universale, che raccoglieva depositi, faceva sconti ed anticipazioni, concedeva crediti a scadenza media e lunga, ed assumeva partecipazioni nel capitale di società industriali. Potevano farlo senza correre eccessivi pericoli perché, diversamente dall'Italia dove esistevano solo le due banche cadute, il sistema era vasto, con molte banche, e con un forte tessuto di rapporti tra di loro, per cui una banca che si fosse trovata eccessivamente esposta con situazioni di crisi di un'impresa, poteva contare su una rete di sicurezza. La direzione della Commerciale fu praticamente assunta subito da Otto Joel, un tedesco di Danzica che si era stabilito in Italia per ragioni di salute, ed aveva fatto carriera alla Banca Generale di cui era divenuto un alto funzionario.

Il Credito Italiano nacque in contemporanea alla Comit, dalla convergenza di banchieri genovesi che controllavano una banca di medie dimensioni, la Banca di Genova, e di un gruppo di banche milanesi di dimensioni medio‑piccole, che temevano di esser tagliate fuori dal mercato per la presenza dei tedeschi.

La costituzione delle due banche segna un'epoca nuova. Nel primo decennio del Novecento - a parte la crisi del 1907 - l'economia italiana superò la stagnazione che aveva caratterizzato il primo quarantennio dopo l'unità, e realizzò un significativo passo in avanti sulla via della modernizzazione. Aumentarono fortemente gli investimenti, e questo potè realizzarsi solo indirizzando i risparmi verso gli impieghi industriali. E fu questa appunto la funzione delle due grandi banche.


13. Le Casse rurali


La questione del credito agrario


È un dato indubitabile che, almeno fino al termine del primo conflitto mondiale, l'agricoltura mantiene un ruolo ed un peso determinanti nel sistema economico del nostro paese. Nel corso dell'Ottocento, in modo particolare a partire dalla grande crisi europea del 1845-1847 per giungere all'altra grande crisi degli anni '80, il mondo delle campagne rivela sempre più l'inadeguatezza della produttività e la mancanza di investimenti in questa direzione non solo da parte dei privati, ma, soprattutto, da parte dello Stato - pur non negando il suo ruolo nel determinare la via all'industrializzazione nei cinquant'anni post-unitari - a differenza di altri paesi europei nei quali l'aiuto dello Stato, al di là dell'idea di libero scambio, ha un ruolo notevole.

Se si fa riferimento ai tassi di sviluppo del settore agricolo in Francia e Germania, nel periodo compreso tra gli anni '40 e '70 dell'Ottocento, pur tenendo conto della diversità politica ed economica rispetto al nostro paese, mentre l'Italia presenta uno sviluppo agricolo che si aggira sullo 0,4 -0,6 per cento, gli altri due paesi raggiungono il 2 per cento e l'1,7 per cento. L'andamento dello sviluppo agrario evidenzia valori diversi una volta superati gli anni '80: dal 1896 al 1900 e dal 1911 al 1913, il tasso di crescita annuo dell'agricoltura italiana raggiunge il 2,1 per cento, per poi assestarsi al 3 per cento tra il 1919-21 e il 1924-26.

Al di là di queste cifre, lo sviluppo della produttività agraria è legato ad esigenze non più dilazionabili. La trasformazione dei mercati impone il passaggio da un'agricoltura estensiva ad una intensiva che può aver luogo solo in presenza di alcuni fattori: maggiore durata dei contratti agrari (3-6 anni in Italia contro i 9 dell'Inghilterra), introduzione di nuovi macchinari e di migliorie colturali, disponibilità di credito. È evidente come quest'ultima appare prioritaria poiché le condizioni in questo settore, ma non solo in questo, sono assai arretrate. Le forme di credito a disposizione dell'agricoltura erano due: il credito fondiario e il credito agrario. Il credito fondiario privilegiava la grande proprietà - di privati, di enti morali, ecc. - che poteva offrire garanzie ipotecarie; inoltre, le somme ottenute potevano essere utilizzate in svariati modi. Il credito agrario, al contrario, era vincolato all'utilizzo nelle compagne, ma mancavano istituti che lo fornissero a condizioni particolari e nella quantità necessaria. Le vicende legislative del credito agrario, se confrontate con la situazione europea, denotano mancanza di sensibilità e, soprattutto, di volontà nell'affrontare un problema fondamentale per la crescita economica delle campagne.

Nei primi decenni post-unitari, gli investimenti favoriscono i settori commerciali, industriali e finanziari. Il boom bancario degli anni '70 ed '80 non interessa, se non in minima parte, il mondo delle campagne. Il credito agrario, al più, continua ad essere considerato come una qualsiasi operazione bancaria ed i rimborsi devono sottostare a scadenze troppo ravvicinate per essere puntualmente onorate. I ritmi del lavoro nelle campagne mal si adattano a quelli dell'efficienza bancaria ed i rinnovi, necessari, comportano aggravi finanziari spesso intollerabili. Spesso gli investimenti in attrezzature necessitano di crediti a lungo termine i cui saggi di sconto, però, sono talmente alti da scoraggiare qualsiasi tentativo. Il ricorso all'usura è quasi inevitabile e di vaste proporzioni se la stragrande maggioranza degli statuti delle casse rurali fa riferimento a questo fenomeno come a una delle cause che hanno spinto al sorgere di queste istituzioni creditizie.

Due sono le leggi che tentano di affrontare la questione. La prima è del 1869, dopo che nel 1866 era stata promulgata una legge sul credito fondiario. Il cammino di questa legge è assai accidentato in quanto si sviluppa parallelamente a quella riguardante il credito fondiario, ma senza avere la speditezza di quest'ultima. Il nodo centrale è la costituzione dei mezzi finanziari da gestire tramite appositi istituti, individuati nella casse di risparmio, oppure tramite emissione di buoni agrari da parte di banche agrarie. I meccanismi si rivelano subito inadeguati e farraginosi e sono oggetto di pesanti critiche da parte delle stesse forza politiche e delle banche, in modo particolare delle Popolari di Luigi Luzzatti per il quale le banche agrarie non avevano avvenire in quanto legate esclusivamente agli agricoltori.

Nel 1887 il Parlamento discute ed approva una legge riguardante il credito agrario che abroga la precedente del 1869. La depressione in atto - iniziata nel 1873 terminerà nel 1896 - aveva colpito in modo particolare l'agricoltura italiana, mettendone a nudo l'arretratezza dei sistemi colturali e lo scarso utilizzo dei macchinari che, unitamente ai guasti causati dalle malattie che avevano colpito la vite, gli agrumi e il baco da seta, portavano l'agricoltura italiana ad una produzione largamente inferiore alle reali possibilità e sempre più dipendente dalle altre agricolture europee.

L'inchiesta agraria, condotta da Stefano Jacini dal 1877 al 1884, faceva emergere, dalle circoscrizioni in cui era stato suddiviso tutto il territorio nazionale, tra le altre cause degli squilibri e dell'arretratezza dell'agricoltura italiana quella relativa allo stato del credito agrario, con situazioni particolarmente critiche nelle regioni centrali e meridionali, a riprova che la diffusione del credito agrario era legata alla diversità delle condizioni e del livello di sviluppo o di arretratezza delle campagne. L'inchiesta, posteriore di dieci anni di quella dedicata all'industria, contribuiva a riportare l'attenzione delle forze politiche verso i problemi del settore primario ed in modo particolare del credito, stante il fallimento della normativa precedente. Inoltre, alla crescita del credito industriale e commerciale si contrapponeva la scarsità di credito verso le attività agrarie pur essendosi verificato un significativo aumento di istituti bancari - di credito ordinario e di banche popolari - passato da 119 nel 1871 a 688 nel 1886.

Dinanzi ad una più articolata conoscenza delle condizioni del paese, il Parlamento, nel rielaborare la nuova legge sul credito agrario, si rifaceva apertamente alla legislazione inglese accogliendo anche il modello prussiano dei Landschaften (1796) per quanto riguarda la possibilità per i proprietari di riunirsi in associazioni di credito mutualistico, una sorta di anticipazione nei confronti dei successivi modelli ottocenteschi tedeschi. Questa nuova legge riguardava in modo particolare tre aspetti: i prestiti agrari; i mutui ipotecari per migliorie colturali; il credito agrario di esercizio e l'emissione di cartelle agrarie. Come il precedente, anche questo progetto si rivelò, alla prova dei fatti, inefficace. I motivi possono ricercarsi nell'atteggiamento delle grandi banche - Banco di Napoli, Banco di Sicilia, Cassa Agricola Industriale di Pisa, Cassa di Risparmio di Bologna, ecc. - assai restie ad emettere cartelle fondiarie o a concedere crediti agrari in base alle disposizioni dell'apposita legge, mentre non avevano difficoltà concederli come una normale operazione bancaria.

In definitiva, il mondo delle campagne risultava essere troppo variegato all'interno, dove grandi proprietari convivevano con la maggior parte di medi e piccoli proprietari e di fittavoli, le cui esigenze creditizie assumevano contorni diversi. Era necessario uno strumento più adeguato e vicino ad esigenze particolari, legate ai ritmi agrari. Solo istituti radicati nel mondo rurale potevano offrire questi aiuti.

Se si osserva la diversa tipologia delle banche locali post-unitarie, appare evidente la dinamica dei bisogni. Le Banche popolari, molte delle quali sono diretta espressione delle Società di Mutuo Soccorso, sono orientate a sostenere il commercio e l'industria delle aree urbane locali. Le Casse di risparmio privilegiano i mutui fondiari e le Casse postali drenano capitali verso le rendite pubbliche. In questo contesto, articolato e travagliato, nascono le Casse rurali, sicuramente le più vicine ai problemi delle campagne, sui quali sono necessarie ulteriori precisazioni.

La condizione contadina inizia ad emergere in tutta la sua drammaticità dopo l'Unità, a seguito delle inchieste condotte dal governo o da riviste attente a questi temi, come gli "Annali universali di Statistica", ma non erano soltanto i braccianti settentrionali a soffrire una vita ai limiti della sussistenza, dal momento che queste erano le condizioni di gran parte della popolazione agricolo tanto al Nord quanto nelle altre parti dell'Italia, condizioni aggravatesi dopo l'unificazione per l'irrisolta questione della grande proprietà fondiaria e del forte inasprimento fiscale attuato dalla Destra storica per i noti problemi di pareggio del bilancio. Non deve meravigliare che tali condizioni pongano richieste che rimangono, nella maggior parte, senza risposte se non attraverso le forme mutualistiche.

Per rimanere nel settore del credito, la crescita degli scambi determina, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, una rete sempre più fitta di rapporti tra settori produttivi, commercio e istituti di credito, che pone in evidenza l'insufficienza dei mezzi monetari a sostenere il processo di migliorie necessarie a sostenere lo sviluppo dell'agricoltura.

Alla scarsezza di capitali - che rimaneva il problema fondamentale cui i tentativi di creare appositi istituti di credito agrario non avevano dato soddisfacente risposta - si aggiunge la scelta protezionistica della Sinistra che, attuata nel 1887 con lo scopo di garantire il mercato interno alla cerealicoltura italiana, ottiene il risultato di acutizzare la drammaticità delle condizioni di vita fra le popolazioni rurali meno protette, sempre più esposte ai rischi dell'usura che consegna i contadini nelle mani dei prestatori privati e degli incettatori di derrate alimentari.

Per sopperire a questa mancanza di adeguati capitali si fa strada l'idea di un apposito istituto di credito, in grado di sollevare le campagne dalla loro arretratezza.


La cooperazione di credito: le casse rurali


Il paragrafo precedente è servito per fornire un quadro di riferimento per inquadrare le origini e lo sviluppo del credito cooperativo nel processo evolutivo del sistema bancario nazionale e della società nel suo complesso. L'idea della cooperazione creditizia, sviluppatasi in Germania, troverà seguito in Italia, in due forme di istituti di credito: le Banche popolari e le Casse rurali. Pur nati da una comune matrice solidaristica, i due istituti si differenziano notevolmente fin dalla loro nascita, acquisendo caratteristiche strutturali e gestionali proprie.

Una prima fondamentale differenza è data dalla forma societaria pur essendo entrambe cooperative. Le Popolari, che si rifanno al modello di Shulze-Delitzsch, hanno forma di società per azioni; le Casse rurali, che seguono l'idea di Raiffeisen, prevedono che i soci siano legati dalla responsabilità illimitata e, quindi siano società in nome collettivo. Se questa differenza trova spiegazione e riscontro nella diversa estrazione sociale dei due fondatori e nella diversità degli ambienti in cui le Banche popolari e le Casse rurali ebbero le loro prime realizzazioni, in Italia questa caratteristica è rimasta immutata fino a tempi recenti.

Le altre differenze, mantenutesi nel tempo, riguardano i limiti di capitale stabiliti, la caratterizzazione dei soci, i limiti di capitale posseduto da ciascun socio, la competenza territoriale, le operazioni consentite e le categorie dei destinatari.

Entrambi i sistemi di cooperazione creditizia sono destinati ad entrare, a titolo definitivo pur con inevitabili trasformazione ed adattamenti, nella storia bancaria e sociale del nostro paese, così come la loro nascita è il frutto di un forte impegno sociale di tutto il paese e delle sue diverse componenti ideologiche, alle quali è necessario ritornare per l'analisi più approfondita delle Casse rurali.

Nella loro maggioranza, le Casse rurali sono il risultato dell'impegno dei cattolici, assenti dalla scena politica post-unitaria, ma non da quella economico-sociale. L'impegno sociale del mondo e del movimento cattolico attraverso la forma della cooperazione è assai capillare e si misura con la cooperazione laica e socialista a partire dagli anni '60 dell'Ottocento, in concomitanza con le necessità che uno Stato di nuova costituzione impone.

Al proselitismo laico e liberale si contrappone quello cattolico, sollecitato dall'enciclica, di Leone XIII, Rerum Novarum del 1891 che determina il deciso intervento dei cattolici nelle diverse attività sociali. La pubblicazione dell'enciclica, infatti, è da porsi in collegamento con la diffusione, nel 1889-1890, del movimento operaio e del socialismo internazionale. Al socialismo, l'enciclica dedica una parte molto critica ed in aperta difesa dei diritti naturali (la proprietà, ad esempio) cercando, nel contempo di rassicurare la borghesia cattolica sul reale sviluppo dell'azione sociale dei cattolici. Inoltre, la direttiva papale insiste sulla assoluta necessità, per i cattolici, di dar vita ad associazioni operaie per impedire che i lavoratori cattolici si vedano costretti ad aderire a movimento contrari alla loro religione.

Così il movimento cooperativistico nelle campagne, sostenuto dall'Opera dei Congressi - organismo emanazione del Congresso cattolico tenutosi a Venezia nel 1875 e vero centro motore di tutte le iniziative sociali del mondo cattolico - si concretizza nell'istituzione di numerose casse rurali a partire dal 1892, dopo che un decennio prima, nel 1883, Leone Wollemborg, dando vita alla prima cassa rurale a Loreggia nei pressi di Padova, aveva iniziato una capillare opera di persuasione e di propagazione delle casse, continuando l'opera intrapresa, sempre nel Veneto, da Alessandro Rossi ed Antonio Keller.

Infatti, la speranza, coltivata dal futuro deputato e ministro delle finanze Leone Wollemborg, scaturiva dall'idea di riprodurre su tutto il territorio nazionale il credito agrario sull'esempio di quanto stava accadendo in molti paesi europei. La Cassa di Loreggia era denominata Cassa di Prestiti ed aveva la forma societaria di cooperativa in nome collettivo che, pur proponendo un sia pur piccolo modello bancario, manteneva molte somiglianze con le Casse di Prestiti sull'Onore, presenti in molte Società di Mutuo Soccorso.

L'opera di propaganda trovò un'immediata risposta nello stesso 1883, quando nel paese lombardo di Inzago si apre un'altra cassa rurale, via via seguita da altre, soprattutto nel Nord, espansione che nel primo decennio non fu numericamente forte, sostenuta solamente dalla collaborazione di personalità locali più rappresentative: medici, maestri, parroci, fra i più attivi per la creazione delle Casse rurali sul modello Raiffeisen.

Le prime Casse rurali sorsero nella Bassa lombarda e padana, fondate sulla responsabilità dei soci che, data la conoscenza e la quotidiana frequentazione, fornivano l'unica possibile garanzia di reciproco controllo, il che permetteva di ottenere, in seguito, il necessario credito anche da banche maggiori. In questi casi, con la dichiarazione delle precise finalità del prestito, era collettivamente assicurato il rimborso e l'oculatezza dell'impiego. Per le banche di maggiori dimensioni, la Cassa rurale andava assumendo i connotati di complementarità, dal momento che le molte località isolate erano difficilmente raggiungibili da sportelli cittadini e, quindi, la nascita di una piccola banca locale creava un'occasione di legame operativo di qualche importanza.

Per uscire dalla fase pionieristica ed attingere ad un consenso maggiore è necessario attendere che le esigenze economiche si combinino con l'impegno del movimento cattolico, sollecitato proprio dalla Rerum Novarum. Le campagne sono il territorio preferito dai cattolici e dal loro movimento e la strategia seguita si colloca in un quadro ideologico ben preciso. Gli anni di appassionate discussioni intorno alla natura del Mutuo Soccorso avevano prodotto una nuova cultura laica che, oltre a quella liberale, contrastava il predominio della cultura cattolica nei ceti popolari: il dibattito ideologico alimentato dai mazziniani, dagli internazionalisti, dagli anarchici e dai socialisti si era radicato in profondità nella coscienza di una maggiore giustizia sociale e i cattolici correvano il rischio della possibile marginalizzazione della loro presenza anche nella coscienza dei più deboli. La carità e la beneficenza, che per secoli avevano costituito i mezzi più adatti per affrontare la questione sociale si rivelavano sempre meno incisivi, anche per le diverse tendenze che agivano all'interno del movimento cattolico.

Con Giuseppe Toniolo prende forma la dottrina sociale cattolica e vengono formulate proposte di più ampio respiro in difesa delle piccole industrie e delle forme di conduzione agricola di tipo protocapitalistico come la mezzadria, in una visione complessiva che privilegiava il settore primario a scapito di quello secondario. L'Opera dei Congressi e i Comitati Cattolici, all'interno dei quali vi era una "Sezione per le opere di carità" per quelle iniziative rivolte ad affrontare le necessità dei poveri, iniziarono a dibattere al loro interno anche temi di più ampia portata fino a cambiare denominazione, nel 1887, in "Sezione di Economia Sociale".

La forte spinta ad intervenire più profondamente nel tessuto sociale del paese portò i cattolici ad affinare la conoscenza delle trasformazioni del tempo, indicando la via per contrastare l'anticlericalismo e l'ateismo. Scartata la realtà urbana, nella quale la cultura laica era già penetrata, rimanevano le campagne, dove meno radicata era questa presenza. Infatti, nelle campagne il parroco rimaneva il punto di riferimento non solo spirituale di tutta la comunità, era la persona che possedeva la conoscenza di tutti i suoi parrocchiani, ricchi e poveri, che organizzava la beneficenza e gli interventi nei confronti dei più bisognosi. I sacerdoti erano ben informati di quali fossero le difficoltà in cui si dibattevano i piccoli proprietari, i fittavoli, i mezzadri nel caso avessero bisogno di un credito, sia pure modesto, per superare le difficoltà dell'esercizio o per improvvise urgenze familiari.



Nel panorama di un generale analfabetismo, contro cui il Mutuo Soccorso cercava di porre rimedio, proprio i sacerdoti, sin dalla nascita delle prime Casse Rurali proposte da Wollemborg, erano stati un elemento fondamentale per la loro attivazione grazie alla fiducia dei parrocchiani ed alle capacità di svolgere gli adempimenti formali previsti dalla legge. Inoltre, l'ostilità nei confronti della classe politica aveva saldato la presenza ecclesiastica con il malessere ed il disagio di gran parte della popolazione italiana, derubata delle sue speranze contro i grandi proprietari terrieri, impoverita dalla oppressione fiscale e da una arretratezza che diveniva sempre più grave nei confronti di altri Stati avviati all'industrializzazione.

Del resto, i socialisti erano, per ragioni ideologiche, quasi totalmente assenti nell'azione di sostegno dei piccoli ceti rurali, considerati legati a forme di proprietà e conduzione della terra, responsabili del mantenimento della commistione fra i settori produttivi e del ritardo nella formazione di un vero e proprio proletariato. Secondo questa concezione, la rovina della piccola proprietà e la scomparsa dei rapporti colonici avrebbero fatto mancare un supporto prezioso di manodopera a basso costo, il cui sfruttamento era una risorsa fondamentale per gli imprenditori italiani, specialmente del settore tessile, quasi sempre esponenti della borghesia terriera settentrionale. In quest'ottica, il permanere della commistione tra i settori, tornava utile alla borghesia del Nord mantenere un ceto contadino medio-basso che alternava al lavoro dei campi quello nelle fabbriche e negli opifici, sul modello protoindustriale, lavoro quest'ultimo che poteva essere sottopagato proprio perché aggiuntivo al primo.

L'inimicizia dei socialisti e la tiepidezza dei liberali spinse i cattolici verso l'impegno nel mondo del credito. Promotore di questa nuova fase è don Luigi Cerutti, cappellano di Gambarare di Mira, in provincia di Venezia. Sollecitato dall'ostruzionismo attuato dai liberali del paese verso la promozione di una cooperativa di credito, don Cerutti fondò, nel 1892, la prima Cassa Rurale cattolica che introduceva nello statuto la pregiudiziale cattolica per tutti coloro che volevano aderirvi, presto estesa a tutte le altre.

Da questo momento in poi, l'espansione diviene rapida e capillare, ben più delle casse laiche o "neutre", nelle quali la tensione ideale è meno accesa, mancando l'elemento di coesione che contraddistingue le cattoliche, che si formano attorno alla parrocchia, prevedono sempre la presenza di un sacerdote e, anche quando non si confondono con le Leghe cattoliche bianche, danno inizio alla creazione di latterie sociali, cucine economiche, cooperative di consumo, cattedre ambulanti di agricoltura. Il Mutuo Soccorso Cattolico trova nelle Casse rurali il maggior punto di forza, di penetrazione e di espansione con forme che aggiungono modi nuovi di impegno nel sociale verso ammalati, poveri e orfani.

Tra i cattolici, i dibattiti sulla cooperazione soprattutto creditizia è, in quegli anni di fine secolo, accesa e ricca di tensione, soprattutto nell'ambito dell'Opera dei Congressi. Sono anni decisivi anche per l'intera situazione bancaria nazionale, gli anni dello scandalo della Banca Romana, del crollo del Credito Mobiliare e del successivo riassetto del sistema bancario con la nascita delle Banca d'Italia e delle due banche miste, la Banca Commerciale Italiana e il Credito italiano a prevalente capitale tedesco. Se la riforma bancaria avvantaggia il sistema industriale, non porta alcun beneficio all'agricoltura dalla quale, anzi, si drenano molti capitali verso il settore secondario, più ricco di prospettive di profitti. Vi è, dunque, la necessità di soccorrere i piccoli e medi ceti rurali, dal momento che il credito rurale rimaneva escluso da questa ristrutturazione bancaria.

Dopo la crisi degli anni '90, l'espansione industriale consente la crescita di depositi ed impieghi con un notevole aumento di Banche di credito ordinario, di Casse di Risparmio, di Banche Popolari, ma solo le Casse Rurali, sostenute dal movimento cattolico, si fanno carico di un impegno gravoso e difficile del tutto inadeguato ai mezzi posseduti, mentre va costituendosi un forte gruppo di banche ordinarie cattoliche che segna la distinzione, tra lo stesso mondo cattolico, del modo di intendere l'attività creditizia, carica di interrogativi per l'immediato futuro.

In questo contesto, le Casse Rurali attivano un rapporto privilegiato con le istituzioni creditizie cattoliche di maggiori dimensioni: è il momento della fioritura dei "Piccoli crediti", nati un po' ovunque a sostegno del piccolo imprenditore cattolico - il Banco S. Marco, il Banco Ambrosiano, il Banco S. Paolo di Brescia, il Banco di S. Prospero, il Banco di S. Giminiano, il Piccolo Credito Bergamasco, il Piccolo Credito Romagnolo, ecc. - che divengono un importante patrimonio di esperienze e di mezzi, ma che, tra le due guerre, contribuiranno a rendere difficoltoso il salvataggio di tutto il sistema creditizio.

Il rapporto verticale tra Casse e Banche porta, nell'arco di pochi anni, alla necessità di coordinamento e unificazione in federazioni tra le diverse tipologie di banche. Nel 1905 nasce la Federazione nazionale delle Casse Rurali Italiane e, nel 1907, la Federazione delle Casse Rurali Cattoliche che, pur raggiungendo un buon numero di adesioni, non riesce a raccogliere la totalità delle Casse Cattoliche, a riprova dei contrasti esistenti nella società e nel mondo cattolico. Anche quando nel 1914 si cerca di accentuare l'unicità e la centralità di indirizzo delle Casse Rurali con l'istituzione della Federazione italiana delle Casse Rurali Cattoliche con sede a Bologna, in parallelo con la Federazione italiana delle banche cattoliche, sorta a Milano nel gennaio dello stesso anno e con il Credito Nazionale, organo centrale della Federazione, non si raggiunge l'auspicata totalità in nessuna delle due federazioni.

Le successive vicende che riguardano il mondo delle banche non mancheranno di far risaltare le tensioni tra laici e cattolici che, all'indomani del primo conflitto mondiale, subiranno una forte accelerazione.


14. Le banche in età giolittiana


Stabilire se furono le banche a suscitare l'espansione economica o se invece furono esse stesse un portato dell'espansione è questione di scarsa importanza. I due fatti furono concomitanti: senza le banche lo sviluppo non sarebbe stato possibile, ma le banche da sole non sarebbero state capaci di suscitarlo. Il dato di fondo è che dopo una lunga incubazione l'imprenditorialità italiana comincia a svilupparsi. Gruppi di proprietari terrieri dotati di spirito d'avventura, come quelli guidati da Giovanni Agnelli che daranno vita alla FIAT, o per­sonalità intellettuali, ingegneri, con capacità, di comprendere l'eco­nomia, come i fondatori della Edison di Milano, si misurano con il mercato. Accanto a queste iniziative si rafforzano quelle degli arti­giani che diventano veri e propri piccoli industriali. A Genova, che per tutto il quarantennio postunitario era stata il centro più vivo del­l'industria e della finanza, l'Ansaldo raggiunge dimensioni che pos­sono farla considerare come la prima grande impresa italiana. Solo con il nuovo secolo il centro di gravità del capitalismo italiano si sposta a Milano.

Il peso della banca nel funzionamento dell'economia aumenta e la domanda di moneta cresce sistematicamente più del reddito nominale. A ciò corrisponde anche un sensibile cambiamento nella struttura del sistema bancario: se la parte delle società ordinarie di credito è ormai preponderante, quella degli istituti di emissione è in progressiva diminuzione, mentre le Casse di risparmio rimangono più o meno allo stesso livello.

Allo sviluppo industriale e finanziario contribuisce anche il balzo tecnologico rappresentato dall'introduzione dell'energia elettrica. La produzione elettrica ha bisogno di grandi capitali e, in quell'epoca, il suo mercato era in rapidissima espansione, e le banche vi potevano trovare impieghi sicuri. In sostanza l'industria elettrica ebbe un ruolo assai simile a quello delle ferrovie nei paesi dell'Europa occidentale, dal momento che in Italia lo Stato assunse un ruolo fondamentale nella nascita e nello sviluppo delle ferrovie.

Lo Stato giolittiano contribuì anche direttamente a questo processo. Con la nazionalizzazione delle ferrovie, la Società per le Strade Ferrate Meridionali, società finanziaria controllata da Pietro Bastogi, si trovò a disporre di una notevole massa di denaro liquido, proveniente dagli indennizzi. Lo investì tutto nell'industria elettri­ca, diventando un punto di riferimento per l'intero settore. Ses­sant'anni dopo, la nazionalizzazione dell'energia elettrica avrebbe lasciato nelle mani dei successori della Bastogi una enorme quantità di denaro, che essi dissiperanno nell'avventura chimica.

Il periodo di espansione e di mutamenti strutturali è però ben circoscritto nel tempo. Le sue caratteristiche sono quelle di una accumulazione iniziale, più avanzata di quella che si conviene di chiamare accumulazione primitiva in cui la formazione del capitale avviene praticamente a carico esclusivo dell'agricoltura. Non si tratta però di un vero e proprio decollo, che avrebbe dovuto portare ad un consolidamento dei tassi di sviluppo. Il capitalismo italiano mostrava fin da allora alcuni limiti oggettivi che ne avrebbero marcato il carattere.


Il ruolo della Banca d'Italia


Al centro del sistema bancario si trovava ormai la Banca d'Italia. Gli altri due istituti di emissione, il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia, di fronte alla presenza della Banca d'Italia andarono sempre più assumendo il carattere di istituti di credito ordinario, pur restando pubblici. Sotto la direzione di Nicola Miraglia, il Banco di Napoli procedette ad una politica di consolidamento e di espansione, fondandosi soprattutto sul credito agrario e sul servizio del risparmio agli emigrati meridionali.

Al contrario, la Banca d'Italia andò sempre più assumendo il carattere di banca delle banche, su cui ricadeva l'onere della politica monetaria e della gestione del sistema creditizio. Fu questa l'opera di Bonaldo Stringher, che ne fu direttore dal 1900 al 1928, e per due anni ancora governatore. Stringher proveniva dall'amministrazione pubblica, come del resto Miraglia, che era stato direttore generale dell'Agricoltura. Come direttore generale del Tesoro, Stringher aveva avuto un ruolo di primo piano nella gestione della crisi bancaria del 1893. Con lui la Banca d'Italia diventerà una vera e propria banca centrale, come quelle degli altri paesi più avanzati.

Le idee di Stringher erano alquanto diverse da quelle dei suoi predecessori alla direzione della Banca Nazionale, per i quali l'esigenza di profitto rimaneva in primo piano. Non era un liberista puro, come dei resto non lo era Giolitti, che, ad esempio, non esitò a sostenere il monopolio di Stato per le assicurazioni sulla vita. Stringher pensa da grand commis dello Stato, custodendo gelosamente la propria autonomia nei confronti del governo, ma rimanendo perfettamente consapevole dell'importanza nazionale della propria funzione e deciso ad esercitarla tenendo conto degli interessi nazionali.

Tra i punti fermi della Banca d'Italia vi furono il perseguimento della stabilità monetaria e la vigilanza sul sistema bancario. Una banca di emissione aveva l'interesse ad emettere il maggior numero possibile di biglietti e quindi tendeva a rendere meno vincolanti gli obblighi di copertura. Con Stringher invece la Banca d'Italia comincia a seguire da vicino la quantità di moneta per evitare l'inflazione e diventa più rispettosa della necessità di adeguate riserve; il cambio della lira diventa cosi un elemento di cui la Banca d'Italia deve farsi carico.

Per quanto riguarda le banche, la questione più urgente era sempre quella delle immobilizzazioni, sia come partecipazione al capitale di società industriali, sia come crediti continuamente rinnovati, che diventavano via via sempre meno esigibili. Senza esplicite prese di posizione, ma di fatto, come era nel suo stile, Stringher, che era perfettamente consapevole dell'importanza del credito per l'economia reale, favorì il processo di costituzione della banca mista, simile cioè alla banca universale tedesca. Di fronte a situazioni di particolare difficoltà la Banca d'Italia si avvalse della propria autorità di fatto, non supportata da normative, per trovare soluzione alle crisi, sia che si trattasse di crisi più propriamente bancarie, come quella della Società Bancaria Italiana, che di società industriali come l'ILVA. Il sistema preferito per intervenire senza coinvolgere la Banca era quello della costituzione di consorzi, chiamando altre forze a raccolta. Se necessario, il Tesoro consentiva ad emissioni di biglietti che di fatto non erano coperti da riserve, per cui c'era sempre disponibilità di denaro per esigenze straordinarie. In cambio Stringher, quando ne era sollecitato per ragioni esclusivamente politiche, non esitava a mettere a disposizione del governo i rapporti e le capacità di mediazione della Banca d'Italia, che, va sempre tenuto presente, restava una società privata. Così, ad esempio, sollecitò dalla Banca Commerciale e dal Credito Italiano la partecipazione in operazioni che non davano alcuna prospettiva di profitto, come la costituzione di banche in Marocco ed in Etiopia.

La crescita del periodo giolittiano ebbe in Bonaldo Stringher un regista occulto, ma efficiente e perfettamente consapevole, poiché riteneva che la Banca d'Italia fosse la «naturale tutrice degli interessi economici del Paese».

Lo strumento di cui la Banca si serviva nei confronti delle banche ordinarie era la politica del risconto. Non esistevano allora strumenti, che verranno utilizzati in seguito, per influire sull'economia, come le riserve obbligatorie o il controllo sull'espansione del credito. Nel primo decennio del secolo, per avere liquido, le banche riscontavano presso la Banca d'Italia le cambiali rilasciate dai clienti.

L'istituto di emissione era obbligato a valutare la solvibilità di gran numero di clienti, e così la Banca era in grado di avere sempre il polso dell'andamento delle imprese, della politica delle Banche commerciali e delle Casse di risparmio.

La struttura economica dell'Italia contemporanea è stata contrassegnata sempre, in forme diverse, da una forte presenza dello Stato. La cosa che deve esser sottolineata è il tipo di intervento. Nel modo di operare della Banca d'Italia c'era il germe di un modello di intervento pubblico che sarà specificatamente italiano, quello delle partecipazioni statali, ampiamente criticato in tempi assai recenti, mentre possedeva grande originalità e flessibilità. Lo Stato non interveniva direttamente nell'economia, se non con misure come quelle della nazionalizzazione delle ferrovie. Il compito di intervenire sull'economia lo aveva un organismo autonomo come la Banca d'Italia, legata allo Stato da un rapporto di fatto, piuttosto che da rapporti giuridicamente stabiliti, con la propria autonomia, e sotto la propria responsabilità, ed anche, quando era necessario, con una dialettica con l'amministrazione ed il governo.


Il ruolo della Banca Commerciale Italiana e del Credito Italiano


La Banca Commerciale Italiana e il Credito Italiano erano di gran lunga le più importanti tra le banche che operavano nel credito all'industria. Le Casse di risparmio continuavano ad essere ristrette nel tradizionale giro degli investimenti immobiliari e costituivano lo sbocco più importante per la sottoscrizione di titoli pubblici. I banchi meridionali finanziavano il commercio e l'agricoltura, con una dimensione ancora molto locale; gli altri settori dei sistema creditizio, banche popolari e cooperative, avevano dimensioni troppo piccole per operare sul mercato delle imprese. Anche le altre banche commerciali erano poca cosa.

Nel giro di nove anni le due banche maggiori passano insieme dal 20% al 42% del totale dell'attivo di tutte le banche di credito ordinario; la concentrazione è quindi elevatissima. Per disponibilità di mezzi e per esperienza operativa, le due grandi banche erano in grado di scegliere la clientela migliore. Lo sviluppo dell'economia c'era, ma la dimensione complessiva del sistema economico restava sempre piccola, e l'Italia continuava ad essere un paese prevalentemente agricolo. La clientela quindi non era numerosa e le iniziative più rilevanti finivano sempre nei due istituti maggiori. Per poter entrare nel mercato bancario e attirare clientela una nuova banca doveva essere spregiudicata in materia di finanziamenti ed essere pronta ad accollarsi oneri più pesanti in caso di difficoltà.

A costituire i fondi per il finanziamento alle imprese il capitale delle banche contribuiva in misura abbastanza scarsa; di fatto questi fondi venivano dai depositi e dalla consistenza delle cambiali che venivano commerciate. Non si faceva ricorso alle obbligazioni per coprire investimenti a lungo termine perché questo strumento finanziano era poco conosciuto, e c'era una diffidenza verso di esso dopo che il Crédit Mobilier era fallito per non essere riuscito a collocare tutte le proprie obbligazioni. In confronto ai due istituti mobiliari che erano caduti nel '93, le due banche miste dell'età giolittiana avevano maggiori disponibilità ma correvano rischi assai più gravi. A proprio favore potevano disporre di una tecnica bancaria assai più raffinata, importata dall'estero, e di una rete di collegamenti con l'estero più efficiente. Le partecipazioni estere, prevalentemente tedesche fino allo scoppio della prima guerra mondiale, ma anche con una certa presenza francese e belga, non furono però mai tali da incidere sostanzialmente sulla gestione delle due banche, che conservarono la propria autonomia di decisione. Joel si comportò in sostanza da finanziere puro, e non si lasciò influenzare da pregiudizi nazionalistici, mentre il Credito fu diretto sempre da un italiano, Enrico Rava.

Comit e Credit sostenevano attraverso il risconto di effetti i finanziamenti industriali delle Casse di risparmio, particolarmente della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde, che a sua volta finanziava a breve la piccola e media industria. C'era quindi una certa divisione di compiti: le due banche finanziavano le imprese maggiori attraverso partecipazioni e crediti a medio e lungo termine e le Casse di risparmio rifornivano di circolante le imprese medio‑piccole attraverso lo sconto della carta commerciale. Le due banche si ripartivano le sfere di influenza. La Comit aveva interessi prevalenti nell'industria cotoniera e nei lavori pubbIici, il Credit soprattutto nella siderurgia, negli zuccherieri e nella chimica, industria nascente.

L'intreccio con l'industria era pure assai stretto, e nei consigli di amministrazione delle banche e delle società industriali si ritrovavano spesso le stesse persone. Giovanbattista Pirelli, fondatore della Società che produceva la gomma, era un consigliere di amministrazione assai influente del Credito Italiano, e non esitava a servirsi della banca per cercare di garantire i propri crediti verso società industriali in difficoltà. In un modo o in un altro le banche erano trascinate ad intervenire direttamente nella gestione delle imprese.

Nel complesso l'esperienza di gestione diretta non fu positiva. Anche se non gestivano direttamente le imprese, le banche erano però sempre coinvolte nel loro destino. I dirigenti della Comit proclamavano a gran voce di non essere fautori della banca universale, e di fare soltanto affari, senza aver di mira la costituzione o il sostegno delle imprese, ma in realtà quando un'impresa si trovava in difficoltà, la banca, per non perdere tutto, continuava a finanziare oppure prendeva in garanzia le azioni dell'impresa. In questo modo si trovava ad essere padrona di fatto.

Altra via per cui le banche finivano per diventare azioniste delle imprese era quella dei sindacati di collocamento delle azioni. Quando una società emetteva azioni, le banche le sottoscrivevano riservandosi di collocarle presso il pubblico. Se il collocamento era lento o incompleto, le azioni restavano proprietà delle banche. Una terza via per cui le banche si trovavano a detenere azioni di società industriali era quella dei riporti. Quando si verificava una sovrabbondanza di liquido, le banche lo impiegavano comprando azioni a riporto, cioè impegnandosi a rivenderle ad una certa data. Questo era un impiego più speculativo, perché se il corso delle azioni saliva le banche guadagnavano la differenza, ma fino alla data del riporto le azioni erano di loro proprietà, ed i riporti potevano essere prolungati, quando non conveniva vendere. Spesso il riporto sostituiva, per ragioni fiscali, le anticipazioni date alle imprese prendendo in garanzia le loro azioni. Inoltre era consuetudine di tutte e due le banche, e particolarmente della Commerciale, di richiedere ad una impresa finanziata di avere l'esclusiva per tutte le sue operazioni finanziarie, di essere cioè non la banca di fiducia, ma addirittura esclusiva, e questo allo scopo di battere la concorrenza. Ciò non poteva che rendere ancora più stretti i rapporti tra banca e impresa.

Il coinvolgimento delle banche nelle imprese e il rischio che gli immobilizzi comportano è il pericolo incombente su tutta l'attività bancaria, particolarmente per le banche di deposito. Questo tema è stato in Italia il filo conduttore di tutto il dibattito e di tutta la legislazione sulle banche per settant'anni, mentre in altri paesi è stato risolto o consentendo apertamente la partecipazione, come in Germania, o vietandola. Negli Stati Uniti, che hanno una legislazione assurdamente complicata, ci sono disposizioni ambigue che le banche sistematicamente aggirano, come si è visto.

È ovvio che le banche sono necessarie allo sviluppo delle imprese e che in un modo o in un altro non possono non essere coinvolte, ed è molto difficile per non dire impossibile fissare delle norme di comportamento. Una banca che rinnova sistematicamente i crediti ad una impresa è come se fosse azionista, anzi si trova in una condizione peggiore, perché, almeno sulla carta, non ha alcun potere sul Consiglio di amministrazione dell'impresa. Se divieti e regolamentazioni possono sempre essere aggirati di fatto, il punto decisivo sta nella capacità di giudicare i clienti e nel merito delle decisioni, insieme con la separazione più netta possibile delle forme di raccolta di fondi da parte della banca, che non può essere mai totale, per cui solo il buon senso e la pratica consentono di trovare un certo equilibrio. Così la questione dei rapporti tra banca e impresa, che è stato un tema dominante del dibattito economico italiano, trova le sue radici nel periodo in cui il paese comincia a svilupparsi in forme moderne.


La crisi del 1907


La prima crisi grave che il nascente capitalismo italiano dovette affrontare si verificò nel 1907. Fu una crisi finanziaria internazionale, provocata da un eccesso di speculazione di Borsa, ed ebbe origine negli Stati Uniti. La crisi si estese attraverso i rapporti finanziari internazionalí, mettendo in atto un meccanismo che nel 1929 avrà conseguenze disastrose.

Quando la crisi investì l'Italia, le banche italiane si trovavano tutte più o meno fortemente impegnate nella speculazione di Borsa. Particolarmente impegnata era la Società Bancaria Italiana. Questa era nata nel 1898 dalla trasformazione di una casa di banchieri privati ed aveva fin dall'inizio impostato la propria attività sulla promozione della costituzione di imprese e su quelli che chiamava «affari speciali» in contrapposizione ai «normali affari bancari». Stringher ne sostenne l'espansione verso operazioni che più marcatamente avevano il carattere di banca universale, fino ad investire le operazioni su merci. Così essa si era espansa rapidamente, nutrendo l'ambizione di diventare la terza grande banca italiana, insieme a Comit e Credit. L'espansione era stata però troppo rapida, e per fare concorrenza alle due grandi la Sbi aveva allargato troppo la propria attività finendo per costituire l'anello più debole della catena. Tra le imprese colpite dalla crisi del 1907 la più rilevante fu la Fiat, al cui finanziamento la Società Bancaria era interessata fortemente; ne derivò una difficoltà generale che stava per sfociare nel panico e investire l'intero sistema bancario.

L'intervento della Banca d'Italia fu tempestivo. Stringher fece presente col peso della sua autorità alle altre banche, ma soprattutto alle due grandi, che una caduta della Bancaria avrebbe provocato un panico generalizzato e le convinse a costituire un consorzio che aprì un forte credito alla banca pericolante, prendendo in garanzia i titoli delle società cui la Sbi partecipava; dal canto suo la Banca d'Italia, insieme con gli altri due istituti di emissione, si impegnava a riscontare il portafoglio della Bancaria se l'apertura di credito del consorzio si fosse rivelata insufficiente, come peraltro avvenne.

Si dovette allora compiere un ulteriore passo con credito diretto della Banca d'Italia e delle due grandi banche. Obiettivo di Stringher, oltre che di arginare il panico, era di mantenere in vita una terza banca. Il primo obiettivo fu raggiunto, il secondo no, per l'opposizione delle due grandi. La Società Bancaria continuò a partecipare alle grandi operazioni di finanziamento dell'industria, particolarmente quella siderurgica, ma rimaneva fragile, La sistemazione sì trascinò finché una nuova banca, la Banca Italiana di Sconto, assorbì la Sbi. Anche questa sistemazione si doveva poi rivelare fittizia.

L'intervento della Banca d'Italia fu decisivo per il salvataggio, ma fu possibile soltanto in quanto lo Stato consentì di adoperare la circolazione monetaria in modo più flessibile: aumentò il limite all'emissione dei biglietti e alleggerii fortemente la tassa sulla circolazione monetaria, rendendo disponibili somme non indifferenti. Ciò consentì di evitare il ripetersi della crisi del 1893, quando non esisteva un istituto della forza della Banca d'Italia, ma non poteva essere una soluzione permanente. La pratica continuò per qualche tempo, finché intervenne la grande crisi del '29 a porvi fine.


L'espansione del Banco di Roma


Accanto alle due grandi banche, una terza stava iniziando una espansione che in breve sarebbe diventata vertiginosa: il Banco di Roma. Questa era una piccola banca, costituita nel 1880 ad opera dell'aristocrazia clericale romana (presidente era Ernesto Pacelli), ed aveva vivacchiato nell'attività locale finanziando l'agricoltura e le piccole attività commerciali. L'espansione in Italia era in pratica bloccata dalla soverchiante presenza delle due grandi banche milanesi, ed il Banco di Roma scelse deliberatamente l'espansione all'estero, soprattutto nel bacino del Mediterraneo. Si aprirono sedi in Libia, allora sotto la sovranità della Turchia, dove si espanse promuovendo la costituzione di imprese per il mercato locale e di compagnie di navigazione, e cercando di controllare il finanziamento dei commercio tra l'Italia e quella parte dell'Africa. Una parte assai significativa avevano gli investimenti immobiliari in tutta l'area mediterranea.

All'interno, il Banco di Roma perseguì una politica di espansione accelerata, attraverso la fusione con altre banche che andava man mano rilevando. 1 rapporti con la politica erano assai più intensi di quelli delle altre grandi banche, ed era un diretto legame con la monarchia e con il Vaticano. A motivare la politica di espansione vi era anche l'obiettivo di costituire un sostegno finanziario per un partito conservatore cattolico. Il Banco fu accusato dalla stampa di essere stato uno dei sollecitatori della guerra di Libia, per potere espandere ancora di più i propri interessi.

L'espansione era sostenuta attraverso un aumento del capitale piuttosto che della raccolta in depositi e portafoglio. Nel 1911 il Banco superò la Banca Commerciale negli impieghi, diventando la più grossa banca italiana, ma le restò nettamente inferiore come raccolta. Le giacenze di liquido, che dovevano costituire per le banche una misura di sicurezza in caso di richieste di rimborso da parte dei risparmiatori, erano assai scarse. Il meccanismo degli aumenti di capitale era al limite del lecito, e forse oltrepassava questo limite. Per assicurarsi una base più larga, il Banco cambiò la base del proprio azionariato, passando dalle famiglie legate al Vaticano alle banche cattoliche cooperative. Infatti, sotto la pressione del papa Benedetto XV, si era costituita nel 1914 la Federazione Bancaria Italiana, cui avevano aderito molte banche cattoliche, e che aveva fondato una banca propria, il Credito Nazionale, il quale, a sua volta, aveva assunto una partecipazione notevole nel capitale del Banco di Roma, ma era lo stesso Banco di Roma che lo finanziava. Non era una partecipazione incrociata, in quanto il Banco non controllava il Credito Nazionale, ma era ancora peggio, perché il credito verso il proprio azionista era praticamente inesigibile. Piuttosto che partecipare a tale imbroglio, un buon numero di banche cattoliche si trasformarono da cooperative in società per azioni, per godere della protezione di normative più severe. La sistematica incorporazione di altre banche portava ad altre contraddizioni, perché i crediti delle banche che si assorbivano erano spesso assai incerti.

Il dissesto non era evitabile e nel 1914 non si poté fare a meno di render note le perdite e svalutare il capitale. Il Banco diventava il punto più debole del sistema. Le cause riguardavano anche la natura e la capacità del suo gruppo dirigente, che non aveva il respiro, la qualificazione professionale e l'apertura internazionale di quelli delle altre due grandi banche. Ma la verità è che nell'economia italiana di allora non c'era lo spazio per un'altra grande banca.

Alla fine dei decennio giolittiano, l'Italia si trovò di fronte all'esaurimento dello slancio che le aveva consentito un progresso significativo l'aveva portata a gettare le basi dello sviluppo industriale. A questo punto era necessario un salto di qualità nella capacità imprenditoriale, una estensione del processo ancora concentrato in una parte del paese. Nel periodo finale della sua egemonia Giolitti abbandonò la formula politica dell'apertura a sinistra che aveva costituito la cornice dello sviluppo, e ripiegò verso l'alleanza con i moderati e i clericali, spaventato dall'avanzata del movimento operaio, che la sua stessa politica aveva permesso. Si era alle soglie della prima guerra mondiale e questa non poteva che aggravare le contraddizioni.




Le banche tra le due guerre


Il primo dopoguerra e l'avvento del fascismo


Era inevitabile che dopo un periodo di guerra così lungo, il passaggio all'economia di pace fosse assai tumultuoso. L'inflazione, che durante la guerra aveva fornito i mezzi finanziari per alimentare la produzione, serviva adesso al governo per ridurre l'onere del debito pubblico.

Nei fatti, gli anni dell'immediato primo dopoguerra segnano una più forte presenza dello Stato nell'intero sistema economico: un primo intervento avviene attraverso il finanziamento di importanti opere pubbliche tramite un istituto creditizio appositamente fondato, il CREDIOP (il Credito per le Opere Pubbliche nasce nel 1920 per iniziativa di Francesco S. Nitti); un secondo utilizzando l'Istituto di Credito per la Cooperazione, fondato nel 1912 in piena età giolittiana, che consentiva allo Stato di intervenire senza apparire, in quanto era il sistema delle cooperative ad operare concretamente anche negli impegni finanziari.

Con la salita al potere, il fascismo aveva portato una nuova concezione, assai più esplicita, dell'intervento dello Stato. Le crisi e i salvataggi tra il 1920 e il 1923 non avevano certo risolto tutti i problemi e tanto le banche quanto l'industria continuavano a navigare in un alternarsi di brevi periodi di espansione e ricadute spesso inaspettate. Così dopo un periodo di credito facile negli anni di crisi, quando il governo fascista adottò una politica di deflazione, le banche si trovarono in serie difficoltà. Particolarmente significativa fu la crisi del gruppo di banche cattoliche che facevano capo al Credito Nazionale. Lo Stato, ormai controllato dai fascisti, lasciò aggravare la crisi perché intendeva colpire uno dei punti di forza del Partito Popolare. Si procedette ad una serie di incorporazioni e fusioni; così la Banca Vicentina diventò, incorporando sei piccole banche locali, la Banca Cattolica del Veneto, che in anni recenti doveva fondersi col Banco Ambrosiano, dando luogo all'Ambroveneto.

In questo nuovo scenario, protagoniste furono le grandi banche miste e le grandi imprese che si costituivano e si affacciavano alla vita economica del paese per assumervi rapidamente una funzione dominante. Il peso delle banche commerciali aumenta fortemente nel periodo, ma ciò non vuol dire che l'Italia fosse diventata un paese moderno. La struttura dell'economia italiana era ancora agricola in modo predominante, mentre la struttura dell'industria era ancora fondata sulla presenza di un gruppo di grandi imprese ed una miriade di piccolissime altre imprese, dedicate al mercato locale o subfornitrici delle grandi. Anche i servizi, con la sola eccezione delle compagnie di navigazione, erano legati o a una dimensione esclusivamente locale, molto limitata, o alle grandi imprese.

Il riflesso di questa struttura economica su quella del credito è evidente. La fonte principale di risparmio delle famiglie era costituita dai lavoratori agricoli ed è comprensibile che questi fossero restii ad impegnarsi nella sottoscrizione di capitale di rischio delle imprese. Il risparmio era raccolto dalle Casse di risparmio e dalle numerose piccole banche, comprese quelle cooperative, i cui impieghi erano di natura locale e che finanziavano l'artigianato, il piccolo commercio e soprattutto le costruzioni di abitazioni. Il risconto collegava questo sistema di banche minori alle grandi, in quanto le prime ricorrevano alle seconde per le loro necessità di finanziamento. In pratica quindi il sistema riusciva a trasferire alla parte dinamica dell'economia, le grandi imprese, il risparmio che si formava nell'agricoltura.

Nella realtà, l'economia e il sistema bancario italiano non si ripresero dalla crisi del dopoguerra, finché l'economia e le istituzioni non cozzarono con la grande crisi dei 1929 che doveva portare ad una trasformazione profonda dei sistema. Il periodo compreso tra le due guerre è tumultuoso per un sistema bancario, attraversato da crisi ripetute che non investono soltanto le grandi banche finanziatrici dell'industria, ma anche le piccole e medie istituzioni creditizie che avevano un giro di affari locale e che erano riuscite a difendere, senza infamia e senza lode, una funzione loro propria.

Le incoerenze e le scelte di puro prestigio della politica economica del fascismo contribuirono non poco a creare tale situazione di incertezza e di confusione. L'inflazione postbellica si era protratta nel tempo, in corrispondenza con un livello elevato della produzione industriale, e questo creava le condizioni per una espansione del credito, in cui sembrava che tutto fosse possibile, e per una sin troppo rapida espansione di istituzioni di credito locali. La spinta inflazionistica non poteva però non portare ad un peggioramento del cambio della lira, che puntualmente si verificò. Il governo cercò di sostenere la moneta italiana, intervenendo direttamente sul mercato dei cambi attraverso il Tesoro, ma non c'era grande spazio di manovra e dopo aver dissipato somme ingentissime, si dovette gettare la spugna. La risposta fu una brusca inversione di politica, con il discorso di Mussolini a Pesaro nell'agosto 1926, in cui si comunicava la decisione di tenere la lira ancorata alla sterlina inglese, su una parità di novanta lire. Da qui la definizione di «Quota Novanta» passata alla storia per questa politica. Il riordinamento degli istituti di emissione ed il monopolio della Banca d'Italia, nonché le decisioni in materia di vigilanza sulle ban­che, sono coerenti con una politica defliazionistica sostenuta in pri­mo luogo da misure amministrative.


La crisi del 1929


Per gli americani la crisi del '29 è stata a lungo il fatto più rilevante della loro storia contemporanea. La crisi ebbe origine nel venerdì nero della Borsa di New York il 24 ottobre 1929. Le sue cause sono oggi più comprensibili. L'espansione senza precedenti dell'economia americana era stata alimentata da un indebitamento progressivo delle imprese e da un boom di Borsa che alimentava la speculazione e drenava ingenti capitali monetari dall'Europa, attraverso le banche portando al ristagno l'economia europea.

La bolla infine scoppiò e le quotazioni delle azioni crollarono. Le banche che avevano anticipato fondi assumendo in garanzia i titoli furono colpite e cercarono di incassare i propri crediti verso altre banche. Così si mise in moto una reazione a catena che attraverso i rapporti finanziari internazionali provocò l'estensione della crisi in tutto il mondo.

L'Italia fu investita in modo diretto nel 1931, dopo il fallimento della Credit Anstalt di Vienna, che segnò il trasferimento della crisi in Europa, ma le ragioni di una crisi erano presenti da tempo. La grande crisi fu solo lo scossone finale che impose le trasformazioni. Le ragioni specifiche delle debolezze italiane erano evidenti: in primo luogo l'eccessiva immobilizzazione derivante dal rapporto banca‑industria. L'intervento pubblico era riuscito solo ad evitare che la situazione precipitasse e travolgesse il sistema industriale, ma non a cambiare il funzionamento del sistema del credito.

Già nel 1930 il Credito Italiano era sull'orlo del fallimento. Il governo dovette intervenire attraverso una pura e semplice erogazione da parte dell'Istituto di Liquidazioni. Per cercar di salvare la faccia venne costituita dal Credito, d'accordo con il governo, la Società Finanziaria Italiana che controllava la banca ed era finanziata dalla stessa, secondo la ricetta diventata abituale. Il decreto che decideva i finanziamenti al Credito insieme ad altri, assai meno rilevanti ad alcune altre banche, fu tenuto segreto e non pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.

C'era però un'importante novità. Nella convenzione tra governo e Credito Italiano, redatta da Beneduce, si stabiliva che il Credito rinunziava ai finanziamenti a lungo termine all'industria. Si cominciava quindi ad agire nel senso della separazione. Intanto la crisi cominciò a provocare una diminuzione dei depositi. Le grandi banche cercarono di fronteggiarla indebitandosi in misura senza precedenti con la Banca d'Italia attraverso il risconto. Nel '31 la situazione precipita. Le condizioni della COMIT erano particolarmente preoccupanti. Il 40% dell'attivo era rappresentato da crediti verso le industrie e da titoli di proprietà che valevano ormai assai poco, mentre il principale creditore era la Banca d'Italia. Due terzi dei crediti erano concentrati in pochissimi clienti, tutti appartenenti alla grande industria, mentre 11.000 piccoli clienti si dividevano il restante terzo.


La costituzione dell'IRI


La via di uscita fu la costituzione dell'IRI. L'Istituto per la Ricostruzione Industriale tagliò il nodo delle partecipazioni ed assunse tutte le partecipazioni del Credito Italiano e della Comit verso le imprese industriali nonché tutti i crediti delle banche verso di esse. L'Istituto di Liquidazioni fu assorbito. L'IRI nasceva come organo provvisorio, ma la sua politica era chiara: ridurre le banche entro il cosiddetto credito ordinario sistemando la partita con le imprese.

L'obiettivo era il risanamento, e quindi la durata dell'ente avrebbe dovuto essere limitata nel tempo. L'IRI dovette per prima cosa sistemare i rapporti con le banche. Al Credito Italiano ed alla COMIT si decise di aggiungere il Banco di Roma, che era ancora nelle condizioni stabilite nel 1923, cioè controllato dalla Società Mobiliare Nazionale, e questa, a sua volta, era controllata per il 26% dall'Istituto di Liquidazioni, e per un altro 26% dal Credit e dalla Comit. A conti fatti, l'Iri si sarebbe trovato a controllare il Banco senza pagare nulla. Questo si trovava in condizioni assai migliori della Comit, perché era stato già alleggerito dalle immobílizzazioni e non c'erano necessità di impellente salvataggio. La sistemazione delle tre banche fu attuata in tre convenzioni nel marzo 1934. Con esse le tre banche si impegnavano a non andare oltre l'attività di credito ordinario, cedevano all'Iri tutti i titoli di proprietà nonché i crediti immobilizzati nelle imprese; le somme che ricevevano in cambio dei titoli e dei crediti sarebbero servite a ricostituire la liquidità. Le holding - Sofindit, Società Finanziaria Italiana, Elettrofinanziaria - vennero assorbite e successivamente liquidate. L'Iri erogava somme liquide di cui le banche si servirono per ridurre la loro esposizione verso la Banca d'Italia.

L'IRI si veniva cosi a trovarsi debitore delle banche per i crediti verso le imprese che queste avevano ceduto nonché per le azioni rilevate; era creditore delle banche per i finanziamenti erogati nonché creditore delle imprese. Per quanto riguarda queste, una parte furono cedute ai privati, principalmente le tessili e le elettriche; un'altra parte rimasero sotto la sua gestione, per cui l'ente si comportò come una holding di controllo, che finanziava imprese di sua proprietà, e il problema diventava di gestione. Ma I'Iri si trovò anche ad essere padrone delle banche, per via della partecipazione incrociata per cui le holding, cedute dalle banche all'Iri controllavano a loro volta le banche stesse.



Così si salvarono le banche, almeno quelle giudicate meritevoli di salvataggio, e si salvò anche la Banca d'Italia. L'innovazione era profonda. Le tre maggiori banche si trovarono sotto controllo pubblico. Alla base di tutto ciò era la separazione netta delle funzioni, per cui le banche facevano soltanto credito ordinario. 454d39e La parte industriale che non si sarebbe riusciti a smobilizzare sarebbe rimasta proprietà dell'Iri e avrebbe portato alla costituzione dell'Ente come ente permanente di gestione.

Per uno scherzo della storia, il regolamento della situazione finanziaria fu reso assai più facile dalla guerra imminente, e dall'inflazione che seguì. Le banche avevano un credito netto verso l'Iri. Il debito complessivo dell'IRI ammontava a nove miliardi e mezzo (s'intende dell'epoca). Di esso i due terzi furono pagati entro lo scoppio della guerra. Il restante terzo fu pagato entro il 1953, cioè fu praticamente liquidato dall'inflazione.


16. La legge bancaria del 1936


Nel corso degli anni Trenta molti paesi dovettero affrontare il nodo della regolamentazione dell'economia attraverso una più visibile presenza del potere pubblico. L'intervento dello Stato nell'economia e, in modo particolare, nel sistema bancario è oggetto di ampio dibattito in cui sono presenti due interpretazioni delle ragioni che spinsero ad intraprendere questa strada. La prima riguarda il ruolo sostenuto dalla sviluppo del socialismo e da sistemi politici che in qualche modo, come in Germania e in Italia, vi facevano riferimento; la seconda riconduce la causa alle oggettive difficoltà dell'economia e della finanza create dalle crisi internazionali in diversi paesi europei e negli Stati Uniti.

Fu proprio la grande depressione a determinare la fine di un'epoca nella quale lo Stato si era mantenuto neutrale rispetto all'azione del capitalismo, limitandosi a porsi come garante della pace sociale. La crisi del '29 fu interpretata come la crisi del capitalismo e fece acquisire una maggiore coscienza dell'importanza di un intervento più articolato del potere pubblico in diversi settori - economia, scuola, assistenza, lavoro - per meglio assicurare le forme di eguaglianza sociale.

Rimanendo in campo strettamente bancario, la gestione della politica economica da parte dello Stato significò, soprattutto, determinare una nuova serie di regole in grado rendere più organiche le manovre monetarie e fornire ai risparmiatori la necessaria sicurezza dei depositi attraverso un'ampia riforma degli istituti bancari e delle loro funzioni. Negli anni che dal 1931 al 1941, molti paesi europei - Germania, Belgio, Spagna, Francia, Italia, e Finlandia - ed alcuni americani - Stati Uniti e Messico - diedero vita a legislazioni bancarie vere e proprie o ad interventi vòlti a ridisegnare il ruolo della banca centrale, come accadde in Svezia, Portogallo e Danimarca. Inoltre, in Spagna e in Italia, si ebbero due leggi bancarie: nel 1921 e 1931 in Spagna, nel 1926 e nel 1936 in Italia, per non parlare degli Stati Uniti dove, nell'arco di due anni, furono messe a punto ben tre leggi.

La durata delle leggi bancarie varate in quegli anni - in Italia, Belgio Stati Uniti e Germania sono ancora sostanzialmente in vigore - propende a far credere che le cause che le determinarono non furono esclusivamente congiunturali, ma rientravano in un disegno più ampio dei singoli governi. Le vicende riguardanti le diverse normative attuate evidenziarono due prerogative comuni. La prima riguardava la collocazione giuridica delle banche che fino a quel momento rispondevano al codice di commercio o alla disciplina delle "company laws". In tal modo gli istituti di credito dovevano sottostare a vincoli diretti a salvaguardare il risparmio e ad apposite autorizzazioni per esercitare l'attività creditizia e finanziaria. La serie dei vincoli e dei controlli previsti, che si estendeva anche alla composizione dei consigli di amministrazione e alle modalità per la liquidazione e la fusione tra istituti, tendeva a ridurre il potere delle grandi banche, separando l'attività creditizia da quella di partecipazione industriale, sull'onda degli avvenimenti che avevano portato alla crisi di molte banche europee.

La seconda prerogativa comune era determinata dalla presenza di specifici organi di controllo del sistema creditizio, destinati ad una lunga durata, contrariamente a quanto avvenne per la separazione tra banche di deposito e banche d'affari. In Italia tale compito venne attribuito all'Ispettorato per la difesa del risparmio e l'esercizio del credito presieduto dal Governatore della Banca d'Italia; dopo il secondo conflitto mondiale queste funzioni vennero trasferite alla Banca d'Italia, che assommò i compiti di vigilanza a quelli di banca delle banche.

Il percorso della legge bancaria italiana iniziò nel 1926 quando si giunse ad attribuire alla Banca d'Italia il monopolio dell'emissione di banconote, anticipando di tre anni e mezzo il termine del 31 dicembre 1930, previsto dal R.D.L. 27 settembre 1923, n. 2158, concesso al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia. I nuovi compiti implicarono anche di procedere ad una riforma della stessa Banca d'Italia, in relazione ai nuovi compiti assunti, che ebbe luogo nel 1928 con la redifinizione degli organi decisionali e direttivi e la creazione della figura del governatore.

Contemporaneamente a questi interventi e in relazione alla rivalutazione monetaria furono attuate alcune scelte operative che indicarono la strada verso la definitiva legge bancaria. Infatti la stagione dei salvataggi bancari, anticipata dalla costituzione dell'Imi (Istituto mobiliare italiano) e dell'Iri, rese ancora più evidente il ricorso ad una forte regolamentazione, per molti versi addirittura rivoluzionaria, dei rapporti tra banca, industria e Stato. E' il momento della nascita dello Stato-banchiere, dello Stato-imprenditore che agì in qualità di garante del funzionamento dell'intero sistema creditizio e, attraverso gli enti costituiti per il finanziamento a lungo termine, proprio come imprenditore e banchiere. La legge bancaria italiana derivò, in ultima analisi, dall'urgenza di creare una nuova forma di burocrazia "forte" slegata da quella statale e dalle stesse corporazioni e fu un prodotto dell'Iri che diede maggiore forza alla Banca d'Italia, trasformata in istituto di credito di diritto pubblico ai sensi dell'articolo 20 della legge bancaria.

La nascita dell'Iri aveva risolto la questione della distinzione del credito a breve, medio e lungo termine e la separazione tra credito commerciale e credito mobiliare ponendo fine all'esperienza italiana della banca mista. Ma diede luogo, secondo Pasquale Saraceno, non ad un salvataggio o ad un risanamento bancario, bensì "a due riforme, aventi per oggetto l'una l'ordinamento del sistema bancario, l'altra la proprietà della grande industria. Ambedue le riforme hanno in comune l'intento di far cessare un tipo di azione politica che fino ad allora era stata chiamata solo a pagare, a presentazione di rendiconto, le spese di iniziative prese all'infuori di essa; a quella azione pubblica doveva sostituirsene un'altra capace di assumere la responsabilità di compiere le scelte il cui costo essa avrebbe poi in ogni caso dovuto accollarsi".

Mentre i provvedimenti presi nel 1926 si ponevano quale obiettivo principale la tutela del risparmio, prevedendo una serie di vincoli alla concorrenza tra le banche ma mantenendo la libertà nell'impiego dei depositi, e solo successivamente trovarono attuazione alcuni interventi finalizzati a realizzare l'ordinamento del credito agrario e il riordinamento delle casse rurali e artigiani, la questione fondamentale che venne affrontata con la legge bancaria del 1936 riguardava gli strumenti che dovevano essere messi a disposizione dell'azione pubblica per operare in forma innovativa, nel senso di intervenire a disciplinare il credito per favorire un'azione di indirizzo delle attività creditizie.

Il passaggio da una pluralità di organi di vigilanza - il Ministero delle Finanze per la Banca d'Italia, per gli istituti di diritto pubblico e per le banche ordinarie, il Ministero dell'Agricoltura e delle Foreste per le Casse di Risparmio, le Casse rurali e Artigiane, i Monti di Pegno e l'erogazione del credito agrario, il Ministero delle Corporazioni per alcune specifiche competenze in materia - al già citato Ispettorato per la difesa del risparmio e per l'esercizio del credito, subordinato ad un comitato di ministri presieduto dal capo del governo, definì la portata del potere trasferito alla Banca d'Italia cui spettavano "vere e proprie funzioni di sovranità politica e amministrativa" su tutte le aziende di credito, comprese quelle di diritto pubblico, che, secondo un osservatore straniero, avrebbe trasformato l'Ispettorato, se tali funzioni fossero state integralmente utilizzate, "in un ente statale di fatto, anche se non di nome".

Di fatto lo strumento di maggiore azione coercitiva fu quello autorizzatorio. La richiesta di autorizzazione - per nuove sedi e filiali o per nuovi sportelli, per l'aumento di capitali o per le fusioni e cessioni di sedi e filiali - consentì di intervenire a fondo nella distribuzione territoriale delle banche raggiungendo, nel 1938, la punta massima di fusioni e cessioni. Gli interventi sull'accorpamento di banche interessarono, in modo particolare, quelle di dimensioni minori; la razionalizzazione degli sportelli si indirizzò, al contrario, verso le grandi banche di interesse nazionale. Nei fatti, la concentrazione bancaria fu uno dei principali effetti della legge del 1936: le banche scesero dalle 3.977 del 1926 alle 1.849 del 1937; gli sportelli passarono dagli 11.837 del 1926 ai 7.726 del 1936.

Nella riforma l'elemento più evidente, la distinzione tra aziende di credito e istituti a medio-lungo termine, è finalizzato non soltanto alla salvaguardia dei depositi, ma, soprattutto, alla creazione di un processo di stabilizzazione dell'intero sistema creditizio e di fondazione di nuovi circuiti finanziari nei quali il mercato delle obbligazioni, esercitato dall'Imi, dall'Icipu (Istituto di credito per le imprese di pubblica utilità) e dal Crediop, è destinato a sostenere settori particolari dell'economia. Nel medesimo tempo, veniva mantenuta, al di sotto degli istituti di credito a carattere nazionale, la gerarchia creditizia che rispondeva all'articolazione delle banche in relazione al territorio e alla categoria, espressione del tessuto economico e sociale del paese, salvaguardando, per questa via, il pluralismo bancario.

Lo stesso principio di "pubblicizzazione oggettiva del credito", contenuto nel primo articolo della legge e che riteneva di interesse generale la funzione del credito, presupponeva un modello di mercato regolato e "non è forse azzardato dire che le leggi generali bancarie del 1926, e soprattutto del 1936, determinarono la rifondazione delle regole della concorrenza monopolistica e il passaggio da un oligopolio di fatto ad un oligopolio legale". Nell'àmbito della pubblicizzazione oggettiva del credito andavano ricondotte la minuziosa casistica regolamentativa del funzionamento degli organi di controllo delle singole banche (Consiglio di Amministrazione e Collegio sindacale) e le disposizioni, contenute nell'articolo 30, che prevedevano l'obbligo, per gli istituti di credito aventi forma di società per azioni o di società in accomandita per azioni, di trasformare le azioni al portatore in azioni nominative.

Pur con l'obbligo della nominatività delle azioni, l'impresa bancaria, nelle sue diverse articolazioni, era assimilata alle altre imprese di natura capitalistica e gli interventi previsti dalla legge furono volti, in definitiva, a creare le condizioni di maggiore dinamismo e sicurezza dell'intero sistema creditizio-finanziario.


17. Le banche italiane nel secondo dopoguerra


Alla fine del secondo conflitto mondiale, l'Italia deve affrontare una situazione estremamente difficile, causata dalle necessità della ricostruzione, dell'inflazione e del cambio della lira. La stessa Banca d'Italia, con Luigi Einuadi governatore dal 1945 al 1948, anno in cui fu eletto primo presidente dalla nuova Repubblica succedendo al presidente provvisorio Enrico De Nicola, cambiò il direttore generale Niccolò Introna con Donato Menichella, proveniente dalla presidenza dell'Iri. Al di là delle motivazioni politiche che avevano consigliato la sostituzione - Introna era troppo compromesso per il suo passato fascista - , Menichella forniva tutte le necessarie garanzie per guidare la riorganizzazione della banca centrale ed a mantenere in equilibrio i rapporti tra l'intervento dello stato e l'attività dei privati durante la delicata fase della ricostruzione.


La ricostruzione (1945‑55)


Il meccanismo che a partire dal 1938 e poi durante la guerra consentì alle banche di rafforzarsi fu denominato «circuito di capitali». Lo Stato pagava le spese di guerra con emissioni di moneta, di cui le imprese si servivano per pagare fornitori e lavoratori. La stampa di biglietti spingeva i prezzi in alto, ma la scarsa disponibilità di beni di consumo creava una sovrabbondanza di moneta, che si rifugiava nelle banche. Le banche a loro volta sottoscrivevano titoli di Stato che andavano a coprire le spese di guerra. In questo modo la guerra fu finanziata con un aggravio fiscale in proporzione modesto, mentre, almeno per un certo periodo, l'inflazione fu contenuta entro limiti tollerabili. Alle banche il meccanismo permetteva di investire denaro al tasso pagato dallo Stato, che era superiore a quello corrisposto ai risparmiatori. Inoltre, mentre nella prima guerra mondiale c'era stato uno sviluppo reale delle forze produttive attraverso investimenti che assorbivano risparmio, durante la seconda le imprese sfruttarono le capacità produttive esistenti. Così poté accadere che nel 1945 i depositi fossero aumentati di sette volte rispetto al 1938 e gli impieghi solo di tre volte. La differenza veniva depositata dalle banche presso il Tesoro o la Banca d'Italia.

Con la sconfitta, l'occupazione e la divisione in due del paese il circuito di capitali si interruppe. Ci fu una esplosione improvvisa di inflazione, alimentata dalle emissioni di carta moneta degli Alleati al sud, che non poteva essere assorbita da un territorio economicamente arretrato, in cui la produzione industriale era inesistente e l'agricoltura dominante aveva buon gioco nello spingere i prezzi in alto. Nel territorio occupato dai tedeschi al nord la spinta inflazionistica fu minore, perché maggiore l'assorbimento della moneta per i consumi e. la produzione. Per tutto questo periodo l'indebitamento fu la fonte principale di finanziamento dello Stato, dato lo sconquasso del sistema tributario.

Tra il 1945 e il 1946 la causa predominante di inflazione fu la quantità di moneta emessa. Si ebbe una sosta nella prima metà dei '46, con la ripresa della produzione, ma nella seconda metà l'inflazione riprese slancio, quando la domanda cominciò ad esercitare una pressione sui mezzi di pagamento disponibili. Era la classica inflazione da domanda. Questa domanda poteva essere fronteggiata o attraverso il risconto presso la Banca d'Italia, con conseguente nuova emissione di moneta ed il naturale aumento dell'inflazione, o con la restrizione del credito. Fu scelta quest'ultima via, imponendo alle banche la riserva obbligatoria di una parte dei depositi.

Per compensare la restrizione del credito che in alcuni settori industriali si rivelava molto pesante, si fece riscorso ad interventi pubblici attuati attraverso sezioni speciali presenti nelle banche maggiori, come la Banca Nazionale del Lavoro, gli Istituti centrali delle Banche popolari e delle Casse di risparmio, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia.

A partire dal 1946, la struttura del sistema creditizio è ormai consolidata e tale rimarrà sino all'inizio degli anni '90. Proviamo a recapitolare.

Le grandi banche che erano state protagoniste dello sviluppo erano diventate Banche di Interesse Nazionale (BIN), di proprietà dell'Iri. Gli altri istituti di credito ordinario ammontavano, nel 1946, a 1067. Di questi, 844 avevano, in tutto, 882 sportelli, quindi un mercato assai ristretto; 79 era ditte bancarie; 144 con 1621 sportelli erano banche vere e proprie sotto forma di società per azioni, in grado di compiere tutte le operazioni consentite dagli statuti.

Gli istituti principali erano la Banca di America e d'Italia, la più grande banca di proprietà estera in Italia, costituita dalla Bank of America di Amedeo Giannini; la Banca Nazionale dell'Agricoltura; il Credito Romagnolo; la Banca Cattolica del Veneto, risultante dalla concentrazione delle banche cattoliche sopravvissute alla crisi.

Le Casse di risparmio, organismi in cui la tradizione aveva un peso notevole, si trovavano invece ancora in una fase di riorganizzazione dopo i profondi mutamenti normativi intervenuti negli anni Trenta. Subito dopo la guerra furono autorizzate ad esercitare praticamente tutte le forme di attività bancaria, per cui diventarono banche a tutti gli effetti. Le Casse erano particolarmente forti in Lombardia, Piemonte, Veneto, Lazio ed Emilia e la Cassa più importante. ed uno dei maggiori istituti di credito italiano, era la Cassa di Risparmio delle Province Lombarde.

Gli istituti di diritto pubblico possedevano, diversamente dagli istituti di credito e dalle banche di interesse nazionale, la facoltà di fare anticipazioni agli enti pubblici Gli istituti di diritto pubblico erano: il Banco di Napoli; il Banco di Sicilia; il Banco di Sardegna, costituito nel 1946, unicamente per dare alla regione uno strumento di prestigio; la Banca Nazionale del Lavoro, che abbiamo già visto svilupparsi rapidamente: il Monte dei Paschi di Siena e l'Istituto San Paolo di Torino. Gli ultimi due erano istituti di origine locale, legati alle attività di beneficenza, che si erano allargati al punto da richiedere una normativa più stringente, per cui erano stati portati sotto il controllo dello Stato.

L'Istituto San Paolo aveva preso le mosse nel 1579 da un Monte di Pietà. Assunse l'attuale denominazione nel 1928 quando si fusero insieme le diverse sezioni delle Opere della Compagnia di San Paolo. Partecipò al salvataggio della Banca Agricola Italiana rilevandone gli sportelli in Piemonte e Liguria. Nel 1932 era stato dichiarato istituto di diritto pubblico.

Il Monte dei Paschi era sorto nel 1624 per iniziativa della città di Siena per finanziare le attività agricole dei proprietari terrieri, e per lungo tempo la sua attività di gran lunga prevalente era stata il credito agrario e fondiario. Era diretto da un consiglio di otto membri, quattro nominati dal Comune di Siena, uno dalla Provincia di Siena e tre dal governo.

Le Banche Popolari erano cooperative che esercitavano il credito. A poco a poco molte di esse erano andate perdendo il carattere cooperativo, per diventare delle vere e proprie società per azioni, godendo però di agevolazioni particolari in funzione dei loro carattere originario. Nella prima metà del secolo se ne erano costituite in gran quantità, seguendo l'espansione della cooperazione che si era avuta nel periodo giolittiano, ma anche per esse si era resa obbligatoria una concentrazione.

Infine, le Casse rurali ed artigiane esercitavano il credito agrario e il credito all'artigianato. La loro incidenza nel sistema era scarsa, ma localmente avevano un peso notevole.

Caratteristiche del sistema erano la frammentazione e l'impatto dello Stato. I due terzi dei depositi erano presso le banche di interesse nazionale, gli istituti di diritto pubblico e le Casse di risparmio. Nell'orbita privata si muovevano soltanto le banche di minori dimensioni e le popolari. La grande banca era soltanto pubblica. La crisi era stata superata, ma con una estensione imprevedibile del potere statale.


La politica monetaria della Banca d'Italia


La politica monetaria della Banca d'Italia di Menichella fu fondata su una scelta ben precisa e perfettamente consapevole: la stabilità per lo sviluppo. Non tentò nessuna manovra monetaria espansiva per accelerare lo sviluppo, ma nello stesso tempo manovrò accortamente la liquidità in funzione dell'economia reale in modo da non creare mai delle strette creditizie. In tal modo il tasso d'inflazione in Italia potè essere in quel periodo tra i più bassi del mondo e l'aumento della circolazione monetaria assai contenuto. In queste condizioni il credito poteva espandersi senza creare tensioni inflazionistiche e finanziare l'economia reale perché il fabbisogno pubblico diminuiva. La formazione di moneta fu abbastanza sostenuta. Meníchella non cedeva all'astratto rigorismo e riconosceva la funzione di volano del risparmio non solo per gli investimenti, ma anche verso il fabbisogno statale. Per lui il sistema doveva fornire alle imprese economiche tutti i mezzi finanziari che poteva dare. E una parte delle disponibilità bancarie poteva benissimo essere convogliata verso il Tesoro, perché l'eventuale disavanzo non poteva essere coperto che dal risparmio, a meno di ricorrere alla stampa dei biglietti.

Tutto ciò era reso possibile dal fatto che l'indebitamento dello Stato per tutto il periodo di tempo in cui Menichella fu governatore, non superò l'1 % del prodotto interno lordo, e quindi non c'era bisogno di rastrellare risparmio privato. Quando questa situazione comincerà a cambiare, nel 1964, l'intero sistema finanziario sarà messo a dura prova.

Quello fu quindi il periodo di più tranquilla gestione del credito, in cui le banche ordinarie esercitarono in modo assolutamente prevalente il credito ordinario, diversamente dall'età giolittiana, quando il processo di accumulazione delle imprese era stato realizzato con una loro forte presenza. Nel secondo dopoguerra le imprese hanno meno bisogno di ricorrere alle banche, perché fanno più profitti. Mentre la prima guerra mondiale aveva lasciato le imprese in rovina, nel periodo tra le due guerre le grandi imprese, grazie all'appoggio del governo fascista, alla politica di bassi salari da questo praticata, ed alla protezione ricevuta durante la grande crisi, avevano potuto consolidarsi. Il prezzo pagato era rappresentato dal controllo pubblico, esercitato dall'Iri, nei confronti di una parte del sistema bancario.

La struttura industriale era dominata da poche grandi imprese, che con la riforma bancaria del 1936 erano state liberate dal controllo delle banche, e in questo senso si può dire che la linea di Beneduce aveva portato a capovolgere il rapporto. Le grandi imprese cercavano mezzi di finanziamento al di fuori del circuito bancario, almeno di quello diretto, e li trovarono in un primo momento ricorrendo all'uso delle obbligazioni, per cui si indebitavano direttamente con i risparmiatori. Le banche intervenivano solo come intermediarie, per collocare le obbligazioni presso i propri clienti.

C'era però un elemento di continuità con il primo decennio del secolo. L'Italia continuava ad essere un paese contadino, e il risparmio continuava ad essere restio ad essere investito nel capitale dì rischio delle imprese. Nel 1955 la parte dei capitale nel passivo delle imprese era fortemente diminuita, ed i debiti, che ne rappresentavano più della metà, erano, in parte significativa, a breve termine. Anche nel periodo giolittiano le imprese erano indebitate con le banche ed a breve termine, spesso sotto forma di sconto oltre che di apertura di conto corrente, perché il mutuo a medio e lungo termine non era praticato. Il cambiamento stava nel fatto che le banche non controllavano più le imprese, ed in cambio non avevano più immobilizzi che diventavano pericolosi per i risparmiatori, quando il loro destino era troppo legato a quello delle imprese, come l'esperienza aveva dimostrato. La debolezza del mercato dei capitali non era molto cambiata.

Quel che c'era di diverso era appunto l'economia reale, e questo permise di superare le contraddizioni della riforma bancaria. La struttura finanziaria delle imprese aveva subito una notevole trasformazione per gli eventi bellici. Il capitale versato si era ridotto notevolmente, mentre aumentavano i debiti, ed il problema del capitale di rischio era perciò aperto. Tutte le imprese vi avevano fatto fronte aumentando l'autofinanziamento e non distribuendo i profitti, aiutate anche dal fatto che l'inflazione aveva permesso di ammortizzare rapidamente immobilizzazioni il cui valore era ormai nominale. Si era potuta superare in questo modo la crisi di liquidità provocata dalla deflazione voluta da Einuadi. Ma ciò comportava implicazioni diverse secondo le dimensioni delle imprese: per le piccole e medie, dove il capitale coincide spesso con il patrimonio dell'imprenditore, alla necessità di capitale si faceva fronte con una riduzione delle somme disponibili per l'uso personale, caso classico di astinenza capitalistica, mentre nel caso delle grandi imprese per mantenere i profitti all'interno dell'impresa si riducevano i dividendi.

Torna così una caratteristica del sistema italiano di finanziamento delle imprese: la bassa remunerazione del capitale azionario. Non si creavano però tensioni fra l'impresa e gli azionisti e ciò perché il basso livello dei dividendi veniva compensato da distribuzioni gratuite di azioni: i profitti trattenuti sotto forma di fondi di conguaglio venivano redistribuiti utilizzando questi ultimi per gli aumenti di capitale. Nella grande impresa, attraverso le partecipazioni incrociate e gli accordi di gruppi familiari, imperava un sistema di potere che toglieva alle assemblee degli azionisti ogni facoltà di decidere. I grandi azionisti venivano compensati col capitale, i piccoli, che consideravano il proprio risparmio come fonte di reddito e quindi erano interessati ai dividendi, rimanevano a bocca asciutta. Il mito del capitalismo popolare, del piccolo risparmiatore che investe nella grande impresa i propri risparmi, non si diffondeva nell'economia italiana che continuava ad essere dominata da gruppi ristretti.


La grande trasformazione (1955-1973)


Tra il 1955 e il 1964 in Italia si compie una trasformazione profonda, e non si tratta soltanto dei cambiamenti avvenuti nell'economia. In realtà è questo il periodo in cui il paese diventa moderno nel vero senso della parola. Sul piano economico vi contribuì un insieme di circostanze che cooperavano per spingere nella stessa direzione, caso abbastanza raro, che aiuta a comprendere la rapidità della trasformazione. Stabilità monetaria, rapida crescita di una imprenditorialità in termini che non si erano mai riscontrati prima nella storia del paese, integrazione rapida e crescente in una economia internazionale in espansione, una politica di apertura al libero commercio e un cauto ma reale spostamento verso politiche di sostegno della domanda attraverso la spesa pubblica, erano tutti fattori concomitanti.

Particolarmente significativa, anche se le ricadute maggiori sul sistema del credito si avranno assai più tardi, è l'apertura al mercato internazionale che apre nuovi orizzonti al sistema bancario per l'inserimento dell'Italia nel mercato mondiale. Fin dalla loro origine le grandi banche disponevano di una rete di filiali all'estero. Particolarmente ricca era la struttura della Comit, e si è visto come il Banco di Roma avesse appunto puntato sull'estero per trovare uno spazio che in Italia le altre due grandi banche le chiudevano. La funzione di queste filiali era di sostenere la presenza commerciale italiana all'estero, attraverso la conoscenza del mercato e la costituzione di rapporti di affari con la finanza delle piazze commerciali dove erano più presenti gli italiani, particolarmente nel Sud America. In una certa misura questa funzione comincia a cambiare in quel periodo.

Ma è dall'interno, dall'economia reale, che le banche traggono una forza che le collocherà in modo nuovo, e permetterà di accantonare il ricordo delle crisi. Protagonista del miracolo fu la grande impresa, pubblica e privata. Nelle grandi imprese si verificò il massimo dell'espansione dell'occupazione industriale, mentre i settori che si sviluppavano più rapidamente erano quelli ad elevata intensità di capitale e quelli dei beni di consumo durevole: acciaio, automobili, chimica, energia elettrica.

Il tasso di accumulazione del capitale raggiunge in quel periodo livelli che rimarranno insuperati per sempre. La fonte principale era l'autofinanziamento. L'espansione della produzione nei settori ad elevata intensità di capitale creava le condizioni per una riduzione di costi unitari del prodotto, perché aumentando il volume della produzione aumentava la produttività. Gli incrementi di produttività che si ottenevano con questi elevati investimenti di capitali erano tali da consentire insieme elevati profitti ed aumenti di salario che andavano a sostenere la domanda per quel tipo di beni. Profitti elevati si traducevano in elevate possibilità di autofinanziamento, e le imprese da un lato disponevano di maggiori fondi propri, dall'altro erano più solvibili nei confronti del sistema creditizio.

Cosi, l'autofinanziamento copriva una parte assai rilevante degli investimenti fissi, e il credito poteva finanziare con poco rischio l'attività corrente. La combinazione rese possibile il sostegno dell'elevatissima domanda di capitale di quel periodo, e quindi una espansione senza precedenti dell'occupazione. L'espansione dell'inizio dei secolo era stata effettiva ma assai rischiosa e concentrata in alcuni settori. Ora, invece, la crescita investiva l'intera economia, e le banche si muovevano su un terreno assai più sicuro.

Dove l'autofinanziamento non era sufficiente interveniva il credito a lungo termine, attraverso le obbligazioni, o il ricorso agli istituti specializzati nel finanziamento a lungo, istituti che a loro volta si finanziavano con obbligazioni. Mediobanca, dopo aver superato la fase di lancio, diventa la più forte organizzatrice del collocamento di obbligazioni e di aumenti di capitale. Nel credito a lungo termine invece la parte predominante era quella dell'Imi e degli altri istituti che vennero definiti speciali.

Questi riunivano quasi il 90% della raccolta a medio e lungo termine, costituita da obbligazioni, mentre Mediobanca si finanziava con risparmio vincolato, raccolto dai suoi azionisti, cioè dalle tre Banche di Interesse Nazionale. Ma l'istituto diretto da Enrico Cuccia aveva ben chiaro che bisognava accoppiare l'esercizio del credito industriale con l'attività della banca d'investimento, e che questo era possibile soltanto al disopra di una certa dimensione. Comincia così a delinearsi la funzione di Mediobanca come punto di riferimento delle grandi imprese italiane. Ma una funzione particolare comincia ad avere Mediobanca verso una delle più importanti imprese italiane, la Montecatini, che si trova in gravi difficoltà per mancanza di una strategia coerente. Mediobanca non solo sostiene gli aumenti di capitale, ma assume partecipazioni in proprio in misura crescente. Si inizia un rapporto che porterà alla costituzione di Montedison, episodio centrale per la struttura del capitalismo italiano.

Per l'Imi e gli altri istituti il compito era più semplice. L'Imi era ormai l'istituzione prevalente tra gli speciali; lavorava con le sezioni di credito speciale, con l'intervento di fondi pubblici e con quelli raccolti da obbligazioni. La Banca d'Italia favoriva il ricorso alle obbligazioni da parte dell'Imi perché questo corrispondeva all'antico disegno di Menichella di separazione tra credito ordinario e credito di investimento, separazione che doveva avvenire attraverso la differenziazione netta delle fonti di finanziamento, i depositi per il primo e l'indebitamento a lungo attraverso le obbligazioni per i secondi. Così la Banca d'Italia si sforzava di mantenere bassi i tassi, in modo che non si accrescesse di molto l'onere per le imprese.

Alle banche il risparmio continuava ad affluire, ma lo sviluppo era talmente accelerato da richiederne un volume crescente. Le banche cominciarono quindi a farsi concorrenza tra di loro, offrendo tassi passivi più alti per accaparrare un maggior volume di risparmio, finché nel 1963, per iniziativa in gran parte di Imbriani Longo, che aveva preso il posto di Osio alla Banca Nazionale del Lavoro, non formarono un vero e proprio cartello per regolare i tassi attivi e i tassi passivi. Il cartello non aveva alcun valore legale e finì per diventare un argomento di contestazione, ma nel complesso funzionò, e contribuì a mantenere a buon mercato l'erogazione del credito.

Il dato più rilevante di quel periodo fu l'ascesa della Banca Nazionale del Lavoro, che diventò nel 1964 la prima banca italiana e la nona del mondo per volume di attivo. Ciò era dovuto certamente alla sua attività di espansione, ma il fattore determinante era il fatto che la BNL era privilegiata nel servizio di cassa degli enti pubblici e degli enti di gestione delle partecipazioni statali.

Nel quadro di veloce ma ordinata espansione del credito non potevano mancare le crisi, ma queste erano più che altro incidenti di percorso. Il numero delle banche continuò a ridursi: tra il 1937 e il 1974 ne sparirono oltre mille, ma nel decennio precedente ne erano scomparse duemila. Nella maggior parte dei casi si trattava di banche popolari e casse rurali, che vennero assorbite da altre banche similari, o da istituti più rilevanti, che in questo modo potevano realizzare, a basso costo, una politica di espansione della presenza nel territorio. Nel 26% dei casi si fece ricorso alla liquidazione. Tra il 1959 e il 1968 cinquantasei banche caddero in crisi, ma per tutte si evitò il trauma della liquidazione.

Nel complesso questo fu il periodo che dopo fu chiamato da qualche giornalista di pax bancaria. Se le banche ebbero una funzione indubbiamente importante in tutta la fase di espansione dell'economia, non si può dire che ne avessero colto appieno tutte le implicazioni. Le tre BIN e la BNL, in pratica una manciata di istituti di maggiori dimensioni, avevano chiara abbastanza la visione di quella che poteva essere la funzione del credito ordinario in quel particolare momento. Si sforzavano quindi di seguire l'andamento dell'economia e regolare in conseguenza l'erogazione del credito, anche preoccupandosi di allargare un po' i cordoni della borsa nei momenti negativi della congiuntura. Gli istituti minori, le Casse di risparmio, gli stessi Istituti di diritto pubblico erano legati ad una concezione arretrata, divenuta un dogma dopo la crisi del '29, di una richiesta di garanzie talmente sicure, da rendere spesso impossibile la concessione del credito. La piccola e media industria soffriva particolarmente di questo stato di cose. Quando l'onda del miracolo si esaurirà le banche andranno alla ricerca di impieghi e diventeranno più generose con le imprese minori.

Il miracolo si arrestò bruscamente nel 1964. Il periodo che seguì ne conservò alcune apparenze ma in realtà fu molto diverso. Il reddito continuò a crescere, e a un ritmo soddisfacente, ma il dato saliente fu la caduta dei tassi di accumulazione. L'incremento del reddito seguiva in misura crescente i consumi e diminuiva la disponibilità delle risorse destinate agli investimenti. Consumi ed esportazioni vennero ad assumere la funzione trainante, che durante il miracolo era stata rivestita dagli investimenti. Produttività e produzione rallentarono, l'espansione dell'occupazione crollò. Malgrado il rallentamento dello sviluppo l'inflazione restò di poco superiore a quella di un periodo che pure aveva visto nel '63 la prima impennata dei prezzi dopo la grande inflazione del dopoguerra.

L'inversione di tendenza non fu graduale, ma operata con un taglio netto. Nel '63 la congiuntura italiana manifestò sintomi di surriscaldamento nell'andamento dei prezzi e nel rapporto tra impieghi e depositi bancari. Si prese spunto da questi dati per lanciare un grido di allarme, richiedendo che la domanda fosse messa sotto controllo. Vi contribuirono fortemente ragioni squisitamente politiche, perché si era appena costituito il governo di centro‑sinistra e la parte più conservatrice della DC voleva attenuare la portata dell'accordo politico. Guido Carli, che nel 1961 era succeduto a Menichella come governatore della Banca d'Italia, assunse un ruolo di primo piano facendosi portavoce dell'iniziativa.

Prende corpo così uno dei paradossi della situazione italiana. Nel rapporto tra governo e banca centrale, i banchieri centrali di tutto il mondo hanno sempre cercato di difendere la propria autonomia contro le aggressioni dell'esecutivo. In Italia si era consolidata una tradizione di intesa cordiale tra Stato e banca, instaurata da Stringher, rafforzata da Beneduce, che però volle sempre rimanere formalmente estraneo alla Banca d'Italia, pur determinandone la politica, politica continuata da Menichella.

Con Carli la situazione comincia a capovolgersi. Lo Stato vede ridursi costantemente le proprie disponibilità perché non riesce a controllare l'aumento della spesa corrente; ciò porta ad una rigidità crescente del bilancio che diminuisce le possibilità di intervento, e quindi la politica monetaria diventa l'unica politica possibile. Ma questa si trovava nelle mani della Banca d'Italia, dandole un grande potere. Per oltre un decennio questa è stata la situazione, con gli uomini politici che discutevano volentieri della necessità per il governo di emanciparsi dalla tutela della Banca d'Italia, senza trovare una via di uscita.

Il primo manifestarsi della funzione politica della Banca d'Italia fu il complesso di misure decise dal governo. La natura dei provvedimenti ripeteva quella della manovra einaudiana del'47: forte stretta sul credito e misure suppletive per contenere i consumi. La Banca d'Italia, che non si era accorta di nulla e poco più di un anno prima aveva allentato le briglie, consentendo una diminuzione delle riserve obbligatorie ed un aumento dell'indebitamento sull'estero, dette alle banche la direttiva di ridurre l'esposizione verso l'estero e contemporaneamente di ridurre il rapporto tra impieghi e depositi. Il credito al consumo venne ristretto, e si istituì una imposta sull'acquisto di auto; si aumentò l'imposta sulla benzina, per la prima volta in quella che sarà una lunga serie di aumenti.

Quello che era stato utile nel'47 non poteva funzionare allo stesso modo in un'Italia cambiata. Allora, alla stretta e all'arresto dell'inflazione aveva fatto seguito una ripresa degli investimenti e un tasso di accumulazione che era andato ben oltre le esigenze della ricostruzione, per iniziare un nuovo sviluppo.

Dopo la stretta del '64 accadde esattamente il contrario: il tasso di accumulazione cadde verticalmente. La stretta sul credito, che colpiva in primo luogo gli investimenti, non aveva nemmeno quegli effetti secondari di premere sulla liquidità dei privati che avevano consentito di riavviare gli investimenti fin dal '48. Diversamente dal 1947, era possibile allora una politica diversa.

Con il '64 molte cose cominciano a cambiare. Nelle imprese la strut tura dei finanziamenti si deteriora rapidamente: diminuisce fortemente l'autofinanziamento, malgrado il blocco dei salari, la quota del capitale diminuisce e aumentano fortemente i debiti a breve ter­ mine. La ragione era data dalla sfiducia sulle prospetti­ve di sviluppo, e quindi non si volevano prendere impegni a lungo termine. Per questo, quando verrà l'inflazione, le imprese pagheranno un conto molto salato. La «filosofia» del finanziamento a medio termine come cerniera tra l'indebitamento per la gestione e il consolidamento attraverso il mercato dei capitali e l'indebitamento a lungo termine, non poteva più funzionare nelle nuove situazioni.

La Banca d'Italia fece in modo che le banche assumessero nel proprio portafoglio obbligazioni degli istituti speciali, mettendo in atto quella che si chiamò doppia intermediazione. Con questo sistema, il risparmio affluiva nelle banche sotto forma di depositi, ma prima di passare agli impieghi veniva di nuovo intermediato attraverso le obbligazioni degli istituti speciali, che eseguivano gli impieghi. Quanto alle situazioni di crisi delle imprese, in assenza di un ordinamento adeguato, si poteva sopperire solo con l'ingegneria finanziaria, cioè escogitando fusioni, concentrazioni, manovre con emissioni di titoli, che avessero come risultato finale un alleggerimento della situazione finanziaria.

Altro dato strutturale carico di conseguenze, comincia a crescere l'indebitarnento dello Stato, che per tutto il periodo di Menichella, non aveva superato l' l% del prodotto interno lordo. La restrizione del credito si applicava quindi all'economia reale, ma non allo Stato. Si sviluppa così una funzione particolare delle banche nei confronti dello Stato, per cui le prime raccoglievano i risparmi per poi investirli in titoli di Stato, che erano titoli di credito. Questo fenomeno c'era da sempre perché le banche, soprattutto le piccole, investivano massicciamente in titoli di Stato, anche al di fuori di obblighi di riserva. Quello che cambiava era il volume che la doppia intermediazione aveva assunto in rapporto al totale del risparmio, e questa era responsabilità dello Stato, non del sistema bancario che dall'operazione non faceva altro che trarre utili, per l'interesse mediamente più elevato dei titoli pubblici.

Il fattore trainante dell'economia italiana fu dato dalle esportazioni. I salari continuavano ad essere più bassi mediamente di quelli europei, e questo rafforzava la competitività dell'industria italiana; si sfruttavano al massimo gli impianti esistenti e si cercava di immobilizzarsi il meno che fosse possibile, finanziando tutto col credito a breve termine. Le banche seguirono la situazione. Gli istituti speciali e Mediobanca cominciarono ad investire fortemente nel credito all'esportazione che raggiunse una quota notevole degli impieghi; le banche di credito ordinario intensificarono l'assistenza finanziaria alle operazioni commerciali sull'estero.

Una maggiore presenza all'estero incentivò cambiamenti qualitativi. Le filiali estere diventavano spesso società autonome, controllate dalla banca madre, seguendo l'esempio delle concentrazioni industriali‑finanziarie internazionali. Queste società controllate si insediavano nei paradisi fiscali, dove i controlli sulle banche erano praticamente inesistenti, e cominciavano a fare affari in proprio, operando sul mercato del credito, sui cambi, sulle anticipazioni.





Scandali e lottizzazioni


Non è solo la situazione economica a cambiare con la fine del miracolo. Cambiano anche i rapporti politici, e cambia anche la posizione del sistema dei credito nei confronti del potere politico. Con i governi di centro‑sinistra, a poco a poco, lentamente ma inesorabilmente, si arriva alla grande lottizzazione di buona parte del sistema bancario.

È evidente che un rapporto tra banche e politica è insopprimibile, perché l'esercizio della raccolta e del credito è troppo intrecciato con l'organizzazione sociale, e quindi interferisce continuamente con le funzioni dello Stato. Nella tradizione italiana questo rapporto è stato più intenso che altrove. La funzione di Cavour nella formazione della Banca Nazionale era palese; i legami tra il Banco di Roma e il Vaticano, della Banca di Sconto con Nitti, erano un dato di fatto; la Banca Romana aveva pagato politici perché chiudessero gli occhi sulle illegalità. Però le pressioni non andavano oltre un certo limite e i grandi salvataggi bancari della prima metà del secolo XX erano stati condotti sempre in modo da tutelare interessi che stavano a cuore al potere politico, si trattasse di imprese o di imprenditori, ma non in funzione del puro e semplice potere.

Con Beneduce era emersa una linea generale di relativa indipendenza del sistema bancario, e gli istituti di diritto pubblico non servivano, almeno oltre un certo limite, da strumenti di potere. Quanto alle banche di interesse nazionale, controllate dall'Iri, poterono sempre godere di ampia autonomia, aiutate dal fatto che i loro statuti prescrivevano che i dirigenti venissero dall'interno delle banche stesse.

A partire dagli anni Settanta invece le banche cominciarono a diventare strumento diretto di potere. Le prime ad essere investite dalla lottizzazione furono le Casse di risparmio, data la dipendenza dal governo. Per lungo tempo erano state controllate da democristiani; ora la presenza dei socialisti al governo richiede che anche a questi si faccia spazio. La lottizzazione comportava uno spostamento di rapporti di forza all'interno delle amministrazioni di ogni istituto ed un sistema di preferenze nell'erogazione del credito. Fatalmente portava con sé la degradazione della funzione. La pressione dei politici ebbe conseguenze dirette sulla concessione dei crediti, dato che si cominciò a discriminare nell'esame delle garanzie. I dirigenti venivano lasciati in carica oltre la scadenza per poter cumulare pacchetti di nomine e contrattare meglio.

La qualità dell'attività cominciò quindi a scadere. Anche gli istituti di diritto pubblico mostrano debolezze e crepe. I dirigenti si sentono protetti politicamente, perché rendono servizi ai partiti dominanti, e da questo traggono la convinzione della propria impunità. Mentre l'attività è ancora a livello alto il Banco di Sicilia viene coinvolto dal suo presidente in una speculazione che inghiotte cifre enormi, e il bilancio va in passivo. Analoga cosa succede per un anno al Banco di Napoli.

Da un rapporto privilegiato con il potere politico le banche ricevevano anche ricadute particolarmente negative. La Banca Nazionale del Lavoro era praticamente la cassa degli enti di gestione delle partecipazioni statali. Quando gli enti si videro offrire dalla concorrenza condizioni migliori di quelle che faceva la BNL, questa si trovò in serie difficoltà, e dovette intervenire il ministro del Tesoro per richiamare tutte le banche al rispetto dei tassi stabiliti con l'accordo di cartello. Ma la situazione non poteva durare e si arrivò alla decisione di concentrare nella Tesoreria dello Stato tutte le giacenze della pubblica amministrazione. Questo diminuì seccamente la forza della Bnl.

In questo clima si andava verso l'inflazione che doveva scuotere a fondo il sistema bancario.


L'inflazione (1973‑84)


Con l'inflazione ricominciarono le crisi bancarie e il rapporto tra banche e imprese divenne di nuovo critico. Al numero delle crisi certamente contribuirono lo scadimento del sistema e le decisioni delle imprese legate a certe scelte di politica economica generale, ma la ragione principale va cercata obiettivamente nell'ondata inflazionistica che colpì tutto il mondo a partire dal 1973.

A determinarla contribuirono cause di ordine diverso. La triplicazione del prezzo del greggio non poteva spiegare tutto. Si era conclusa una fase dell'espansione dei paesi industriali avanzati, in cui aumentavano reddito, investimenti, occupazione, volume del commercio mondiale. La produzione riusciva a seguire l'aumento della domanda e quindi si evitavano strappi inflazionistici grazie alla riduzione dei costi unitari. La caduta del saggio di profitto era compensata da un aumento dei profitti globali.

Il sistema cominciò a mostrare le prime incrinature nella misura in cui la domanda di certi beni cominciava a rallentare la sua crescita. La crescente intensità di capitale delle industrie irrigidiva i costi di produzione e limitava la possibilità di ridurre i prezzi. L'inflazione comincia così a radicarsi, alimentata anche da trasferimenti statali finanziati in misura crescente in disavanzo, a mano a mano che rallentava la crescita delle entrate fiscali. Inoltre il rafforzamento economico dell'Europa aveva portato ad un disavanzo della bilancia dei pagamenti americana. Quando la bilancia commerciale dei beni e servizi diventò anch'essa passiva, gli Stati Uniti imposero di fatto il sistema dei cambi fluttuanti e i vantaggi della stabilità sparirono rapidamente.

In questo quadro il colpo dei prezzi del petrolio fu particolarmente duro e l'inflazione ebbe una immediata esplosione. Essa colpì in misura maggiore paesi come l'Italia dove, tutto sommato, le strutture produttive erano più deboli. L'onere di combattere le conseguenze dell'inflazione sul tenore di vita ricadde interamente sullo Stato che si indebitava pesantemente.


La crisi di un sistema


Le conseguenze maggiori furono sul lato delle grandi imprese. Queste, dopo l'esaurimento dei miracolo e l'indebolimento dell'autofinanziamento, finanziavano i propri scarsi investimenti col debito, mentre gli istituti speciali, per il credito a lungo termine, si finanziavano a loro volta, come si è visto, attraverso le obbligazioni. Era quindi interesse vitale per l'economia che i tassi di interesse fossero bassi, ed il governo fece di tutto perché lo restassero. Ma tutti gli altri paesi li aumentavano e così si creò una fuga di capitali dalle banche italiane che provocò una caduta grave nel tasso di cambio. Per difendere la lira furono bruciate molta parte delle riserve in valuta della Banca d'Italia, e si dovette fare ricorso a misure drastiche per diminuire le importazioni.

Misure altrettanto drastiche furono prese per il controllo del credito. A parte l'autorità morale, rafforzata quando necessario dal potere politico (per intervenire sulle banche Stringher aveva avuto a disposizione solo il risconto), la legge bancaria del '36 dava ora amplissimi poteri al governo per stabilire tutti gli strumenti di intervento che credesse opportuni. Einaudi e Menichella si erano serviti della riserva obbligatoria come strumento per il controllo quantitativo del credito. Nel 1974 si passò al controllo diretto introducendo il vincolo di portafoglio e il massimale sull'espansione del credito. Col primo strumento si obbligavano le banche a detenere una certa percentuale di titoli pubblici, e di obbligazioni di enti pubblici, e di società private.

La doppia intermediazione era così istituzionalizzata. Col massimale si stabilivano i limiti di espansione del credito per un certo periodo rispetto alle consistenze iniziali, differenziandole per categorie. Ad esempio era concessa una maggiore espansione per i crediti di minore consistenza, in modo da favorire le piccole e medie imprese. Si arrivò a differenziare le percentuali di espansione anche per settore.

In presenza di inflazione, il finanziamento delle imprese diventò prevalentemente a breve termine. Emettere obbligazioni era difficile perché sarebbero state rimborsate con denaro svalutato. Le banche quindi concedevano scoperti a tassi crescenti per mettersi al sicuro da rischi. Il risultato fu un crescente onere delle imprese per gli interessi che mise in crisi i profitti. Le banche si trovarono quindi di fronte a un dilemma molto duro. Sospendere i finanziamenti avrebbe messo in crisi i propri crediti, e così, ancora una volta, fecero quello che avevano sempre fatto con le imprese in crisi: continuarono a finanziare a tassi sempre crescenti, che sulla carta consentivano profitti elevati. Questo però indeboliva tutto. Ci fu un periodo in cui l'indebitamento di cinque imprese copriva da solo l'intero patrimonio di tutto il sistema bancario.

Questa situazione fu fronteggiata grazie a un fattore nuovo, e a un espediente che doveva dimostrarsi disastroso. Il primo fu l'affermarsi della piccola e media industria che fu un elemento di profonda novità nell'economia italiana. Le banche aiutarono questo processo perché le imprese di minori dimensioni erano più solvibili e il loro indebitamento minore. Queste imprese salvarono la bilancia dei pagamenti italiana e diventarono l'elemento prevalente del sistema industriale italiano.

L'altra via fu seminata di errori e di illegalità, e fu un intervento dello Stato che, per salvare le banche e insieme le imprese, si fece carico delle situazioni più gravi, direttamente e indirettamente, con i sistemi più diversi. Si andò dall'acquisto della siderurgia Fiat da parte dell'Iri (la classica privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite), che non ne aveva alcun bisogno, al passaggio all'ENI di parte degli impianti Montedison, cosa che in sostanza equivaleva a una elargizione. Un aiuto notevole venne alle banche, particolarmente agli istituti di diritto pubblico ed a quelle più piccole dalla sistemazione della condizione finanziaria dei Comuni, per cui lo Stato si sostituì nei loro debiti, e attraverso una nuova legge per la finanza locale che aumentava notevolmente le disponibilità degli enti locali, rallentando la formazione di nuovo debito.

Alcune banche si trovarono in piena crisi e furono salvate con la collaudata ricetta dei rilevamento da parte di altre banche. Lo Stato sosteneva questi oneri continuando ad indebitarsi ma in misura tutto sommato ancora controllabile, grazie all'incremento delle entrate fiscali prodotto dal fiscal drag. Soprattutto fu aiutato dal fatto che le famiglie, malgrado l'inflazione, continuavano a risparmiare e investivano in titoli pubblici.

Il peso più grave della crisi ricadeva sulle imprese ad alta intensità di capitale che si erano finanziate con l'indebitamento. Gli investimenti dell'Iri nella siderurgia erano stati finanziati attraverso il debito. Quando il carico di interessi divenne insostenibile e non si trovavano banche disposte a fare altri finanziamenti, 1'Iri diventò dipendente dall'aiuto dello Stato che lo finanziava con i fondi di dotazione. L'ENI se la cavò meglio perché almeno disponeva di petrolio e soprattutto di gas che allora costava ben poco. Le società di gestione delle autostrade, che avevano previsto piani di ammortamento del debito a lunga scadenza, furono salvate facendole assorbire dall'IRI. Ma il caso più grosso di crisi che condusse sull'orlo della bancarotta due istituti speciali, l'Imi e l'Icipu, fu quello dell'industria chimica.

Fin dagli anni Cinquanta il progresso tecnologico aveva lanciato la domanda di prodotti petrolchimici. Su quest'industria si lanciarono la Montedison, forte degli indennizzi della nazionalizzazione dell'industria elettrica, l'ENI, ed un gruppo di affaristi che più che industriali erano speculatori, Rovelli e Ursini. L'industria richiedeva forti investimenti e perciò il Mezzogiorno, dove c'erano le agevolazioni sugli interessi, sembrò la sede più adatta. Le agevolazioni venivano concesse sulla base di un parere, rilasciato dal governo, sulla conformità alle direttive della politica industriale, e questo fu considerato dagli istituti pubblici una sorta di garanzia In sostanza era un'intesa, tacita, tra banche e potere politico. Furono erogati finanziamenti in misura ingentissima. Gli istituti ci guadagnavano perché attraverso la fissazione del tasso dei finanziamenti incassavano una parte delle agevolazioni.

Questo fece espandere oltre misura l'industria e si arrivò ad un vero e proprio eccesso di capacità produttiva. Quando sopravvenne l'aumento dei prezzo del petrolio, che aumentò il costo della materia prima, e l'inflazione, che abbassò la domanda e aumentò i costi per l'aumento dei tassi, il castello di carta crollò. La Montedison si trascinò a lungo nella crisi, ma sopravvisse fino a che non cadde nelle mani di Raul Gardini. L'ENI era forte, ma dovette accollarsi l'onere dei salvataggi. Le imprese speculative, la Sir di Rovelli e la Liquichimica di Ursini crollarono, dopo aver tentato la fuga in avanti di aumentare sempre gli investimenti per avere più soldi e pagare così i debiti precedenti.

Ciò rischiò di trascinare nella caduta i due fondamentali istituti pubblici per il credito a lungo termine, l'Imi e l'Icipu, che avevano largamente finanziato le due imprese. Il salvataggio avvenne attraverso un complicato sistema per cui, alla fine del 1978, si costituì un consorzio di creditori delle aziende, che consolidò i debiti e ne convertì una parte in capitale sottoscritto dagli istituti di credito. Nel consorzio fu coinvolta la Cassa Depositi e Prestiti e le aziende furono cedute successivamente all'ENI. Il bilancio dell'operazione lasciava comunque forti perdite a carico dei creditori, e perciò la trattativa per la costituzione del consorzio fu lunga e penosa. L'Imi poté riprendersi, grazie all'estensione della propria attività in nuovi campi; per l'Icipu invece non si trovò alcuna via di uscita e dovette essere fuso con il Crediop.

Nel disastro era stata coinvolta anche la Cassa Centrale delle Casse di risparmio, l'Italcasse, che era un feudo del potere politico democristiano. Oltre alla chimica, aveva finanziato i fratelli Caltagirone, industriali edili romani molto legati al potere politico che avevano fatto crack. L'Italcasse fu commissariato, e le Casse di risparmio dovettero ripianare le perdite.


Mediobanca e l'ingegneria finanziaria


In sostanza per il sistema bancario, scandali a parte, tutto era andato bene finché l'economia andava bene. Quello che non era capace di fare era contribuire a trovare soluzioni per superare le crisi, senza aver bisogno dell'intervento dello Stato.

L'eccezione era rappresentata dalla sola banca di affari italiana: Mediobanca. Cuccia costituì il vero punto di riferimento per tutte le grandi imprese italiane. Più che sui propri mezzi finanziari Mediobanca puntava sulla sua capacità di costruire soluzioni ad hoc. I suoi strumenti di intervento furono le emissioni azionarie e l'organizzazione del controllo attraverso i sindacati, le fusioni e i passaggi di proprietà.

Quando la Olivetti si trovò in crisi e la famiglia che deteneva il controllo non fu in grado di sostenere le perdite, Cuccia organizzò il nuovo azionariato di controllo con la partecipazione di Imi, Fiat, Centrale, Pirelli, oltre la stessa Mediobanca. Cuccia è il banchiere di fiducia della Fiat: tratta con i libici, per farli entrare e poi uscire dal capitale; fa partecipare Agnelli alla privatizzazione di Montedison che passava attraverso la cessione di una controllata di Montedison, la Gemina; porta la Fiat al controllo della Snia‑Viscosa, anch'essa sottratta a Montedison. Quando la Fiat si affiderà ad una banca di grande fama come la Deutsche Bank per un aumento di capitale non avrà un grande successo; sarà Cuccia, grazie a un gioco di emissione di obbligazioni convertibili, a risolvere i gravi problemi di finanziamento dell'impresa torinese.

Ancora di più Mediobanca fa con Pirelli, suggerendo la riorganizzazione del gruppo. La Pirelli era divisa in due linee parallele, che una complessa operazione trasformò in una cascata di società, che possono mantenere il controllo con un minore impegno di capitale.

Mediobanca era stata all'origine della scalata dell'Eni a Montedison, poi della privatizzazione della stessa impresa. Quest'ultima operazione fu condotta in modo assai elegante e dà un'idea dei modo di operare di Mediobanca. Montedison era controllata da una società pubblica la SOGAM, dove erano affluite le partecipazioni dell'ENI e dell'IRI. La Gemina era controllata da Montedison e fu ceduta ad un gruppo di imprese che oltre Mediobanca, comprendeva FIAT, Bonomi, Pirelli e Orlando; dopo di che procedette ad un aumento di capitale sottoscritto dal pubblico e collocato da Mediobanca, e con il ricavato rilevò la partecipazione della SOGAM in Montedison. L'operazione costò pochissimo alle grosse imprese.

Operazioni di questo tipo erano possibili solo se c'era una istituzione che ne garantiva con la sua immagine la riuscita, e questo fu appunto il ruolo di Mediobanca, che dimostrava di essere l'unica banca in Italia a possedere la tecnica di questo tipo di interventi.

Il punto di partenza del potere di Mediobanca è stata la cronica ritrosia dei risparmiatori ad investire nel capitale di rischio delle imprese. L'effetto era accentuato dalla concorrenza dello Stato che si indebitava in continuazione, dall'atteggiamento degli imprenditori che calpestavano regolarmente gli azionisti e dal fatto che la Borsa italiana era inconsistente. In assenza di capitale adeguato le imprese dovevano ricorrere ad espedienti, a quella che si chiamò l'ingegneria finanziaria, e Mediobanca forniva loro i mezzi. Più che una holding, come di fatto erano state le due grandi banche dell'epoca giolittiana, Mediobanca, almeno alla fine degli anni Ottanta, è una banca d'affari. Fa largo spazio all'attività di consulenza e assistenza e di ciò fa parte anche l'intervento sul capitale azionario. Questa attività si innesta però sulla solida base fornita dai finanziamenti: non si tratta di interventi speculativi, solo di compra e vendita di azioni. In questo modo Mediobanca consegue un potere reale, e si crea la condizione per cui non ci può essere operazione dì qualche.rilievo nel sistema delle maggiori imprese senza l'intervento di Cuccia.

Per Cuccia la separazione netta tra banca e impresa non aveva molto senso, anche se continuava a renderle omaggio formale. Probabilmente era una convinzione presente fin dalla costituzione della banca, assai diversa da quella della Comit che della separazione aveva fatto un dogma, ed è il persistere di questo dogma che ha bloccato ogni iniziativa concorrente, per cui Cuccia è rimasto solo a tenere il campo. Così Mediobanca si ritrova in una posizione nodale nel nuovo assetto che l'economia italiana assume negli anni Novanta, e che può essere portatore di imprevedibili sviluppi.


Quale futuro (1984‑95)


L'Italia fu l'ultimo tra i paesi maggiori ad uscire dall'inflazione a due cifre. Ciò si verificò, più che per ragioni interne, per effetto dell'evoluzione della situazione internazionale. L'uscita fu propiziata da due ordini di fattori: le politiche monetarie restrittive ma non selvagge, messe in atto dovunque, e la caduta del prezzo del petrolio, provocata dal calo della domanda e dall'entrata in produzione di nuovi giacimenti. La produzione riprese, la domanda mondiale aumentò, e l'Italia riprese le esportazioni, competitive grazie al fatto che i salari non aumentavano. Si mise in atto una politica monetaria più rigorosa, e la Banca d'Italia fu liberata dall'obbligo di finanziare in ogni caso il Tesoro. Inoltre, mentre tutti i paesi industrializzati procedevano ad una forte restrizione della domanda globale, in Italia la Banca d'Italia riuscì, manovrando le leve di controllo del credito, ad evitare che gli investimenti fossero particolarmente penalizzati come accadeva altrove.

L'inflazione era stata però in parte la causa scatenante, in parte l'effetto delle profonde trasformazioni strutturali che hanno investito il capitalismo occidentale, e le cui premesse si andavano accumulando da tempo.

Il dato essenziale è l'avvento della società dei servizi e del capitalismo finanziario. Per oltre un decennio, nei paesi industrializzati c'era stato un freno allo sviluppo delle forze produttive e il modello degli anni Cinquanta non funzionava più. Le imprese cercarono di ristabilire i margini di profitto aumentando la produttività e bloccando i salari. In queste condizioni il sostegno della domanda poteva avvenire soltanto attraverso l'espansione dell'occupazione nei servizi, ed il risultato fu una profonda trasformazione nella struttura sociale, con il prevalere dei servizi in tutti gli Stati di capitalismo avanzato.

Lo sviluppo del capitale finanziario era strettamente legato a questa trasformazione. Le famiglie diventavano la principale fonte di risparmio e quindi l'intermediazione finanziaria assumeva una funzione sempre più rilevante, fino al punto da creare una situazione in cui il profitto derivante dalle transazioni finanziarie diventava superiore a quello ricavabile dalla produzione. Si svilupparono quindi le transazioni puramente finanziarie, all'interno dei mercati dei vari paesi, ma specialmente nei rapporti internazionali. Oggi ogni giorno vengono scambiati oltre 1000 miliardi di dollari e solo il 3% di queste transazioni è riconducibile a scambio di beni e servizi.

Ciò sconvolgeva il vecchio modo di fare banca attraverso l'amministrazione dei prestiti e il rapporto con i depositi. Gli utili che le banche fanno sulle operazioni sul denaro, compra e vendita di titoli, intermediazione, operazioni speculative, vanno crescendo sistematicamente rispetto a quelli che si fanno con l'esercizio del credito, e questo vale non solo per le banche di affari, ma anche per le banche di credito ordinario. 454d39e

In Italia questo processo si è andato affermando, come è inevitabile, data l'integrazione ormai irreversibile col mercato mondiale, ma con ritardi e contraddizioni. L'ormai sistematico ricorso all'indebitamento delle imprese non poteva essere coperto soltanto dagli istituti speciali ed in conseguenza tutte le banche si trovavano, quale più quale meno, ad avere in misura rilevante crediti che di fatto erano a lungo termine. La responsabilità di questa debolezza non può essere accollata interamente alla legge bancaria, perché la struttura operativa delle banche italiane non era attrezzata per assolvere a questo compito e le banche si lasciavano trascinare con facilità in situazioni rischiose. Inoltre i loro costi operativi erano superiori a quelli della concorrenza internazionale. Ordinamento normativo e prassi operativa erano entrambi in grave ritardo rispetto alle nuove esigenze. In ritardo ancora più grande era la cultura del sistema, legata alla vecchia concezione ed incapace di valutare il rischio in termini nuovi, di mercato e di impresa, piuttosto che di garanzie, salvo dimenticarsene quando erano in gioco grosse imprese.

Ai pericoli di questa situazione si cercò di porre rimedio istituendo un fondo di assicurazione per garantire i risparmiatori contro l'insolvenza delle banche. La ricetta dell'assorbimento restava sempre valida, ma il fondo aveva il merito di diminuire un onere che altrimenti sarebbe indirettamente ricaduto sul bilancio statale.

Gli anni Ottanta e Novanta in campo internazionale sono stati assai ricchi di eventi. La finanza cercava sempre nuovi sistemi per realizzare profitti col maneggio di solo denaro. Per un certo periodo andarono di moda i servizi alle imprese, il leasing, cioè un sistema di finanziamento di investimenti per cui l'imprenditore pagava una specie di affitto dei mezzi di produzione, il factoring, acquisizione di prestiti per poi esigerli, ed altri sistemi. Nel 1995 la grande moda, che ha aumentato fortemente l'instabilità del sistema internazionale, è quella dei derivati, il commercio di titoli che non hanno un proprio valore nominale, ma derivato dal valore che acquistano altri titoli o altre grandezze, come le azioni, i tassi di interesse, i tassi di cambio, per cui la valutazione del titolo dipende dal fiuto e dal rischio, molto alto, dell'operatore.

La finanza italiana seguì sempre in ritardo. Si tentò di espandere il parabancario, cioè i servizi alle imprese, attraverso società controllate, ma ciò non dette grandi risultati. D'altra parte anche nel campo delle imprese mancarono gli stimoli al rinnovamento. Per un certo periodo, dopo la fine dell'inflazione, i margini di profitto aumentarono e l'autofinanziamento con essi, ma la tendenza all'indebitamento non è contraddetta e ricompare sistematicamente. Le imprese italiane rimangono finanziariamente deboli perché non hanno un volume di cash flow adeguato a sostenere i propri investimenti nel lungo periodo. Per fare in qualche modo quattrini le grandi imprese ricorrono a tutti i sistemi: costituzione di società a catena, continui aumenti di capitale che vengono divorati subito dalla gestione passiva, investono in titoli pubblici, speculano sui cambi, o ricercano nuove fonti di profitto nella formazione di concentrazioni in attività immateriali, come l'editoria, la pubblicità e la televisione. E tutto ciò rafforza ancora l'impatto del capitale finanziario sull'economia, ma il tasso di accumulazione, che viene valutato in termini reali in rapporto al prodotto interno lordo, continua a diminuire, incidendo soprattutto sulla formazione di capitale fisso sociale.

Il tentativo di adeguare l'ordinamento ai tempi nuovi è stato fatto, con risolutezza e cautela insieme, da Carlo Azeglio Ciampi. All'inizio degli anni Novanta il sistema ha una normativa del tutto nuova che ha soppiantato la legge bancaria del '36. E tutto ciò è avvenuto senza clamori e senza una adeguata partecipazione, senza dibattito, non diciamo del pubblico, ma nemmeno della cultura.

Si partì dall'esigenza di allargare il numero di soggetti abilitati ad agire sul mercato finanziario in relazione ai nuovi mezzi di sottoscrizione del capitale, come i fondi comuni di investimento. L'obiettivo era quello di sollecitare la partecipazione dei risparmiatori al capitale di rischio delle imprese, per rimediare alla cronica riluttanza dei risparmiatori italiani a sottoscrivere azioni. Si costituivano quindi le Società di Intermediazione Mobiliare (Sim) con facoltà di fare tutte le operazioni su titoli.

Una forte spinta venne dall'Unione Europea, in relazione alla libertà di circolazione dei capitali ed alla libertà di installazione delle banche nel territorio degli altri paesi dell'unione. La Commissione dell'Unione aveva emanato una direttiva che fu ratificata con un certo ritardo dall'Italia ma che portò ad innovare profondamente la struttura del sistema. Per prima cosa si stabilisce la libertà per gli istituti creditizi dei paesi dell'unione di installare sedi e filiali negli altri paesi, con le prerogative assegnate nei paesi di origine. La vigilanza dovrebbe essere esercitata dalle autorità del paese di origine, ma si prevedono eccezioni nei casi di interesse generale, peraltro mai definito.

La parte più rilevante della nuova legislazione era l'obbligo per gli enti creditizi di diventare società per azioni. Unica eccezione, le Casse rurali e artigiane, che diventarono Banche di credito cooperativo. Le Banche Popolari diventarono anch'esse delle società per azioni cooperative, per cui l'unico tratto distintivo era la denominazione del capitale. Le Banche di Interesse Nazionale erano già delle società per azioni, controllate dall'IRI. Le Casse di risparmio, gli enti pubblici e gli istituti di diritto pubblico, dovevano cambiare carattere, ma questo non significò che diventarono immediatamente delle società private. Per le Casse di risparmio si adottò l'espediente di costituire delle fondazioni di natura pubblica, che detenevano il controllo, in molti casi, della totalità del capitale della Cassa, trasformata in società per azioni. Per gli enti pubblici e gli istituti di diritto pubblico la soluzione fu l'assegnazione al Tesoro del capitale. Di fatto quindi la privatizzazione è ancora lontana.

Le banche venivano poste tutte sullo stesso piano per quanto riguarda gli interventi; scomparvero gli istituti speciali e tutte le banche furono autorizzate a fare tutte le operazioni; solo a fini statistici si cominciò a distinguere tra banche con prevalente raccolta a breve o a lungo, ma tutte possono raccogliere depositi o emettere obbligazioni.

Nei rapporti col capitale delle imprese si verificarono rilevanti mutamenti. Le banche furono autorizzate a mantenere partecipazioni in società non di credito fino ad una quota del 15% dei fondi propri di quella società, mentre l'insieme delle partecipazioni non può superare il 60% dei fondi propri della banca. Si cercava in questo modo di evitare che le partecipazioni fossero coperte dai depositi. La legge prevede eccezioni non meglio definite per le ristrutturazioni aziendali o situazioni temporanee, nonché deroghe per «circostanze eccezionali» per cui il limite, come è nella tradizione delle leggi bancarie italiane, è molto elastico.

Per quanto riguarda il capitale delle banche, ogni acquisto di azioni per un importo superiore al 5% del capitale deve essere autorizzato dalla Banca d'Italia e nessun socio può possedere più del 15% del capitale di una banca.




Le realtà di oggi


Il problema maggiore che le banche italiane devono affrontare oggi è quello della loro dimensione e della relativa consistenza patrimoniale. La sfida si colloca ormai ad un livello superiore, perché i competitori delle banche italiane sono partecipi del mercato italiano, e per resistere alla concorrenza occorre avere una dimensione adeguata. Da qui la spinta ad un processo assai intenso di concentrazione.

Il sistema bancario italiano rispetto a quello europeo è.più frazionato, con molte banche piccole, e poche altre di dimensione regionale. Le grandi banche sono partite all'assalto di quelle più piccole cercando anche di formare concentrazioni simili a quella di Mediobanca. Così l'Imi, trasformato in società per azioni, è conteso da banche di credito ordinario per poter completare l'organizzazione con la sua caratteristica di banca d'affari. Il Crediop, anch'esso privatizzato, è sotto il controllo dell'Istituto San Paolo di Torino, che è la banca con il maggior patrimonio in Italia.

Altre concentrazioni sono avvenute tra banche di credito ordinario, per usare ancora la vecchia denominazione. La più importante è stata la fusione a tre, di Banco di Roma, Banco di Santo Spirito, e Cassa di Risparmio di Roma. Essendo la fusione avvenuta prima della privatizzazione del Banco di Roma, l'IRI è rimasto azionista della Banca di Roma, come è stata denominata la risultante dell'operazione. La fusione ha evitato di restare ingabbiati in situazioni che potenzialmente presentavano pericoli, mettendo assieme una banca con solido patrimonio, come il Santo Spirito, con altre in cui i crediti in sofferenza erano non indifferenti. La Banca di Roma ha poi continuato l'espansione assorbendo la Banca Nazionale dell'Agricoltura, per cui occupa saldamente il secondo posto tra le banche italiane.

Il punto più debole della trasformazione del sistema bancario italiano è quello dei banchi meridionali. Tanto il Banco di Napoli quanto il Banco di Sicilia hanno dovuto registrare una cifra eccessiva di crediti in sofferenza, incagliati o addirittura inesigibili, ed una notevole debolezza nei mezzi propri, cosa che influisce pesantemente sui conti economici e sulla solvibilità. Lo Stato e, per il Banco di Sicilia, la Regione, non sono stati in grado, anche per le vicende politiche, di ricapitalizzare gli istituti, che versano in serie difficoltà. Non vi può essere contestazione sul fatto che la facilità nel concedere crediti, tipica dell'ambiente meridionale dominato dalla corruzione politica, ha esercitato un peso notevole. Per questi due istituti si può parlare di vera e propria crisi, e si pongono problemi di radicali trasformazioni.

A conclusione di questa rapida rassegna delle vicende del nostro sistema bancario, qualche considerazione.

La storia della banca italiana è una storia di improvvisazioni, ma sempre la storia va avanti in questo modo senza disegni preconcetti. Nella storia economica, la parte dell'improvvisazione è ancora più grande e pochissimi sono stati i protagonisti che avessero un progetto da realizzare e si battessero coerentemente per metterlo in atto. Certo si rimane colpiti dal fatto che le banche fanno sempre gli stessi errori. Le crisi si verificano sempre sulla rottura di un equilibrio tra le scadenze della raccolta e i tempi del credito. Quando vedono che i loro crediti diventano dubbiosi nella maggior parte dei casi continuano a finanziare nella speranza che la capacità finanziaria dell'impresa debitrice si riprenda. Qualche volta l'impresa riesce, nella maggior parte dei casi no, ed allora se la banca ha sufficienti mezzi propri porta a perdita il risultato, se è debole, entra in crisi a sua volta. Questo è il copione che si è ripetuto infinite volte, in Italia e all'estero.

Con una novità, però, che si è delineata in questi ultimi anni, e che potrebbe cambiare tutta l'impostazione del sistema bancario. 1 rapporti tra banca e impresa sono stati in Italia più difficili che altrove, per parecchie ragioni, come abbiamo visto. Il fatto che il risparmiatore fosse restio a investire nel capitale di rischio aumentava la responsabilità del sistema bancario; il prevalere della conduzione familiare, anche nelle grandi imprese, e la relativa mancanza di controlli, ha reso più facili le avventure; la debolezza dello Stato nel dare normative adeguate ha aumentato la responsabilità dei banchieri centrali e creato incertezze. Il quadro è quello di un capitalismo contraddittorio.

Con la riforma Ciampi i termini normativi del rapporto tra impresa e industria sono cambiati, ma è ancora troppo presto per poter dire che cosa cambierà nei fatti.

Oggi pare legittimo parlare dell'apertura di una nuova èra, come è stato lecito parlarne per i primi due decenni dell'Ottocento. Questo accade in tutto il mondo. Da un lato il finanziamento delle imprese è diventato assai più complicato e più rischioso perché le nuove attività, quelle del tempo libero, dei mass media, delle attività immateriali, occupano uno spazio sempre più grande, e sono certamente più rischiose. Il dato di fatto è però il cambiamento nel mercato finanziario a livello mondiale, cambiamento che ha assunto una velocità vertiginosa. Gli utili si fanno oggi in misura sempre più rilevante attraverso il maneggio del denaro, non attraverso il credito alla produzione, e questo impone una rivoluzione nella mentalità. Le banche italiane ne sono rimaste coinvolte ancora assai poco. Se non vi parteciperanno si ridurranno al rango di provinciali che potranno sempre vivacchiare in una economia mediamente arretrata, ma non per questo di indigenza. Per parteciparvi debbono fare un grande sforzo, non soltanto nella dimensione, ma nell'organizzazione e soprattutto nella mentalità. I rischi di questa nuova situazione sono grandi, e già si vedono. Istituti di grande storia come il Crédit Lyonnais o la Banca Baring si sono trovati in piena crisi, e per ragioni connesse appunto a questa grande trasformazione, la speculazione sui derivati o il finanziamento alle attività immateriali.

C'è solo un modo per affrontare questi rischi, ed è dato da gruppi dirigenti all'altezza dei problema. Sui gruppi dirigenti delle banche italiane si sono spesso espresse riserve, e non solo di ordine tecnico. Certo la storia della banca italiana è costellata di scandali, ma sarebbe sbagliato dire che sono questi a caratterizzarla. Senza la banca dell'età giolittiana non sarebbe stata possibile la prima industrializzazione, e questo resta forse il suo merito storico più alto.

Il patrimonio umano è il più grande asset di una banca, ed è anche il suo punto debole. In Italia c'è una eccessiva distanza tra un vertice assai ristretto molto qualificato e un management mediano che è ancora troppo permeato dalla cultura della garanzia e conosce troppo poco i problemi dell'economia reale. Nel gruppo elitario ci sono state le cicale e le formiche, i grandi banchieri, che erano insieme grandi uomini di cultura ed avevano una influenza che non veniva soltanto dal mestiere di banchiere, e conquistavano uno spazio con una forte immagine: Toeplitz, Mattioli, Carli. Ed abbiamo avuto le formiche, molto meno appariscenti, ma che hanno lasciato tracce più profonde: Stringher, Beneduce, Menichella, e qualcuno come Brughera del Credito Italiano, che il grande pubblico non ha mai sentito nominare. Tra i viventi, Ciampi e Cuccia.

Ma oggi più che di grandi banchieri c'è bisogno di gruppi dirigenti estesi e dotati di nuova cultura. L'affermazione di Maffeo Pantaleoni che le banche debbono essere dirette in modo autoritario è vecchia di un secolo. Il sistema bancario italiano deve trasformarsi e le privatizzazioni sono una parte assai piccola del cambiamento necessario. Quelli che amano descrivere il sistema bancario italiano come un oceano di corruzione asservito ai politici non capiscono che privatizzando si possono fare certamente meno favori ai politici, ma che i problemi dell'attività dipendono da ben altro. La trasformazione deve quindi procedere, ma non è detto che ciò si verifichi davvero, ed è questo l'interrogativo che chiude l'intero discorso.

Le necessità della ricostruzione post-bellica impose il graduale passaggio dal sistema dei tassi di cambio fissi a quello dei cambi variabili. Gli accordi stabiliti a Bretton Woods nel 1944 (che ebbero durata sino al 1971, quando Nixon sospese la convertibilità aurea del dollaro) mantennero una loro efficacia sino a quando le politiche economiche interne dei singoli stati non crearono perturbazioni agli scambi internazionali di volume ancora relativamente limitati. Superata l'emergenza economica, gli stati si avviarono verso forme sempre più dinamiche di sviluppo economico che, inevitabilmente, influenzarono e favorirono la crescita di mercati finanziari caratterizzati da enorme liquidità e il volume delle transazione rese di fatto impossibile il limite delle riserve internazionali e, allo stesso tempo, il sistema dei cambi fissi.

Tuttavia, una tale interpretazione storica non riesce a dare compiuta spiegazione del fatto che nel periodo antecedente il primo conflitto mondiale, l'alta mobilità internazionale del capitale avveniva all'interno del regime dei cambi fissi in regime aureo classico; da qui la constatazione che il volume degli scambi non è la sola causa a favore del predominio di un sistema a cambi fissi o variabili.

Mercantilismo = Lo sviluppo del commercio internazionale e l'affermarsi della forza del mercante dopo l'età medioevale, condusse tra la metà del XVI secolo e lo scorcio finale del XVII all'emergere di un corpo di pensiero che si occupava prevalentemente della relazione tra la ricchezza di un paese e la sua bilancia del commercio con l'estero. I mercantilisti si resero conto della potenza crescente dell'economia nazionale e furono favorevoli all'intervento dello Stato nelle attività economiche, in vista di massimizzare la ricchezza. In parte per il fatto che il sistema monetario era molto grezzo in relazione alle crescenti esigenze dell'espansione economica, la letteratura mercantilistica fu spesso appesantita dall'identificazione della ricchezza nazionale con i metalli preziosi. Tuttavia i suoi principali autori fecero importanti progressi nello sviluppo del pensiero economico e diedero contributi rilevanti all'analisi dei problemi del commercio internazionale.

Bilancia dei pagamenti = E' il conto in cui sono registrate tutte le transazioni di un Paese con il resto del mondo, ossia tutti i pagamenti che in un dato periodo i residenti nel Paese (imprese, famiglie, pubblica amministrazione) hanno eseguito a favore di residenti in altri Paesi o da essi ricevuto. Lo scopo principale del documento è di rendere conto delle variazioni nell'ammontare dei mezzi di pagamento internazionale (oro, valute estere e quant'altro costituisce la liquidità internazionale) di cui dispone il Paese in questione nel periodo considerato. Le voci che vi compaiono sono generalmente classificate in partite correnti, movimenti di capitale e movimenti monetari. Le partite correnti si riferiscono a transazioni da e verso l'estero aventi come contropartita il movimento di merci (partite visibili) o servizi (partite invisibili, nelle quali sono comprese il turismo e i servizi dei fattori produttivi), oppure senza alcuna contropartita (trasferimenti pubblici e privati con carattere di ripetitività). I movimenti di capitale descrivono gli spostamenti, da un impiego all'altro o da un Paese all'altro, di denaro liquido speculativo. Correntemente designa una voce del bilancio dello Stato che deriva da acquisti e vendite di beni fruttiferi, affrancazioni di canoni attivi e passivi, estinzione e accensione di crediti fruttiferi, accensione ed estinzione di debiti onerosi. Sono voci che, pur determinando un aumento o una diminuzione pecuniarie, non modificano il patrimonio netto. I movimenti monetari riassumono le variazioni nella liquidità internazionale di un Paese, a fronte delle transazioni con il resto del mondo effettuate nelle partite correnti e nei movimenti di capitale in un dato periodo. Consistono nella variazione di: oro, diritti speciali di prelievo e depositi presso banche estere detenuti dalla banca centrale e dalle banche ordinarie.

Attività bancaria = Commercio che si svolge con l'accettazione di depositi e il prestito della moneta. Definita in questo modo, l'attività bancaria è svolta anche da altri intermediari finanziari. Da non confondere l'attività bancaria con il sistema bancario, in quanto quest'ultimo costituisce il meccanismo principale per tramite del quale è creata e controllata l'offerta di moneta in un determinato paese.

Teoria quantitativa della moneta = E' la teoria secondo la quale il livello generale dei prezzi dipende dall'ammontare della moneta in circolazione.







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