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L'IMPRENDITORE
IL SISTEMA LEGISLATIVO. IMPRENDITORE E IMPRENDITORE COMMERCIALE
Nel nostro sistema giuridico la disciplina delle attività economiche ruota intorno alla figura dell'imprenditore. Ma la disciplina non è identica per tutti gli imprenditori.
Il c.c. distingue diversi tipi di imprese e di imprenditori in base a tre criteri:
in base all'oggetto dell'impresa, si distingue fra imprenditore agricolo e imprenditore commerciale;
in base alla dimensione dell'impresa, si distingue fra piccolo imprenditore e imprenditore medio-grande;
in base alla natura del soggetto che esercita l'impresa, si distingue fra impresa individuale, società e impresa pubblica.
Il c.c. detta innanzitutto un corpo di norme applicabile a tutti gli imprenditori, detto statuto generale dell'imprenditore. Comprende la disciplina dell'azienda, dei segni distintivi, della concorrenza e dei consorzi e di alcuni contratti.
Poi, detta lo statuto dell'imprenditore commerciale che disciplina l'iscrizione nel registro delle imprese con effetti di pubblicità legale, la rappresentanza commerciale, le scritture contabili, il fallimento e le procedure concorsuali.
Nel sistema del c.c. la qualifica di imprenditore agricolo e piccolo imprenditore ha rilievo solo al fine di delimitare l'ambito di applicazione dello statuto dell'imprenditore commerciale. Infatti, imprenditore agricolo e piccolo imprenditore (anche commerciale) sono esonerati dalla tenute delle scritture contabili, dall'assoggettamento alle procedure concorsuali, mentre è stato esteso ad essi l'obbligo dell'iscrizione nel registro delle imprese.
Anche la distinzione fra impresa individuale, società e impresa pubblica rileva essenzialmente al fine di definire l'ambito di applicazione dello statuto dell'imprenditore commerciale. Infatti, le società commerciali ( diverse dalla s.s.) sono tenute all'iscrizione nel registro delle imprese con effetti di pubblicità legale, anche se l'attività esercitata non è commerciale. (art. 2200)
Con la riforma delle società del 2006 è stata soppressa la regola per cui le società non potevano essere mai considerate piccoli imprenditori; regola per cui le società erano sempre espose al fallimento se esercitavano attività commerciale.
Gli enti pubblici che esercitano impresa commerciale sono sempre sottratti alla disciplina dell'imprenditore commerciale. In ogni caso non sono mai esposti al fallimento.
In conclusione : lo statuto dell'imprenditore commerciale è statuto proprio dell'imprenditore privato commerciale non piccolo.
2. NOZIONE DI IMPRENDITORE
Secondo l' art. 2082 è imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.
Tale concetto si richiama alla nozione economica di imprenditore, ma che non coincide con la nozione giuridica di imprenditore.
La nozione economica descrive l'imprenditore come il soggetto che nel processo economico svolge una funzione intermediaria fra chi dispone di fattori produttivi e chi domanda prodotti e servizi. Nello svolgimento di tale funzione l'imprenditore coordina, organizza e dirige, secondo scelte tecniche ed economiche, il processo produttivo ( funzione organizzativa ) assumendo su di sé il rischio di impresa, cioè il rischio che i costi non siano coperti da ricavi sufficienti.
Il rischio di impresa giustifica il potere dell'imprenditore di dirigere il processo produttivo e legittima l'acquisizione da parte dello stesso dell'eventuale eccedenza dei ricavi sui costi ( profitto ). E proprio nell'intento di conseguire il massimo profitto si ravvisa il tipico movente dell'attività imprenditoriale.
I requisiti giuridici minimi necessari e sufficienti che devono sussistere perché un dato soggetto sia qualificato come imprenditore e sia esposto alla disciplina dell'imprenditore sono stati fissati dal legislatore nell' art. 2082.
Dall'art. 2082 si ricava che :
l'impresa è attività, cioè una serie coordinata di atti unificati da una funzione unitaria,
tale attività ha uno specifico scopo, cioè la produzione o scambio di beni o servizi,
tale attività ha specifiche modalità di svolgimento, cioè con organizzazione, economicità e professionalità.
Si discute se siano altresì indispensabili:
che l'intento dell'imprenditore sia quello di ricavare dei profitti, scopo di lucro,
che i beni o servizi prodotti o scambiati siano destinati al mercato,
che l'attività svolta sia lecita.
Questi requisiti sono rilevanti ai fini dell'applicazione delle norme di diritto privato, ma altri requisiti sono richiesti da altri settori dell'ordinamento nazionale ( es. diritto tributario ) o dall'ordinamento comunitario.
Non esiste, quindi, una sola nozione di impresa, ma vi sono più nozioni di impresa.
3. L'ATTIVITA' PRODUTTIVA
L'impresa è attività ( serie di atti coordinati ) finalizzata alla produzione o allo scambio di beni o servizi. Quindi l'impresa è attività produttiva.
Per qualificare un'attività come produttiva è irrilevante la natura dei beni o servizi prodotti o scambiati ed il tipo di bisogno che essi vanno a soddisfare. È impresa anche la produzione di servizi di natura assistenziale, culturale o ricreativa.
Inoltre è irrilevante che l'attività produttiva possa qualificarsi nel contempo come attività di godimento o di amministrazione di determinati beni o del patrimonio del soggetto agente.
Non è impresa l'attività di mero godimento, cioè l'attività che non dà luogo alla produzione di nuovi beni o servizi. Es. il proprietario di immobili che ne gode dei frutti dandoli in locazione.
È attività di godimento e produttiva quella di un proprietario di un fondo agricolo che destini lo stesso a coltivazione, oppure di un proprietario di un immobile che adibisca lo stesso ad albergo. In questi casi, la locazione è accompagnata dall'erogazione di servizi collaterali che eccedono il mero godimento del bene.
È attività di godimento o amministrazione del proprio patrimonio e attività di produzione l'impiego di proprie disponibilità finanziarie nella compravendita di strumenti finanziari con intenti di investimento, speculazione o concessione di finanziamento. Quindi, sono imprese commerciali le società di investimento e le società finanziarie.
Sono imprese commerciali anche le holding, cioè le società che hanno per oggetto esclusivo l'acquisto e la gestione di partecipazioni di controllo in altre società, con funzione di direzione, di coordinamento e di finanziamento della loro attività.
4. L'ORGANIZZAZIONE
Non è concepibile un'attività senza programmazione e coordinamento della serie di atti in cui essa si sviluppa, ossia priva di organizzazione. Non è concepibile attività di impresa senza l'impiego coordinato di fattori produttivi (capitale e lavoro) propri e/o altrui.
La funzione organizzativa dell'imprenditore si concretizza nella creazione di un apparato produttivo stabile e complesso, formato da persone e da beni strumentali, ossia di un' attività organizzata.
Affinché un'attività produttiva possa dirsi organizzata in forma di impresa non è necessario :
che la funzione organizzativa dell'imprenditore abbia per oggetto anche altrui prestazioni lavorative autonome o subordinate. È imprenditore anche chi opera utilizzando solo il fattore capitale e il proprio lavoro, senza avvalersi del lavoro altrui.
che l'attività organizzativa dell'imprenditore si concretizzi nella creazione di un apparato strumentale fisicamente percepibile ( beni strumentali). È vero che non vi può essere impresa senza impiego e organizzazione di mezzi materiali, ma questi possono ridursi al solo impiego di mezzi finanziari. Ciò che qualifica l'impresa è l'utilizzazione di fattori produttivi ed il loro coordinamento da parte dell'imprenditore per un fine produttivo.
In conclusione : la qualità di imprenditore non può essere negata sia quando l'attività è esercitata senza l'ausilio di collaboratori, sia quando il coordinamento degli altri fattori produttivi non si concretizzi nella creazione di un complesso aziendale materialmente percepibile.
5. IMPRESA E LAVORO AUTONOMO
Si è posto il problema se si possa parlare di impresa anche quando il processo produttivo si fonda esclusivamente sul lavoro personale del soggetto agente, cioè quando non vengono utilizzati né lavoro altrui né capitale proprio o altrui, quindi manca la c.d. eteroorganizzazione .
Il problema si pone, quindi, per i prestatori autonomi d'opera manuale (elettricisti, idraulici, ecc.) o di servizi personalizzati ( mediatori, agenti di commercio).
La semplice organizzazione a fini produttivi del proprio lavoro non può essere considerata organizzazione imprenditoriale e in mancanza di un minimo di eteroorganizzazione deve negarsi l'esistenza di un'impresa, anche se piccola.
Una parte della dottrina, invece, basandosi sull'art. 2083, ritiene imprenditore anche chi si limita ad organizzare il proprio lavoro, senza impiegare né lavoro altrui né capitali. Ma tale tesi non è condivisibile, in quanto la nozione di piccolo imprenditore non vuol indicare la superfluità di ogni forma di eteroorganizzazione.
L'organizzazione del lavoro dei propri familiari è pur sempre organizzazione del
lavoro altrui. E comunque, il requisito dell'organizzazione è richiesto sia per l'imprenditore che per il piccolo imprenditore, ma non per il lavoratore autonomo.
In conclusione : un minimo di organizzazione di lavoro altrui o di capitale è sempre necessario per aversi impresa, anche se piccola. In mancanza si avrà lavoro autonomo non imprenditoriale. Semplici lavoratori autonomi restano i prestatori d'opera manuale (elettricisti, idraulici) o di servizi (mediatori, agenti), fin quando si limitano ad utilizzare mezzi materiali inespressivi, in quanto strumentali allo svolgimento di ogni attività o strettamente necessari all'esplicazione delle proprie energie lavorative. Ossia, fin quando non si supera la soglia della semplice autoorganizzazione del proprio lavoro; al di là si diventa imprenditori.
6. ECONOMICITA' DELL'ATTIVITA'
Nell'art. 2082 abbiamo visto che l'impresa è un'attività economica, dove attività economica è sinonimo di attività produttiva, cioè attività rivolta alla produzione o allo scambio di beni o servizi.
Ma, nell'art. 2082 l'economicità è richiesta in aggiunta allo scopo produttivo dell'attività . Ciò che qualifica un'attività "economica" non è solo il fine (produttivo) cui essa è indirizzata, ma anche il modo con cui essa è svolta.
L'attività può dirsi condotta con metodo economico quando è tesa ad ottenere la copertura dei costi con ricavi ed assicurino l'autosufficienza economica. Altrimenti si ha consumo e non produzione di ricchezza.
In conclusione : non è perciò imprenditore chi produca beni o servizi che vengono erogati gratuitamente o a prezzo politico, tale cioè da far oggettivamente escludere la possibilità di coprire i costi con i ricavi.
7. LA PROFESSIONALITA'
L'ultimo requisito richiesto dall'art. 2082 è il carattere professionale dell'attività.
Professionalità significa esercizio abituale e non occasionale di una data attività produttiva.
La professionalità non implica però che l'attività imprenditoriale debba essere necessariamente svolta in modo continuato e senza interruzioni. Per le attività stagionali è sufficiente il costante ripetersi di atti di impresa secondo le cadenze periodiche di quel tipo di attività.
La professionalità non implica nemmeno che quella impresa sia l'unica attività o l'attività principale. È possibile anche il contemporaneo esercizio di più attività di impresa da parte dello stesso soggetto.
Può aversi impresa anche quando si opera per il compimento di un unico affare. Il compimento di un unico affare può costituire impresa quando, per la rilevanza economica, implichi il compimento di operazioni molteplici e complesse e l'utilizzo di un apparato produttivo idoneo ad escludere il carattere occasionale e non coordinato dei singoli atti economici.
La professionalità va accertata in base ad indici esteriori ed oggettivi. Non è necessario che si abbia reiterazione degli atti di impresa, che l'attività si sia già protratta nel tempo. Indice di professionalità può essere anche la creazione di un complesso aziendale idoneo allo svolgimento di un'attività potenzialmente stabile e duratura.
Altro è professionalità e altro è organizzazione. Infatti, si può avere esercizio non professionale di attività organizzata, come previsto dall'art. 2070 ° comma .
8. ATTIVITA' DI IMPRESA E SCOPO DI LUCRO
Non c'è dubbio sul fatto che lo scopo che normalmente anima l'imprenditore è la realizzazione del profitto e del massimo profitto consentito dal mercato. Ma ci si chiede se lo scopo di lucro sia necessario e, quindi, si debba negare la qualità di imprenditore e l'applicabilità della relativa disciplina quando ricorrano tutti i requisiti dell'art. 2082 ma manchi lo scopo di lucro.
La risposta è negativa quando lo scopo lucrativo si intende come movente psicologico dell'imprenditore, c.d. lucro soggettivo.
Lo scopo di lucro soggettivo non può ritenersi essenziale perché l'applicazione della disciplina dell'impresa, volta a tutelare i terzi, deve basarsi su dati esteriori ed oggettivi. Essenziale è solo che l'attività venga svolta secondo modalità oggettive astrattamente lucrative, (lucro oggettivo). Irrilevante è sia la circostanza che un profitto venga poi realmente conseguito, sia il fatto che l'imprenditore devolva integralmente a fini altruistici il profitto conseguito. È sufficiente che l'attività venga svolta secondo modalità oggettive tendenti al pareggio fra costi e ricavi (metodo economico) e non anche che le modalità di gestione tendano alla realizzazione di ricavi eccedenti i costi (metodo lucrativo).
La nozione di imprenditore è unitaria, comprensiva sia dell'impresa privata sia dell'impresa pubblica, art. 2093. Ciò implica che requisito essenziale può essere considerato solo ciò che è comune a tutte le imprese e a tutti gli imprenditori.
L'impresa pubblica è tenuta ad operare secondo criteri di economicità, ma non è preordinata alla realizzazione di un profitto.
Le società, invece, sono tenute ad operare con metodo lucrativo e nel duplice senso che l'attività di impresa deve essere rivolta al conseguimento di utili, lucro oggettivo, e che l'utile deve essere devoluto ai soci, lucro soggettivo.
Nel caso particolare delle società cooperative, essendo caratterizzata dallo scopo mutualistico, si deve considerare pienamente rispondente alla legge e alla Costituzione una gestione dell'impresa mutualistica fondata su criteri di pura economicità e non tesa alla realizzazione di profitti.
La recente disciplina delle imprese sociali, introdotta dal d.lgs. n. 155/2006, art. 3, vieta a questo tipo di impresa di distribuire utili in qualsiasi forma ai soci, amministratori, partecipanti, lavoratori o collaboratori. Nel contempo, però, si richiede che esse svolgano un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi, art. 1.
In conclusione : requisito minimo essenziale dell'attività di impresa è l'economicità della gestione e non lo scopo di lucro. La qualità di imprenditore deve essere riconosciuta sia alla persona fisica sia agli enti di diritto privato (associazioni e fondazioni) con scopo ideale o altruistico.
IL PROBLEMA DELL'IMPRESA PER CONTO PROPRIO
Le imprese operano di regola per il mercato, cioè destinano allo scambio i beni o servizi prodotti. Ma l'art. 2082 non richiede la destinazione al mercato della produzione, quindi è imprenditore anche l'imprenditore per conto proprio.
Ma una parte della dottrina è contraria vista la concezione economica dell'imprenditore come soggetto che svolge funzione intermediaria fra proprietari dei fattori produttivi e consumatori. Ciò induce a ritenere che la destinazione allo scambio della produzione è implicitamente richiesta dal carattere professionale dell'attività di impresa ovvero dalla natura economica della stessa o quanto meno dalla funzione di tutela dei terzi della disciplina dell'impresa. Funzione di tutela che non avrebbe senso quando un soggetto risolve la propria attività produttiva in se stesso senza entrare in contatto con i terzi.
In conclusione : l'impresa per conto proprio non è impresa, in quanto per l'acquisto della qualità di imprenditore basta una destinazione parziale o potenziale della produzione al mercato.
Vi sono alcune ipotesi in cui non si può parlare di imprese per conto proprio.
Non è impresa per conto proprio:
la società cooperativa che produce esclusivamente per i propri soci. La società cooperativa è soggetto di diritto distinto dai suoi soci ed i soci fruiscono dei beni prodotti dalla società in base a rapporti di scambio con la cooperativa;
l'azienda costituita dallo Stato o da altri enti pubblici per la produzione di beni o servizi da fornire dietro corrispettivo.
Possono, invece, considerarsi imprese per conto proprio:
la coltivazione del fondo finalizzata al soddisfacimento dei bisogni dell'agricoltore e della sua famiglia;
la costruzione in economia, cioè la costruzione di appartamenti non destinati alla rivendita.
Il caso del coltivatore del fondo ci dimostra che non vi è incompatibilità fra impresa per conto proprio ed economicità, dato che l'attività produttiva può considerarsi svolta con metodo economico anche quando i costi sono coperti da un risparmio di spesa o da un incremento del patrimonio del produttore. Inoltre, le esigenze di tutela dei terzi possono ricorrere anche rispetto all'impresa per conto proprio.
Quindi, l'applicazione della disciplina dell'impresa non si può far dipendere dalle intenzioni di chi produce, ma deve fondarsi esclusivamente sui caratteri oggettivi fissati dall'art. 2082. Caratteri che possono ricorrere tutti anche quando i beni prodotti vengono in fatto consumati o utilizzati dallo stesso produttore.
Il costruttore in economia deve perciò essere qualificato come imprenditore commerciale, così come il coltivatore del fondo.
10. IL PROBLEMA DELL'IMPRESA ILLECITA
Punto controverso è se la qualifica di imprenditore debba essere riconosciuta anche all'attività illecita, cioè contraria a norme imperative ( norme che subordinano l'accesso all'attività a concessione, autorizzazione o licenza, detta impresa illegale), all'ordine pubblico o al buon costume.
Un attività di impresa illecita può dar luogo al compimento di una serie di atti leciti e validi. Infatti, l'illiceità del risultato globalmente perseguito dall'imprenditore non comporta di per sé l'illiceità della causa o dell'oggetto, art. 1418, dei singoli atti di impresa.
I terzi creditori meritevoli di tutela possono esistere anche quando l'attività di impresa è illecita, quindi chi esercita attività commerciale illecita è esposto al fallimento.
Nel caso di impresa illegale, l'illecito non impedisce l'acquisto della qualità di imprenditore con pienezza di effetti, ferme restando le conseguenti sanzioni amministrative e penali. Il titolare dell'impresa illegale è esposto al fallimento.
Nel caso di impresa immorale, cioè di un'attività che abbia un oggetto illecito (es. traffico di droga), al fine di tutelare i terzi estranei all'illecito, si nega l'esistenza di impresa. Questo, per il timore che il riconoscimento della qualità di imprenditore porti all'applicazione non solo delle norme che tutelano i creditori di un imprenditore commerciale (fallimento), ma anche delle norme che tutelano l'imprenditore nei confronti dei terzi ( disciplina dell'azienda, dei segni distintivi, della concorrenza sleale). In questi casi deve applicarsi il principio secondo cui da un comportamento illecito non possono mai derivare effetti favorevoli per l'autore dell'illecito o per chi ne è stato parte.
In conclusione : chi esercita attività commerciale illecita è imprenditore ed in quanto tale potrà fallire. Non potrà però avanzare le pretese del titolare di un'azienda o agire in concorrenza sleale contro altri imprenditori, in applicazione del principio della non invocabilità della qualificazione per la non invocabilità del proprio illecito.
La stessa regola vale anche per l'impresa illegale e per l'impresa mafiosa, cioè per quella impresa, che pur avendo un oggetto lecito, è lo strumento per il perseguimento di un disegno criminoso.
IMPRESA E PROFESSIONI INTELLETTUALI
Esistono delle attività produttive per le quali la qualifica imprenditoriale è esclusa in via di principio dal legislatore, come per le professioni intellettuali.
I liberi professionisti non sono mai in quanto tali imprenditori. Infatti l'art. 2238, 1° comma, stabilisce che le disposizioni in tema di impresa si applicano alle professioni intellettuali solo se l'esercizio della professione costituisce elemento di un'attività organizzata in forma di impresa.
I liberi professionisti, ma anche gli artisti e gli inventori, diventano imprenditori solo se ed in quanto la professione intellettuale è esplicata nell'ambito di altra attività di per sé qualificabile come impresa.
Ad es. il medico che gestisce una clinica privata, l'artista titolare di un teatro nel quale recita, ecc. In questi casi si è in presenza di due casi: l'attività intellettuale e l'attività di impresa, perciò troveranno applicazione nei confronti dello stesso soggetto sia la disciplina dettata per la professione intellettuale sia la disciplina dell'impresa.
Il professionista intellettuale o l'artista che si limita a svolgere la propria attività, per contro, non diventa mai imprenditore. E, non lo diventa, non solo quando superi la soglia dell'autoorganizzazione del proprio lavoro, ma anche quando si avvale di collaboratori e di un complesso apparato di mezzi materiali, dando vita così ad un'organizzazione complessa di capitale e/o lavoro (Relazione al codice civile).
Al professionista intellettuale che impieghi collaboratori, pur non diventando imprenditore, si applicano le norme che disciplinano il lavoro nell'impresa, ma non la restante parte.
Questa scelta legislativa si è giustificata dal fatto che nell'attività intellettuale mancherebbero sempre e comunque l'uno o l'altro dei requisiti richiesti dall'art. 2082. Tuttavia, i requisiti propri dell'attività di impresa possono ricorrere tutti anche nell'esercizio delle professioni intellettuali. Infatti, l'attività professionale è attività produttiva di servizi suscettibili di valutazione economica, è un'attività condotta con metodo economico e a scopo di lucro.
In conclusione : i professionisti non sono imprenditori per libera opzione del legislatore.
In pratica non è sempre agevole stabilire se un'attività costituisce professione intellettuale. Per tale distinzione si deve tener conto non della iscrizione in albi professionali 717d31h (criterio formale), ma del carattere intellettuale dei servizi prestati (criterio sostanziale).
CAP. II LE CATEGORIE DI IMPRENDITORI
a) IMPRENDITORE AGRICOLO E IMPRENDITORE COMMERCIALE
1. IL RUOLO DELLA DESTINAZIONE
Il codice civile distingue, in base all' oggetto, gli imprenditori in :
imprenditore commerciale, art. 2195;
imprenditore agricolo, art. 2135.
L'imprenditore commerciale è destinatario di un'ampia ed articolata disciplina fondata su:
l'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, con funzione di pubblicità legale;
l'obbligo di tenuta delle scritture contabili;
l'assoggettamento al fallimento e alle altre procedure concorsuali.
La nozione di imprenditore agricolo ha valore essenzialmente negativo. Ha la funzione di restringere l'ambito di applicazione della disciplina dell'imprenditore commerciale.
L'imprenditore agricolo è sottoposto alla disciplina prevista per l'imprenditore in generale ed è esonerato da:
la tenuta delle scritture contabili, art. 2214;
l'assoggettamento alle procedure concorsuali, art. 2221;
Originariamente l'imprenditore agricolo era esonerato anche dall'iscrizione nel registro delle imprese, tranne per le società agricole, art. 2136.
Poi, l'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, è stato introdotto dalla riforma del 1993, con funzione di pubblicità notizia, art. 8 legge 580/1993 e, la recente riforma ne ha stabilito la funzione di pubblicità legale, art. 2 d.lgs. 228/2001, così come previsto per gli imprenditori commerciali.
Si discute sul fatto se si debba ammettere una terza categoria di imprese , le imprese civili. Imprese, non menzionate dal legislatore e che non possono qualificare né come commerciali, né come agricoli. Perciò, tale imprese sarebbero da sottoporre alla disciplina generale dell'imprenditore, ma non a quella dell'imprenditore commerciale.
2. L'IMPRENDITORE AGRICOLO LE ATTIVITA' AGRICOLE ESSENZIALI.
L'art. 2135 stabiliva: è imprenditore agricolo chi esercita un'attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame e attività connesse.
Si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all'alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura.
Le attività agricole vengono distinti in due categorie:
attività agricole essenziali;
attività agricole connesse.
Questa distinzione è stata mantenuta anche dalla nuova nozione di imprenditore agricolo. L'art. 1 del d.lgs n. 228/2001 ridefinisce la nozione di imprenditore agricolo, sostituendo l'art. 2135 del c.c. :
"E' imprenditore
agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo,
selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse.
Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si
intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico
o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che
utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre
o marine.
Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo
imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione,
trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto
prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o
dall'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni
o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse
dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi
comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e
forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge".
2. Si considerano imprenditori agricoli le cooperative di imprenditori agricoli ed i loro consorzi quando utilizzano per lo svolgimento delle attività di cui all'articolo 2135 del codice civile, come sostituito dal comma 1 del presente articolo, prevalentemente prodotti dei soci, ovvero forniscono prevalentemente ai soci beni e servizi diretti alla cura ed allo sviluppo del ciclo biologico".
Coltivazione del fondo, silvicoltura ed allevamento del bestiame sono attività tipicamente e tradizionalmente agricole, ma che negli ultimi decenni hanno subito profonde trasformazioni, a causa del progresso tecnologico che ha coinvolto anche l'agricoltura e che l'ha trasformata in un'agricoltura industrializzata.
Oggi, l'attività agricola può dar luogo ad investimenti ingenti di capitali e ciò può far dubitare sulla correttezza della loro disciplina. Che l'imprenditore agricolo sia sempre e comunque esonerato dalla disciplina dell'imprenditore commerciale è una scelta legislativa che dà luogo a molti contrasti. È necessario infatti stabilire fino a che punto l'evoluzione tecnologica dell'agricoltura sia compatibile con la qualificazione agricola dell'impresa agli effetti del c.c.
Vi era, infatti, chi riteneva che impresa agricola fosse ogni impresa che produce specie vegetali o animali, cioè ogni forma di produzione fondata sullo svolgimento di un ciclo biologico naturale.
Poi, vi era chi riteneva che doveva essere dato rilievo anche al modo di produzione tipico dell'agricoltore e, quindi, che doveva essere qualificato imprenditore commerciale chi produce specie animali o vegetali in modo del tutto svincolato dal fondo agricolo o dallo sfruttamento della terra (coltivazioni artificiali e allevamenti in batteria).
La recente riforma ha però optato per la prima impostazione, al fine di contrastare l'abbandono dalle campagne e di favorire lo sviluppo tecnologico dell'agricoltura, ma che non giustifica la sottrazione al fallimento dell'imprenditore agricolo medio - grande.
L'attuale nozione di imprenditore agricolo, dopo aver elencato le attività svolte dall'imprenditore agricolo, specifica che: "Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine".
In base a questa nuova nozione si deve perciò ritenere che la
produzione di specie vegetali o animali è sempre qualificabile giuridicamente
come attività agricola essenziale, anche se realizzata con metodi che
prescindono del tutto dallo sfruttamento della terra e dei suoi prodotti.
Quindi si possono far rientrare nella nozione di coltivazione del fondo:
l'orticoltura, le coltivazioni in serra e vivai e la floricoltura. Sono
coltivazioni anche le coltivazioni fuori terra di ortaggi e frutta.
Quanto alla selvicoltura, è l'attività di cura del bosco per ricavarne i relativi prodotti. Non costituisce perciò attività agricola l'estrazione di legname disgiunta dalla coltivazione del bosco.
Nell'allevamento di animali, il criterio del ciclo biologico, porta a riconoscere come attività agricola essenziale anche la zootecnia svolta fuori dal fondo o utilizzando il fondo per allevamenti in batteria, oppure allevamenti in cui gli animali sono alimentati con mangimi naturali non ottenuti dal fondo.
Rimane attività commerciale l'acquisto di animali all'ingrosso per rivenderli.
Per allevamento di animali deve intendersi sia l'allevamento diretto ad ottenere prodotti tipicamente agricoli (carne, latte, lana), sia l'allevamento di cavalli da corsa o animali da pelliccia, l' allevamento dei cani (attività cineteca) e l'allevamento di gatti.
La sostituzione nella nuova nozione del termine "bestiame" col termine "animali", qualifica come impresa agricola anche l'allevamento di animali da cortile e l'apicoltura.
È attività agricola anche l' acquacoltura (pesci e mitili).
All'imprenditore agricolo (essenziale) è equiparato l'imprenditore ittico, cioè l'imprenditore che esercita l'attività professionale diretta alla cattura o alla raccolta di organismi acquatici in ambienti marini, salmastri o dolci, nonché attività connesse.
3. L'IMPRENDITORE AGRICOLO LE ATTIVITA' AGRICOLE PER CONNESSIONE
La seconda categoria di attività agricole sono le attività agricole connesse.
La vecchia nozione di imprenditore agricolo le individuava:
in quelle dirette alla trasformazione o all'alienazione di prodotti agricoli che rientravano nell'esercizio normale dell'agricoltura;
in tutte le altre attività esercitate in connessione con la coltivazione del fondo, la silvicoltura e l'allevamento del bestiame (es. agriturismo, trebbiatura, motoaratura per conto terzi).
La nuova nozione intende per attività connesse:
le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di prodotti ottenuti prevalentemente da un'attività agricola essenziale;
le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, comprese quelle di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale e le attività agrituristiche.
Entrambe sono, oggettivamente, attività commerciali, ma sono considerate per legge attività agricole quando sono esercitate in connessione con una delle attività agricole essenziali.
È importante precisare quando un'attività intrinsecamente commerciale possa qualificarsi come agricola per connessione. Ci sono due condizioni necessarie:
è necessario che il soggetto che la esercita sia già qualificabile imprenditore agricolo in quanto svolge in forma di impresa una delle tre attività agricole tipiche e sia un'attività coerente con quella connessa, connessione soggettiva.
È imprenditore commerciale chi trasforma o commercializza prodotti agricoli altrui o il viticultore che produce formaggi (quindi un prodotto fuori dal proprio campo). Mentre è imprenditore agricolo il viticoltore che produce vino.
La qualifica di imprenditore agricolo è estesa anche alle cooperative di imprenditori agricoli ed ai loro consorzi, quando utilizzano prevalentemente prodotti dei soci, ovvero forniscono prevalentemente ai soci beni o servizi diretti alla cura o allo sviluppo del ciclo biologico.
È necessario che vi sia una connessione oggettiva fra le due attività.
Non si richiede più che le attività di trasformazione e alienazione dei prodotti agricoli rientrino nell'esercizio normale dell'agricoltura, né che le attività connesse diverse da queste abbiano carattere accessorio. Entrambi questi criteri sono stati sostituiti dal criterio della prevalenza. Necessario e sufficiente è solo che si tratti di attività aventi ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dall'esercizio dell'attività agricola essenziale, ovvero di beni o servizi forniti mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda agricola.
In breve: è sufficiente che le attività connesse non prevalgano, per rilievo economico, sull'attività agricola essenziale.
È del tutto irrilevante che una determinata attività di trasformazione o di commercializzazione sia normale per gli agricoltori in relazione alle dimensioni dell'impresa, alla località ed al tempo in cui l'impresa opera e ai mezzi di cui si avvale.
4. L'IMPRENDITORE COMMERCIALE
Secondo l'art. 2195 c.c,.1° comma, sono imprenditori commerciali gli imprenditori che esercitano:
un'attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi; darà vita ad impresa
commerciale ogni attività di impresa nel settore della produzione che sia qualificabile come "attività industriale";
un'attività intermediaria nella circolazione dei beni; è impresa commerciale ogni attività di scambio che realizzi intermediazione nella circolazione di beni o servizi;
un'attività di trasporto per terra, o per acqua o per aria; le imprese di trasporto producendo servizi può essere considerata specificazione dell'attività produttiva di servizi, indicata nel primo punto dell'art. 2195;
un'attività bancaria o assicurativa; l'impresa bancaria ha per oggetto tipico la raccolta del risparmio tra il pubblico e l'esercizio del credito; perciò, l'attività bancaria, in sostanza, è attività di intermediazione nella circolazione del danaro; anche l'impresa di assicurazione produce servizi;
altre attività ausiliarie delle precedenti; in questa categoria rientrano le imprese:
di agenzia (art. 1742),
di mediazione (art. 1754) ,
di deposito (art. 1787),
di commissione (art. 1731),
di spedizione (art. 1737),
di pubblicità commerciale,
di marketing.
Tutte imprese che possono qualificarsi come imprese produttrici di servizi.
Le attività degli ultimi tre punti, costituiscono specificazione delle prime due categorie ed in queste possono essere ricomprese in quanto hanno per oggetto o la produzione di servizi o l'intermediazione nella circolazione. Perciò, gli elementi che individuano e distinguono l'impresa commerciale rispetto all'impresa agricola sono tutti racchiusi nel carattere industriale dell'attività di produzione dei beni o servizi o nel carattere intermediario dell'attività di scambio.
5. Il problema dell' impresa civilE
Oltre alla categoria delle imprese commerciali e alla categoria delle imprese agricole è possibile individuare una terza categoria, la categoria delle imprese civili, anche se non prevista da alcuna norma.
L'imprenditore civile, non essendo né commerciale né agricolo, è sottoposto solo allo statuto generale dell'imprenditore, ma non a quello dell'imprenditore commerciale. Perciò non è sottoposto a fallimento.
Se si ritiene che il requisito dell'industrialità debba essere inteso nel suo significato tecnico-economico, ossia di attività che implichi l'impiego di materie prime e la loro trasformazione in nuovi beni a d opera dell'uomo, si dovrebbero considerare imprese civili e non commerciali:
le imprese che producono beni senza trasformare materie prime, come le imprese minerarie e le imprese di caccia e pesca;
le imprese che producono servizi senza trasformare materie prime e che non siano imprese produttrici ricompresse nell'art. 2195, come le imprese di pubblici spettacoli, agenzie matrimoniali, investigative;
Più in generale, sarebbero imprese civili tutte le imprese ausiliarie di attività non commerciali.
Inoltre, visto che attività di intermediazione nella circolazione presuppone sia l'acquisto sia la vendita, sarebbe imprenditore civile chi vende beni propri dietro corrispettivo o l'imprenditore che eroga credito con mezzi propri (impresa finanziaria) e che perciò non esercita attività bancaria.
Tale teoria però non è condivisa dalla dottrina prevalente, in quanto questa parte della dottrina ritiene che il significato al requisito dell'industrialità e dell'intermediazione sia un altro. Ritengono, infatti, che il significato di "attività industriale" significhi "attività agricola" e "attività di intermediazione" significhi "attività di scambio".
Si arriva perciò alla conclusione che l'art. 2195 va letto come se dicesse che è attività commerciale quella diretta alla produzione di beni o servizi non agricoli (n.1) e quella rivolta alla circolazione di beni non qualificabile come agricola per connessione (n.2). Quindi, è imprenditore commerciale ogni imprenditore non agricolo, dato che le altre categorie previste dall'art. 2195 sono tutte specificazioni delle prime due. Per le imprese civili non c'è spazio.
Vi è però una serie di altri indici che depone contro l'ammissibilità delle imprese civili:
non vi è alcuna disposizione che possa far pensare all'esistenza di imprese diverse da quelle agricole e commerciali;
vi sono norme che confermano che per il legislatore il binomio agricolo - commerciale esaurisce la tipologia delle imprese in base all'oggetto dell'attività;
vi sono norme che rendono plausibile l'interpretazione dell'aggettivo industriale nel senso di non agricolo.
Infine, ammettendo la categoria delle imprese civili si amplierebbe l'area delle attività produttive sottratte allo statuto dell'imprenditore commerciale, senza che vi sia una giustificazione sostanziale.
Queste considerazioni fanno propendere per una ricostruzione del sistema che non lasci vuoti fra l'imprenditore agricolo e quello commerciale.
In conclusione : È perciò preferibile interpretare il requisito della industrialità come sinonimo di attività non agricola, e quindi si devono qualificare come imprese commerciali anche quelle che producono beni o servizi senza dar luogo a trasformazione di materie prime.
Altresì, è preferibile interpretare il requisito della intermediazione nella circolazione dei beni come sinonimo di attività di scambio, perciò sarà impresa commerciale ogni attività che comporti circolazione di beni non inquadrabile fra quelle agricole per connessione.
Sarà commerciale ogni attività che non è agricola.
b) PICCOLO IMPRENDITORE. IMPRESA FAMILIARE
6. IL CRITERIO DIMENSIONALE. LA PICCOLA IMPRESA
La dimensione dell'impresa è il secondo criterio di differenziazione della disciplina degli imprenditori, che individua la figura del piccolo imprenditore in contrapposizione all'imprenditore medio - grande.
Il piccolo imprenditore è sottoposto allo statuto generale dell'imprenditore, invece, è esonerato, anche se esercita attività commerciale, dalla tenuta delle scritture contabili, art. 2214, 3° comma, e, dall'assoggettamento al fallimento e alle altre procedure concorsuali, art. 2221 e art. 1 legge fallimentare. Inoltre, mentre l'iscrizione era originariamente esclusa, art. 2202, ora ha funzione di pubblicità notizia, art. 8 legge n. 580 /1993.
Anche la nozione di piccolo imprenditore ha, nel codice civile, un rilievo essenzialmente negativo, ossia serve a restringere il campo di applicazione dello statuto dell' imprenditore commerciale.
La piccola impresa o alcune figure di piccola impresa sono destinatarie di una ricca ed articolata disciplina, cioè di una legislazione speciale, ispirata dalla finalità di favorirne la sopravvivenza e lo sviluppo attraverso agevolazioni finanziarie, lavoristiche e tributarie.
Il piccolo imprenditore è definito sia dal codice civile, sia dalla legge fallimentare.
7. IL PICCOLO IMPRENDITORE NEL CODICE CIVILE
L'art.2083 c.c. non era la sola norma a definire il piccolo imprenditore.Anche la legge fallimentare fissava una definizione di piccolo imprenditore.Una definizione che ha costituito un vero rompicaapo per gli interpreti ed è stata due volte riformata dapprima col d.lgs. 9-1-2006 e il d.lgs.12-9-2007 n.169.Per comprendere la nuova disciplina è opportuno riepilogare le ragioni che avevano sollevato la vecchia.La versione originaria dell'art.1, comma 2°,l.fall.,nel ribadire che i piccoli imprenditori commerciali non falliscono,stabiliva:" sono considerati piccoli imprenditor, gli imprenditori esercenti un'attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile.Quando è mancato l'accertamento ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori esercenti un'attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a lire novecentomila.La stessa norma fallimentare disponeva poi che "in nessun caso sono considerati ".
Come si vede , nella legge faallimentare il piccolo imprenditore era individuato esclusivamente in base a parametri monetari e quindi con criterio palesemente non coincidente con quello fissato dal codice civile.Da qui la necessità di trovare un coordinamento fra le due norme, per evitare di cadere nel paradosso di dovere nel contempo riconoscere e negare allo stesso soggetto la qualità di piccolo imprenditore e agli stessi effetti.Di
Per aversi piccola impresa è perciò necessario che:
a. l'imprenditore presti il proprio lavoro nell'impresa;
b. il suo lavoro e quello degli eventuali familiari che collaborano nell'impresa prevalgano sia rispetto al lavoro altrui sia rispetto al capitale (proprio o altrui) investito nell'impresa. Quindi, non è mai piccolo imprenditore chi investe ingenti capitali nell'impresa, anche chi non si avvale di alcun collaboratore (es. gioielliere).
La prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi deve intendersi in senso qualitativo - funzionale e non come prevalenza quantitativo - aritmetica.
8. IL PICCOLO IMPRENDITORE NELLA LEGGE FALLIMENTARE
Anche la legge fallimentare fissa una definizione di piccolo imprenditore, modificata di recente dal d.lgs. n. 5 del 09/01/2006.
L'art. 1, 2° comma, della legge fallimentare, oltre a ribadire che i piccoli imprenditori non falliscono, stabilisce che "Sono considerati piccoli imprenditori, gli imprenditori esercenti un'attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. Quando è mancato l'accertamento ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un'attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a lire novecentomila".
La stessa norma fallimentare disponeva poi che in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali.
Nella legge fallimentare, il piccolo imprenditore era individuato esclusivamente in base a parametri monetari e quindi con criterio palesemente non coincidente con quello fissato dal codice civile (prevalenza funzionale del lavoro familiare).
Da qui la necessità di trovare un coordinamento fra le due norme, per evitare di dover nel contempo riconoscere e negare allo stesso soggetto la qualità di piccolo imprenditore e agli stessi effetti.Di dovergliela riconoscere e quindi esentarlo dal fallimento in base all'art.2083, per la chiara prevalenza nell'impresa del lavoro familiare.Di dovergliela nel contempo negare e dichiararlo fallito, perchè titolare di un reddito R.M. superiore a lire 480.000 ,o perchè aveva investito nell'azienda un capitale superiore a lire 900.000.Questo rebus, di non facile soluzione, era tuttavia venuto meno per effetto di due modifiche intervenute nel sistema normativo:
a. l'imposta di ricchezza mobile è stata soppressa a partire dal 1° gennaio 1974, sostituita dall' IRPEF. Il criterio del reddito fissato dalla legge fallimentare non era più applicabile, per implicita abrogazione della relativa previsione normativa;
b. il criterio del capitale investito non superiore a lire novecentomila fu dichiarato incostituzionale nel 1989, in quanto non più idoneo vista la svalutazione monetaria.
Della nozione originaria data dalla legge fallimentare sopravviveva solo la parte secondo cui in nessun caso erano considerati piccoli imprenditori le società commerciali. Ma, anche, questa parte di norma non era più salda, visto che la Corte Costituzionale aveva manifestato l'orientamento che esso non trovasse applicazione nei confronti delle società artigiane.
Se la parziale abrogazione della definizione della legge fallimentare aveva risolto alcuni problemi interpretativi il permanere in vigore della sola definizione del codice civile di piccolo imprenditore creava però non trascurabili inconvenienti pratici in sede di dichiarazione di fallimento. Accertare in concreto la prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi non è sempre agevole, con gravi conseguenze del fallimento per il fallito e per i terzi suscitava insoddisfazione.
Per queste ragioni, la riforma del diritto fallimentare del 2006,a sua volta modificata dal decreto correttivo del 2007,ha reintrodotto nell'art. 1, 2° comma, legge fallimentare, una definizione di piccolo imprenditore basata su criteri esclusivamente quantitativi e monetari. In primo luogo, la nuova disposizione fallimentare,perciò non definisce più chi è " il piccolo imprenditore", ma semplicemente individua alcuni parametri dimensionali dell'impresa, al di sotto dei quali l'imprenditore commerciale non fallisce.Si è voluto così porre (auspicabilmente ) un freno alle infinite dispute scaturite dall'esistenza di una duplice definizione di piccolo impreditore.L'intervento correttivo del 2007 ha inoltre cercato di definire meglio le soglie dimensionali rilevanti,dato che la formulazione introdotta con la riforma del 2006 aveva adito a numerose incertezze e ad un eccessivo ampliamento della categoria di imprenditori non fallibili.
In base alla attuale disciplina, dunque, non è soggetto a fallimento l'imprenditore commerciale che dimostri il possesso congiunto dei seguenti requisiti:
a. di aver avuto nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento( o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore), un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila.
b. di aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istenza di fallimento (o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore),ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila;
c. avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila .
Tali valori possono essere aggiornati con cadenza triennale con decreto del Ministro della giustizia sulla base delle variazioni degli indici Istat dei prezzi al consumo, per adeguarli alla svaluztazione monetaria (art.1,3° comma).
Basta aver superato anche solo uno degli indicati limiti dimensionali per essere esposti a fallimento.E risolvendo un punto controverso, l'attuale disciplina pone l'onere della prova del loro rispetto a carico del debitore. A differenza che in passato, inoltre,anche le società commerciali possono essere esonerate dal fallimento, se rispettano i limiti dimensionali sopra indicati.Si pensi, ad esempio,ad una società in nome collettivo fra due modesti mediatori.
In base alla nuova formulazione della legge fallimentare si realizza dunque un migliore coordinamento con la disciplina codicistica, nel senso di escludere ogni inteferenza con la definizione dell'art.2083 c.c. sull'applicazione della legge fallimentare.Non dovrebbero sussistere più dubbi la definizione di piccolo imprenditore che da il codice civile rileva invece ai fini dell'applicazione della restante parte dello statuto dell'imprenditore commerciale (iscrizione nel registro delle imprese,obbligo di tenuta delle scritture contabili).
9. L'IMPRESA ARTIGIANA
La piccola impresa e, soprattutto, la piccola impresa artigiana godono di una legislazione speciale di ausilio e di sostegno. Tali leggi speciali spesso prevedono autonomi criteri di identificazione delle imprese destinatarie, non coincidenti con quelli fissati dall'art. 2083. Essendo definizioni dettate da leggi speciali esse non pongono alcun problema di coordinamento con la nozione civilistica e fallimentare di piccolo imprenditore. Tuttavia, resta fermo che, per stabilire se un dato imprenditore è esonerato dal fallimento in quanto piccolo imprenditore, si deve guardare solo al rispetto dei limiti dimensionali fissati dall'art. 1, 2° comma, legge fallimentare. Questo principio subiva però fino a qualche tempo fa un'eccezione per l'impresa artigiana.
La legge n. 860 del 25/07/1956 (legge sull'artigianato) affermava espressamente all'art. 1, 1° comma, che l'impresa rispondente ai requisiti fondamentali fissati nella stessa legge era da considerarsi artigiana a tutti gli effetti di legge, e quindi anche agli effetti civilistici e fallimentari. La nozione speciale sostituiva perciò quella del codice e della legge fallimentare.
Il dato caratterizzante l'impresa artigiana risiedeva nella natura artistica o usuale dei beni o servizi prodotti e non più nella prevalenza del lavoro familiare nel processo produttivo.
La qualifica artigiana era riconosciuta anche alle imprese costituite in forma di società, purché si trattasse di società cooperative o in nome collettivo ed alla condizione che la maggioranza dei soci partecipi personalmente al lavoro e, nell'impresa, il lavoro abbia funzione preminente sul capitale, art. 3, 1° comma.
Perciò, le società artigiane dovevano considerarsi esonerate dal fallimento.
La legge n. 860/1956 è stata abrogata dalla legge n. 443 del 08/08/1985, legge quadro sull'artigianato.
La nuova legge contiene una propria definizione dell'impresa artigiana, basata :
a. l'oggetto dell'impresa, che può essere costituito da qualsiasi attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di prestazioni di servizi, sia pure con alcune limitazioni ed esclusioni;
b. sul ruolo dell'artigiano nell'impresa, richiedendosi che esso svolga in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo, art. 2, 1° comma, ma non che il suo lavoro prevalga sugli altri fattori produttivi.
Continuano ad essere imposti limiti per quanto riguarda i dipendenti, ma il numero massimo è più elevato rispetto alla legge del 1956. Ma, è riaffermato il principio che il personale dipendente deve essere personalmente diretto dall'artigiano ed è stabilito che l'imprenditore artigiano può essere titolare di una sola impresa artigiana, art. 3, 5° comma.
La legge del 1985 riafferma altresì la qualifica artigiana delle imprese costituite in forma di società cooperativa o in nome collettivo, a condizione che la maggioranza dei soci, svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che nell'impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale, art. 3, 2° comma.
Inoltre, la qualifica di impresa artigiana è stata successivamente estesa, dapprima alla società a responsabilità limitata unipersonale ed alla società in accomandita semplice, purché il socio unico o tutti i soci accomandatari siano in possesso dei requisiti previsti per l'imprenditore artigiano e non siano nel contempo socio unico di un'altra s.r.l. o socio di un'altra s.a.s. (art. 3, 3° comma, legge n. 133/1997) e, recentemente, anche alla s.r.l. pluripersonale a condizione che la maggioranza dei soci svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e detenga la maggioranza del capitale sociale e degli organi deliberanti della società, art. 5, 3° comma, legge n. 57/2001.
La categoria delle imprese artigiane risulta quindi notevolmente ampliata rispetto alla legge precedente. È scomparso ogni riferimento alla natura artistica o usuale dei beni o servizi prodotti e si qualificano artigiane anche le imprese di costruzioni edili. Inoltre, l'elevazione del numero dei dipendenti consente di conservare la qualifica artigiana anche raggiungendo le dimensioni di una piccola industria di qualità.
L'impresa artigiana si caratterizza anche per il rilievo del lavoro personale dell'imprenditore nel processo produttivo e per la funzione preminente del lavoro sul capitale investito, ma da nessuna norma della legge speciale è invece consentito desumere che debba necessariamente ricorrere anche la prevalenza del lavoro proprio e dei componenti della famiglia sul lavoro altrui e sul capitale investito. Perciò, si deve convenire che la legge quadro ha realizzato una frattura rispetto alla legge del 1956 e preclude ogni residua possibilità di ricondurre il nuovo modello di impresa artigiana nell'alveo della definizione codicistica di piccolo imprenditore.
Lo scopo della legge quadro era quello di fissare i principi direttivi che dovrebbero essere osservati dalle regioni nell'emanazione dei provvedimenti a favore dell'artigianato, art. 1, 2° comma.
Il riconoscimento della qualifica artigiana in base alla legge quadro non basta per sottrarre l'artigiano allo statuto dell'imprenditore commerciale. È necessario altresì che sia rispettato il criterio della prevalenza fissato dall'art. 2083, ed i limiti dimensionali fissati dall'art. 1, 2° comma, legge fallimentare. In mancanza, l'imprenditore sarà artigiano ai fini delle provvidenze regionali, ma dovrà qualificarsi imprenditore commerciale non piccolo ai fini civilistici e/o del diritto fallimentare, quindi potrà fallire. Non costituisce ostacolo alla dichiarazione di fallimento il riconosciuto carattere costitutivo dell'iscrizione nell'albo delle imprese artigiane, art. 5, dato che l'iscrizione non preclude all'autorità giudiziaria di accertare se effettivamente sussistano i presupposti per il riconoscimento della qualifica di piccolo imprenditore.
Secondo la giurisprudenza, l'imprenditore artigiano è soggetto a fallimento quando per l'organizzazione e l'espansione della sua azienda, egli abbia industrializzato la produzione, conferendo al suo guadagno, di regola modesto, i caratteri del profitto.
Anche l'esonero delle società artigiane al fallimento si deve ritenere cessato. Oggi infatti, non è più possibile sostenere che la legislazione speciale in tema di artigianato configura deroga ai principi fissati dalla legge fallimentare. E ciò per due motivi
1)perché la legge del 1985 opera solo ai fini della normativa di agevolazione
2)perché la nuova disciplina fallimentare è univoca nello stabilire che ai fini della dichiarazione di fallimento rileva solo la definizione di piccolo imprenditore che essa stessa detta all'art. 1, 2° comma.
Ne consegue che una società artigiana godrà delle provvidenze di cui godono le altre imprese artigiane, ma in caso di dissesto fallirà al pari di ogni altra società che esercita attività commerciale, se supera i limiti dimensionali della piccola impresa.
Non è sostenibile che le imprese artigiane siano imprese civili e non commerciali per difetto del requisito dell'industrialità. Oggi, come ieri, l'imprenditore artigiano non è che un piccolo industriale e quindi, giuridicamente, rientra nella categoria degli imprenditori commerciali, infatti, alcune delle attività esercitabili dall'impresa artigiana sono espressamente ricomprese nell'elenco delle attività commerciali di cui all'art. 2195 c.c.
In conclusione: Al pari di ogni altro imprenditore commerciale, l'imprenditore artigiano individuale e le società artigiane saranno esonerate dal fallimento solo se in concreto ricorrono i presupposti per poter essere qualificati piccoli imprenditori in base all'art. 1, 2° comma, legge fallimentare.
10. L'IMPRESA FAMILIARE
È impresa familiare l'impresa nella quale collaborano (anche attraverso il lavoro nella famiglia) il coniuge, i parenti entro il terzo grado (fino ai nipoti) e gli affini entro il secondo grado (fino ai cognati) dell'imprenditore: c.d. famiglia nucleare.
L'impresa familiare non va confusa con la piccola impresa. Può aversi piccola impresa senza che sia impresa familiare e viceversa.
Il legislatore ha voluto predisporre una tutela minima ed inderogabile del lavoro familiare nell'impresa, attraverso il riconoscimento per i membri della famiglia nucleare che lavorino in modo continuativo nella famiglia e nell'impresa determinati diritti patrimoniali e amministrativi.
Sul piano patrimoniale sono riconosciuti i seguenti diritti:
a. diritto al mantenimento, secondo le condizioni patrimoniali della famiglia, anche se non dovuto ad altro titolo (come per i figli maggiorenni);
b. diritto di partecipazione agli utili dell'impresa in proporzione alla quantità del lavoro prestato nell'impresa e nella famiglia;
c. diritto sui beni acquistati con gli utili e sugli incrementi di valore dell'azienda, anche dovuti ad avviamento, sempre in proporzione alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato;
d. diritto di prelazione sull'azienda in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda stessa.
Sul piano gestorio è previsto che le decisioni in merito alla gestione straordinaria dell'impresa e su talune decisioni di particolare rilievo sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all'impresa stessa. Ciascun familiare ha diritto a un solo voto e che alle decisioni non prenda parte l'imprenditore in quanto destinatario della decisione adottata dagli altri membri della famiglia.
Le decisioni in merito alla gestione ordinaria rientrano nella competenza esclusiva dell'imprenditore e che nessun potere competa al riguarda agli altri familiari.
La violazione da parte dell'imprenditore dei poteri gestori ex lege riconosciuti ai familiari lo esporrà al risarcimento dei danni eventuali nei loro confronti, ma non inciderà sulla validità o sull'efficacia degli atti compiuti, che saranno perciò ugualmente validi nei confronti dei terzi.
È previsto che il diritto di partecipazione:
è trasferibile solo a favore di altri membri della famiglia nucleare e con il consenso unanime dei familiari già partecipanti;
è inoltre liquidabile in danaro qualora cessi la prestazione di lavoro ed in caso di alienazione dell'azienda.
La disciplina dell'impresa familiare ha sollevato molti problemi interpretativi, sia per quanto riguarda i rapporti interni all'impresa, sia per quanto riguarda i rapporti con i terzi. Problemi condizionati dal fatto se l'impresa familiare resti un'impresa individuale o dia vita a un'impresa collettiva (società, associazione non riconosciuta, associazione in partecipazione). Oggi prevale la tesi secondo cui la disciplina delle prestazioni lavorative dei familiari dell'imprenditore non altera la struttura individuale dell'impresa e non incide sulla titolarità dei beni aziendali, che restano di proprietà esclusiva dell'imprenditore.
Accogliendo questa tesi, i diritti patrimoniali dei partecipanti all'impresa familiare vanno concepiti come semplici diritti di credito nei confronti del familiare imprenditore.
L'imprenditore agisce nei confronti dei terzi in proprio e non quale rappresentante dell'impresa familiare, sicché solo a lui saranno imputati gli effetti degli atti posti in essere nell'esercizio dell'impresa e solo lui sarà responsabile nei confronti dei terzi delle relative obbligazioni contratte.
Infine, se l'impresa è commerciale (e non piccola) solo l'imprenditore sarà eventualmente esposto al fallimento.
c) IMPRESA COLLETTIVA. IMPRESA PUBBLICA
11. L'IMPRESA SOCIETARIA
Il terzo ed ultimo criterio di distinzione della disciplina delle imprese è dato dalla natura giuridica del soggetto titolare dell'impresa che distingue fra impresa individuale, impresa societaria ed impresa pubblica.
Le società sono le forme associative tipiche, anche se non esclusive, previste dall' ordinamento per l'esercizio collettivo di attività di impresa. Esistono diversi tipi di società e la società semplice è utilizzabile solo per l'esercizio di attività non commerciali, mentre le altre società possono svolgere attività commerciali ed agricole. Le società diverse da quella semplice sono dette società commerciali e potranno essere imprenditori agricoli (società commerciali con oggetto agricolo) o imprenditori commerciali (società commerciali con oggetto commerciale) a seconda dell' attività esercitata.
L'applicazione alle società commerciali degli istituti dell'imprenditore commerciale segue alcune regole:
a. Parte della disciplina propria dell'imprenditore commerciale si applica alle società commerciali qualunque sia l'attività svolta, come per l'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, (art. 2136 e art. 2200), e per la tenuta delle scritture contabili. Resta invece fermo l'esonero delle società commerciali che gestiscono un'attività agricola dal fallimento e dalle altre procedure concorsuali, art. 2221 e art. 1, 1° comma, legge fallimentare.
A seguito della riforma del diritto fallimentare del 2006, anche le società possono essere piccoli imprenditori, e tale società sono esonerate anch'essi dalle procedure concorsuali, art. 1, 2° comma, legge fallimentare.
b. Nelle società in nome collettivo ed in accomandita semplice parte della disciplina dell'imprenditore commerciale trova poi applicazione solo o anche nei confronti dei soci a responsabilità illimitata: tutti i soci nella società in nome collettivo, i soci accomandatari nella società in accomandita semplice.
Trovano applicazione solo nei confronti dei soci le norme che regolano l'esercizio di impresa commerciale da parte di un incapace.
Trova applicazione anche nei confronti dei soci la sanzione del fallimento in quanto il fallimento della società comporta automaticamente il fallimento dei singoli soci a responsabilità illimitata.
12. LE IMPRESE PUBBLICHE
Attività di impresa può essere svolta anche dallo Stato e dagli altri enti pubblici. Ai fini dell'applicazione della disciplina dell'impresa è tuttavia rilevante distinguere fra tre possibili forme di intervento dei pubblici poteri nel settore dell'economia.
a. Lo stato o altro ente pubblico territoriale possono svolgere direttamente attività di impresa avvalendosi di proprie strutture organizzative, prive di distinta soggettività, ma dotate di una più o meno ampia autonomia decisionale e contabile. In questi casi l'attività di impresa è per definizione secondaria ed accessoria rispetto ai fini istituzionali dell'ente pubblico. Si parla perciò di imprese - organo. Es. le aziende municipalizzate, e i monopoli di stato.
L'art. 2093, per le imprese-organo, dispone che a tali enti si applicano le disposizioni del libro Quinto del codice civile, limitatamente alle imprese da essi esercitate e nel libro Quinto è compresa la disciplina dell'impresa commerciale. Ma, sono salve le diverse disposizioni di legge. Inoltre, gli enti titolari di imprese-organo sono implicitamente esonerati dall'iscrizione nel registro delle imprese, in quanto prevista solo per gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un'attività commerciale, art. 2201. Infine sono esonerati dalle procedure concorsuali.
b. La pubblica amministrazione può dar vita anche ad enti di diritto pubblico il cui compito istituzionale esclusivo o principale è l'esercizio di attività di impresa. Questi enti sono detti enti pubblici economici. Avevano tale veste giuridica molte banche pubbliche, enti statali ed enti a partecipazione statale. Dagli inizi degli anni '90 però questi enti sono stati ristrutturati e con una serie di interventi legislativi sono stati trasformati in spa a partecipazione statale (privatizzazione formale) oppure in spa senza partecipazione statale (privatizzazione sostanziale).
Gli enti pubblici economici, che hanno per oggetto esclusivo o principale un'attività, sono sottoposti allo statuto generale dell'imprenditore e, se l'attività è commerciale, sono sottoposti anche allo statuto proprio dell'imprenditore commerciale, con la sola eccezione dell'esonero dal fallimento e dalle procedure concorsuali minori, sostituiti dalla liquidazione coatta amministrativa o da altre procedure previste dalle leggi speciali. Secondo l'art. 2201, sono obbligati all'iscrizione al registro delle imprese.
Se ne deve desumere che gli enti pubblici economici che svolgono attività commerciale accessoria sono sottoposti allo statuto generale dell'imprenditore, nonché a tutte le restanti norme previste per gli imprenditori commerciali, anche all'obbligo di tenuta delle scritture contabili, per il quale manca un' espressa norma di esonero.
Ma vi è anche una parte della dottrina che ritiene che l'esonero dall'iscrizione nel registro delle imprese, per gli enti pubblici che esercitano attività commerciale in via accessoria, debba essere interpretato come espressione di un più generale principio di esonero di tali enti dalla disciplina dell' imprenditore commerciale. Perciò, agli enti pubblici si applicherebbe solo lo statuto generale dell'imprenditore , mentre sarebbero integralmente sottratti alla disciplina dell'imprenditore commerciale, anche in assenza di norme che dispongano ciò espressamente. Ma questa teoria non può essere condivisa:
sia per il generale richiamo di tutta la disciplina di diritto privato dell'attività di impresa operato dal 2° comma dell'art. 2093 che prevede che agli enti pubblici non inquadrati nelle associazioni professionali si applicano le disposizioni del libro Quinto limitatamente alle imprese da essi esercitate;
sia per il carattere eccezionale che si deve riconoscere all'art. 2201 e all'art. 2221 che sottraggono gli enti pubblici alla disciplina dell'impresa commerciale.
c. Lo stato e gli enti pubblici possono infine svolgere attività di impresa servendosi di strutture di diritto privato, in genere di società con partecipazione pubblica, totalitaria, di maggioranza o di minoranza. In questo caso, l'impresa si presenta formalmente come un'impresa societaria privata, come ogni altra società, anche se le azioni o quote appartengono allo Stato o ad altro ente pubblico. Perciò sono soggetti allo statuto dell'imprenditore come ogni altra società.
13. ATTIVITA' COMMERCIALE DELLE ASSOCIAZIONI E DELLE FONDAZIONI
Le associazioni, le fondazioni e, in generale, tutti gli enti privati con fini ideali o altruistici possono svolgere attività commerciale qualificabile come attività di impresa. Affinché si abbia impresa, l'attività produttiva deve essere condotta con metodo economico e tale metodo può ricorrere anche quando lo scopo perseguito sia ideale.
L'esercizio di attività commerciale da parte di tali enti, pur essendo sempre strumentale rispetto allo scopo istituzionale perseguito, può costituirne anche l'oggetto esclusivo e principale. In tal caso l'ente acquista la qualità di imprenditore commerciale e resta esposto a tutte le relative conseguenze, compresa l'esposizione al fallimento in caso di insolvenza, fatta eccezione per le associazioni qualificabili come imprese sociali.
Ma è più frequente che l'attività commerciale presenti carattere accessorio rispetto all' attività ideale costituente l'oggetto principale dell'ente. Ma il carattere accessorio dell'attività commerciale non impedisce l'acquisto della qualità di imprenditore, non potendosi eccepire che manchi il requisito della professionalità: la professionalità non implica che l'attività di impresa sia esclusiva o principale. Per tali enti non è dettata alcuna norma specifica per quanto concerne l'applicazione dello statuto dell'imprenditore commerciale, perciò essi acquistano la qualità di imprenditori commerciali con pienezza di effetti anche se l'attività commerciale ha carattere accessorio o secondario. Quindi saranno esposti anche al fallimento.
Una parte minoritaria della dottrina e la giurisprudenza ritengono che la disciplina delle imprese commerciali non sia applicabile agli enti di diritto privato diversi dalle società, quando l'attività di impresa abbia carattere accessorio. Ritengono che si debba applicare lo stesso regime dettato per gli enti pubblici titolari di imprese - organo.
Si ritiene che l'art. 2201 sia un principio generale valido per tutte le imprese collettive non societarie. Quindi, le associazioni e le fondazioni, che esercitano attività commerciale in via accessoria sarebbero esonerate dall'intero statuto dell' imprenditore commerciale. Cioè sarebbero imprenditori, ma non imprenditori commerciali. Ma questa tesi non può essere condivisa per due motivi:
l'art. 2201 è una norma eccezionale che trova fondamento nella struttura pubblicistica dell'ente, il che è sufficiente per respingere l'applicazione ad enti di diritto privato quali l'associazione o la fondazione;
l'art. 2201 si limita a prevedere l'esonero dalla registrazione e non può essere inteso come esonero degli enti pubblici titolari di imprese - organo dall'intero statuto degli imprenditori commerciali. Tanto è vero che per le procedure concorsuali è dettata una espressa norma, l'art. 2221.
In conclusione: le associazioni e le fondazioni esercenti attività commerciale in forma di impresa diventano sempre e comunque imprenditori commerciali e restano esposte al fallimento, senza possibilità di operare distinzioni in base al carattere principale o accessorio dell'attività di impresa.
Problema è invece se il fallimento di un'associazione non riconosciuta comporti anche il fallimento degli associati illimitatamente responsabili.
Ma dalla formulazione dell'art. 147, 1° comma, legge fallimentare, dall'art. 9 del d.lgs. 240/1991, è desumibile che il fallimento di un'impresa collettiva senza scopo di lucro non comporta il fallimento di chi risponde illimitatamente per le relative obbligazioni.
14. L'IMPRESA SOCIALE
Secondo l'art. 1, 1° comma, d.lgs. 155/2006 prevede che possono acquistare la qualifica di impresa sociale tutte le organizzazioni private che esercitano in via stabile e principale un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale.
Inoltre l'impresa sociale non ha scopo di lucro. L'impresa sociale è impresa in base all'art. 2082, perché è espressamente tenuta ad operare con metodo economico. Nulla vieta, inoltre, che l'esercizio dell'attività imprenditoriale produca un avanzo dei ricavi sui costi, detto avanzo di gestione. È vietata solo l'autodestinazione degli utili, che devono essere destinati allo svolgimento dell'attività o all'incremento del patrimonio dell'ente.
Inoltre sul patrimonio grava un vincolo di indisponibilità, in quanto, né durante l'esercizio dell'impresa, né allo scioglimento, è possibile distribuire fondi o riserve a vantaggio di coloro che fanno parte dell'organizzazione: amministratori, partecipanti, lavoratori, collaboratori, art. 3, 2° comma, d.lgs. 155/2006.
In caso di cessazione dell'impresa, il patrimonio residuo è devoluto ad organizzazioni non lucrative di utilità sociale, associazioni, comitati, fondazioni ed enti ecclesiastici, secondo l'art. 13, 3° comma, d.lgs. 155/2006.
L'art. 13, 1° comma, inoltre, stabilisce che l'assenza di lucro venga preservato in caso di operazioni di trasformazione, fusione e scissione cui partecipi l'impresa sociale, o di cessione dell'azienda.
Le finalità di interesse generale dell'impresa sociale sono favorite dal legislatore con alcuni privilegi.
Il primo privilegio è quello di potersi organizzare in qualsiasi forma di organizzazione privata.
In particolare può essere impiegato qualsiasi forma societaria anche se l'impresa non ha uno scopo lucrativo. Inoltre, più imprese sociali possono formare fra loro un gruppo di imprese, holding.
Invece, non possono avere la forma di imprese sociali, secondo l'art. 1, 2° comma
1)le amministrazioni pubbliche;
2)le organizzazioni che erogano beni e servizi esclusivamente a favore dei propri soci, associati o partecipi.
L'impresa sociale non è un nuovo tipo di ente diverso da quelli già previsti e regolati dall'ordinamento, bensì una qualifica che gli enti di diritto privato possono assumere a certe condizioni e che comporta l'applicazione di una disciplina speciale. Ne consegue che, ove non espressamente derogata, continuerà a trovare applicazione la disciplina propria dell'ente che esercita l'impresa sociale.
Il secondo privilegio è quello di poter limitare a certe condizioni la responsabilità patrimoniale dei partecipanti, anche quando è impiegata una forma giuridica che prevedrebbe la responsabilità personale illimitata di costoro.
Più precisamente: se l'impresa sociale è dotata di un patrimonio netto di almeno ventimila euro, dal momento dell'iscrizione nel registro delle imprese risponde delle obbligazioni assunte soltanto l'organizzazione con il suo patrimonio. Qualora, però, il patrimonio diminuisca per perdite di oltre un terzo ( a meno di 13.333 euro), delle obbligazioni assunte ne rispondono personalmente e solidalmente anche coloro che hanno agito in nome e per conto dell'impresa, ma non gli altri soci.
Di fatto, la limitazione di responsabilità opera solo a vantaggio delle imprese sociali in bonis, ma cessa quando il patrimonio diventa insufficiente.
Le imprese sociali sono soggette, anche, a delle regole speciali per quanto riguarda l'applicazione degli istituti tipici dell'imprenditore commerciale. Indipendentemente dalla natura agricola o commerciale dell'attività esercitata, esse:
a. devono iscriversi in un'apposita sezione del registro delle imprese, art. 5;
b. devono redigere le scritture contabili, art. 10;
c. in caso di insolvenza, sono assoggettate alla liquidazione coatta amministrativa, invece che a fallimento, art. 15.
Le organizzazioni che intendono assumere la qualifica di impresa sociale devono costituirsi per atto pubblico, osservando le disposizioni in merito all'atto costitutivo.
L'atto costitutivo deve:
determinare l'oggetto sociale, individuandolo fra le attività di utilità sociale riconosciute dalla legge;
enunciare l'assenza dello scopo di lucro;
indicare la denominazione dell'ente, integrata dalla locuzione "impresa sociale", art. 7;
fissare i requisiti e regole per la nomina dei componenti delle cariche sociali;
disciplinare le modalità di ammissione ed esclusione dei soci, nel rispetto del principio della non discriminazione, art. 9;
prevedere forme di coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari dell' attività di impresa nell'assunzione delle decisioni che possono incidere direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla qualità delle prestazioni erogate, art. 12. Devono essere coinvolti anche i lavoratori volontari.
prevedere una forma di controllo contabile affidato ad uno o più revisori contabili, iscritti presso il registro del Ministero della Giustizia, ed una forma di controllo di legalità della gestione e del rispetto dei principi di corretta amministrazione, che è riservato ad uno o più sindaci.
A questi sindaci, che devono vigilare anche sull'osservanza delle finalità sociali dell'impresa, è riconosciuto, in qualsiasi momento, il potere di ispezione e controllo e di chiedere notizie agli amministratori.
Le imprese sociali sono sottoposte anche a dei controlli esterni da parte del Ministero del Lavoro, che può procedere ad ispezioni.
Il Ministero del Lavoro può anche disporre la perdita della qualifica di impresa sociale in due circostanze:
se rileva l'assenza delle condizioni per il riconoscimento (natura di ente privato, attività in settori di utilità sociale, assenza dello scopo di lucro, indipendenza da enti pubblici o imprese lucrative);
se riscontra violazione della disciplina e, diffidati gli organi direttivi a porre fine ai comportamenti illegittimi, l'impresa non ottempera entro un congruo termine.
Ne consegue la cancellazione dell'impresa dal registro e l'obbligo di devolvere il patrimonio ad enti non lucrativi determinati dallo statuto, art. 16, 4° comma.
CAP. III L'ACQUISTO DELLA QUALITA' DI IMPRENDITORE
1. PREMESSA
L'acquisto della qualità di imprenditore è presupposto per l'applicazione ad un dato soggetto del complesso di norme che l'ordinamento ricollega a tale qualifica e, se l'attività è commerciale, di quelle specificatamente dettate per l'imprenditore commerciale.
Si diventa imprenditore commerciale, secondo l'art. 2082, con l'esercizio di attività di impresa
Per poter affermare che un soggetto è diventato imprenditore è necessario che l'esercizio dell'attività di impresa sia a lui giuridicamente riferibile, sia a lui imputabile.
L'art. 2082 nulla dice in merito al momento in cui deve ritenersi iniziato l'esercizio dell'impresa, con conseguente acquisto della qualità di imprenditore. E nulla dice circa il momento finale dell'attività di impresa, con conseguente perdita della qualità di imprenditore.
a) L'IMPUTAZIONE DELL'ATTIVITA' DI IMPRESA
2. ESERCIZIO DIRETTO DELL'ATTIVITA' DI IMPRESA
Principio generale del nostro ordinamento è che centro di imputazione degli effetti dei singoli atti giuridici posti in essere è il soggetto e solo il soggetto il cui nome è stato validamente speso nel traffico giuridico. Solo costui è obbligato nei confronti del terzo contraente.
Questo criterio di imputazione degli effetti attivi e passivi degli atti negoziali, spendita del nome, risponde ad esigenze di certezza giuridica ed è chiaramente enunciato in tema di mandato senza rappresentanza.
Il mandatario è un soggetto che opera nell'interesse di un altro soggetto e può porre in essere i relativi atti giuridici sia spendendo il proprio nome (mandato senza rappresentanza, art. 1705) sia spendendo il nome del mandante, se questi gli ha conferito il potere di agire in suo nome, cioè se gli ha conferito il potere di rappresentanza, mandato con rappresentanza, art. 1704.
L'imputazione degli effetti degli atti posti in essere dal mandatario è retta da principi contrapposti a seconda che il mandato sia o meno con rappresentanza, anche se in entrambi i casi il reale interessato è il mandante:
quando il mandatario agisce in nome del mandante, tutti gli effetti negoziali si producono direttamente nella sfera giuridica del mandante, art. 1388;
quando il mandatario agisce in proprio nome, secondo l'art. 1705, acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, anche se questi hanno avuto conoscenza del mandato. I terzi non hanno alcun rapporto con il mandante.
Quindi, è il principio formale della spendita del nome, e non il criterio sostanziale della titolarità dell'interesse economico, che domina nel nostro ordinamento l'imputazione dei singoli atti giuridici e dei loro effetti.
In conclusione: la qualità di imprenditore è acquistata, con pienezze di effetti, dal soggetto e solo dal soggetto il cui nome è speso nel compimento dei singoli atti di impresa.
Diventa imprenditore colui che esercita personalmente l'attività di impresa compiendo in nome proprio gli atti relativi.
Non diventa imprenditore chi esercita l'altrui impresa quando operi spendendo il nome dell'imprenditore, per effetto del potere di rappresentanza conferitogli dall'imprenditore o riconosciutogli dalla legge.
Perciò, quando gli atti di impresa sono compiuti tramite rappresentante, imprenditore diventa il rappresentato e non il rappresentante. E ciò anche quando il rappresentante abbia ampi poteri decisionali in merito agli atti di impresa, mentre il rappresentato (l'imprenditore) ne è privo, tanto da poter affermare che l'attività di impresa è sostanzialmente esercitata dal rappresentante.
ESERCIZIO INDIRETTO DELL'ATTIVITA' DI IMPRESA. LA TEORIA DELL'
IMPRENDITORE OCCULTO.
L'esercizio di attività di impresa può dar luogo a una dissociazione fra il soggetto cui è formalmente imputabile la qualità di imprenditore ed il reale interessato.
Questo fenomeno è detto esercizio dell'impresa tramite interposta persona. Si hanno due soggetti:
il soggetto (persona fisica o giuridica) che compie in nome proprio i singoli atti di impresa, detto imprenditore palese o prestanome;
e il soggetto (persona fisica o giuridica) che somministra al prestanome i mezzi finanziari necessari, dirige di fatto l'impresa e fa propri i guadagni, detto imprenditore occulto o indiretto.
Questo modo di operare solleva dei problemi quando gli affari vanno male ed il prestanome sia una persona fisica nullatenente o una spa o srl con capitale irrisorio, detta società di comodo o etichetta. Ciò potrebbe causare notevoli ripercussioni nei confronti dei creditori, soprattutto se piccoli.
Infatti i creditori potrebbero provocare il fallimento del prestanome, in quanto esso ha agito in nome proprio ed ha perciò acquistato la qualità di imprenditore commerciale. Ma, essendo nullatenente o quasi, i creditori non potranno ricavarne nulla. Con ciò il rischio di impresa non sarà sopportato dal reale imprenditore, ma da questi è trasferito, attraverso l'imprenditore palese, sui creditori.
Parte della dottrina ha ritenuto di poter neutralizzare questi pericoli negativi per i creditori, derivanti dall'applicazione del principio della spendita del nome, escludendo che la stessa sia requisito necessario ai fini dell'imputazione della responsabilità per i debiti dell'impresa. Per l'attività di impresa opererebbero dei principi che consentirebbero di imputare anche all'imprenditore occulto i debiti contratti dall'imprenditore palese, e quindi di sottoporre anche l'imprenditore occulto al fallimento.
La responsabilità cumulativa dell'imprenditore palese e dell'imprenditore occulto, con esclusione di quest'ultima dal fallimento, è stata affermata muovendo dall'idea che nel nostro ordinamento giuridico è espressamente sanzionata la inscindibilità del rapporto del rapporto potere-responsabilità. Chi esercita il potere di direzione di un'impresa se ne assume necessariamente anche il rischio e risponde delle relative obbligazioni.
Tale principio si desume da una serie di norme dettate in tema di società di persone:
l'art. 2267, 1° comma, che ammette la possibilità di limitare la responsabilità dei soci nei confronti dei creditori, ma esclude che possa essere limitata la responsabilità dei soci amministratori;
l'art. 2291, che esclude che sia efficace nei confronti dei terzi la limitazione di responsabilità dei soci di una snc;
l'art. 2318, che affermano che l'amministrazione della sas può essere conferita soltanto ai soci accomandatari (che hanno una responsabilità illimitata);
l'art. 2320, che afferma la perdita del beneficio della responsabilità limitata per i soci accomandanti di una sas che compiano atti di amministrazione;
l'art. 2362, modificato dal d.lgs. n° 6/2003, che prevede la responsabilità illimitata del socio unico di una spa;
l'art. 2497, modificato dal d.lgs. n° 6/2003, che prevede la responsabilità illimitata del socio unico di una srl.
Esso consentirebbe di affermare che, quando l'attività di impresa è esercitata tramite prestanome, responsabili verso i creditori sono sia il prestanome sia l'imprenditore occulto, anche se solo il prestanome acquista la qualità di imprenditore e, quindi, sia senz'altro esposto al fallimento, dato che è stato speso solo il suo nome.
Secondo la teoria dell'imprenditore occulto, l'imprenditore occulto non solo risponderà insieme al prestanome, ma fallirà sempre e comunque qualora fallirà il prestanome. La parificazione sul piano della responsabilità di impresa sarebbe giustificata dall'art. 147, 2° comma della legge fallimentare; oggi 4° comma.
Tale norma completa il principio secondo cui il fallimento di una società comporta il fallimento dei soci a responsabilità illimitata e dispone che il fallimento della società si estenda ai soci la cui esistenza sia scoperta dopo la dichiarazione di fallimento della società e dei soci palesi. Cioè, si abbia fallimento del socio occulto di società palese.
La teoria proseguiva affermando che l'art. 147, 2° comma, legge fallimentare, fosse applicabile per analogia alla diversa ipotesi in cui i soci abbiano occultato l'esistenza stessa della società. Ossia quando si è in presenza di una società occulta, dove chi contratta con i terzi si presenta come imprenditore individuale ma in realtà è socio occulto di una società occulta.
Oggi, il fallimento dei soci occulti di una società occulta è disposto espressamente dal 5° comma dell'art. 147, legge fallimentare.
Se fallisce la società occulta è inevitabile che fallisca anche l'imprenditore occulto.
È affermata anche la responsabilità del socio tiranno di una spa, cioè dell'azionista che usa la società come cosa propria e ne dispone a suo piacimento con l'assoluto disprezzo delle regole fondamentali del diritto societario. Regole violate anche attraverso la confusione dei patrimoni della società e del socio.
È affermata anche la responsabilità del socio sovrano, cioè dell'azionista che, pur rispettando le regole di funzionamento della società, in fatto domini la società in forza del possesso di un pacchetto azionario di controllo.
In conclusione: si sanziona con la responsabilità personale e con il fallimento ogni forma di dominio occulto o palese dell'altrui impresa.
4. CRITICA. L'IMPUTAZIONE DEI DEBITI DI IMPRESA.
Entrambe le tesi si fondano sulla presunta esistenza nel nostro ordinamento di due criteri generali di imputazione della responsabilità per debiti di impresa:
a. il criterio formale della spendita del nome, in base alla quale acquista la qualità di imprenditore, con pienezza di effetti, la persona fisica o la società nel cui nome l'attività di impresa è svolta;
b. il criterio sostanziale del potere di direzione, in base al quale risponderebbe e fallirebbe anche il reale interessato.
Ma quest'ultima affermazione non può essere condivisa, in quanto né le norme societarie né la legge fallimentare consentono di dimostrare che un soggetto può essere chiamato a rispondere, né ad assumere la qualità di imprenditore, solo perché egli è il vero imprenditore di un'impresa individuale formalmente imputabile ad altro soggetto o di una società di capitali.
Non lo dimostra la disciplina societaria in quanto è vero che nelle società di persone il socio amministratore non può limitare la propria responsabilità, ma non è vero che la responsabilità illimitata è indissolubilmente legata al potere di gestione.
Infatti, nella snc tutti i soci rispondono illimitatamente anche se la gestione è riservata solo ad alcuni soci. Così come per i soci accomandatari della sas.
L'assunto che nelle società di capitali la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali sia legata al potere di gestione è smentito dalla disciplina introdotta, dapprima dal d.lgs. del 1993 per le srl e, nel 2003 per le spa.
Infatti, non basta più essere unico socio per incorrere in responsabilità illimitata, ma è necessario che vi siano altre condizioni oggettive e formali. Condizioni che la riforma del 2003 ha ridotto di numero e rigore, favorendo il mantenimento della limitazione di responsabilità da parte del socio unico.
Il collegamento indissolubile fra potere di gestione e responsabilità illimitata non è dimostrabile neppure in base all'art. 147 della legge fallimentare.
La teoria dell'imprenditore occulto fonda le sue conclusione su un'estensione analogica: dal fallimento del socio occulto di società palese e dal fallimento del socio occulto di una società occulta, passa per analogia, al fallimento dell'imprenditore occulto. Ma non è così.
Nel fallimento del socio occulto di società palese (regolata dall'art. 147, 4° comma) è fuori contestazione che esista una società con soci a responsabilità illimitata, che il soggetto successivamente scoperto sia socio di questa società e che gli atti di impresa siano posti in essere in nome della società. Ciò che è stato occultato è il numero reale dei soci e il socio occulto fallisce per lo stesso motivo per cui falliscono i soci palesi, ossia perché fa parte della società. Quindi per un criterio formale : la partecipazione a una società di persone.
Nel fallimento del socio occulto di società occulta (regolata dall'art. 147, 5° comma) è fuori contestazione che esiste una società a responsabilità illimitata e che i soggetti successivamente scoperti ne facciano parte. I soci occulti sono tuttavia chiamati a rispondere di atti posti in essere non in nome della società, ma in nome di un socio che opera con i terzi come mandatario senza rappresentanza. I soci occulti, mediante la non esteriorizzazione del vincolo sociale, cercano di sottrarsi al fallimento personale ed alla responsabilità illimitata per i debiti sociali, che sono invece regole inderogabili del tipo di società scelto (snc). Ma, i soci che intendono limitare la propria responsabilità per i debiti sociali devono farlo costituendo un diverso tipo societario, che preveda tale beneficio. Ciò che l'ordinamento intende colpire è l'uso distorto della forma societaria. Anche i soci occulti di società occulta falliscono e rispondono in base a un criterio formale ed oggettivo : la partecipazione ad una società di persone.
L'art. 147, 1° comma, della legge fallimentare, circoscrive il fallimento dei soci illimitatamente responsabili a tre soli tipi societari: snc, sas, sapa. Pertanto, non falliscono né l'unico azionista, né il socio unico di srl, anche se rispondono illimitatamente dei debiti sociali.
Dall'art. 147, 4° e 5° comma, legge fallimentare, si può desumere il principio che chi è socio di una srl risponde verso i terzi anche se la sua partecipazione alla società non è esteriorizzata o se non è stata esteriorizzata l'esistenza della società stessa. Non può essere chiamato a rispondere chi non è socio.
Nel rapporto fra imprenditore occulto e imprenditore palese non vi è nessuna società, dato che nel rapporto che si instaura fra i due soggetti, mancano tutti gli elementi costitutivi del contratto di società: fondo comune, esercizio in comune dell' attività, divisione degli utili. Il prestanome è solo mandatario senza rappresentanza dell' imprenditore occulto e non suo socio. Quindi, la situazione giuridica è diversa da quella prevista dall'art. 147, 4° e 5° comma. Perciò, a seguito del fallimento della società occulta, non vi è, per analogia, responsabilità illimitata dell'imprenditore occulto di un'altrui impresa individuale o di una società di capitali.
Ciò trova conferma nei principi che regolano le società di capitali. In queste è sempre individuabile un socio o un gruppo di soci che in fatto controlla e dirige la società. Ma costoro non sono in quanto tali chiamati dal legislatore a rispondere personalmente dei debiti della società. Ne rispondono solo quando ricorre la situazione formale ed oggettiva della concentrazione di tutte le azioni o quote nelle mani di un solo soggetto e le quote di partecipazione dei soci sono rappresentate da azioni.
Con la riforma del diritto societario del 2003 è stata introdotta la disciplina dell'attività di direzione e coordinamento di società . Le nuove norme riconoscono infatti che le società o gli enti che esercitano il potere di direzione e coordinamento su altre società possono incorrere in responsabilità nei confronti dei soci e dei creditori di quest'ultime società, in caso di abuso del potere di controllo, ossia quando la controllante ha agito nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società controllate, art. 2497, 1° comma (così come modificato dal d.lgs. n° 6/2003).
Regole che non vengono considerate dalla teoria dell'imprenditore occulto quando afferma la responsabilità illimitata e l'esposizione al fallimento sia del socio tiranno che del socio sovrano, di chi abusa e di chi usa lo schermo societario.
In conclusione: è vero che la spendita del nome non è il solo criterio di imputazione dei debiti di impresa, ma è anche vero che tale imputazione è pur sempre retta da indici esclusivamente formali ed oggettivi (qualità di socio illimitatamente responsabile, mancato rispetto della disciplina dei conferimenti e della pubblicità nelle società unipersonale, abuso del potere di direzione e coordinamento). Perciò, il dominio di fatto non è condizione sufficiente per esporre a responsabilità e fallimento, né determina di per sé l'acquisto della qualità di imprenditore.
Ma questo regime è iniquo e pericoloso in quanto, non chiamando a rispondere chi comanda dietro le quinte, si danneggiano i creditori dell'imprenditore palese.
Ma, l'opposta soluzione, avvantaggerebbe tali creditori oltre i limiti della tutela dell'affidamento poiché finirebbero col giovarsi di un patrimonio (quello dell'imprenditore occulto), su cui non potevano fare affidamento quando concessero il credito al prestanome. Tutto ciò a scapito dei creditori personali dell'imprenditore occulti, che vedrebbero concorrere sul patrimonio del loro debitore anche i creditori del prestanome, di cui ignoravano l'esistenza, con altrettanto ingiusta lesione del loro affidamento. Quindi vi sono creditori da tutelare da ogni parte.
5. UNA TECNICA PER REPRIMERE GLI ABUSI
Il dominio di fatto su un'impresa individuale o societaria, formalmente imputabile ad altro soggetto, non implica di per sé responsabilità illimitata per i debiti di impresa.
Diverse tecniche sono state proposte per affermare, in applicazione e non in deroga ai criteri di imputazione previsti dall'ordinamento, la responsabilità personale e l'esposizione al fallimento di chi abusi della posizione di dominio su una società di capitali.
La giurisprudenza ritiene che i comportamenti tipici del socio tiranno possono integrare gli estremi di una autonoma attività di impresa di un'impresa di finanziamento e/o gestione a latere della o delle società di capitale dominate. Pertanto, sempre che ricorrano i requisiti fissati dall'art. 2082, il socio o i soci che hanno abusato dello schermo societario risponderanno come titolari di un'autonoma impresa commerciale individuale o societaria (società di fatto), per le obbligazioni da loro contratte nello svolgimento dell'attività fiancheggiatrice della società di capitale ed in quanto tali potranno fallire sempreché si accerti l'insolvenza della loro impresa.
Questa tecnica tutela in modo pieno e diretto solo i creditori delle società di capitali che hanno titolo per agire anche contro il socio e quindi i creditori più forti, ma va a vantaggio anche degli altri creditori.
b) INIZIO E FINE DELL'IMPRESA
6. L'INIZIO DELL'IMPRESA
La qualità di imprenditore si acquista con l'effettivo inizio dell'esercizio dell'attività di impresa. Non è sufficiente l'intenzione di dare inizio all'attività, anche se esternata con la richiesta delle eventuali autorizzazioni amministrative necessarie o con l'iscrizione in albi o registri.
L'effettivo inizio fa acquistare la qualità di imprenditore indipendentemente dalle intenzioni del soggetto agente ed anche se l'attività è esercitata in violazione di norme amministrative abilitanti. La stessa iscrizione nel registro delle imprese non è condizione né necessaria né sufficiente per l'attribuzione della qualità di imprenditore commerciale.
Le società acquisterebbero la qualità di imprenditore fin dal momento della loro costituzione e, quindi, prima ed indipendentemente dall'effettivo inizio dell'attività produttiva. Fin dalla costituzione si applicherebbe nei loro confronti tutta la disciplina dell'imprenditore. Per le società lo svolgimento di attività di impresa costituisce la ragione stessa della loro costituzione e ciò rende superfluo l'accertamento del concreto inizio dell'attività programmata. Accertamento, invece, richiesto per le persone fisiche.
È vero che per le società non è necessario l'accertamento dei requisiti della organizzazione e della professionalità richiesti dall'art. 2082, ma è anche vero che, rispetto all'attività di impresa, la costituzione della società non è che una dichiarazione programmatica e tale resta fin quando non si dia inizio alla fase attuativa. Ma, l'art. 2082 ricollega l'acquisto della qualità di imprenditore all' esercizio e non alla mera intenzione di esercitare attività di impresa. Quindi, il principio dell'effettività può e deve trovare applicazione anche per le società.
7. ATTIVITA' DI ORGANIZZAZIONE E ATTIVITA' DI ESERCIZIO
Per stabilire quando si ha l'effettivo inizio dell'attività di impresa bisogna distinguere a seconda che il compimento di atti tipici di impresa (atti di esercizio) sia o meno preceduta da una fase organizzativa (atti di organizzazione) oggettivamente percepibile.
In mancanza di tale fase preparatoria, solo la ripetizione nel tempo di atti di impresa omogenei e funzionalmente coordinati renderà certo che non si tratta di atti occasionali, bensì di attività professionalmente esercitata. Anche un solo atto di esercizio sarà sufficiente per affermare che l'attività è iniziata. Non sarà necessario concludere il ciclo produttivo con la vendita del prodotto.
La stabile organizzazione è già di per sé indice non equivoco di attività professionale.
Comunque la qualità di imprenditore si acquista già nella fase preliminare di organizzazione e prima del compimento del primo atto di gestione. Infatti, anche l' organizzazione della produzione è attività imprenditoriale ed è un'attività che pone esigenze di tutela dei creditori non diverse da quelle che sorgono durante l'esercizio.
In conclusione: anche gli atti di organizzazione sono atti di impresa e possono essere equiparati agli atti di gestione non preceduti da una fase organizzativa.
Per le persone fisiche, gli atti di organizzazione determineranno l'acquisto della qualità di imprenditore e l'esposizione al fallimento quando, per il loro numero e per la loro significatività, manifestano in modo non equivoco lo stabile orientamento dell'attività verso un determinato fine produttivo, sia pure non ancora realizzato.
Per le società, anche un singolo atto di organizzazione imprenditoriale, particolarmente qualificato, sarà di regola sufficiente per affermare che l'attività di impresa è iniziata.
8. LA FINE DELL'IMPRESA
In passato, mentre per l'imprenditore individuale era pacifico che la qualità di imprenditore si perdesse solo con l'effettiva cessazione dell'attività (principio di effettività), per le società il punto era controverso.
Una parte della giurisprudenza riteneva che le società non potessero mai considerarsi estinte fin quando non fossero state cancellate dal registro delle imprese.
Il dibattito era alimentato dalla versione originale dell'art. 10 legge fallimentare che disponeva che l'imprenditore commerciale poteva essere dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell'impresa.
La fine dell'impresa è preceduta da una fase di liquidazione, in cui l'imprenditore termine il ciclo produttivo iniziato, vende le giacenze e gli impianti, licenzia i dipendenti e definisce i rapporti pendenti.
Nessuno dubitava sul fatto che la fase di liquidazione costituisse ancora esercizio dell'impresa e che la qualità di imprenditore si perdesse con la chiusura della fase di liquidazione. Secondo la giurisprudenza, la fase di liquidazione poteva ritenersi chiusa solo con la definitiva disgregazione del complesso aziendale, che rende definitiva ed irrevocabile la cessazione.
Per l'imprenditore individuale la giurisprudenza precisava che non era necessario che fossero stati definiti i rapporti sorti durante l'esercizio dell'impresa, cioè non era necessario che fossero stati riscossi tutti i crediti e fossero stati pagati tutti i debiti.
Se l'impresa dovesse ritenersi in vita fin quando vi fossero state passività, il vecchio art. 10 sarebbe stato privo di significato: l'anno per la dichiarazione di fallimento avrebbe cominciato a decorrere da quando l'insolvenza in pratica non era più possibile essendo stati pagati tutti i creditori.
Per le società, si riteneva che perdessero la qualità di imprenditore con la cancellazione dal registro delle imprese. Secondo la giurisprudenza, la cancellazione avrebbe presupposto non solo la disgregazione dell'azienda, ma anche l'integrale pagamento delle passività ad opera dei liquidatori e la definizione dei rapporti con i soci. Solo da tale momento avrebbe iniziato a decorrere il termine previsto dall'art. 10 legge fallimentare, che si presentava inapplicabile alle società.
Se si verificava che creditori ritardatari (quasi sempre fisco e istituti previdenziali) avessero delle pretese dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese, la giurisprudenza affermava che, nonostante fosse cancellata dal registro delle imprese, la società si riteneva esistente ed esposta al fallimento fin quando non fosse stato pagato l'ultimo debito. Quindi l'art. 10 legge fallimentare non valeva per le società, in quanto una società poteva fallire anche dopo anni dalla cessazione dell'attività di impresa e dalla cancellazione dal registro delle imprese.
La situazione cambiò a seguito degli interventi della Corte Costituzionale a partire dal 1999. Infatti, dapprima, la Corte dichiarò incostituzionale la parte dell'art. 10 legge fallimentare, dove non prevedeva che il termine di un anno per la dichiarazione di fallimento della società decorresse dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese, a prescindere dall'integrale pagamento dei debiti. In seguito, la Corte, al fine di non provocare disparità con l'imprenditore individuale, sostenne che anche per quest'ultimo il termine annuale dovesse decorrere dalla cancellazione dal registro delle imprese, salva però la possibilità per i creditori di dimostrare la prosecuzione dell'attività da parte dell'imprenditore individuale anche dopo la cancellazione.
Il d.lgs. n° 5/2006 ha riformato l'art. 10 legge fallimentare per conformarlo con i principi enunciati dalla Corte Costituzionale.
Il nuovo articolo 10 legge fallimentare dispone ora che gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente dalla stessa o entro l'anno successivo.
In caso di impresa individuale o di cancellazione d'ufficio degli imprenditori collettivi è fatta salva la facoltà di dimostrare il momento effettivo della cessazione dell'attività da cui decorre il termine di un anno
L'attuale dato normativo consente di affermare che oggi la cancellazione del registro delle imprese è condizione necessaria affinchè l'imprenditore individuale o collettivo benefici del termine annuale per la dichiarazione di fallimento.A seguito dell'intervento correttivo del 2007, infatti,il debitore nn può dimostrare d'aver cessato l'attività d'impresa prima della cancellazione per anticipare il decorso di tale termine, nemmeno se si tratti di persona fisica.Ne consegue , benchè il punto sia controverso , che le società irregolari (vale a dire , non iscritte nel registro delle imprese) e le società occulte potranno essere dichiarate fallite senza limiti di tempo finchè sussistono debiti insoluti, in quanto per il loro termine anuale non decorre.Del pari, l'imprenditore persona fisica non iscritto resta esposto al fallimento fin quando non ha estinto tutti i debiti di impresa. Per gli imprenditori persone fisiche e per le società cancellate d'ufficio,la cancellazione dal registro delle imprese non è però da sola sufficiente.Essa deve accompagnarsi anche all'effettiva cessazione dell'attività d'impresa, mediante la disgregazione del complesso aziendale.Altrimenti, il termine annuale non decorre.Per ragioni di certezza del diritto, si presume infatti che al momento della cancellazione l'attività d'impresa sia già terminata , ma il creditore o il pubblico ministero sono ammessi a provare il contrario per ottenere la dichiarazione di fallimento del debitore dopo l'anno dalla cancellazione stessa. E identica soluzione è da accogliere anche nel caso , non disciplinato dalla legge,che una società di persone abbia proseguito l'attività d'impresa dopo essere stata volontariamente cancellata dal registro delle imprese. Ciò in quanto è evidentemente inammissibile che la società possa pretendere, trascorso l'anno dalla cancellazione, di esercitare impresa commerciale senza essere esposta al fallimento.
c) CAPACITA' E IMPRESA
9. INCAPACITA' E INCOMPATIBILITA'
La capacità all'esercizio di un'attività di impresa si acquista con la piena capacità di agire e quindi con il compimento della maggiore età.
Si perde in seguito ad interdizione o inabilitazione.
L'esercizio di attività di impresa da parte di un incapace non fa sorgere la qualità di imprenditore in capo all'incapace, anche se i singoli atti compiuti restano validi.
Non sono limitazioni alla capacità di agire, ma incompatibilità, i divieti di esercizio di impresa commerciale posti a carico di coloro che esercitano determinati uffici o professioni. La violazione di tale divieti non preclude l'acquisto della qualità di imprenditore, ma espone solo a sanzioni amministrative e ad un aggravamento delle sanzioni penali per bancarotta in caso di fallimento, art. 219 legge fallimentare.
Non impedisce l'acquisto della qualità di imprenditore commerciale nemmeno l' inabilitazione temporanea all'esercizio di attività commerciale che consegue alla condanna per bancarotta o per ricorso abusivo al credito in caso di fallimento, art. 216 legge fallimentare.
10. L'IMPRESA COMMERCIALE DELL'INCAPACE
È possibile l'esercizio di attività di impresa per conto e nell'interesse di un incapace (minore e interdetto) o da parte di soggetti limitatamente capaci di agire (inabilitato, minore emancipato, beneficiario di amministrazione di sostegno), con l'osservanza delle disposizioni dettate a riguardo.
Il codice non prevede regole particolari per l'attività agricola, sicché si applicano le norme di diritto comune che regolano il compimento di atti giuridici da parte di un incapace.
È prevista, invece, una disciplina specifica per l'attività commerciale.
L'amministrazione del patrimonio degli incapaci è regolata in modo da garantirne la conservazione e l'integrità impedendo che lo stesso venga impiegato in operazione aleatorie o di pura sorte.
Perciò il rappresentante legale del minore o dell'interdetto è legittimato a compiere solo gli atti di ordinaria amministrazione, mentre quelli di straordinaria amministrazione possono essere compiuti solo in caso di necessità o di utilità evidente, accertata dall'autorità giudiziaria con autorizzazione concessa atto per atto. Gli stessi principi reggono il compimento di atti giuridici da parte dell' inabilitato o del minore emancipato, che agiscono personalmente con l'assistenza di un curatore. L'attività commerciale è per sua natura non conservativa del patrimonio e soprattutto è attività rischiosa.
Il legislatore considera con sfavore l'impiego del patrimonio di un incapace in attività commerciali e in tale prospettiva pone un divieto assoluto di iniziare impresa commerciale per il minore, l'interdetto e l'inabilitato.
Per il minore emancipato è consentito solo la continuazione dell'esercizio di un'attività commerciale preesistente, quando ciò sia utile per l'incapace e purché la continuazione sia autorizzata dal tribunale.
Minore e interdetto *. In nessun caso è consentito l'inizio di una nuova impresa commerciale in nome e nell'interesse del minore. Quando questi acquista, per successione ereditaria o per donazione, una preesistente attività commerciale, il rappresentante legale può essere autorizzato dal tribunale a continuare l'esercizio dell'impresa. Per evitare l' interruzione temporanea dell'attività, il giudice tutelare può consentire l'esercizio provvisorio dell'impresa fin quando il tribunale non abbia autorizzato la continuazione, art. 320 5° comma, art. 371 2° comma.
Una volta autorizzato definitivamente l'esercizio dell'impresa, il genitore o il tutore è legittimato a compiere tutti gli atti che rientrano nell'esercizio dell'impresa, siano essi di ordinaria amministrazione che di straordinaria amministrazione. Sono soggetti a specifica autorizzazione quegli atti che non sono finalizzati alla gestione dell' impresa.
Inabilitato. L'inabilitato è un soggetto con capacità di agire limitata agli atti di ordinaria amministrazione. Per essi è vietato iniziare una nuova attività commerciale, mentre è consentito solo la continuazione di un'attività commerciale preesistente, art. 425.
Una volta autorizzata la continuazione dell'impresa, l'inabilitato potrà esercitare personalmente l'impresa, sia pure con l'assistenza del curatore e con il consenso di quest'ultimo per gli atti di straordinaria amministrazione.
Il tribunale può subordinare l'autorizzazione alla nomina di un institore (direttore generale); nomina che può essere fatta dallo stesso inabilitato col consenso del curatore.
Minore emancipato. Il minore emancipato può essere autorizzato dal tribunale all'inizio di una nuova attività commerciale, art. 397. Con l'autorizzazione il minore emancipato acquista la piena capacità di agire, potendo gestire l'impresa senza l'assistenza di un curatore e potrà compiere anche atti di straordinaria amministrazione.
Beneficiario di amministrazione di sostegno. Esso conserva capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l'assistenza dell' amministrazione di sostegno, art. 490. Di conseguenza, egli potrà liberamente iniziare o proseguire un'attività di impresa senza assistenza, salvo che il giudice tutelare disponga diversamente nel decreto di nomina dell'amministratore di sostegno o con successivo decreto motivato, art. 405 e 410.
I provvedimenti autorizzativi del tribunale e i provvedimenti di revoca dell' autorizzazione sono soggetti ad iscrizione nel registro delle imprese, art. 2198.
L'esercizio autorizzato dell'impresa da parte del tribunale determina l'acquisto della qualità di imprenditore commerciale da parte dell'incapace.
Tale qualità è acquistata dal minore emancipato e dall'inabilitato, in quanto l'impresa è da essi esercitata personalmente.
Tale qualità è acquistata anche dal minore e dall'interdetto, in quanto tutti gli atti sono compiuti dal rappresentante legale in loro nome.
L'incapace resta esposto, perciò, a tutte le conseguenze che derivano dalla qualità di imprenditore commerciale, compresa l'esposizione al fallimento.
CAP. IV LO STATUTO DELL'IMPRENDITORE COMMERCIALE
1. PREMESSA
L'imprenditore commerciale è destinatario di una particolare disciplina dell'attività, in parte comune con gli altri imprenditori, detto statuto generale dell'imprenditore, in parte propria e specifica, detto statuto speciale dell'imprenditore commerciale.
Inoltre ci sono alcuni tipi di imprese commerciali, che svolgono attività di particolare rilievo economico e/o sociale, che sono destinatarie di un'ulteriore normativa speciale e settoriale, prevista da leggi speciali. Esempio ne sono le imprese bancarie, le imprese assicurative, le imprese editoriali, le società di revisione contabile, le società di gestione di organismi di investimento collettivo e le società di investimento a capitale variabile ( Sicav), le società di intermediazione mobiliare (Sim).
a) LA PUBBLICITA' LEGALE
2. LA PUBBLICITA' DELLE IMPRESE COMMERCIALI
Da sempre gli imprenditori avvertono l'esigenza di poter disporre con facilità di informazioni veritiere e non contestabili sulle aziende con cui entrano in contatto. Cioè hanno la necessità di ricevere e dare informazioni di carattere organizzativo rilevanti per il sicuro svolgimento della vita economica.
Per le imprese commerciali tale esigenza è stata soddisfatta dal legislatore con l' introduzione di un sistema di pubblicità legale. Cioè, ha previsto l'obbligo di rendere di pubblico dominio determinati atti o fatti della vita dell'impresa, secondo forme e modalità predeterminate per legge. In tal modo, le informazioni ritenute legislativamente rilevanti:
a. sono rese accessibili ai terzi interessati, pubblicità notizia;
b. sono opponibili a chiunque, conoscibilità legale.
Il codice civile del 1942 prevedeva come strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali non piccole e delle società commerciali il registro delle imprese.
L'entrata in funzione del registro delle imprese era però subordinata a dei regolamenti di attuazione che sono arrivati solo nel 1995. Nel frattempo, ha trovato applicazione il regime transitorio, imperniato sull'iscrizione nei preesistenti registri di cancelleria del Tribunale e sull'esonero temporaneo dall'iscrizione degli imprenditori commerciali individuali e degli enti pubblici economici. Quindi, il sistema di pubblicità legale operava solo per le società commerciali e per i consorzi con attività esterna.
Nell'attesa del registro delle imprese la situazione si è ulteriormente complicata con l' introduzione di nuove forme di pubblicità per le società di capitali e delle società cooperative.
Per le società di capitali, nel 1969, fu prevista, per una serie di atti, la pubblicazione nel Bollettino ufficiale delle società per azioni a responsabilità limitata, Busarl, in aggiunta all'iscrizione nel registro delle imprese (cancelleria del tribunale).
Per le società cooperative , nel 1973, fu introdotta la pubblicazione nel Bollettino ufficiale delle società cooperative e dei consorzi di cooperative, Busc, sempre in aggiunta all'iscrizione nel registro delle imprese.
Inoltre, leggi speciali, prevedettero ulteriori adempimenti pubblicitari, con valore di pubblicità notizia. Infatti, chiunque esercitasse l'industria, il commercio o l'agricoltura era tenuto all' iscrizione nel registro delle ditte, tenuto dalla Camera di Commercio. Quindi anche i piccoli imprenditori e le imprese agricole.
Ne risultava un sistema di pubblicità delle imprese disorganico e complesso.
Dopo numerosi tentativi falliti, la situazione si sblocca con la legge n. 580/1993, contenente norme per il riordino delle camere di commercio. Tale legge all'art. 8, e il successivo regolamento di attuazione (d.p.r. n. 581/1995, modificato dal d.p.r. n.559/1996) hanno finalmente istituito il registro delle imprese, che è divenuto operativo solo dal 1997, ponendo fine al regime transitorio.
Ha cessato di esistere il registro delle ditte, sono state soppresse il Busarl e il Busc, sicché per tutte le società di capitali e cooperative l'unico sistema di pubblicità legale è il registro delle imprese.
La nuova disciplina del registro delle imprese ha però introdotto alcune novità rispetto al sistema previsto dal codice del 1942:
a. L'attuale registro delle imprese non è più solo strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali, ma è anche strumento di informazione sui dati organizzativi di tutte le altre imprese. Infatti, l'iscrizione nel registro delle imprese è stata estesa agli imprenditori agricoli, ai piccoli imprenditori, alle società semplici e con la legge n. 96/2001 è stata estesa anche alle società tra avvocati. Nel contempo, presso il registro delle imprese, è stato istituito il Repertorio delle notizie economiche e amministrative (Rea), destinato a raccogliere notizie di carattere economico, statistico ed amministrativo, con esclusione delle notizie già iscritte nel registro delle imprese.
b. La tenuta del registro delle imprese è affidata alle camere di commercio, con cessazione dei compiti in passato svolte dalle cancellerie del tribunale.
c. Il registro delle imprese è tenuto con tecniche informatiche, in modo da assicurare completezza ed organicità della pubblicità, e garantire tempestività dell'informazione su tutto il territorio nazionale.
Il registro delle imprese è pubblico. Chiunque può consultarne i dati sui terminali installati presso l'ufficio o su terminali collegati tramite il sistema informatico delle camere di commercio (Telemaco).
Ciascun ufficio rilascia certificati e copie di atti tratti dai propri archivi informatici.
3. IL REGISTRO DELLE IMPRESE
L'ufficio del registro delle imprese è istituito presso la camera di commercio di ogni provincia, art. 8, 1° comma, legge 580/1993, ed è retto da un conservatore (segretario generale o dirigente) nominato dalla giunta della camera di commercio.
L'attività dell'ufficio è svolta sotto la vigilanza di un giudice delegato dal presidente del tribunale della provincia, art. 8, 2° comma, legge 580/1993.
Il registro delle imprese è attualmente articolato in una sezione ordinaria e varie sezioni speciali.
Nella sezione ordinaria sono iscritti gli imprenditori per i quali l'iscrizione nel registro delle imprese era già previsto dal codice del 1942 e produce gli effetti di pubblicità legale. Infatti, sono tenuti all'iscrizione nella sezione ordinaria, secondo l'art. 7 della legge 581/1995:
a. gli imprenditori individuali commerciali non piccoli;
b. tutte le società tranne la società semplice, anche se non svolgono attività commerciale;
c. i consorzi fra imprenditori con attività esterna;
d. i gruppi europei di interesse economico, Geie, con sede in Italia;
e. gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un'attività commerciale;
f. le società estere che hanno in Italia la sede dell'amministrazione ovvero l'oggetto principale della loro attività.
Le sezioni speciali sono attualmente quattro:
nella prima, sono iscritti gli imprenditori che secondo il codice civile ne erano esonerati e per i quali l'iscrizione, introdotta dalla riforma del 1993, aveva funzione di pubblicità notizia; cioè: gli imprenditori agricoli individuali, i piccoli imprenditori, le società semplici e gli imprenditori artigiani qualificabili come piccoli imprenditori;
nella seconda, sono iscritti le società tra professionisti; attualmente si iscrivono solo le società fra avvocati, con funzione di pubblicità notizia;
nella terza, si iscrivono le società o gli enti che esercitano attività di direzione e coordinamento su altre società e quelle che vi sono soggette, in aggiunta all' iscrizione nel registro a cui ciascuna di queste società è tenuta ad iscriversi.
Il d.lgs. n. 155/2006 ha previsto un'ulteriore sezione speciale, per l'iscrizione delle imprese sociali. Ma, attualmente, manca il relativo regolamento attuativo.
Gli atti e i fatti da registrare sono specificati da una serie di norme e sono diversi a seconda della struttura soggettiva dell'impresa. Riguardano, essenzialmente:
gli elementi di individuazione dell'imprenditore e dell'impresa,nonché la struttura e l'organizzazione delle società.
Le iscrizioni devono essere fatte nel registro delle imprese della provincia in cui l' impresa ha sede e, per agevolare i terzi, negli atti e nella corrispondenza deve essere indicato il registro presso cui l'iscrizione è avvenuta.
L'iscrizione è eseguita su domanda dell'interessato ma può avvenire anche d'ufficio se l'iscrizione è obbligatoria e l'interessato non vi provvede.
D'ufficio può essere disposta anche la cancellazione di un'iscrizione avvenuta senza che esistano le condizioni richieste dalla legge. Può essere disposta d'ufficio la cancellazione dell'impresa che ha cessato l'attività, qualora l'imprenditore non vi provveda e l'ufficio rileva talune circostanze fissate dalla legge, che dimostrino la definitiva assenza di vitalità dell'impresa.
In ogni caso, l'ufficio del registro, prima di procedere all'iscrizione, deve controllare che il fatto o l'atto è soggetto a iscrizione e che la documentazione è formalmente regolare, nonché l'esistenza e la veridicità dell'atto o del fatto (legalità formale).
È controverso che il controllo possa investire anche la validità dell'atto (legalità sostanziale) e quindi, che l'ufficio possa rilevare cause di nullità dell'atto stesso.
Tuttavia, per gli atti societari sottoposti a controllo notarile di legalità (atto costitutivo e sue modifiche), l'ufficio del registro può e deve verificare solo la regolarità formale della documentazione presentata.
L'iscrizione deve essere eseguita senza indugio e comunque entro dieci giorni dalla data di protocollo della domanda, mediante inserimento dei dati nella memoria informatica e messa degli stessi a disposizione del pubblico.
Contro il provvedimento motivato di rifiuto dell'iscrizione, il richiedente può ricorrere entro otto giorni al giudice del registro, che provvede con decreto.
Contro il decreto del giudice del registro può essere presentato ricorso al tribunale che provvede anch'esso con decreto.
Al tribunale può essere presentato ricorso anche contro il decreto del giudice del registro che dispone l'iscrizione o la cancellazione di ufficio.
L'inosservanza dell'iscrizione al registro delle imprese è punita con sanzioni amministrative pecuniarie, art. 2194, e con sanzione indirette, come il mancato decorso del termine annuale per la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore che ha cessato l'attività e dell'ex socio.
L'iscrizione al registro delle imprese non è più condizione di ammissione al concordato preventivo.
Per quanto riguarda gli effetti dell'iscrizione, è necessario distinguere fra l' iscrizione nella sezione ordinaria e quella nelle sezioni speciali.
L'iscrizione nella sezione ordinaria ha sempre funzione di pubblicità legale e, a seconda dei casi, ha anche efficacia dichiarativa, costitutiva o normativa.
Di regola, l'iscrizione nella sezione ordinaria ha semplicemente efficacia dichiarativa. Cioè, i fatti o gli atti iscritti sono opponibili a chiunque e lo sono dal momento della loro registrazione, c.d. efficacia positiva immediata. Intervenuta la registrazione, i terzi non potranno eccepire l'ignoranza del fatto o dell'atto iscritto.
L'omessa iscrizione invece impedisce che il fatto o l'atto possa essere opposto ai terzi, c.d. efficacia negativa. Tuttavia, l'imprenditore potrà dimostrare che, nonostante l'omessa registrazione, i terzi hanno avuto ugualmente conoscenza effettiva del fatto o dell'atto.
In alcune ipotesi, tassativamente previste, l'iscrizione ha efficacia costitutiva, ossia l'iscrizione è presupposto affinché l'atto sia produttivo di effetti, sia fra le parti, che per i terzi, detta efficacia costitutiva totale, oppure solo nei confronti dei terzi, detta efficacia costitutiva parziale.
Ha efficacia costitutiva totale l'iscrizione, nel registro delle imprese, dell'atto costitutivo delle società di capitali e delle società cooperative. Prima della registrazione queste società non esistono giuridicamente.
Infine, in altri casi, l'iscrizione può avere efficacia normativa, ossia l'iscrizione nella sezione ordinaria è presupposto per l'applicazione di un determinato regime giuridico. La snc e la sas vengono ad esistenza anche se non registrate, ma la mancata registrazione impedisce che operi il regime di autonomia patrimoniale proprio di tale società e comporta l'applicazione del regime più gravoso dettato per le ss. Tale società si dicono società irregolari.
L'iscrizione nelle sezioni speciali del registro, oltre agli eventuali effetti previsti da leggi speciali, ha solo funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia.
Perciò, l'iscrizione consente di prendere visione degli atti o dei fatti iscritti, ma non li rende opponibili ai terzi dovendosi provare l'effettiva conoscenza.
L'art. 2 del d.lgs. 228/2001 ha stabilito che per gli imprenditori agricoli anche piccoli e per le ss esercenti attività agricola, l'iscrizione nella sezione speciale ha anche efficacia di pubblicità legale.
Così è stata cancellata la diversità di disciplina fra imprenditore agricolo e imprenditore commerciale ed è venuta meno la distinzione fra sezione ordinaria e sezioni speciali introdotta dalla riforma del 1993.
4. LA PUBBLICITA' DELLE SOCIETA' DI CAPITALI E DELLE COOPERATIVE
La normativa di attuazione del registro delle imprese del 1993 aveva lasciato inalterate alcune previsioni, cioè:
a. la disciplina della pubblicità delle società di capitali introdotta dal d.p.r. 1127/1969, che prevedeva per una serie di atti la pubblicazione nel Busarl** in aggiunta all'iscrizione nel registro delle imprese, facendo decorrere gli effetti della sola pubblicità dichiarativa dalla pubblicazione nel Busarl e non dall' iscrizione nel registro delle imprese;
b. la disciplina della pubblicità delle società cooperative introdotta dall'art. 9 della legge 256/1993, che prevedeva per una serie di atti la pubblicazione nel Busc in aggiunta all'iscrizione nel registro delle imprese, ma solo con effetti di pubblicità notizia.
L'intervenuta informatizzazione del registro delle imprese, del Busarl e del Busc aveva finito col rendere inutile questi bollettini, e quindi sono stati soppressi a decorrere dal 1° ottobre 1997. Ne consegue che unico strumento di pubblicità legale delle società di capitali e delle società cooperative torna ad essere il registro delle imprese, così come previsto dal legislatore nel codice del 1942.
Ma restano due differenze:
a. mentre in base alla disciplina generale del registro delle imprese gli atti iscritti sono immediatamente opponibili ai terzi senza possibilità per quest'ultimi di eccepire l'ignoranza degli stessi, per le sole società di capitali l'opponibilità diventa piena solo dopo 15 giorni dall'iscrizione nel registro delle imprese. Per le operazione compiute in questi 15 giorni i terzi potranno provare di essere stati nell'impossibilità di avere conoscenza dell'atto;
b. restano ferme alcune disposizioni che prevedono per alcuni atti delle società di capitali e delle società cooperative la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale anziché nel registro delle imprese. Esempio la convocazione dell'assemblea della spa.
b) LE SCRITTURE CONTABILI
5. L'OBBLIGO DI TENUTA DELLE SCRITTURE CONTABILI
La vita delle imprese si sviluppa attraverso una serie continuata di atti di scambio che modificano continuamente la consistenza quantitativa e la composizione qualitativa del patrimonio dell'imprenditore. La programmazione dell'attività di impresa presuppone perciò una costante informazione ed un costante controllo sull' andamento degli affari. Informazione e controllo facilitati da un sistema di rilevazione contabile dei fatti aziendali. Altresì è regola razionale di condotta delle imprese accertare periodicamente la consistenza quantitativa e monetaria del patrimonio, attività e passività, nonché i costi sopportati e i ricavi realizzati nello stesso periodo al fine di verificare se e quale sia l'utile conseguito o la perdita subita.
Le scritture contabili sono i documenti che contengono la rappresentazione, in termini quantitativi e/o monetari, dei singoli atti di impresa, della situazione del patrimonio dell'imprenditore e del risultato economico dell'attività svolta. Le scritture contabili contribuiscono a rendere razionale ed efficiente l'organizzazione e la gestione dell'impresa e perciò sono di regola spontaneamente tenute da qualsiasi imprenditore. Tuttavia, la tenuta delle scritture contabili è un obbligo per tutti gli imprenditori che esercitano attività commerciale, art. 2214.
Ma non vi è una coincidenza fra la categoria degli imprenditori commerciali e coloro che secondo il codice civile sono obbligati alla tenuta delle scritture contabili.
Infatti, la disciplina della tenuta delle scritture contabili prevista dal codice civile non si applica ai piccoli imprenditori, art. 2214, 3° comma, e quindi nemmeno ai piccoli imprenditori che esercitano attività commerciale.
Inoltre, le società commerciali devono ritenersi obbligate alla tenuta delle scritture commerciali anche se non esercitano attività commerciale.
Vi è l'obbligo di tenuta delle scritture contabili anche per gli enti pubblici e per gli enti di diritto privato diversi dalla società che svolgono attività commerciale in via secondaria ed accessoria, sia pure limitatamente all'attività commerciale esercitata.
Infine, sono obbligati alla tenuta delle scritture contabili anche le imprese sociali, art. 10 d.lgs. 155/2006, indipendentemente dalla natura commerciale o agricola dell' attività esercitata.
6. LE SCRITTURE CONTABILI OBBLIGATORIE. REGOLARITA' E CONTROLLLO
Le scritture necessarie per un'ordinata contabilità variano a seconda del tipo di attività, delle dimensioni e dell'articolazione territoriale dell'impresa
L'art. 2214 pone un principio generale nello stabilire che l'imprenditore deve tenere tutte le scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell' impresa.
Inoltre, stabilisce che in ogni caso devono essere tenuti il libro giornale, il libro degli inventari e gli originali della corrispondenza commerciale ricevuta e le copie della corrispondenza spedita.
Il libro giornale è un registro cronologico - analitico, in cui sono indicate giorno per giorno le operazioni relative all'esercizio dell'impresa, art. 2216.
Basta che le operazione siano registrate nell'ordine in cui sono compiute e non necessariamente il giorno in cui sono compiute. Non è altresì necessario registrare operazione per operazione, purché le singole registrazioni riguardino operazione omogenee fra loro compiute nello stesso giorno. Il libro giornale può essere articolato anche in libri parziali in relazione all'articolazione dell'impresa.
Il libro degli inventari è un registro periodico - sistematico, che deve essere redatto all'inizio dell'impresa e successivamente ogni anno, art. 2217.
L'inventario ha la funzione di fornire il quadro completo della situazione patrimoniale dell'imprenditore. Deve perciò contenere l'indicazione e la valutazione delle attività e delle passività dell'imprenditore, anche se estranee all'impresa.
L'inventario si chiude con il bilancio e con il conto dei profitti e delle perdite, o meglio con il bilancio comprensivo dello stato patrimoniale e del conto economico, che deve dimostrare con evidenza e verità gli utili conseguiti o le perdite subite.
Nelle valutazioni di bilancio l'imprenditore deve attenersi ai criteri stabiliti per i bilanci delle società per azioni.
In base alla natura e alle dimensioni dell'impresa, l'imprenditore è obbligato alla tenuta di altre scritture contabili, come il libro mastro, libro cassa, libro magazzino, ecc. La scelta delle altre scritture è rimessa alla discrezionalità dell'imprenditore nei limiti segnati dalle norme tecniche e dalla prassi di una ordinata contabilità.
Per garantire la veridicità delle scritture contabili ed in particolare per evitare che vengano alterate è imposta l'osservanza di alcune regole formali e sostanziali nella loro tenuta. L'inosservanza di tale regole rende le scritture irregolari e quindi giuridicamente irrilevanti.
Le regole formali sono state ridotte per facilitare la tenuta delle scritture contabili con procedure informatiche. In base all'attuale disciplina, art. 2215, il libro giornale e il libro degli inventari devono essere numerati progressivamente in ogni pagina prima di essere messi in uso essendo stata soppressa la bollatura foglio per foglio da parte dell'ufficio del registro delle imprese o dal notaio
Secondo l'art. 2219 tutte le scritture devono essere tenute secondo le norme di un'ordinata contabilità, senza spazi in bianco, senza interlinee e senza trasporti in margine. Non vi si possono fare abrasioni e, se è necessaria qualche cancellazione, questa deve eseguirsi in modo che le parole cancellate siano leggibili, c.d. formalità intrinseche.
Le scritture contabili e la corrispondenza devono essere conservati per 10 anni, anche su supporti magnetici. Le scritture contabili possono essere tenute con sistemi informatici, purché le registrazioni corrispondono ai documenti e possano in ogni momento essere rese leggibili con mezzi messi a disposizione dal soggetto che utilizza tali sistemi, art. 2220.
Le scritture contabili di regola non sono soggette a controllo esterno, volto ad accertare la regolarità della tenuta e la verità dei fatti documentati.
A partire dal 1975 la contabilità delle società con azioni quotate in borsa è sottoposta al controllo esterno di apposite società di revisione.
A partire dal 2003 anche le spa non quotate sono sottoposte a controllo esterno da parte di un revisore o di una società di revisione.
L'obbligo di tenuta delle scritture contabili non è assistito da nessuna sanzione generale e diretta, salvo quelle previste dalla legislazione tributaria. Ma, non mancano però delle sanzioni eventuali ed indirette:
L'imprenditore che non tiene regolarmente le scritture contabili non può utilizzarle come mezzo di prova a suo favore, art. 2710.
È inoltre assoggettato alle sanzioni penali per i reati di bancarotta semplice o fraudolenta in caso di fallimento, art. 216 e 217 legge fallimentare.
La regolare tenuta delle scritture contabili non è più requisito per l'ammissione al concordato preventivo, art. 160 legge fallimentare.
7. LA RILEVANZA ESTERNA DELLE SCRITTURE CONTABILI. L'EFFICACIA PROBATORIA
Le scritture contabili sono destinate in via di principio a restare nella sfera interna dell'imprenditore. Le informazioni sulla vita dell'impresa desumibili dalle scritture contabili non sono accessibili ai terzi in quanto l'interesse dell'imprenditore al segreto riceve tutela preferenziale.
Fanno eccezione il bilancio delle società di capitali e delle società cooperative che devono essere resi pubblici mediante deposito presso l'ufficio del registro delle imprese.
Nelle imprese soggette al controllo pubblico (società con azioni quotate in borsa, società assicurative, imprese bancarie), il diritto al segreto non sussiste nei confronti dell'organo pubblico preposto alla vigilanza.
Più in generale, il diritto al segreto contabile cede di fronte alle esigenze conoscitive della pubblica amministrazione, finalizzate ad accertamenti di carattere tributario o alla repressione di reati anche di natura economica.
L'ipotesi più significativa di rilevanza esterna delle scritture contabili si ha sul piano processuale, potendo le stesse essere utilizzate come mezzo di prova sia a favore che contro l'imprenditore che le tiene, art. 2709.
Le scritture contabili, anche non tenute regolarmente, potranno essere utilizzate dai terzi come mezzo processuale di prova contro l'imprenditore che le tiene. Il terzo che vuol tranne vantaggio dalle scritture contabili di un imprenditore non potrà scinderne il contenuto, cioè non può avvalersi solo della parte a lui favorevole. L'imprenditore potrà dimostrare con qualsiasi mezzo che le proprie scritture non rispondono a verità.
Affinché l'imprenditore possa usare le proprie scritture contabili come mezzo processuale di prova contro i terzi è necessario che ricorrano tre condizioni:
le scritture devono essere regolarmente tenute;
la controparte sia a sua volta un imprenditore
la controversia sia relativa a rapporti inerenti all'esercizio dell'impresa.
In ogni caso, è rimesso all'apprezzamento del giudice riconoscere valore probatorio alle scritture contabili.
Il giudice può chiedere, di ufficio o su istanza di parte, solo l'esibizione di singole scritture contabili, o di tutti i libri, ma solo per estrarne le registrazioni concernenti la controversia in esame, art. 2711 . In soli tre casi il giudice può ordinare la comunicazione alla controparte di tutte le scritture contabili. Per controversie relative:
allo scioglimento della società,
alla comunione dei beni,
alla successione per causa di morte.
c) LA RAPPRESENTANZA COMMERCIALE
8. AUSILIARI DELL'IMPRENDITORE COMMERCIALE E RAPPRESENTANZA
Nello svolgimento della propria attività l'imprenditore può avvalersi della collaborazione di altri soggetti, che potranno essere:
soggetti interni, stabilmente inseriti nella propria organizzazione aziendale, con un rapporto di lavoro subordinato che li lega all'imprenditore, detti ausiliari interni o subordinati;
soggetti esterni all'organizzazione imprenditoriale che collaborano con l'imprenditore, in modo occasionale o stabile, detti ausiliari esterni o autonomi.
In entrambi i casi la collaborazione può riguardare anche la conclusione di affari con terzi in nome e per conto dell'imprenditore, cioè possono agire in rappresentanza dell'imprenditore.
Il fenomeno della rappresentanza è regolato:
in via generale dagli articoli 1387 a 1400 del codice civile,
da norme speciali per effetto del rinvio operato dall'art. 1400, quando si tratti di atti inerenti all'esercizio di impresa commerciale posti in essere da alcune figure tipiche di ausiliari interni: institori, procuratori e commessi. È detta rappresentanza commerciale.
È regola generale che il conferimento ad altro soggetto dell'incarico di compiere uno o più atti giuridici relativi alla propria sfera patrimoniale non abilita di per sé l'incaricato ad agire in nome dell'interessato, con conseguente imputazione diretta degli effetti degli atti posti in essere. A tal fine è necessario l'espresso conferimento del potere di rappresentanza attraverso la procura, art. 1387.
Inoltre, il potere di rappresentanza sussiste nei limiti fissati dalla procura, art. 1388 e, presuppone che questa sia conferita con le forme prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere, art. 1392.
Il terzo che contratta con chi dichiara di agire in veste di rappresentante è tenuto ad accertare esistenza, contenuto e regolarità formale della procura, esigendo che il rappresentante giustifichi i suoi poteri, art. 1393. Quindi, è sul terzo contraente che ricade il rischio della mancanza o del difetto di potere rappresentativo della controparte.
Il contratto concluso dal falsus procurator è improduttivo di effetti ed il terzo non potrà vantare alcun diritto nei confronti del preteso rappresentato. L'art. 1398 gli riconosce solo la possibilità di chiedere al falsus procurator il risarcimento del danno che ha sofferto per avere confidato senza sua colpa nella validità del contratto.
Queste sono regole che trovano applicazione anche quando si tratti di atti compiuti per un imprenditore commerciale da parte di collaboratori esterni alla sua organizzazione, anche se stabili.
Queste regole però sono sostituite da altre quando si tratti di ausiliari interni, che sono destinati ad entrare stabilmente in contatto con i terzi ed a concludere affari per l'imprenditore. Al riguardo vige un sistema speciale di rappresentanza fissato dagli artt. 2203-2213.
Per la posizione rivestita nell'organizzazione aziendale, institori, procuratori e commessi sono automaticamente investiti del potere di rappresentanza dell'imprenditore e di un potere di rappresentanza commisurato al tipo di mansioni che la qualifica comporta. Il loro potere di vincolare l'imprenditore non si fonda su una procura ma costituisce effetto naturale della loro collocazione nell'impresa ad opera dell'imprenditore. Se l'imprenditore vuole modificare il contenuto legale tipico del potere di rappresentanza di tali ausiliari, sarà necessario uno specifico atto, opponibile ai terzi solo se portato a conoscenza nelle forme stabilite dalla legge.
Il terzo che conclude affari con uno di questi ausiliari dell'imprenditore commerciale dovrà solo verificare che l'imprenditore non abbia modificato, con atto espresso e pubblico, i loro naturali poteri rappresentativi. Non dovrà invece verificare se la rappresentanza è stata loro conferita.
9. L'INSTITORE
È institore colui che è preposto dal titolare all'esercizio dell'impresa o di una sede secondaria o di un ramo particolare della stessa, art. 2203.
Nel linguaggio comune è il direttore generale dell'impresa, di una filiale o di un settore produttivo.
L'institore è di regola un lavoratore subordinato con la qualifica di direttore, che in virtù di un atto di preposizione dell' imprenditore, sarà:
al vertice assoluto se è preposto all'intera impresa. In tal caso, dipenderà solo dall'imprenditore, da cui riceverà direttive e dovrà rendere conto del suo operato.
al vertice relativo se è preposto ad una filiale o ad un ramo d'impresa. In tal caso, potrà trovarsi in posizione subordinata anche rispetto ad un altro institore.
È possibile che più institori siano preposti contemporaneamente all'esercizio dell' impresa ed in tal caso essi agiranno disgiuntamente se nella procura non è diversamente previsto, art. 2203, 3° comma. Rilevante è che l'institore sia stato investito dall'imprenditore di un potere di gestione generale, che abbracci tutte le operazioni della struttura alla quale è preposto.
La posizione che ricopre comporta che l'institore è tenuto, congiuntamente all' imprenditore, all'adempimento degli obblighi di iscrizione nel registro delle imprese e di tenuta delle scritture contabili dell'impresa o della sede cui è preposto, art. 2205.
In caso di fallimento dell'imprenditore, anche nei confronti dell'institore saranno applicate le sanzioni penali previste a carico del fallito, art. 227 legge fallimentare, anche se solo l'imprenditore potrà essere dichiarato fallito e solo l'imprenditore sarà esposto agli effetti personali e patrimoniali del fallimento.
L'institore ha, accanto al potere di gestione, un ampio e generale potere di rappresentanza, sia sostanziale che processuale, art. 2204.
Rappresentanza sostanziale.
Anche in mancanza di espressa procura, l'institore può compiere in nome dell' imprenditore, tutti gli atti pertinenti all'esercizio dell'impresa a cui è preposto.
La pertinenza di un dato atto all'esercizio dell'impresa deve essere valutata con riferimento astratto alle imprese di quel determinato tipo e non con riferimento alla specifica impresa cui l'institore è preposto. Questo perché, questa valutazione tutela maggiormente i terzi.
L'institore non è legittimato a compiere atti che esorbitano dall'esercizio dell'impresa, quali la vendita o l'affitto dell'azienda, il cambiamento dell'oggetto dell'attività. Inoltre, gli è fatto divieto espresso di alienare o ipotecare i beni immobili del preponente, se non vi è stato espressamente autorizzato.
Tale divieto non opera quando oggetto dell'impresa è proprio il commercio di immobili, cioè rientri negli atti pertinenti all'esercizio dell'impresa.
Rappresentanza processuale
L'institore può stare in giudizio, sia come attore (rappresentanza processuale attiva), sia come convenuto (rappresentanza processuale passiva) per le obbligazioni dipendenti da atti compiuti nell'esercizio dell'impresa a cui è preposto, art. 2204. Quindi, non solo per gli atti da lui compiuti, ma anche per quelli posti in essere direttamente dall'imprenditore o a lui imputabili in qualità di imprenditore.
I poteri rappresentativi dell'institore, determinati dal legislatore, possono essere ampliati o limitati dall'imprenditore, sia all'atto della preposizione sia successivamente.
Le limitazioni saranno opponibili ai terzi solo se la procura originaria o la successiva limitazione siano stati pubblicati nel registro delle imprese, art. 2206. Mancando tale pubblicità legale, la rappresentanza si reputa generale, salva la prova da parte dell'imprenditore che i terzi effettivamente conoscevano l'esistenza di limitazioni al momento della conclusione dell'affare.
Anche se il legislatore parla in più norme di una procura da parte del preponente, questa non è affatto necessaria perché l'institore possa ritenersi investito della rappresentanza generale dell'imprenditore. Questo è un effetto che discende in modo automatico e diretto dall'atto interno di preposizione all'esercizio dell'impresa. Procura e pubblicità saranno necessarie solo se l'imprenditore voglia limitare i poteri rappresentativi dell'institore fissati ex lege.
Perciò è da escludersi che la rappresentanza dell'institore sia una rappresentanza da procura; non sarà necessaria una procura institoria per iscritto affinché l'institore possa compiere atti per i quali è richiesta la forma scritta a pena di nullità.
Non è nemmeno una rappresentanza legale, in quanto il potere di rappresentanza dell'institore si fonda su una manifestazione di volontà dell'imprenditore.
È una rappresentanza volontaria, sia pure derivante da una procura.
Gli stessi principi valgono anche per la revoca della procura, art. 2207, o più esattamente della revoca dell'atto di preposizione. La revoca è opponibile ai terzi solo se pubblicata o se l'imprenditore prova la loro effettiva conoscenza.
È principio generale che il rappresentante deve rendere palese al terzo con cui contratta tale sua veste, affinché l'atto compiuto e i relativi effetti ricadano direttamente sul rappresentato (imprenditore) e, deve renderla palese spendendo il nome del rappresentato, art. 1388
Chi non rispetta tale principio obbliga solo se stesso ed il terzo non si può rivolgere al rappresentato. Questo è il c.d. principio della contemplatio domini.
L'art. 2208 prevede anche il principio secondo cui l'institore è personalmente obbligato se omette di far conoscere al terzo che tratta per il preponente, tuttavia il terzo può agire anche contro il preponente per gli atti compiuti dall'institore, che siano pertinenti all'esercizio dell'impresa a cui è preposto.
La disposizione tutela il terzo contraente, evitando che su di lui ricada il rischio di comportamenti dell'institore che possono generare incertezze circa il reale dominus dell'affare. Se l'atto è pertinente all'esercizio dell'impresa, ma le modalità di conclusione dell'affare sono tali da rendere incerto se l'institore abbia operato per sé o per l'imprenditore, il legislatore tronca ogni possibilità di contestazione a danno del terzo: nei suoi confronti risponderanno solidalmente sia l'institore, sia il preponente.
10. I PROCURATORI
I procuratori sono coloro che in base ad un rapporto continuativo, abbiano il potere di compiere per l'imprenditore gli atti pertinenti all'esercizio dell'impresa , pur non essendo preposti ad esso, art. 2209 .
I procuratori sono degli ausiliari inferiori rispetto agli institori, in quanto:
a. non sono posti a capo dell'impresa o di un ramo o di una sede secondaria;
b. pur non essendo degli ausiliari con funzioni direttive, il loro potere decisionale è circoscritto ad un determinato settore operativo dell'impresa o ad una serie specifica di atti. Es. dirigente settore acquisti, personale,ecc.
L'art. 2209 estende ai procuratori la disciplina dell'art. 2206 (pubblicità della procura institoria) e dell'art. 2207 (modifica e revoca della procura institoria).
Pertanto, in mancanza di specifiche limitazioni iscritte nel registro delle imprese, i procuratori sono ex lege investiti di un potere di rappresentanza generale dell' imprenditore, rispetto alla specie di operazioni per le quali essi sono stati investiti di autonomo potere decisionale.
Il procuratore:
non ha la rappresentanza processuale dell'imprenditore, neppure per gli atti da lui posti in essere, se tale potere non gli è stato espressamente conferito;
non è soggetto agli obblighi di iscrizione nel registro delle imprese e di tenuta delle scritture contabili;
non trova applicazione l'art. 2208, quindi l'imprenditore non risponderà per gli atti, pur pertinenti all'esercizio dell'impresa, compiuti da un procuratore senza spendita del nome dell'imprenditore stesso.
11. I COMMESSI
I commessi sono ausiliari subordinati cui sono affidate mansioni esecutive e materiali che li pongono in contatto con i terzi.
Per questa loro posizione, ai commessi è riconosciuto il potere di rappresentanza dell'imprenditore anche in mancanza di specifico atto di conferimento: potere limitato rispetto a quello degli institori e dei procuratori.
Secondo l'art. 2210, i commessi possono compiere gli atti che ordinariamente comporta la specie di operazioni di cui sono incaricati.
Salva espressa autorizzazione, i commessi:
a. non possono esigere il prezzo delle merci delle quali non facciano la consegna, né concedere dilazioni o sconti non in uso;
b. non hanno il potere di derogare alle condizioni generali di contratto predisposte dall'imprenditore o alle clausole stampate nei moduli dell'impresa;
c. se preposti alla vendita nei locali dell'impresa, non possono esigere il prezzo fuori dei locali stessi, né possono esigerlo all'interno dell'impresa se alla riscossione è destinata apposita cassa.
A tutti i commessi è poi riconosciuta la legittimazione a ricevere per conto dell' imprenditore le dichiarazioni che riguardano l'esecuzione dei contratti ed i reclami relativi alle inadempienze contrattuali.
È riconosciuta, altresì, la legittimazione a chiedere provvedimenti cautelari nell' interesse dell'imprenditore, art. 2212.
L'imprenditore potrà limitare o ampliare tali poteri. Non è tuttavia previsto un sistema di pubblicità legale, perciò le limitazioni saranno opponibili ai terzi solo se portate a conoscenza degli stessi con mezzi idonei o se si prova l'effettiva conoscenza.
CAP. V L'AZIENDA
1. LA NOZIONE DI AZIENDA. ORGANIZZAZIONE ED AVVIAMENTO
Secondo l'art. 2555 l'azienda è il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l' esercizio dell'impresa.
L'azienda costituisce l'apparato strumentale (locali, attrezzatura, merci, ecc.) di cui l' imprenditore si avvale per lo svolgimento e nello svolgimento della propria attività.
Il fattore più importante nella nozione di azienda è l'organizzazione. Infatti, l'azienda è un insieme di beni eterogenei, che subisce modificazioni qualitative e quantitative nel corso dell'attività. Comunque è un complesso caratterizzato da unità di tipo funzionale, per il coordinamento ed il rapporto di complementarietà fra i diversi elementi costitutivi instaurato dall'imprenditore e soprattutto per l'unitaria destinazione ad uno specifico fine produttivo.
L'organizzazione e la destinazione ad un fine produttivo sono dati fattuali che attribuiscono ai beni costituiti in azienda e all'azienda nel suo complesso specifico e particolare rilievo economico, prima ancora che giuridico.
I beni organizzati ad azienda consentono la produzione di utilità nuove, diverse e maggiori di quelle tradibili dai singoli beni isolatamente considerati. Se sul piano statico, l'azienda si risolve nei beni che la compongono, sul piano dinamico essa è un nuovo valore, per l'attitudine alla produzione di nuova ricchezza che l'organizzazione le conferisce. Ed è questo valore dinamico dell'azienda che acquista rilievo per i creditori.
Il rapporto di strumentalità e di complementarietà fra i singoli elementi costitutivi dell' azienda, fa sì che il complesso unitario acquisti di regola un valore di scambio maggiore della somma dei valori dei singoli beni che in un dato momento lo costituiscono. Tale maggior valore è detto avviamento.
L'avviamento di un'azienda è rappresentato dalla sua attitudine a consentire la realizzazione di un profitto e dipende da fattori oggettivi e da fattori soggettivi.
L'avviamento oggettivo è l'avviamento che dipende da fattori oggettivi, ed è quello ricollegabile a fattori indipendenti dalla persona dell'imprenditore, in quanto insiti nel coordinamento funzionale esistente fra i diversi beni.
L'avviamento soggettivo è l'avviamento che dipende da fattori soggettivi, ed è quello ricollegabile all'abilità operativa dell'imprenditore sul mercato ed in particolare alla sua abilità nel formare, conservare e accrescere la clientela.
Sotto l'aspetto normativo, l'unità economica dell'azienda e gli interessi al mantenimento di tale unità trovano riconoscimento nella disciplina, dettata dal codice civile, per il trasferimento dell'azienda, artt. 2556-2562.
Infatti, il trasferimento dell'azienda, a titolo definitivo o temporaneo, è sottoposto ad un regime normativo che sotto più profili deroga alla disciplina di diritto comune delle corrispondenti vicende circolatorie aventi ad oggetto singoli beni o complessi di beni non finalizzati allo svolgimento dell'attività di impresa.
Il passaggio dell'azienda da un soggetto ad un altro comporta infatti degli effetti ex lege, ispirati dalla finalità di favorire la conservazione dell'unità economica e del valore di avviamento dell'azienda, a tutela di quanti su tale unità e su tale valore hanno fatto affidamento (acquirente dell'azienda, lavoratori e creditori).
2. GLI ELEMENTI COSTITUTIVI DELL'AZIENDA
Secondo l'art. 2555 elementi costitutivi dell'azienda sono tutti i beni, di qualsiasi natura, organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa.
Per qualificare un bene come bene aziendale basta considerare solo la destinazione funzionale datagli dall'imprenditore. È irrilevante, invece, il titolo giuridico che legittima l'imprenditore ad utilizzare un dato bene nel processo produttivo. Non possono perciò essere considerati beni aziendali i beni di proprietà dell'imprenditore che non siano da questi effettivamente destinati allo svolgimento dell'attività di impresa. Mentre, sono beni aziendali quei beni di proprietà di terzi di cui l'imprenditore può disporre in base ad un valido titolo giuridico, purché attualmente impiegati nell'attività di impresa.
Tuttora è ancora controverso quale sia il significato da attribuire alla parola beni nell'art. 2555.
In giurisprudenza vi è la tendenza ad ampliare la nozione di bene aziendale ed a ricomprendere fra gli elementi costitutivi dell'azienda ogni elemento patrimoniale facente capo all'imprenditore nell'esercizio della propria attività e più in generale tutto ciò che può costituire oggetto di tutela giuridica.
Secondo questa concezione, l'azienda è organizzazione non solo di beni ma anche di servizi. Infatti, fanno parte di essa i rapporti di lavoro col personale, i rapporti contrattuali stipulati per l'esercizio dell'impresa, i crediti verso la clientela, i debiti verso i fornitori e lo stesso avviamento (che è una qualità dell'azienda valutabile patrimonialmente e giuridicamente tutelato).
Ma questa concezione non è condivisibile. Più fedele ai dati normativi e più corretta è l'opinione che considera elementi costitutivi dell'azienda solo le cose in senso proprio di cui l'imprenditore attualmente si avvale per l'esercizio dell'impresa.
Secondo l'art. 810, beni sono le cose che possono formare oggetto di diritti e la disciplina dell'azienda riprende tale definizione.
Infatti, il trasferimento dell'azienda comporta come effetto ex lege il subingresso del cessionario nei contratti stipulati per l'esercizio dell'impresa, art. 2558. Ma, questi sono effetti solo naturali del trasferimento dell'azienda, potendo le parti escludere la successione. Quindi, non possono essere considerati elementi essenziali dell'azienda quelli che le parti possono eliminare, senza compromettere la qualificazione come azienda del residuo.
Manca qualsiasi riferimento che possa far considerare i crediti ed i debiti come elementi costitutivi dell'azienda.
In conclusione: l'azienda è un complesso di soli beni (cose) e non è concepibile come un complesso di beni e di rapporti giuridici. Il che comporta che di trasferimento di azienda si potrà parlare anche quando le parti abbiano espressamente escluso dal trasferimento i contratti aventi ad oggetto prestazioni di cose future o di servizi, i crediti e i debiti, e anche quando non è riscontrabile un valore positivo di avviamento, (es. se in vendita o affitto è il patrimonio di un fallito).
3. L'AZIENDA FRA CONCEZIONE ATOMISTICA E CONCEZIONE UNITARIA. AZIENDA E
UNIVERSALITA' DI BENI
Si è molto discusso sulla natura giuridica dell'azienda, da cui è derivato il contrasto fra teorie unitarie e teorie atomistiche.
La teoria unitaria considera l'azienda come un bene unico, un bene nuovo e distinto rispetto ai singoli beni che la compongono. Si è così affermato che l'azienda è un bene immateriale, rappresentato dall'organizzazione stessa. In questa prospettiva l'azienda è stata qualificata come una universalità di beni.
Si ritiene perciò che il titolare dell'azienda abbia sulla stessa un vero e proprio diritto di proprietà unitario, destinato a coesistere con i diritti che vanta sui singoli beni.
La teoria atomistica concepisce invece l'azienda come una semplice pluralità di beni tra loro funzionalmente collegati e sui quali l'imprenditore può vantare diritti diversi. Si esclude perciò che esista un "bene" azienda formante oggetto di autonomo diritto di proprietà o di altro diritto reale unitario.
La possibilità di concepire l'azienda come un nuovo bene sotto ogni profilo e a tutti gli effetti trova ostacolo nei dati normativi. Da questi emerge con chiarezza che l'unificazione giuridica dei beni aziendali è solo relativa e funzionale, dato che secondo l'art. 2556, il trasferimento dell'azienda dovrà necessariamente osservare le forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l'azienda.
L'assenza di una legge di circolazione propria dell'azienda è sufficiente a negare la piena unità giuridica e la natura di nuovo bene della stessa, lasciando preferire la teoria atomistica.
L'unità funzionale dell'azienda trova significativo riconoscimento nella relativa disciplina e costituisce il principio di molte disposizioni ed in particolare dell'art. 2561, 2° comma, secondo cui l'usufruttuario deve gestire l'azienda senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l'efficienza dell'organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte. L'azienda resta perciò la stessa nonostante il mutare dei suoi elementi costitutivi.
La salvaguardia dell'unità funzionale dell'azienda deve fungere da criterio interpretativo della relativa disciplina nei punti in cui essa non risulti chiara e debba ispirare la soluzione dei problemi pratici della stessa lasciati aperti.
In questa prospettiva deve essere valutata la definizione dell'azienda in termini di universalità di beni, proposta dalla giurisprudenza e da una parte della dottrina.
Anche se l'azienda è espressamente equiparata alle universalità di beni dall'art. 670 c.p.c., (che prevede il sequestro giudiziario di aziende e di altre universalità di beni), il considerare l'azienda un'universalità di beni non offre argomenti per concepire la stessa come un bene nuovo ed unitario. Oltre all'art. 670 c.p.c. non esistono altre norme che disciplinino direttamente le universalità di beni.
Norme specifiche sono dettate per le universalità di beni mobili, definite dall' art. 816 come la pluralità di cose che appartengono alla stessa persona e hanno una destinazione unitaria. Questi aggregati di cose mobili hanno un regime normativo parzialmente coincidente con quello previsto per i beni mobili, ma non totalmente coincidente. Infatti, l'art. 2784 dispone che le universalità di mobili, al pari dei singoli beni mobili, possono costituire oggetto di pegno.
Ma la disciplina delle universalità di mobili non si può applicare all'azienda, visto che l'azienda può comprendere dei beni che non siano di proprietà dell' imprenditore.
È fuori dubbio che la fattispecie prevista dall'art. 816 (universalità di mobili) e soprattutto la disciplina degli artt. 1156, 1160 e 2784 presuppongono sia l'esclusiva composizione mobiliare del complesso, sia la proprietà dei singoli beni costituiti in universalità. Infatti, questi articoli non sono applicabili ai beni mobili che non siano di proprietà del titolare dell'universalità.
Tali problemi non si risolvono nemmeno considerando l'azienda come universalità mista, dato che la disciplina delle universalità mobiliari non è applicabile direttamente ad altre forme di universalità.
Le diversità strutturali fra azienda ed universalità di mobili non implicano però che si debba escludere l'applicazione per analogia, dato che sia l'azienda sia le universalità di mobili costituiscono aggregati di cose a destinazione unitaria e finalizzati alla produzione di un'utilità complessiva nuova e diversa rispetto a quella offerta dalla semplice somma dei singoli beni.
Così può ammettersi che, al pari delle universalità di mobili:
a. l'insieme dei beni mobili aziendali di proprietà dell'imprenditore sia sottratto all'applicazione della regola "possesso vale titolo" valida per i singoli beni mobili, art. 1156, mentre il problema non si pone nemmeno per gli immobili aziendali e i beni mobili registrati;
b. il complesso mobiliare aziendale può essere acquistato per usucapione solo in virtù del possesso continuato per 20 anni, art. 1160, in luogo dei 10 anni previsti per i singoli beni mobili, art. 1161;
c. il titolare di un'azienda può avvalersi dell'azione di manutenzione, oltre che per gli immobili, anche per tutelare il possesso dell'insieme dei beni mobili aziendali, art. 1170.
4. LA CIRCOLAZIONE DELL'AZIENDA. OGGETTO E FORMA DEI NEGOZI TRASLATIVI
L'azienda può formare oggetto di atti di disposizione di diversa natura. Può essere venduta, conferita in società, donata oppure su di essa possono essere costituiti diritti reali (usufrutto) o personali (affitto) di godimento a favore di terzi.
L'imprenditore può anche compiere atti di disposizione che riguardano uno o più beni aziendali.
È principio consolidato che la qualificazione di una data vicenda circolatoria come trasferimento di azienda o come trasferimento di singoli beni aziendali deve essere operata secondo criteri oggettivi, cioè guardando al risultato perseguito e realizzato e non al nomen dato al contratto dalle parti o alla loro intenzione soggettiva. E ciò perché il trasferimento di azienda produce effetti che incidono nei confronti dei terzi.
Quindi, per aversi trasferimento di azienda non è necessario che l'atto di disposizione comprenda l'intero complesso aziendale. Nell'ambito della disciplina del trasferimento di azienda si resta anche quando l'imprenditore trasferisca un ramo particolare della sua azienda, purché dotato di organicità operativa.
Necessario e sufficiente è che sia trasferito un insieme di beni di per sé potenzialmente idoneo ad essere utilizzato per l'esercizio di una determinata attività di impresa, e ciò anche quando il nuovo titolare debba integrare il complesso con ulteriori fattori produttivi per farlo funzionare. È però necessario che i beni esclusi dal trasferimento non alterino l'unità economica e funzionale dell'azienda.
L'atto di disposizione del trasferimento di azienda comprenderà tutti i beni presenti in quel momento nell'azienda, anche se non specificatamente menzionati nel contratto. I vari beni aziendali passeranno all'acquirente nella medesima situazione giuridica in cui si trovavano presso il trasferente, (proprietà, diritto reale o personale di godimento), se nulla è espressamente pattuito al riguardo.
Le forme da osservare nel trasferimento dell'azienda sono fissate dall'art. 2556, modificato dalla legge 310/1993.
Bisogna distinguere fra forma necessaria per la validità del trasferimento e forma richiesta ai fini probatori e per l'opponibilità ai terzi.
Al fine della validità del trasferimento è dettata una disciplina per ogni tipo di azienda, agricola o commerciale. I contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o la concessione di godimento dell'azienda sono validi solo se stipulati con l'osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l'azienda o per la particolare natura del contratto.
Manca quindi un'autonoma ed unitaria legge di circolazione dell'azienda e il trasferimento di ciascun bene aziendale segue il regime dettato in via generale. Cosi, per il trasferimento in proprietà all'acquirente degli immobili aziendali di proprietà dell'alienante sarà necessaria la forma scritta a pena di nullità, art. 1350. Inoltre, dovranno essere rispettate le regole di forma previste per il particolare tipo di negozio traslativo posto in essere. (per atto pubblico o scrittura privata autenticata).
Solo per le imprese soggette a registrazione, secondo il sistema originario del codice civile (non per le piccole imprese e le imprese agricole individuali o in forma di ss), è previsto che ogni atto di disposizione dell'azienda deve essere provato per iscritto, art. 2556, 1° comma.
La scrittura è richiesta solo ad probationem e la sua mancanza comporterà come unico effetto che, in un'eventuale controversia giudiziaria, le parti (ma non i terzi) non potranno avvalersi della prova per testimoni per dimostrare l'esistenza del contratto art. 2725, 1° comma.
Per le imprese soggette a registrazione, il secondo comma dell'art. 2556, stabilisce che i relativi contratti sono soggetti ad iscrizione nel registro delle imprese. E, nel nuovo testo introdotto dalla legge 310/1993, la norma prescrive che, a tal fine, il contratto di trasferimento deve essere sempre redatto per atto pubblico o per scrittura privata autenticata e deve essere depositato a cura del notaio (e non più dalle parti) per l'iscrizione, entro trenta giorni.
La disposizione, come oggi è formulata, persegue finalità di ordine pubblico (antiriciclaggio), ecco perché si tende a riconoscere che l'obbligo di registrazione sussiste anche quando le parti non siano imprenditori tenuti all'iscrizione nella sezione ordinaria (piccoli imprenditori, imprenditori agricoli individuali, ss).
5. LA VENDITA DELL'AZIENDA. IL DIVIETO DI CONCORRENZA DELL'ALIENANTE
Oltre agli effetti dedotti in contratto, l'alienazione dell'azienda produce ex lege ulteriori effetti che riguardano:
il divieto di concorrenza dell'alienante, art. 2557 ;
i contratti, art. 2558;
i crediti, art. 2559;
i debiti aziendali, art. 2560.
Divieto di concorrenza. Secondo l'art. 2557, chi vende un'azienda commerciale deve astenersi, per un periodo massimo di 5 anni dal trasferimento, dall'iniziare una nuova impresa che possa comunque, per l'oggetto, l'ubicazione o altre circostanze, sviare la clientela dall'azienda ceduta.
Se l'azienda è agricola, il divieto opera solo per le attività ad essa connesse e sempre che rispetto a tali attività sia possibile sviamento della clientela.
La norma contempera due esigenze opposte:
quella dell'acquirente dell'azienda, di trattenere la clientela dell'impresa e quindi di godere dell'avviamento soggettivo, del quale si è tenuto conto nel prezzo di vendita;
quella dell'alienante, a non vedere compressa la propria libertà di iniziativa economica oltre un certo periodo, ritenuto sufficiente per consentire all' acquirente di consolidare la propria clientela.
Il divieto di concorrenza è derogabile ed ha carattere relativo: sussiste nei limiti in cui la nuova attività di impresa dell'alienante sia potenzialmente idonea a sottrarre clientela all'azienda ceduta. Le parti possono anche ampliare la portata dell'obbligo di astensione, purché non sia impedita ogni attività professionale dell'alienante. In ogni caso è vietato prolungare oltre i cinque anni la durata del divieto.
Il divieto si applica, oltre in caso di vendita volontaria, anche nel caso di vendita coattiva. Il divieto graverà in testa all'imprenditore fallito nel caso di vendita in blocco dell'azienda da parte degli organi fallimentari, dato che la vendita ha sempre per oggetto l'azienda del fallito.
L'applicazione del divieto di concorrenza è, invece, controverso:
nella divisione ereditaria con assegnazione dell'azienda caduta in successione a uno degli eredi;
nello scioglimento di una società con assegnazione dell'azienda sociale ad uno dei soci quale quota di liquidazione;
vendita dell'intera partecipazione sociale o di una partecipazione sociale di controllo in una società di persone o di capitali.
Nei primi due casi non si può affermare che vi è stato trasferimento di azienda da un erede all'altro o da un socio ad un altro, sicché gli altri erede o gli altri soci non sono tenuti a rispettare il divieto di concorrenza. Vi è però chi applica il divieto di concorrenza a favore dell'erede o del socio che subentra nell'azienda ed a carico degli altri eredi o degli altri soci.
Nel terzo caso il negozio traslativo c'è, ma ha per oggetto le quote e non l'azienda. Quindi, non ricorre il presupposto della vendita dell'azienda per l'applicazione dell' art. 2557. Ma, vi è chi assoggetta al divieto di concorrenza il socio alienante, purché ricorrano in concreto i presupposti dell'art. 2557 ed in particolare l'attitudine dell' alienante a sviare la clientela per la posizione rivestita nell'impresa sociale.
Il divieto di concorrenza ha per oggetto l'inizio di una nuova impresa commerciale. Ma esso, spesso, non è rispettato. Ad esempio, si vende l'azienda e se ne apre un' altra concorrente avvalendosi di un prestanome o costituendo una società di comodo. Oppure, si vende l'azienda e si entra come dirigente in un'impresa concorrente o si diventa amministratore unico di una società concorrente.
In questi casi, è discutibile se vi sia inizio di una nuova impresa da parte dell' alienante e violazione del relativo obbligo di non fare.
Il divieto dovrà ritenersi violato ogni qualvolta si sia avuto sviamento di clientela dall'azienda ceduta, per fatto concorrenziale direttamente o indirettamente imputabile all'alienante.
Visto che questo non è facile da provare, è opportuno che l'atto di alienazione contenga specifiche clausole a riguardo, possibili grazie all'estensione patrizia del divieto di concorrenza, art. 2557.
6. LA SUCCESSIONE NEI CONTRATTI AZIENDALI
La disciplina del trasferimento dell'azienda si preoccupa di favorire il mantenimento dell'unità economica della stessa. A tal fine è agevolato il subingresso dell' acquirente nei rapporti contrattuali in corso di esecuzione che l'alienante ha stipulato con fornitori, finanziatori, lavoratori e clienti.
Infatti, l'art. 2558 prevede che se non è pattuito diversamente, l'acquirente dell'azienda subentra nei contratti stipulati per l'esercizio dell'azienda stessa che non abbiano carattere personale. Il terzo contraente può tuttavia recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell'alienante.
Il subingresso dell'acquirente nei contratti in corso di esecuzione si produce anche se le parti nulla hanno previsto a riguardo. Quindi, è un effetto ex lege della vendita, sicché un'espressa pattuizione fra le parti è necessaria solo se si vuole escludere la successione in uno o più contratti in corso di esecuzione.
La deroga ai principi di diritto comune è vistosa per quanto concerne la posizione del terzo contraente. Infatti, mentre per diritto comune la cessione del contratto non può avvenire senza il consenso del contraente ceduto, art. 1406, nel trasferimento di contratti, inerenti l'esercizio di impresa, il consenso del terzo contraente non è necessario e l'effetto successorio si produce dal momento stesso in cui diventa efficace il trasferimento dell'azienda. Da questo momento il terzo contraente dovrà eseguire le proprie prestazioni nei confronti del nuovo titolare dell'azienda.
Il terzo contraente non resta senza tutela, anche se limitata. Infatti, il diritto di recesso del terzo, entro tre mesi, potrà essere esercitato solo se sussiste una giusta causa e spetterà al terzo contraente provare che l'acquirente dell'azienda si trova in una situazione oggettiva tale da non dare affidamento sulla regolare esecuzione del contratto.
Inoltre, il recesso dal contratto non determina il ritorno del contratto in testa all' alienante bensì la sua definitiva estinzione. Resta al terzo contraente solo la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni all'alienante dando la prova che questi non ha osservato la normale cautela nella scelta dell'acquirente dell'azienda.
È evidente il favor legislativo per il mantenimento dell'unità funzionale dell'azienda, che ispira anche altre norme che regolano taluni rapporti contrattuali inerenti all' azienda.
Naturalmente non vi è successione dei contratti che abbiano carattere personale.
Per il trasferimento di tali contratti sarà necessaria un'espressa pattuizione contrattuale fra le parti ed il consenso del terzo contraente ceduto. Cioè secondo la disciplina di diritto comune.
Contratti personali, ai fini dell'art. 2558, sono quei contratti nei quali l'identità e le qualità personali dell'imprenditore sono state in concreto determinanti del consenso del terzo contraente.
7. I CREDITI E I DEBITI AZIENDALI
L'art. 2558 si applica ai contratti a prestazioni corrispettive non integralmente eseguiti da entrambe le parti al momento del trasferimento dell'azienda.
Se invece, l'imprenditore ha già adempiuto le obbligazioni a suo carico, residuerà un credito a suo favore nei confronti del terzo. Viceversa, residuerà un debito dell' imprenditore qualora il terzo contraente abbia integralmente eseguito le proprie prestazioni. In tali casi, in sede di vendita dell'azienda troverà applicazione la disciplina dettata dall'art. 2559 e dall'art. 2560 per i crediti e i debiti aziendali e non quella prevista dall'art. 2558.
Cessione dei crediti
Per le imprese soggette a registrazione nella sezione ordinaria, per rendere opponibile la cessione dei crediti ai terzi, la notifica al debitore ceduto o l'accettazione da parte di questi è sostituita dall'iscrizione del trasferimento dell'azienda nel registro delle imprese. Da tale momento, la cessione dei crediti relativi all'azienda ceduta ha effetto nei confronti dei terzi, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione. Tuttavia, il debitore ceduto è liberato se paga in buona fede all'alienante.
Per le altre imprese, si applica la disciplina generale della cessione dei crediti.
Cessione dei debiti
Per quanto riguarda la cessione dei debiti si cerca di evitare che la modificazione del patrimonio dell'alienante pregiudichi le aspettative di soddisfacimento dei creditori aziendali. Pertanto è mantenuto il principio generale per cui non è ammesso il mutamento del debitore senza il consenso del creditore. Infatti, secondo l'art. 2560, 1° comma, l'alienante non è liberato dai debiti, inerenti all'esercizio dell'azienda ceduta, anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito. Consenso che deve riguardare specificatamente la liberazione dell'alienante e non genericamente il trasferimento dell'azienda.
Per le aziende commerciali, invece, è derogato l'altro principio secondo cui ciascuno risponde solo delle obbligazioni da lui assunte. Infatti, secondo l'art. 2560, 2° comma, nel trasferimento di un'azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche l'acquirente dell'azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori. Perciò, l'acquirente di un'azienda commerciale risponde in solido con l'alienante nei confronti dei creditori che non abbiano consentito alla liberazione dell'alienante.
La responsabilità ex lege dell'acquirente sussiste solo per i debiti aziendali che risultano dai libri contabili obbligatori, (tranne che per i debiti di lavoro, per cui l'acquirente ne risponde anche se questi non risultano dalle scritture contabili obbligatorie).
L'art. 2559 e l'art. 2560 disciplinano le conseguenze del trasferimento dell'azienda per i creditori e i debitori aziendali, ma nulla dispongono circa la sorte dei crediti e debiti nel rapporto tra alienante e acquirente.
La soluzione è tuttora controversa poiché i dati normativi non offrono alcun argomento per risolvere il problema.
Comunque, prevale la tesi che i crediti e i debiti non passino automaticamente in testa all'acquirente, ma a tal fine è necessaria un'espressa pattuizione. In mancanza, l'acquirente riceverà il pagamento dei crediti anteriori come semplice legittimato a riscuotere per conto dell'alienante e sarà tenuto a trasferirgli quanto riscosso, nonché pagherà i debiti anteriori al trasferimento dell'azienda quale garante ex lege dell'alienante stesso e avrà diritto di rivalsa per l'intero nei confronti di questi.
Ma le intenzioni del legislatore erano diverse, dato che sia il Progetto di codice di commercio del 1940 e il Progetto del libro dell'impresa e del lavoro del codice civile espressamente prevedevano la successione automatica dell'acquirente nei crediti e nei debiti. Comunque, non è accettabile l'idea che, nel silenzio delle parti, passino all'acquirente i crediti ma non i debiti.
8. USUFRUTTO E AFFITTO DELL'AZIENDA
L'azienda può formare oggetto di un diritto reale o personale di godimento. Può essere costituito in usufrutto o può essere concessa in affitto.
usufrutto. La costituzione in usufrutto di un complesso di beni destinati allo svolgimento di attività di impresa modifica la disciplina generale dell'usufrutto. Infatti, l'art. 2561 prevede particolari poteri-doveri in testa all'usufruttuario per consentire all'usufruttuario la libertà operativa necessaria per gestire proficuamente l'impresa e per tutelare l'interesse del concedente a che non sia diminuita l'efficienza del complesso aziendale.
L'art. 2561 dispone che l'usufruttuario dell'azienda deve esercitarla sotto la ditta che la contraddistingue. Egli deve gestire l'azienda senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l'efficienza dell'organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte. Se non adempie a tale obbligo o cessa arbitrariamente dalla gestione dell'azienda, si applica l'art. 1015, cioè la cessazione dell'usufrutto per abuso dell'usufruttuario.
Il potere-dovere di gestione dell'usufruttuario comporta che lo stesso ha il diritto di godere dei beni aziendali ed il potere di disporne nei limiti segnati dalle esigenze della gestione. Tale potere sussiste sia rispetto alle scorte, e più in generale al capitale circolante, ma anche rispetto al capitale fisso, purché tali atti di disposizione non alterino l'identità e l'efficienza dell'azienda.
L'usufruttuario potrà acquistare ed immettere nell'azienda nuovi beni; beni che diventeranno di proprietà del nudo proprietario e sui quali l'usufruttuario avrà diritto di godimento e potere di disposizione.
Siccome, al termine dell'usufrutto l'azienda potrebbe risultare composta da beni diversi da quelli originari, l'art. 2561, 4° comma, prevede che venga redatto un inventario all'inizio e alla fine dell'usufrutto e che la differenza fra le sue consistenze sia regolata in danaro.
Affitto. La disciplina dell'usufrutto si applica anche all'affitto di azienda, art. 2562.
Usufrutto e affitto di azienda sono parzialmente regolati dalle stesse norme previste per la vendita.
Ad entrambe le fattispecie si applicano gli artt. 2557 (divieto di concorrenza) e 2558 (successione nei contratti aziendali).
Il nudo proprietario e il locatore, per la durata dell'affitto e dell'usufrutto, non potranno iniziare una nuova impresa che possa sviare clientela e subentreranno automaticamente nei contratti aziendali.
All'usufrutto, ma non all'affitto, si applica l'art. 2559 (cessione dei crediti aziendali).
L'art. 2560 non si applica a nessuna delle due fattispecie. Perciò dei debiti aziendali anteriori alla costituzione dell'usufrutto o dell'affitto risponderanno esclusivamente il nudo proprietario o il locatore, salvo per i debiti di lavoro espressamente accollati anche all'usufruttuario, art. 2112, 4° comma.
CAP.VI I SEGNI DISTINTIVI
1. IL SISTEMA DEI SEGNI DISTINTIVI
L'attività di impresa è un'attività di relazioni in un mercato che vede coesistere più imprenditori che producono e/o distribuiscono beni o servizi uguali o simili. Ciascun imprenditore può utilizzare uno o più segni distintivi che consentano di individuarlo sul mercato e di distinguerlo dagli altri imprenditori concorrenti.
I principali segni distintivi dell'imprenditore sono:
a. la ditta, che contraddistingue la persona dell'imprenditore nell'esercizio dell'attività di impresa; detta anche nome commerciale;
b. l'insegna, che individua i locali in cui l'attività di impresa è esercitata;
c. il marchio, che individua e distingue i beni o i servizi prodotti.
d. sempre più rilievo sta acquistando il nome a dominio, cioè il sito internet aziendale.
I segni distintivi hanno la funzione di favorire la formazione ed il mantenimento della clientela in quanto consentono ai consumatori di distinguere fra i vari operatori economici e di effettuare scelte consapevoli. Si definiscono collettori di clientela.
Intorno ai segni distintivi ruotano vari interessi:
l'interesse degli imprenditori:
o di dotarsi di segni che abbiano spiccata forza distintiva ed attrattiva e di precludere ai concorrenti l'uso di segni similari idonei a sviare la propria clientela;
o di poter liberamente cedere ad altri i propri segni distintivi, in modo da monetizzare il valore economico di tali segni;
l'interesse di coloro che con essi entrano in contatto (fornitori, finanziatori e consumatori) a non essere tratti in inganno sull'identità dell'imprenditore o sulla provenienza dei prodotti immessi sul mercato.
il più ampio interesse a che la competizione concorrenziale si svolga in modo ordinato e leale. Questa finalità è l'obiettivo a cui tende la regolamentazione dei segni distintivi.
Nel nostro ordinamento i tre segni distintivi, ditta, insegna e marchio, sono disciplinati in modo differente, ma è fuor di dubbio la centralità del ruolo del marchio. Infatti, oltre alla disciplina del codice civile riservati a tutti e tre, il marchio è disciplinato anche dal codice della proprietà industriale, d.lgs. n. 30 del 10/02/2005 che sostituisce la legge marchi del 1942.
Dalle tre discipline è possibile desumere dei principi comuni, espressione della funzione comune dei segni distintivi e dell'identità degli interessi coinvolti:
a. l'imprenditore gode di ampia libertà nella formazione dei propri segni distintivi, ma è tenuto a rispettare determinate regole ( verità, novità, capacità distintiva ) , per evitare inganno e confusione sul mercato;
b. l'imprenditore ha diritto all'uso esclusivo dei propri segni distintivi; è un diritto relativo e strumentale alla realizzazione della funzione distintiva e non un diritto assoluto: il titolare di un segno distintivo non può impedire che altri adottino lo stesso segno distintivo quando, per la diversità delle attività di impresa o per la diversità dei mercati su cui operano, non vi è pericolo di confusione o sviamento della clientela;
c. l'imprenditore può trasferire ad altri i propri segni distintivi, purché la circolazione dei segni non tragga in inganno il pubblico.
Da questi principi emerge che i tre segni distintivi tipici dell'imprenditore sono tutelati sul piano patrimoniale, ma in modo relativo e funzionale. Ciò rende controverso se i segni distintivi possano essere considerati beni immateriali e, quindi, si possa parlare di diritto di proprietà su un bene immateriale.
Visto che ormai la dottrina accetta il concetto di proprietà limitata e funzionale, in presenza dei segni distintivi si può parlare di proprietà industriale.
a) LA DITTA
2. FORMAZIONE DELLA DITTA E CONTENUTO DEL DIRITTO SULLA DITTA
La ditta è il nome commerciale dell'imprenditore, che lo individua come soggetto di diritto nell'esercizio dell'attività di impresa. È un segno distintivo necessario, ossia in mancanza di diversa scelta essa coincide con il nome civile dell' imprenditore.
La ditta, secondo l'art. 2563, 1° comma, può essere liberamente scelto dall' imprenditore. Nella scelta l'imprenditore deve rispettare due limiti specifici, cioè:
il principio di verità,
il principio di novità.
Il principio di verità della ditta ha un contenuto assai limitato e diverso a seconda che si tratti di:
ditta originaria, è quella formata dall'imprenditore che la utilizza. Essa deve contenere almeno il cognome o la sigla dell'imprenditore, poi l'imprenditore può completarlo come preferisce. L'imprenditore non è tenuto a modificare la ditta patronomica qualora intervengano mutamenti nel suo nome civile (per matrimonio, divorzio o adozione);
ditta derivata, è quella formata da un dato imprenditore e successivamente trasferita ad altro imprenditore insieme all'azienda. Infatti, l'art. 2563, 2° comma, fa salvo quanto è disposto dall'art. 2565 (trasferimento della ditta), e né tale norma né altre norme impongono a chi utilizzi una ditta derivata di integrarla col proprio cognome o con la propria sigla.
Il principio della novità, art. 2564, sancisce che la ditta non deve essere uguale o simile a quella usata da altro imprenditore e tale da creare confusione per l'oggetto dell'impresa o per il luogo in cui questa è esercitata.
Per risolvere il conflitto fra ditte confondibili si applica il criterio della priorità dell'uso : chi ha adottato per primo una ditta ha diritto esclusivo della stessa e tale diritto acquista per il solo fatto dell'uso della ditta. Chi successivamente adotti una ditta uguale o simile, può perciò essere costretto ad integrarla o modificarla con indicazioni idonee a differenziarla. E ciò anche quando la ditta usata per seconda corrisponda al nome civile dell'imprenditore (ditta patronomica).
In passato, vista la mancanza dell'attuazione del registro delle imprese, il criterio della priorità dell'uso trovava applicazione anche per le imprese commerciali individuali. La recente attuazione del registro delle imprese rende oggi applicabile il secondo comma dell'art. 2564, in base al quale per le imprese commerciali l'obbligo dell'integrazione o modificazione spetta a chi ha iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore.
Quindi, per le imprese commerciali trova applicazione il criterio della priorità dell'iscrizione nel registro delle imprese e non il criterio della priorità dell'uso.
Il diritto all'uso esclusivo della ditta ed il corrispondente obbligo di differenziazione sussistono però solo se i due imprenditori si trovino in rapporto di concorrenza fra loro e quindi possa determinarsi confusione per l'oggetto dell'impresa e/o per il luogo in cui questa è esercitata. Perciò è possibile l'omonimia fra ditte che non creano confusione sul mercato, non potendosi imporre la differenziazione a chi produce beni o servizi destinati a soddisfare bisogni diversi dei consumatori, né a chi opera in un diverso territorio.
Il diritto all'uso esclusivo è quindi un diritto relativo.
La confondibilità fra ditte deve essere valutata sulla base delle ditte effettivamente utilizzate, anche se diverse da quelle ufficialmente prescelte ( ditta ufficiosa ). Inoltre, nel giudizio di confondibilità si deve dare rilievo al nucleo caratterizzante e predominate (cuore della ditta) e non a indicazioni marginali o a denominazioni generiche inserite nella ditta stessa (bar, taxi, moda).
Il principio della novità opera anche nei rapporti fra la ditta e gli altri segni distintivi, in particolare con il marchio. Infatti, è fatto divieto di adottare come propria ditta il marchio altrui, se sussiste pericolo di confusione fra i segni. È questo il principio di unitarietà dei segni distintivi, in base al quale il diritto di esclusiva che spetta al titolare di un marchio ha effetto nei confronti di tutti i segni distintivi usati da altri imprenditori.
3. IL TRASFERIMENTO DELLA DITTA
Secondo l'art. 2565, la ditta non può essere trasferita separatamente dall'azienda.
Nel trasferimento dell'azienda per atto tra vivi la ditta non passa all'acquirente senza il consenso dell'alienante.
Nella successione nell'azienda per causa di morte la ditta si trasmette al successore, salvo diversa disposizione testamentaria.
Il collegamento fra circolazione della ditta e circolazione dell'azienda consente al titolare della ditta di monetizzare il valore dell'avviamento dell'azienda e di tutelare quanti hanno avuto rapporti con l'originario imprenditore.
La circostanza che la ditta derivata non deve essere integrata con indicazioni idonee ad individuare l'attuale titolare dell'impresa (cognome o sigla) e il ritardo nell'attuazione del registro delle imprese esponevano i terzi a vistose possibilità di inganno circa la reale identità dell'attuale titolare dell'impresa.
Pericoli aumentati dal fatto che, nel silenzio della legge, si ammette che la ditta possa essere trasferita anche quando non è trasferita l'intera azienda, ma un ramo della stessa, purché dotato di organica unità.
Il pericolo che chi entra in contatto con un imprenditore possa essere tratto in inganno dall'uso di una ditta derivata è stato mitigato dalla giurisprudenza. Infatti, si ritiene che chi ha trasferito l'azienda è responsabile in solido con l'acquirente per i debiti da questi contratti spendendo la ditta derivata, qualora il terzo contraente abbia potuto ragionevolmente ritenere di trattare col cedente.
Conseguenza di questo orientamento è che l'alienante ha l'onere di portare a conoscenza dei terzi, con mezzi idonei, l'avvenuto trasferimento dell'azienda e della ditta se si tratta di impresa non commerciale e comunque di imporre all'acquirente di integrare la ditta con indicazioni non equivoche.
4. DITTA E NOME CIVILE. DITTA E NOME DELLE SOCIETA'
L'imprenditore individuale ha:
un nome civile, che lo individua come soggetto di diritto come ogni altra persona fisica. Esso è attribuito per legge, è fisso (cognome + prenome) ed non è liberamente modificabile;
una ditta o nome commerciale, che lo individua come imprenditore. Un imprenditore può avere più ditte.
Nome civile e ditta sono diversamente tutelati e formano oggetto di diritti diversi.
Il nome civile è un attributo della personalità e come tale è tutelato nei limiti fissati dagli artt. 6-9 del codice civile.
La ditta è invece tutelata come mezzo di attrazione della clientela e come valore patrimoniale.
Perciò, mentre l'omonimia fra nomi civili è ammessa, non è consentita omonimia fra ditte di imprenditori in concorrenza, anche se corrispondenti ai nomi civili.
Inoltre, il nome civile a differenza della ditta è indisponibile e intrasmissibile.
La distinzione fra nome civile e nome commerciale dell'imprenditore è valida anche per le società.
In base all'art. 2567, la ragione sociale delle società di persone e la denominazione sociale delle società di capitali e delle cooperative sono regolate dalle norme dettate in sede di disciplina dei singoli tipi di società. Tuttavia si applicano anche ad esse le disposizioni dell'art. 2564, cioè il divieto di utilizzare ditta uguale o simile a quella di altro imprenditore concorrente. Non sono richiamati, invece, né l'art. 2563 (scelta della ditta), né l'art. 2565 (trasferimento della ditta).
Si è chiarito che ragione sociale e denominazione sociale non vanno identificate con la ditta. Esse costituiscono il nome necessario delle società e vanno poste sullo stesso piano del nome civile della persona fisica in quanto servono per individuarle come soggetti di diritto e non come esercenti di impresa. Quindi, la disciplina dell'art. 2567 regola solo il nome delle società e non impedisce l'uso di una ditta distinta dalla ragione o denominazione sociale.
In conclusione : le società devono avere una ragione sociale o una denominazione, formata rispettando le norme sulla società e l'art. 2564. Quindi, il nome di una società non può essere uguale o simile a quello di un'altra società concorrente e non è trasferibile. Le società possono avere una ditta originaria, formata rispettando le norme sulla ditta, nonché una o più ditte derivate. Ditte che sono distinte dal nome e che possono essere trasferite con l'azienda.
b) IL MARCHIO
5. NOZIONE E FUNZIONI DEL MARCHIO
Il marchio è il segno distintivo dei prodotti o dei servizi dell'impresa.
Esso è disciplinato sia dall'ordinamento nazionale sia da quello comunitario ed internazionale.
Il marchio nazionale è regolato dagli artt. 2569-2574 del codice civile e dal codice della proprietà industriale (d.lgs. n. 30 del 10/02/2005, sostitutivo del r.d. n. 929/1942, legge marchi). Inoltre, la disciplina nazionale sui marchi è stata più volte modificata in attuazione delle direttive comunitarie e degli accordi internazionali.
Il marchio comunitario è stato istituito con il regolamento CE n. 40/94 del 20/12/1993. La relativa disciplina permette di ottenere un marchio unico, regolato e tutelato in tutti i paesi dell'Unione Europea.
Il marchio internazionale è disciplinato da due convenzioni internazionali, la Convenzione di Parigi del 1883 e l'Accordo di Madrid del 1891, recentemente integrato dal Protocollo di Madrid del 1989.
Tali normative, basate sulla registrazione del marchio (nazionale, comunitaria, internazionale), riconoscono al titolare del marchio, il diritto all'uso esclusivo dello stesso, così permettendo che il marchio assolva la sua funzione di identificazione e differenziazione dei prodotti similari esistenti sul mercato.
Il marchio costituisce perciò il principale simbolo di collegamento fra produttori e consumatori e svolge quindi un ruolo centrale nella formazione e nel mantenimento della clientela.
Il marchio è anche indicatore della provenienza del prodotto da una fonte unitaria di produzione.
Dopo la riforma del 1992, è caduto il divieto di circolazione del marchio separatamente dall'azienda e soprattutto si è riconosciuta la legittimità del co-uso di uno stesso marchio da parte di più imprenditori concorrenti, sulla base di una licenza di marchio non esclusiva concessa dal titolare dello stesso.
I co-utenti di uno stesso marchio sono tenuti ad assicurare l'omogeneità dei caratteri essenziali e della qualità dei prodotti dello stesso tipo contraddistinti dal marchio comune in modo da evitare che il pubblico sia tratto in inganno.
Fra le funzioni del marchio non può comprendersi quella di garanzia della qualità dei prodotti. Non vi è alcuna norma che assolva una funzione di garanzia della qualità dei prodotti o che vieti al produttore variazioni qualitative della propria produzione.
È dato comune che certi marchi finiscono con l'assumere un'autonoma forza attrattiva dei consumatori. È comprensibile perciò l'interesse dei titolari di marchi celebri a contrastare l'uso degli stessi da parte di altri produttori, anche per prodotti diversi da quelli da loro immessi sul mercato.
Mentre in passato tale interesse è stato ignorato dalla legge, l'attuale disciplina ha recepito la distinzione fra marchi ordinari e marchi celebri, estendendo per quest'ultimi la tutela oltre i limiti segnati dalla necessità di evitare confusione fra prodotti affini, dando così riconoscimento giuridico alla funzione attrattiva degli stessi.
6. I TIPI DI MARCHI
I marchi possono essere classificati e raggruppati secondo diversi criteri.
In base alla natura dell'attività svolta dal titolare del marchio, distinguiamo:
il marchio di fabbrica è il marchio apposto dal fabbricante del prodotto. I beni che subiscono successivi fasi di lavorazione o di assemblaggio, possono presentare anche più marchi di fabbrica.
il marchio di commercio è il marchio apposto dal commerciante del prodotto, sia esso un distributore intermedio (grossista) o rivenditore finale.
Su uno stesso prodotto possono perciò coesistere più marchi ed in tal caso l'art. 2572, e l'art. 20, 3° comma c.p.i., prevedono che il rivenditore può apporre il proprio marchio ai prodotti che mette in vendita, ma non può sopprimere il marchio del produttore.
il marchio di servizio è il marchio utilizzato da chi produce servizi (es. imprese di trasporto, banche, ecc.). La forma tipica di questi marchi è quella pubblicitaria, essendo essi posti su materiali pubblicitari o divise.
Altra classificazione dei marchi è fra marchio generale e marchi speciali:
si ha marchio generale quando l'imprenditore utilizzerà un solo marchio per identificare tutti i suoi prodotti.
si avranno marchi speciali quando utilizzerà più marchi per differenziare i suoi singoli prodotti.
Inoltre è possibile l'uso contemporaneo di un marchio generale e più marchi speciali, quando si vuole evidenziare contemporaneamente l'unità della fonte di produzione e la diversità dei prodotti, (es. FIAT, aziende di cosmetici).
L'imprenditore nella scelta del marchio potrà utilizzare come marchio tutti i nuovi segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, art. 7 c.p.i., purché rispetti i requisiti di validità del marchio.
Il marchio può essere costituito:
solo da parole, che può coincidere con il nome della ditta o il nome civile dell'imprenditore, detto marchio denominativo;
solo da figure, lettere, cifre, disegni, colori, suoni, detto marchio figurativo;
sia da parole che da simboli o altro, detto marchio misto.
Il marchio di regola è qualcosa di esterno al prodotto, che si aggiunge al prodotto stesso per indicarne la provenienza. Il marchio può essere costituito dalla forma del prodotto o dalla sua confezione, ed è detto marchio di forma o tridimensionale. Ma secondo l'art. 9 c.p.i., non possono essere registrati come marchio le forme imposte dalla natura del prodotto, quelle necessarie per ottenere un risultato tecnico e quelle che danno un valore sostanziale al prodotto.
Insomma, si deve trattare di una forma arbitraria e capricciosa che consenta l'individuazione del prodotto.
L'art. 2570 e l'art. 11 c.p.i. , prevedono il marchio collettivo.
Titolare del marchio collettivo è un soggetto che svolge la funzione di garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi e che, non usa esso il marchio, ma concede l'utilizzo del marchio a produttori o commercianti consociati.
Quest'ultimi si impegnano a rispettare nella loro attività le norme dello statuto fissate dall'ente e a consentire i relativi controlli. (Es. consorzi)
Questi marchio sono utilizzati in aggiunta a quelli individuali.
7. I REQUISITI DI VALIDITA' DEL MARCHIO
Per essere tutelato giuridicamente il marchio deve rispondere a determinati requisiti di validità:
liceità,
verità,
originalità,
novità.
Liceità
Il marchio non deve contenere:
segni contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume, art. 14, lett. a, c.p.i.
stemmi o altri segni protetti da convenzioni internazionali, senza l'autorizzazione dell'autorità competente, art. 10, c.p.i.
segni lesivi di un altrui diritto di autore o di proprietà industriale, art. 14, lett. c., c.p.i.
l'altrui ritratto, o nome (se persona famosa) senza il consenso dell'interessato o dei suoi eredi, art. 8, c.p.i.
verità.
L'art. 14, lett. b, c.p.i. vieta di inserire nel marchio segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi.
Originalità
Per assolvere alla sua funzione il marchio deve essere originale, cioè deve essere composto in modo da consentire l'individuazione dei prodotti contrassegnati da tutti gli altri prodotti dello stesso genere presente sul mercato.
Il legislatore, all'art. 12 e 13, c.p.i. predetermina i tipi di segni privi di capacità distintiva:
a. le denominazioni generiche del prodotto o del servizio o la loro figura generica. Es. scarpa o la figura di una scarpa.
b. le indicazioni descrittive dei caratteri essenziali, delle prestazioni e della provenienza geografica del prodotto.
c. i segni di uso comune nel linguaggio corrente. Es. super, extra, lusso.
Questo divieto è stato posto per impedire l'acquisto di posizioni di monopolio su simboli che nel lessico comune individuano genericamente quel dato prodotto.
Perciò, rispettano il requisito della originalità, quei marchi, detti marchio di fantasia, che utilizzano denominazioni o figure generiche che non abbiano alcuna relazione con il prodotto contraddistinto. Es. sigarette Capri.
Si definiscono marchi deboli quei marchi a cui basta una lieve modifica per escludere la confondibilità con altri marchi. Es. amplifon - udifon.
Sono marchi forti, invece, quei marchi che sono dotati di accentuata capacità distintiva e sono tali i marchi di pura fantasia. Per tali marchi una modifica non basterà ad evitare la contraffazione.
La distinzione fra marchi deboli e marchi forti non è sempre agevole, e si può verificare che un marchio, inizialmente dotato di scarsa capacità distintiva, diventi col tempo un marchio forte a seguito della notorietà raggiunta tra il pubblico grazie alla pubblicità (detta secondary meaning).
L'attuale disciplina, art. 13, c.p.i. , riconosce che il secondary meaning:
può far acquistare carattere distintivo ad un segno che originariamente ne era privo rendendone così possibile la registrazione come marchio;
può trasformare un marchio originariamente debole (e perciò nullo) in un marchio valido;
novità.
Un marchio per essere valido deve essere nuovo rispetto agli altri, per non creare confusione fra i consumatori.
Il codice della proprietà industriale distingue fra marchi ordinari e marchi celebri.
Per i marchi ordinari la regola è che non sono nuovi i segni che possono determinare un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni, perché si tratta di segni identici o simili ad un segno già noto come marchio, ditta, insegna o nome a dominio di un altro imprenditore concorrente o comunque già registrato da altri come marchio per prodotti identici o affini, art. 12.
Il rapporto di affinità fra prodotti non è però necessario se il marchio già registrato è un marchio celebre. Infatti, non è nuovo un marchio confondibile da altri successivamente utilizzato per prodotti o servizi non affini, se chi lo usa trarrebbe indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del segno anteriore o recherebbe pregiudizio agli stessi, art. 12.
Il difetto di questi requisiti comporta la nullità del marchio, art. 25 c.p.i. , che può riguardare anche solo parte dei prodotti o servizi per i quali il marchio è stato registrato, art. 27, c.p.i. Ma, sono previste due eccezioni:
la nullità del marchio per difetto di novità non può essere più dichiarato quando chi ha richiesto la registrazione non era in mala fede ed il titolare del marchio anteriore abbia tollerato l'uso per 5 anni. Questo è l'istituto della convalida del marchio, che in base all'art. 28 c.p.i., è applicabile anche al conflitto fra due marchi registrati e comporta la coesistenza dei due marchi confondibili.
la nullità del marchio per difetto di originalità non può essere dichiarata quando, a seguito dell'uso che ne è stato fatto, ha acquistato capacità distintiva prima della proposizione della domanda o dell'eccezione di nullità, art. 13 c.p.i. E' il caso di sopravvenuto secondary meaning.
8. IL MARCHIO REGISTRATO
Il titolare di un marchio rispondente ai requisiti di validità ha diritto all'uso esclusivo, su tutto il territorio nazionale, il marchio scelto
Il contenuto del diritto sul marchio e la relativa tutela sono però diversi a seconda che il marchio sia stato o meno registrato presso l'Ufficio italiano brevetti e marchi, istituito presso il Ministero delle attività produttive, e a seconda che si tratta di marchi celebri o ordinari.
Il marchio registrato può essere ottenuto non solo dall'imprenditore che intenda utilizzarlo direttamente nella propria impresa, ma anche da chi si proponga di utilizzarlo in altre imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo consenso, art. 19 c.p.i.
Il titolare di un marchio registrato può impedire a terzi di mettere in commercio, di importare o di esportare prodotti contrassegnati col proprio marchio, nonché di utilizzare lo stesso nella pubblicità, quando ciò possa determinare un rischio di confusione per il pubblico, art. 20 c.p.i.
Tale potere però subisce alcune limitazioni, previste dall'art. 21 c.p.i.
Il diritto di esclusiva sul marchio registrato copre non solo i prodotti identici, ma anche quelli affini, qualora possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico. Però, la tutela del marchio registrato contro l'altrui usurpazione o contraffazione non impedisce che un altro imprenditore registri o usi lo stesso marchio per prodotti diversi.
L'applicazione di tale regola può causare problemi nel caso in cui si tratti di marchi celebri. L'uso di tali marchi, anche per prodotti diversi, oltre a costituire usurpazione dell'altrui fama, può facilmente determinare equivoci sulla reale fonte di produzione, per la spontanea tendenza a riferire qualsiasi prodotto contrassegnato dal marchio celebre allo stesso fabbricante. Es. coca-cola.
Con la riforma del 1992 la tutela dei marchi celebri è stata svincolata dal criterio dell' affinità merceologica. Il titolare di un marchio registrato, che sia celebre, può vietare a terzi di usare un marchio identico o simile al proprio anche per prodotti o servizi non affini, quando l'uso del segno, senza giustificato motivo, consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi, art. 20 c.p.i.
Il diritto di esclusiva sul marchio consente di impedire l'utilizzo di segni confondibili non solo in funzione di marchio, bensì anche come ditta, insegna o nome a dominio aziendale.
Il diritto di esclusiva sul marchio registrato decorre dalla data di presentazione della relativa domanda all'Ufficio brevetti, art. 15 c.p.i. Il titolare di un marchio registrato è, perciò, tutelato ancora prima che inizi ad utilizzare il marchio stesso, e quindi anche nella fase di lancio pubblicitario di un prodotto. Una volta presentata la domanda di registrazione, sempre che poi la registrazione venga accolta, ogni marchio uguale o simile, successivamente presentato, è ex lege nullo per difetto del requisito della novità, art. 25 c.p.i.
La registrazione nazionale è presupposto per poter estendere la tutela del marchio in ambito internazionale, attraverso la registrazione presso l'Organizzazione mondiale per la proprietà industriale, OMPI, di Ginevra.
Per il marchio comunitario la registrazione è invece indipendente da quella nazionale. La registrazione è effettuata presso l'Ufficio per l'armonizzazione del mercato interno, UAMI, di Alicante (Spagna) e produce gli stessi effetti in tutta Europa.
La registrazione nazionale, comunitaria e internazionale dura 10 anni, art. 15 c.p.i. , e non più 20 anni come prima. È però rinnovabile per un numero illimitato di volte, sempre con efficacia decennale, art. 16 c.p.i.
Quindi, il marchio ha tutela perpetua, a meno che il marchio sia dichiarato nullo per difetto originario di uno dei requisiti essenziali, art. 25 c.p.i. , o sopravvenga una causa di decadenza, art. 26 c.p.i.
Dal marchio si decade per:
volgarizzazione;
sopravvenuta ingannevolezza del marchio;
mancata utilizzazione entro 5 anni dalla registrazione o se l'utilizzazione è stata sospesa per 5 anni, salvo che l'inerzia sia dipesa da un motivo legittimo;
se il titolare del marchio collettivo omette i controlli previsti dalle disposizioni che ne regolano l'uso.
Si ha volgarizzazione quando il marchio è divenuto nel commercio denominazione generica di quel dato prodotto, perdendo così la propria capacità distintiva. Es. Nylon, Biro. L'art. 14 c.p.i. richiede espressamente che la volgarizzazione si sia verificata per fatto dell'attività o dell'inattività del titolare del marchio. Il titolare del marchio non perderà il diritto di esclusiva qualora ne difenda la capacità distintiva, diffidando o negando giudizialmente contro i concorrenti che utilizzano il proprio marchio come denominazione generica. Es. aspirina.
Il marchio registrato è tutelato civilmente e penalmente. In particolare, il titolare del marchio, il cui diritto di esclusiva sia stato leso da un concorrente, può promuovere contro questi l'azione di contraffazione, art. 124 c.p.i.
L'azione di contraffazione è volta ad ottenere l'inibitoria alla continuazione degli atti lesivi del proprio diritto e la rimozione degli effetti degli stessi, attraverso la distruzione delle cose materiali per mezzo dei quali è stata attuata la contraffazione.
Inoltre, il giudice può attuare la pubblicazione della sentenza di condanna in uno o più giornali, art. 126 c.p.i.
Resta fermo il diritto del titolare del marchio al risarcimento del danno in caso di dolo o colpa del contraffattore.
L'attuale disciplina consente al titolare stesso di ottenere, mediante azione di rivendica, la cancellazione o il trasferimento di un nome a dominio lesivo del proprio diritto, o comunque registrato da altri in mala fede, art. 118 e 133 c.p.i.
Il titolare di un marchio registrato può crearsi una rete di difesa del proprio marchio contro le altrui contraffazioni registrando uno o più marchi protettivi, art. 24 c.p.i., che sono marchi simili a quello effettivamente usato e che sono registrati al solo fine di precostituire la prova della confondibilità.
9. IL MARCHIO DI FATTO
L'ordinamento tutela anche chi usa un marchio senza registrazione, art. 2571 e art. 12 c.p.i.
L'art. 2571 dispone che chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la facoltà di continuare ad usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne e valso.
Perciò la tutela del diritto di esclusiva sul marchio non registrato si fonda sull'uso di fatto dello stesso e sull'effettivo grado di notorietà raggiunto.
Il titolare di un marchio non registrato, diventato noto su tutto il territorio nazionale, potrà impedire che altri usi in fatto lo stesso marchio per gli stessi prodotti, ma non per prodotti affini. Potrà altresì ottenere che sia dichiarato nullo, per difetto di novità, un marchio confondibile successivamente registrato. Ma la relativa azione dovrà essere esercitata entro 5 anni, per evitare la convalida del marchio successivamente registrato, art. 28 c.p.i.
Il titolare di un marchio non registrato, noto solo su territorio locale, riceverà una tutela più modesta. Infatti, non potrà impedire che altro imprenditore usi di fatto lo stesso marchio per gli stessi prodotti in altra zona del territorio nazionale. Non potrà impedire che un concorrente registri validamente il marchio ed in tal caso potrà solo continuare ad usare il proprio marchio solo a livello locale. Il titolare del marchio registrato, avrà esclusiva d'uso in ogni altra zona del paese.
Sul piano penale, il marchio non registrato ha una tutela più limitata e non ha tutela internazionale. Infine, il marchio non registrato non viene tutelato dalle azioni previste dal c.p.i., ma da quelle previste in via generale in tema di disciplina della concorrenza sleale.
10. IL TRASFERIMENTO DEL MARCHIO
Il marchio è trasferibile e può essere trasferito sia a titolo definitivo, sia a titolo temporaneo, cd licenza di marchio. Così il titolare di un marchio potrà monetizzare il valore commerciale del marchio, determinato dalla forza attrattiva della clientela.
La disciplina del trasferimento del marchio è stata modificata dalla riforma del 1992. Infatti, è stato abolito il collegamento di circolazione dell'azienda (o un suo ramo) e circolazione del marchio, per evitare inganni e confusione per il pubblico.
L'attuale disciplina, art. 2573 e art. 23 c.p.i. , permette una più libera circolazione del marchio. Oggi infatti, il marchio può essere trasferito o concesso in licenza, per tutti o per parte dei prodotti per i quali è stato registrato, senza che sia necessario il contemporaneo trasferimento dell'azienda o del corrispondente ramo produttivo. Resta però ferma la regola che il trasferimento del marchio non costituito dalla ditta originaria si presume quando è trasferita l'azienda, art. 2573, 2° comma.
È quindi possibile il trasferimento a titolo definitivo del marchio solo per una parte dei prodotti coperti dal diritto di esclusiva dell'alienante con conseguente con titolarità del marchio.
La novità principale della nuova disciplina è costituita dal riconoscimento espresso dell'ammissibilità della licenza di marchio non esclusiva, cioè è espressamente consentito che lo stesso marchio sia contemporaneamente utilizzato dal titolare originario e da uno o più concessionari, sia per tutti che per una parte dei prodotti per i quali il marchio è stato registrato. È quindi consentito che vengano immessi sul mercato prodotti dello stesso genere, con lo stesso marchio, ma provenienti da fonti diverse.
Ma il legislatore si è preoccupato di limitare i pericoli di inganno per il pubblico derivante dalla libera circolazione del marchio e dalla licenza non esclusiva. È stato fissato il principio che dal trasferimento o dalla licenza del marchio non deve derivare inganno nei caratteri dei prodotti o dei servizi che sono essenziali nell'apprezzamento del pubblico.
La licenza non esclusiva è subordinata alla condizione che il licenziatario si obblighi ad utilizzare il marchio per prodotti con caratteristiche qualitative uguali a quelli dei corrispondenti prodotti messi in commercio dal concedente o dagli altri licenziatari, art. 23 c.p.i.
Il titolare del marchio potrà avvalersi delle azioni (inibitoria, rimozione, ecc.) di tutela previsti dalla legge marchi nei confronti del licenziatario che violi le disposizioni al riguardo contenute nel contratto di licenza, art. 23 c.p.i. , che prevede clausole di controllo sull'attività del licenziatario.
La violazione di tale regole espone alla decadenza del marchio per sopravvenuto uso ingannevole dello stesso, art. 26 c.p.i.
c) L'INSEGNA
11. NOZIONE E DISCIPLINA
L'insegna contraddistingue i locali dell'impresa o l'intero complesso aziendale
L'insegna è disciplinata da solo due norme.
L'art. 2568, che dispone che le disposizioni del primo comma dell'art. 2564 si applicano anche all'insegna.
Quindi, l'insegna:
non potrà essere uguale o simile a quella già utilizzata da altro imprenditore concorrente, con conseguente obbligo di differenziazione qualora possa ingenerare confusione nel pubblico (novità);
dovrà essere lecita;
non dovrà contenere indicazioni idonee a trarre in inganno il pubblico circa l'attività o i prodotti (veridicità);
dovrà avere sufficiente capacità distintiva (originalità).
Non è disposto nulla circa il trasferimento dell'insegna, tuttavia si ritiene che il diritto sull'insegna possa essere trasferito, applicandosi la disciplina del trasferimento del marchio, dato che l'insegna identifica elementi materiali e non la persona dell'imprenditore. Ne consegue che deve ritenersi lecita anche la licenza non esclusiva ed il conseguente co-uso della stessa insegna da parte di più imprenditori collegati, come nel caso del franchising .
CAP. VIII LA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA
a) LA LEGISLAZIONE ANTIMONOPOLISTICA
1. CONCORRENZA PERFETTA E MONOPOLIO
Il modello ideale di funzionamento del mercato teorizzato dagli economisti è la cosiddetta concorrenza perfetta, che presenta le seguenti caratteristiche:
contemporanea presenza sul mercato di una pluralità di operatori economici in competizione fra loro, ma in modo che nessuna di loro sia in grado di condizionare il prezzo delle merci;
piena mobilità dei fattori produttivi che assicuri il pronto adeguamento della produzione alle richieste del mercato;
piena mobilità della domanda da parte dei consumatori, liberi di orientare le proprie scelte verso i prodotti più convenienti per qualità e prezzo;
assenza di ostacoli all'ingresso di nuovi operatori in ogni settore della produzione e della distribuzione, nonché di accordi fra le imprese che falsino la libertà di competizione economica.
Questo modello di mercato è ideale e perfetto in quanto la concorrenza:
spinge verso una riduzione sia dei costi di produzione sia dei prezzi di vendita;
assicura la naturale eliminazione dal mercato delle imprese meno competitive;
stimola il progresso tecnologico e l'accrescimento dell'efficacia produttiva delle imprese;
determina la più razionale utilizzazione delle risorse limitate e il raggiungimento del grado più elevato possibile di benessere economico e sociale.
Ma la concorrenza perfetta è solo un modello ideale e teorico, mentre in realtà vari fattori portano il mercato verso una situazione di oligopolio, cioè ad un mercato caratterizzato dal controllo dell'offerta da parte di poche grandi imprese.
Molto spesso gli imprenditori stipulano fra loro dei patti, dette intese, volti a limitare la reciproca concorrenza.
Vi sono delle volte in cui tutta l'offerta di un dato prodotto è controllata da una sola impresa o da poche imprese coalizzate, detto monopolio di fatto.
Il riconoscimento legislativo della libertà di iniziativa economica privata e della conseguente libertà di concorrenza , art. 41 Cost., è presupposto necessario ma non sufficiente perché si instauri un regime oggettivo di mercato caratterizzato da un sufficiente grado di concorrenza effettiva.
Necessaria è anche una regolamentazione giuridica della concorrenza che impedisca situazioni di monopolio o quasi - monopolio.
L'art. 2595 dispone che la concorrenza deve svolgersi in modo da non ledere gli interessi dell'economia nazionale e nei limiti stabiliti dalla legge (e dalle norme corporative), e l'art. 41 Cost. al 2° comma ribadisce che l'iniziativa economica privata è si libera , ma non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale.
Perciò, se il funzionamento concorrenziale del mercato tendenzialmente coincide con l'interesse collettivo, situazioni oggettive e/o obiettivi di politica economica e sociale dei pubblici poteri possono in concreto imporre limitazioni legislative vistose ed anche radicali della libertà di concorrenza.
La ricerca di un punto di equilibrio fra modello teorico ed utopico della piena e perfetta concorrenza e la realtà operativa, costituisce la linea direttiva che ispira la disciplina della concorrenza nei sistemi giuridici ad economia libera, detta concorrenza sostenibile.
Su questo principio guida della libertà di concorrenza, il legislatore italiano:
a. consente limitazioni legali della stessa per fini di utilità sociale e la creazione di monopoli legali in specifici settori di interesse generale;
b. ricollega alla stipulazione di determinati contratti divieti di concorrenza fra le parti, finalizzati al corretto svolgimento del rapporto cui accedono ed alla tutela degli interessi patrimoniali del beneficiario del divieto stesso;
c. consente limitazioni negoziali della concorrenza, ma ne subordina nel contempo la validità al rispetto di condizioni che non comportino un radicale sacrificio della libertà di iniziativa economica attuale e futura, art. 2596 ;
d. assicura l'ordinato e corretto svolgimento della concorrenza attraverso la repressione degli atti di concorrenza sleale, artt. 2598-2601.
Per lungo tempo il sistema italiano della concorrenza si era contraddistinto per una vistosa lacuna: la mancanza di una normativa antimonopolistica, finalizzata al controllo dei fenomeni che possono determinare posizioni di prepotere economico sul mercato ed alla repressione degli abusi che esse posso generare.
A partire dagli anni cinquanta la lacuna fu parzialmente colmata dalla diretta applicabilità nel nostro ordinamento della disciplina antitrust, dettata dai Trattati della CEE. Tale normativa però consentiva di colpire solo le pratiche che possono pregiudicare il regime concorrenziale del mercato comune europeo, non quelle che incidono esclusivamente sul mercato italiano.
L'esigenza di colmare tale lacuna è stato colmato dalla legge n. 287 del 10-10-1990, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato.
Tale legge ha infatti introdotto una disciplina antimonopolistica nazionale a carattere generale, che si affianca a quella comunitaria ed integra la normativa specifica emanata precedentemente per i settori dell'editoria (legge n. 416/1981) e quello radiotelevisivo (legge n. 223/1990, oggi sostituito dal Testo Unico della radiotelevisione).
2. LA DISCIPLINA ITALIANA E COMUNITARIA
La libertà di iniziativa economica e la competizione fra imprese non possono tradursi in atti e comportamenti che pregiudicano in modo rilevante e durevole la struttura concorrenziale del mercato.
Questo principio è il cardine della legislazione antimonopolistica dell'UE, dettata dal Trattato Ce artt. 81-82 e dai Regolamenti Ce n. 1 del 16-12-1993 e n. 139 del 20-01-2004. Questa disciplina, applicabile direttamente alle imprese italiane, è volta a preservare il regime concorrenziale del mercato comunitario e a reprimere le pratiche anticoncorrenziali che pregiudicano il commercio fra stati membri.
La Commissione della CE:
vigila sul rispetto di tali normative,
adotta i provvedimenti necessari per reprimere i comportamenti anticoncorrenziali vietati
irroga le sanzioni pecuniarie previste dalla legislazione comunitaria.
Questo principio è stato recepito anche dalla legislazione antimonopolistica italiana, legge n. 287 del 10-10-1990, volta a preservare il regime concorrenziale del mercato nazionale e a reprimere i comportamenti anticoncorrenziali che incidono solo sul mercato nazionale.
Per le imprese che opera nel campo dell'editoria e radiotelevisivo, trova applicazione la specifica disciplina volta a garantire il pluralismo dell'informazione di massa impedendo posizioni monopolistiche.
Da qui l'esigenza di coordinare le due normative, visto che il legislatore italiano ha riconosciuto posizione preminente e sovraordinata alla disciplina comunitaria.
Infatti, la normativa nazionale ha carattere residuale , cioè è applicabile solo se la fattispecie non è prevista dalla normativa comunitaria, art. 1 legge 287/1993 e, si applica alle pratiche anticoncorrenziali che hanno rilievo esclusivamente locale e che non incidono sulla concorrenza nel mercato comunitario.
Mentre, per le fattispecie che incidono sul mercato comunitario è applicabile solo il diritto comunitario della concorrenza, cd principio della barriera unica, anche se la Commissione Ce sta decentrando l'applicazione della disciplina comunitaria da parte dell'Autorità nazionale, art. 54 legge 52/1996.
I principi del diritto comunitario prevalgono anche sull'interpretazione dell'art. 8 della legge 287/1990 che definisce l'ambito soggettivo di applicazione della disciplina antimonopolistica italiana: imprese private, imprese pubbliche e a partecipazione statale, escluse le imprese in monopolio legale e quelle che gestiscono servizi di interesse economico generale.
Nella nozione comunitaria di impresa sono ricomprese anche gli esercenti professioni intellettuali, che per il nostro ordinamento non sono imprenditori.
Quindi, anche ad essi si applica la disciplina antimonopolistica italiana e comunitaria.
La legge n. 287/1990 ha istituito un apposito organo pubblico indipendente, Autorità garante della concorrenza e del mercato, che vigila sul rispetto della normativa antimonopolistica in tutti i settori economici, tranne qualche eccezione:
per il settore assicurativo, l'Autorità deve sentire l'Isvap;
per il settore dell'editoria e radiotelevisivo vi è l'apposita Autorità.
L'Autorità garante:
ha ampi poteri di indagine ed ispettivi,
adotta i provvedimenti antimonopolistici necessari
irroga le sanzioni amministrative pecuniarie previste dalla legge.
Contro i provvedimenti amministrativi dell'Autorità può essere proposto ricorso giudiziario, per il quale è competente il Tar del Lazio, art. 33.
Le azioni di nullità e di risarcimento dei danni, nonché i ricorsi diretti ad ottenere provvedimenti di urgenza, vanno promossi alla Corte dei appello competente per territorio. Si omette, perciò, il primo grado di giudizio davanti al Tribunale.
Identici sono i fenomeni pericolosi per la struttura concorrenziale del mercato posti sotto controllo sia dalla disciplina comunitaria sia da quella nazionale: le intese; gli abusi di posizione dominante; gli abusi di posizione dominante; le concentrazioni. Da qui l'esigenza di un coordinamento fra le due normative, che il legislatore italiano ha realizzato riconoscendo posizione preminente e sovraordinata alla disciplina comunitaria. E ciò sotto un duplice profilo. La normativa interna è infatti applicazione della normativa comunitaria ( art.1 legge 287/1993). La disciplina italiana ha perciò carattere residuale : è circoscritta alle pratiche anticoncorrenziali che hanno rilievo esclusivamente locale e che non incidono sulla concorrenza nel mercato comunitario. Per queste ultime è invece applicabile solo il diritto comunitario della concorrenza (c.d. principio della barriera unica), anche se l'originaria competenza esclusiva in materia della Commissione Ce sta progressivamente cedendo il passo all'applicazione decentrata della normativa comunitaria da parte delle autorità nazionali (dunque, in Italia l'Autorità garante della concorrenza e del mercato) ad applicare la disciplina comunitaria sulle intese e sugli abusi di posizione dominante, salvo che la Commissione non ritenga opportuno occuparsi personalmente del caso (art. 11, 6° comma, reg. Ce 1/2003). Inoltre, non solo le situazioni vietate dalla legge italiana sono individuate assumendo come modello le corrispondenti disposizioni dell'ordinamento comunitario, ma è espressamente stabilito che esse vanno interpretate (anche) in base ai prinicipi dell'ordinamento comunitario (art. 1 , 4 ° comma, legge 287/1990). E' quindi possibile procedere
3.1 LE SINGOLE FATTISPECIE
I fenomeni rilevanti per la disciplina antimonopolistica italiana e comunitaria sono:
a. le intese restrittive della concorrenza;
b. gli abusi di posizione dominante;
c. le concentrazioni.
3. 2LE INTESE RESTRITTIVE DELLA CONCORRENZA.
Le intese sono comportamenti concordati fra imprese volti a limitare la propria libertà di azione sul mercato, art. 2 legge 287/1990 e art. 81 Trattato Ce.
In particolare, sono considerate intese:
a. gli accordi fra imprese, anche se non vincolanti;
b. le deliberazioni di consorzi, di associazioni di imprese o altri organismi similari;
c. le pratiche concordate fra imprese, che ricomprende i comportamenti concertati che non derivano da accordi espressi.
Non tutte le intese anticoncorrenziali sono però vietate. Sono vietate solo le intese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all'interno del mercato nazionale o comunitario, o in una sua parte rilevante.
Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto. Chiunque può agire in giudizio per farne accertare la nullità, anche prima che gli effetti si realizzino. L'Autorità, dopo aver accertato le infrazioni commesse, con apposita istruttoria, art. 14, adotta i provvedimenti per la rimozione degli effetti anticoncorrenziali ed irroga le sanzioni pecuniarie previste dall'art. 15.
L'Autorità può concedere anche delle esenzioni temporanee, individuali e per categoria di accordi, purché ricorrano le condizioni specificate dalla legge. Cioè, si deve trattare di intese che migliorino le condizioni di offerta sul mercato e producono un sostanziale beneficio per i consumatori in termini di aumento della produzione, di miglioramento qualitativo della stessa o della distribuzione, di progresso tecnico. È comunque necessario che non sia eliminata la concorrenza da una parte sostanziale del mercato, art. 4.
Sono lecite le intese minori, cioè quelle intese che, per la struttura del mercato interessato, le caratteristiche delle imprese operanti e gli effetti sull'andamento dell' offerta, non incidono sull'assetto concorrenziale del mercato.
4. ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE E ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA .
L'art. 3 della legge 287/1990 vieta l'abuso di posizione dominante da parte di una o più imprese, con comportamenti lesivi dei concorrenti e dei consumatori, capaci di pregiudicare la concorrenza effettiva.
Nella valutazione della posizione dominante un ruolo decisivo gioca l'individuazione, merceologica e geografica, del mercato rilevante.
Questo comprende tutti i prodotti e/o servizi che sono considerati intercambiabili o sostituibili dal consumatore, in ragione delle caratteristiche dei prodotti, dei loro prezzi e dell'uso al quale sono destinati e, abbraccia quella zona in cui le imprese fornitrici si pongono fra loro in rapporto di concorrenza. L'individuazione del mercato rilevante non è agevole.
I comportamenti tipici che possono dar luogo ad abuso di posizione dominante sono identificati negli stessi comportamenti che possono formare oggetto di intese vietate. Perciò, ad un'impresa in posizione dominante è vietato di:
fissare i prezzi di acquisto o di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose;
impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico a danno dei consumatori;
ripartire i mercati e le fonti di approvvigionamento;
applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare ingiustificati svantaggi nella concorrenza;
subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che non abbiano alcun rapporto con l'oggetto dei contratti stessi.
Il divieto di abuso di posizione dominante non ammette eccezioni. Accertata l'infrazione l'Autorità competente:
ne ordina la cessazione prendendo le misure necessarie;
infligge sanzione pecuniarie identiche a quelle stabilite per le intese
in caso di reiterata inottemperanza, l'Autorità italiana può disporre la sospensione dell'attività dell'impresa fino a trenta giorni, art. 15.
Nell'ordinamento nazionale è vietato anche l'abuso di dipendenza economica, cioè di quella situazione in cui un'impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un'altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi.
Il patto attraverso cui si realizza l'abuso di dipendenza economica è nullo ed espone al risarcimento dei danni nei confronti dell'impresa che ha subito l'abuso. Inoltre, l'Autorità garante applica le sanzioni previste per l'abuso di posizione dominante qualora ravvisi che l'abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato.
5. LE CONCENTRAZIONI
Gli artt. 5-7 legge 287/1990 e il regolamento Ce n. 139 del 20-01-2004 prevedono le operazioni di concentrazione fra imprese. Si ha concentrazione quando:
due o più imprese si fondano dando così luogo ad un'impresa unica, concentrazione giuridica;
due o più imprese, pur restando giuridicamente distinte, diventano un'unica entità economica, concentrazione economica, cioè sono sottoposte ad un controllo unitario che consente di esercitare un'influenza determinante sull' attività produttiva delle imprese controllate;
due o più imprese indipendenti costituiscono un'impresa societaria comune.
Le imprese comuni sono però sottratte alla disciplina delle concentrazioni quando abbiano come scopo principale il coordinamento dei comportamenti concorrenziali delle imprese partecipanti, art. 5 legge 287/1990.
Quindi, gli strumenti giuridici che possono dar luogo ad un'operazione di concentrazione sono diversi, ma hanno tutti lo scopo di ampliare la quota di mercato detenuta da un'impresa, realizzato attraverso operazioni che comportano la stabile riduzione del numero di imprese indipendenti operanti nel settore. Perciò, la disciplina delle concentrazioni è da escludersi quando le imprese partecipanti fanno parte di uno stesso gruppo.
Le concentrazioni sono un utile strumento di ristrutturazione e rispondono all' esigenza di accrescere la competitività delle imprese. Sono illecite e vietate quando diano luogo a gravi alterazioni del mercato, cioè quando superino determinati dimensioni.
È previsto che le operazioni che superino determinate soglie di fatturato, a livello nazionale o comunitario, devono essere preventivamente comunicate all'Autorità italiana o alla Commissione Ce, al fine di valutare se esse comportano la costruzione o il rafforzamento di una posizione dominante che elimina o riduce in modo sostanziale e durevole la concorrenza sul mercato nazionale o comunitario o in una parte rilevante di essi.
Se l'Autorità ritiene di dover indagare sulla liceità della concentrazione, apre un'apposita istruttoria che deve essere conclusa entro 45 giorni, art. 16.
Nel frattempo può ordinare alle imprese interessate di sospendere la realizzazione della concentrazione, art. 17.
Terminata l'istruttoria, l'autorità può vietare la concentrazione se ritiene che la stessa comporta la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante con effetti distorsivi per la concorrenza stabili e durevoli.
In alternativa, può autorizzarla prescrivendo le misure necessarie per impedire tali conseguenze, art. 6.
Qualora la concentrazione sia già stata realizzata prescrive le misure necessarie a ripristinare condizioni di concorrenza effettiva e ad eliminare gli effetti distorsivi, art. 18.
In presenza di rilevanti interessi generali dell'economia nazionale, l'Autorità può tuttavia eccezionalmente autorizzare anche concentrazioni altrimenti vietate, in conformità dei criteri generali preventivamente fissati dal Governo, art. 25.
Se la concentrazione vietata viene ugualmente esercitata o se le imprese non si adeguano a quanto prescritto, l'Autorità può infliggere pesanti sanzioni pecuniarie.
Diversamente dalle intese però, non è sancita la nullità delle operazioni che hanno dato luogo ad una concentrazione vietata.
Perciò, ai terzi resta solo la possibilità di richiedere il risarcimento dei danni in via giudiziaria, art. 33.
b) LE LIMITAZIONI DELLA CONCORRENZA
6. LIMITAZIONI PUBBLICISTICHE E MONOPOLI LEGALI
La Costituzione e il codice civile prevedono che la libertà di iniziativa economica e la libertà di concorrenza, possono essere limitate dal legislatore ordinario per fini di utilità sociale.
Molte sono le forme di regolamentazione pubblicistica dell'iniziativa economica privata che si risolvono in limitazioni della libertà di concorrenza. Alcune sono:
a. i controlli sull'accesso al mercato di nuovi imprenditori, con concessioni o autorizzazioni amministrative;
b. gli ampi poteri di indirizzo e di controllo dell'attività riconosciuti alla pubblica amministrazione nei confronti delle imprese che operano in alcuni settori;
c. l'articolato sistema di controllo pubblico dei prezzi di vendita, che per alcuni beni può giungere fino alla fissazione del prezzo di imperio da parte del CIP, comitato interministeriale prezzi, es. farmaci, giornali.
L'interesse generale può legittimare anche la radicale soppressione della libertà di iniziativa economica privata e di concorrenza. L'art. 43 della Costituzione pone dei limiti al potere statale di creare monopoli pubblici.
È necessario che la riserva di attività sia disposta con legge ordinaria e che abbia un fine di utilità generale. Inoltre, sono prefissati i settori in cui può essere legittimato un monopolio pubblico.
7. OBBLIGO DI CONTRARRE DEL MONOPOLISTA
Quando la produzione di determinati beni o servizi è attuata in regime di monopolio legale non trova applicazione nei confronti dell'impresa monopolistica la normativa antitrust, art. 2 legge 287/1990, ma il legislatore tutela gli utenti contro possibili comportamenti arbitrari del monopolista.
L'art. 2597 pone un duplice obbligo a carico di chi opera in regime di monopolio:
a. l'obbligo di contrattare con chiunque richiede le prestazioni che formano oggetto dell'impresa;
b. l'obbligo di rispettare la parità di trattamento fra i diversi richiedenti; quindi, il monopolista dovrà rendere note le proprie condizioni contrattuali, che saranno poi applicate a tutti coloro che faranno richiesta della prestazione. Potranno essere previste varie tariffe differenziate, purché siano predeterminati i relativi presupposti di applicazione e ne faccia godere chiunque si trovi nelle condizioni richieste. Ogni altra deroga è nulla.
Gli stessi obblighi sono previsti dall'art. 1679 a carico di chi eserciti in regime di concessione amministrativa pubblici servizi di linea per il trasporto di cose o persone.
La disciplina del monopolista legale non si applica al monopolista di fatto, cioè all' imprenditore che, pur non godendo di un regime di esclusiva, abbia una posizione dominante sul mercato ed in fatto controlli la produzione ed il commercio di un bene o di un servizio non facilmente sostituibili dai consumatori.
Al monopolista di fatto è applicabile la normativa a tutela della concorrenza introdotta dalla legge 287/1990, e ciò consente di reprimere per altra via le pratiche discriminatorie e vessatorie poste in essere dallo stesso nei confronti di altri imprenditori, ma non dei consumatori.
8. I DIVIETI LEGALI DI CONCORRENZA
Oltre le limitazioni di natura pubblicistica, la libertà di concorrenza subisce un ulteriore limitazione, disposta dal legislatore, a tutela di interessi patrimoniali e privati.
Nel codice civile ci sono delle norme che pongono a carico di soggetti legati da particolari rapporti contrattuali l'obbligo di astenersi dal far concorrenza alla controparte, al fine di assicurare il corretto svolgimento o la corretta esecuzione di un contratto. Tali divieti sono detti divieti legali di concorrenza.
Questi sono divieti che durano per tutto il tempo della collaborazione economica e la portata del divieto si modella in funzione dell'attività imprenditoriale effettivamente esercitata dall'avente diritto.
Essendo previsti nell'interesse della controparte, tali divieti hanno carattere dispositivo, cioè operano senza una necessaria pattuizione, ma sono convenzionalmente derogabili.
Sono divieti legali di concorrenza:
a. l'obbligo di fedeltà a carico dei prestatori di lavoro previsto dall'art. 2105, che gli vieta di trattare affari in concorrenza con l'imprenditore fin quando dura il rapporto di lavoro;
b. il divieto di esercitare attività concorrente con quello della società, posto a carico degli amministratori di società di capitali e dei soci illimitatamente responsabili di società di persone;
c. il diritto di esclusiva reciproca nel contratto di agenzia, art. 1743, in base al quale né il preponente non può valersi contemporaneamente di più agenti nella stessa zona e per lo stesso ramo di attività, né l'agente può assumere l'incarico di trattare nella stessa zona e per lo stesso ramo gli affari di più imprese in concorrenza tra loro.
9. LIMITAZIONI CONVENZIONALI DELLA CONCORRENZA
Dall'art. 2596 desumiamo che la libertà individuale di iniziativa economica di concorrenza è libertà parzialmente disponibile. Infatti, questo articolo permette la stipulazione di accordi restrittivi della concorrenza e detta una disciplina di carattere generale degli stessi fondata su tre regole:
il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto;
il patto non può precludere al soggetto che si vincola lo svolgimento di ogni attività professionale in quanto è previsto che il patto stesso è valido solo se circoscritto ad un determinato ambito territoriale o ad un determinato tipo di attività;
il patto può durare massimo 5 anni.
Rispettate le condizioni fissate dall'art. 2596, ogni accordo limitativo della concorrenza fra imprese italiane deve ritenersi valido quando non ricorrono i presupposti per l'applicazione delle norme antimonopolistiche comunitarie e purché non ricadono nel divieto di intese anticoncorrenziali o di abuso di posizione dominante introdotto dalla legge 287/1990.
Oltre alla disciplina generale fissata dall'art. 2596 vi sono anche altre disposizioni che dettano una regolamentazione specifica per alcuni patti anticoncorrenziali innominati: i patti autonomi e i patti accessori.
I patti autonomi sono gli accordi limitativi della concorrenza che si presentano sotto forma di autonomo contratto che ha come oggetto e funzione esclusivi la restrizione della libertà di concorrenza.
Un tale contratto può prevedere obblighi nei confronti di una sola delle parti, restrizioni unilaterali, o nei confronti di entrambe le parti, restrizioni reciproche. Quest'ultime si chiamano cartelli o intese e possono prevedere impegni reciproci di vario tipo:
la quantità totale di produzione e la quota spettante ad ogni impresa, cartelli di contingentamento;
si ripartiscono le zone di distribuzione, cartelli di zona;
predeterminare i prezzi di vendita da praticare, cartelli di prezzo.
Il limite dei 5 anni è applicabile solo alle restrizioni reciproche della concorrenza che non prevedono la costituzione di una organizzazione comune per la realizzazione del loro oggetto, consorzi.
I patti accessori sono gli accordi restrittivi della concorrenza che si presentano come clausola accessoria di un altro contratto con diverso oggetto. Anch'essi possono essere a carico di una sola delle parti o di entrambe. Inoltre, essi possono intercorrere sia fra imprenditori in diretta concorrenza, in quanto operano nello stesso livello del processo produttivo o commerciale, restrizioni orizzontali, oppure tra imprenditori che operano a livelli diversi fra i quali manca una concorrenza diretta, restrizioni verticali. (es. concessione di vendita in esclusiva, somministrazione di merci con prezzo imposto).
Il codice disciplina esplicitamente:
la clausola di esclusiva, che può essere inserita in un contratto di somministrazione;
il patto di preferenza a favore del somministrante inserito nel contratto di somministrazione; non può superare i 5 anni;
il patto di non concorrenza con il quale si limita l'attività del prestatore di lavoro per il tempo successivo alla cessazione del contratto. Tale patto è nullo se non risulta da atto scritto o se non è previsto un compenso per il lavoratore;
il patto di concorrenza dell'agente dopo lo scioglimento del contratto di agenzia; tale patto deve farsi per iscritto, non può durare più di 2 anni e deve riguardare la stessa zona, clientela e genere di servizi o beni oggetto del contratto di agenzia.
Quindi, l'art. 2596 si applica solo ai patti accessori innominati.
Il limite dei 5 anni si applica ai patti innominati solo se comportano limitazioni della concorrenza non funzionali al tipo di contratto cui accedono, e non quando il patto e il contratto abbiano la stessa funzione economica.
Secondo l'opinione più diffusa, le limitazioni dell'art. 2596 si applicherebbero solo alle restrizioni orizzontali della concorrenza. Mentre le restrizioni verticali sarebbero regolati dall'art. 1379 che prevede che il divieto di alienare stabilito per contratto ha effetto solo tra le parti, e non è valido se non è contenuto entro convenienti limiti di tempo e se non risponde a un apprezzabile interesse di una delle parti. Ma tale tesi non è condivisibile.
c) LA CONCORRENZA SLEALE
10. LIBERTA' DI CONCORRENZA E DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA SLEALE
La libertà di iniziativa economica implica la normale presenza sul mercato di più imprenditori che offrono beni o servizi identici o similari e, che sono in concorrenza fra loro per conquistare i consumatori e il successo economico.
Il danno che un imprenditore subisce a causa della sottrazione della clientela da parte dei concorrenti non è danno ingiusto e risarcibile.
Tuttavia, è interesse generale che la competizione fra imprenditori si svolga in modo corretto e leale.
Nell'ordinamento vigente questa esigenza è soddisfatta dalla disciplina della concorrenza sleale, che recepisce la normativa della Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale del 1883.
Nello svolgimento della competizione fra imprenditori concorrenti è vietato servirsi di mezzi e tecniche non conformi ai principi della correttezza professionale, art. 2598. I fatti, gli atti e i comportamenti che violino tale regola sono atti di concorrenza sleale, cd illecito concorrenziale ( atti di confusione, atti di denigrazione, atti di vanteria).
Tali atti sono sanzionati anche se compiuti senza dolo o colpa, art. 2600 e, anche se non hanno arrecato danno ai concorrenti. Infatti, basta il cd danno potenziale, cioè basta che l'atto sia idoneo a danneggiare l'altrui azienda.
Le sanzioni tipiche di questi atti sono l'inibitoria alla continuazione degli atti di concorrenza sleale e la rimozione degli effetti prodotti, art. 2599, salvo il diritto al risarcimento dei danni in presenza di dolo o colpa e di un danno patrimoniale attuale.
La disciplina della concorrenza sleale deriva dalla disciplina generale dell'illecito civile, art. 2043, ma è una disciplina speciale che offre agli imprenditori una tutela più energica e privilegiata, al fine di evitare che pratiche scorrette alterino il corretto funzionamento del mercato.
Quindi, la disciplina della concorrenza sleale non tutela solo l'interesse dell'imprenditore a non veder alterato il proprio guadagno, ma ad essere tutelato è il più generale interesse a che non vengano falsati gli elementi di valutazione e di giudizio del pubblico e non siano tratti in inganno i consumatori. Ma, il consumatore è tutelato in maniera mediata e riflessa, in quanto l'atto di concorrenza sleale deve essere idoneo a danneggiare gli imprenditori concorrenti.
Infatti, contro gli atti di concorrenza sleale sono legittimati a reagire solo gli imprenditori concorrenti o loro associazioni di categoria, art. 2601, e non i consumatori.
11. AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA SLEALE
L'applicazione della disciplina della concorrenza sleale postula due presupposti:
la qualità di imprenditore sia del soggetto che pone in essere l'atto di concorrenza vietato, sia del soggetto che ne subisce le conseguenze;
l'esigenza di un rapporto di concorrenza economica fra i due.
Chi è leso nella propria attività di impresa da un soggetto che non è imprenditore o non è suo concorrente potrà reagire avvalendosi della disciplina dell'illecito civile, art. 2043, se vi sono i presupposti.
i soggetti
Soggetto passivo dell'atto di concorrenza sleale può essere solo un imprenditore, in quanto solo nei confronti di un imprenditore si verifica la condizione dell'idoneità dell'atto a danneggiare l'altrui azienda.
L'imprenditore risponde a titolo di concorrenza sleale non solo per gli atti da lui direttamente compiuti, ma anche per quelli posti in essere da altri, nel suo interesse e su sua istigazione o incarico. Infatti, l'art. 2598, 3° comma, prevede espressamente che l'atto di concorrenza sleale può essere compiuto anche indirettamente.
Rapporto concorrenziale
Fra soggetto passivo e soggetto attivo deve esistere un rapporto di concorrenza prossima o effettiva, cioè entrambi devono offrire nello stesso ambito di mercato beni o servizi che siano destinati a soddisfare lo stesso bisogno dei consumatori.
Nel valutare l'esistenza del rapporto di concorrenza bisogna tener conto della prevedibile espansione territoriale e merceologica dell'attività dell'imprenditore che subisce l'atto di concorrenza sleale, detta concorrenza potenziale.
La disciplina della concorrenza sleale è stata estesa, dalla giurisprudenza, anche a imprenditori che agiscono a livelli economici diversi, purché il risultato ultimo di entrambe le attività incida sulla stessa categoria di consumatori, detta concorrenza verticale.
12. GLI ATTI DI CONCORRENZA SLEALE. LE FATTISPECIE TIPICHE
I comportamenti che costituiscono atti di concorrenza sleale sono definiti dall'art. 2598 :
gli atti di confusione, cioè ogni atto idoneo a creare confusione con i prodotti o con l'attività di un concorrente; è lecito attirare a sé l'altrui clientela, ma non è lecito farlo avvalendosi di mezzi che traggono in inganno i consumatori sulla provenienza dei prodotti o sull'identità dell'imprenditore.
Questi mezzi sfruttano il successo sul mercato dei concorrenti, generando equivoci e possibile sviamento della clientela. I mezzi per far ciò possono essere tanti, ma il legislatore ne individua due:
l'uso di nomi o di segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o segni distintivi legittimamente usati da altri, cioè che si tratti di segni distintivi che abbiano capacità distintiva;
l'imitazione servile dei prodotti di un concorrente, cioè l'imitazione della forma esteriore dei prodotti altrui, attuata in modo da indurre il pubblico a supporre che i due prodotti provengano dalla stessa impresa. L'imitazione deve riguardare elementi formali non necessari ma al tempo stesso caratterizzanti, cioè idonei a differenziare esteriormente quel dato prodotto dagli altri dello stesso genere.
ogni altro mezzo idoneo a creare confusione con i prodotti o con l'attività di un concorrente.
gli atti di denigrazione, che consistono del diffondere notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinare il discredito; oppure l'appropriazione di pregi di prodotti del concorrente.
I mezzi denigratori sono diversi, come:
le denunzie al pubblico di pratiche concorrenziali illecite da parte di concorrenti specifici, quando la diffida sia priva di fondamento o il suo contenuto oltrepassi i limiti della necessaria tutela del proprio diritto; più in generale la divulgazione di notizie che possono screditare la reputazione commerciale del concorrente;
la pubblicità iperbolica, cioè la pubblicità con cui si tende ad accreditare l'idea che il proprio prodotto sia il solo a possedere specifiche qualità o determinati pregi, che invece vengono implicitamente negati ai prodotti dei concorrenti. Lecito è invece il cd puffing, consistente nella generica ed innocua affermazione di superiorità dei propri prodotti;
la pubblicità parassitaria, consistente nella mendace attribuzione a se stessi di qualità, pregi, riconoscimenti che in realtà appartengono al concorrente;
la pubblicità per riferimento, che consiste nel far credere che i propri prodotti siano simili a quelli del concorrente, attraverso l'uso di espressioni come tipo, modello, sistema (es. pezzo di ricambio tipo Fiat), al fine di avvantaggiarsi indebitamente dell'altrui rinomanza commerciale;
la pubblicità comparativa, che la pubblicità che confronta la propria attività e i propri prodotti con quelli di uno o più concorrenti, in modo da esprimere un giudizio negativo sui concorrenti. Oggi è consentita a determinate condizioni, ossia quando non sia ingannevole e non ingenera confusione sul mercato e non causa discredito o denigrazione del concorrente.
ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda.
13. GLI ALTRI MEZZI DI CONCORRENZA SLEALE
L'art. 2598 chiude l'elenco degli atti di concorrenza sleale con " ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda".
Con ciò il legislatore affida al giudice il compito di valutare se un comportamento concorrenziale, diverso da quelli elencati, sia o meno eticamente professionale.
Fra gli atti contrari alla correttezza professionale vi è la pubblicità menzognera, cioè la falsa attribuzione ai propri prodotti di qualità o pregi non appartenenti ad alcun concorrente, quando il messaggio pubblicitario sia tale da trarre in inganno il pubblico con danno potenziale a tutti i concorrenti.
Poi la giurisprudenza ha individuato altre forme di concorrenza sleale:
la concorrenza parassitaria, che consiste nella sistematica imitazione delle altrui iniziative imprenditoriali ;
il boicottaggio economico, cioè il rifiuto ingiustificato ed arbitrario di un'impresa in posizione dominante sul mercato (boicottaggio individuale) o di un gruppo di imprese associate (boicottaggio collettivo) di fornire prodotti a determinati rivenditori, in modo da escluderli dal mercato;
il dumping, cioè la sistematica vendita sotto costo dei propri prodotti;
la sottrazione ad un concorrente di dipendenti o collaboratori particolarmente qualificati, quando venga attuata con mezzi scorretti e col deliberato proposito di trarne vantaggio con danno all'altrui azienda;
la violazione di segreti aziendali, cioè la rilevazione a terzi e l'acquisizione o l'utilizzazione da parte di terzi, in modo contrario alla correttezza professionale, delle informazioni aziendali segrete.
14. LE SANZIONI
La repressione degli atti di concorrenza sleale si fonda su due distinte sanzioni:
l'inibitoria, cioè la cessazione delle turbative alla propria attività e di ottenerla, se possibile, prima che l'atto gli abbia causato un danno patrimoniale. L'azione inibitoria e le relative sanzioni prescindono dal dolo o dalla colpa del soggetto attivo dell'atto di concorrenza sleale e dall'esistenza di un danno patrimoniale attuale del soggetto passivo; art. 2599;
il risarcimento dei danni, art. 2600.
Fra le misure risarcitorie il giudice può disporre anche la pubblicazione della sentenza in uno o più giornali a spese del soccombente.
L'azione per la repressione della concorrenza sleale può essere promossa dall'imprenditore o dagli imprenditori lesi, e dalle associazioni professionali degli imprenditori quando gli atti pregiudichino gli interessi di una categoria professionale, art. 2600.
Non sono legittimati invece i consumatori o loro associazioni.
15.LE PRATICCHE COMMERCIALI SCORRETTE FRA IMPRESE E CONSUMATORI .
La disciplina della concorrenza sleale, di per sé inidonea a tutelare adeguatamente i consumatori, è stata dapprima affiancata da una specifica disciplina contro la pubblicità ingannevole e la pubblicità comparativa illecita (attualmente dettata dal d.lgs. 2-8-2007, n.145, ed in origine dal D.lgs.25-1-1992, n. 74 emanato in attuazione della Direttiva Cee 84/450) ed ora da una più generale normativa per la repressione di tutte le pratiche commerciali scorrette fra imprese e consumatori. Con tali interventi normativi l'interesse dei consumatori ad essere tutelato contro gli effetti distorsivi di pratiche commerciali illecite assurge ad interesse ad interesse direttamente e specificamente tutelato dall'ordinamento statale. A tal fine è stato introdotto un controllo amministrativo affidato all'Autorità garante della concorrenza e del mercato istituita dalla legge antitrust.
"Pratica commerciale" è in senso alto qualsiasi condotta posta in essere da un professionista (o per suo conto) in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori. Rientrano perciò in questa tutte le attività realizzate dall'imprenditore dell'operazione commerciale, come la promozione del prodotto, ma anche durante o dopo, come le modalità di informazione del consumatore o la fornitura di assistenza post-vendita. Ed anche le omissioni, quando sono idonee a trarre in inganno il consumatore o possono essere considerate altrimenti scorrette. Ne sono invece escluse le pratiche commerciali realizzate nei confronti di altri professionisti. Una pratica commerciale è scorretta quando, cumulativamente:
a) non è conforme al gradi di diligenza che il consumatore può ragionevolmente attendersi dal professionista in base ai principi generali di correttezza e buona fede nel settore di attività del professionista stesso;
b) ed è idonea a falsare il comportamento medio, inducendolo ad assumere una decisione commerciale che non avrebbe altrimenti preso.
Sono valutate con maggior rigore le pratiche commerciali che, per le loro caratteristiche o per il prodotto, possono prevedibilmente influenzare uno specifico gruppo di consumatori particolarmente vulnerabile (minori, anziani , infermi di mente) : ad esempio, una pubblicità trasmessa durante un programma per bambini. La correttezza della condotta del professionista dovrà in tal caso essere accertata in relazione alla normale capacità di discernimento di un individuo appartenente a quella categoria debole, anche se la pratica raggiunge un gruppo più ampio di consumatori. La legge delinea inoltre due categorie di pratiche commerciali scorrette: le pratiche ingannevoli e quelle aggressive.
Sono ingannevoli le pratiche che, in quanto contengono informazioni false oppure per la presentazione o in qualsiasi altro modo, sono idonee a trarre in errore il consumatore medio su elementi essenziali dell'operazione commerciale e possono indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso. La legge specifica dettagliatamente su quali elementi l'errore è essenziale: caratteri del prodotto, prezzo, qualifiche del professionista, diritti del consumatore.
Sono ingannevoli le pratiche commerciali che in concreto comportano confusione con i prodotti o i segni distintivi di un concorrente, ovvero siano realizzate in violazione dei codici di comportamento che il professionista ha dichiarato di rispettare; così pure le pratiche che possono minacciare la sicurezza dei minori o inducono i consumatori a condotte imprudenti. Lo stesso vale inoltre quando il professionista tace o presenta in modo oscuro informazioni determinanti affinché il consumatore medio possa assumere consapevolmente le proprie scelte d'acquisto. Sono aggressive le pratiche che mediante molestie oppure coercizione fisica o morale siano idonee a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio e possono indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso. La legge indica alcuni elementi da prendere in considerazione nel determinare l'esistenza si una molestia o di una coercizione (tempi, luogo, persistenza, minacce, ecc.), fermo restando che l'aggressività della pratica va stabilita tenuto conto di tutte le caratteristiche del caso concreto. Per semplificare l'accertamento degli illeciti, sono inoltre elencate una serie di pratiche che devono in ogni caso essere considerate ingannevoli o aggressive: veri e propri "cataloghi degli orrori" delle pratiche commerciali scorrette, che non hanno tuttavia carattere tassativo e non impediscono dunque la repressione di condotte non contemplate. L'Autorità garante, d'ufficio o su istanza di qualsiasi interessato, inibisce le pratiche commerciali illecite, ne elimina gli effetti e commina sanzioni pecuniarie a carico del professionista. Se giudica la pratica commerciale scorretta, l'Autorità può anche disporre la pubblicazione della pronuncia, nonché di un'apposita dichiarazione rettificativa in modo da impedire che la condotta illecita continui a produrre effetti. Nei casi meno gravi, tuttavia, può chiudere il procedimento mediante un accordo con cui il professionista si impegna a porre fine all'infrazione, senza ulteriori sanzioni. In caso di urgenza l'Autorità può disporre anche la sospensione provvisoria della pratica commerciale. L'intervenuta regolamentazione pubblicistica non preclude la possibilità di azionare preventivamente eventuali sistemi di autodisciplina, eventualmente organizzati da associazioni imprenditoriali e professionali, come il Giurì di autodisciplina pubblicitaria esaminato nel prossimo paragrafo. E' infatti previsto che le parti interessate possono rivolgersi ad organismi volontari ed autonomi di autodisciplina per ottenere l'inibitoria degli atti di pubblicità ingannevole o comparativa, convenendo, nel contempo, di astenersi dall'adire l'Autorità garante fino alla pronuncia definitiva del Giurì. Inoltre, ogni interessato può richiedere all'Autorità la sospensione del procedimento iniziato dinanzi alla stessa da altri soggetti legittimati, in attesa della pronuncia dell'organo di autodisciplina. La sospensione può essere disposta per un periodo non superiore a trenta giorni. In ogni caso la decisione dell'organo di autodisciplina non pregiudica il diritto del consumatore di adire l'Autorità garante o di promuovere un'azione giudiziaria.
16. LA PUBBLICITA' INGANNEVOLE E COMPARATIVA
La disciplina della concorrenza sleale è oggi affiancata, al fine di tutelare anche i consumatori, da una specifica disciplina contro la pubblicità ingannevole e la pubblicità comparativa illecita, prevista dal codice del consumo.
A partire dagli anni sessanta i più importanti mezzi di pubblicità hanno dato vita ad un sistema di autodisciplina pubblicitaria, che li impegna a non diffondere messaggi pubblicitari che contrastino con le regole di comportamento fissate in un apposito codice privato, il codice di autodisciplina pubblicitaria.
Sul rispetto di tale codice vigila un organismo di giustizia privato, il Giurì di autodisciplina, al quale può rivolgersi chiunque si ritenga pregiudicato da attività pubblicitarie contrarie al codice. Le decisioni del Giurì sono insindacabili, ma sono vincolanti solo per coloro che aderiscono all'autodisciplina.
Con il d.lgs. 74/1992, all'autodisciplina si affianca la disciplina legislativa; al controllo privato del Giurì il controllo pubblico dell'Autorità garante.Ed identici principi operano per la pubblicità comparativa illecita in seguito alla disciplina della stessa introdotta dal d.lgs. 67/2000 (8.12). La normativa della materia è dettata attualmente dal d.lgs. 2/8/2007, n.145.
Ciò fissato, vediamo in sintesi i punti salienti della disciplina legislativa in tema di pubblicità ingannevole. Enunciato il principio che la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta (art. 1,2° comma, d.lgs. 145/2007), nonché chiaramente riconoscibile come tale (art.5), la legge vieta qualsiasi forma di pubblicità ingannevole dandone una nozione particolarmente ampia. E' infatti ingannevole "qualsiasi pubblicità che in qualunque modo,compresa la sua presentazione, induce in errore o può indurre in errore" le persone alle quali è rivolta e che "possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero. ledere un concorrente" (art.2 lett. b). Sono inoltre dettagliatamente specificati i criteri in base ai quali deve essere valutato se una determinata forma di pubblicità è ingannevole dandone una nozione particolarmente ampia. E' infatti ingannevole "qualsiasi pubblicità che in qualunque modo ,compresa la sua presentazione, induce in errore o può indurre in errore" le persone alle quali è rivolta e che " possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero. ledere un concorrente" (art. 2, lett. b ). Sono inoltre dettagliatamente specificati i criteri in base ai quali deve essere valutato se una determinata forma di pubblicità è ingannevole: caratteri dei beni, prezzo, ecc (art. 3). Norme specifiche sono poi dettate per la pubblicità dei prodotti pericolosi (art.6) e per quella suscettibile di raggiungere bambini ed adolescenti (art.7). E' infine vietata ogni forma di pubblicità subliminale (art.5 . 3° comma) , di pubblicità cioè che stimoli l'inconscio. Ogni interessato (concorrenti, consumatori, loro associazioni ed organizzazioni ) può denunciare l'uso di pubblicità ingannevole o comparativa illecita all'Autorità garante ; quest'ultima può procedere anche d'ufficio, esercitando i poteri repressivi e sanzionatori già esaminati per le pratiche commerciali scorrette (art.8) . Come visto, resta ferma inoltre la possibilità di ricorrere preventivamente al Giurì di autodisciplina (art.9 , d.lgs. 145/2007 e 27 -ter cod. cons.).
CAP. IX I CONSORZI FRA IMPRENDITORI
1. NOZIONE E TIPOLOGIA
Secondo l'art. 2602 con il contratto di consorzio più imprenditori istituiscono un'organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese.
Questa definizione è stata introdotta dalla legge n. 377 del 10/05/1976, che ha modificato l'originaria disciplina sui consorzi.
Questa nuova definizione legislativa comporta che il consorzio è oggi uno schema associativo tra imprenditori idoneo a ricomprendere due diversi fenomeni:
un consorzio può essere costituito al fine prevalente o esclusivo di disciplinare, limitandola, la reciproca concorrenza sul mercato fra imprenditori che svolgono la stessa attività o attività similari; questo tipo di consorzio è detto consorzio con funzione anticoncorrenziale.
In questo caso il contratto di consorzio si presenta come un patto limitativo della concorrenza previsto e regolato dall'art. 2596.
un consorzio può essere costituito anche per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese, cioè al fine di ridurre i costi di gestione delle singole imprese consorziate; questo tipo di consorzio è detto consorzio con funzione di coordinamento.
Entrambi questi tipi di consorzi sollecitano vari problemi legislativi quando si considera il profilo pubblicistico della loro incidenza sulla struttura concorrenziale del mercato:
i consorzi anticoncorrenziali sollecitano controlli volti ad impedire che per loro tramite si instaurino situazioni di monopolio di fatto contrastanti con l'interesse generale. Esigenza soddisfatta dalla disciplina antimonopolistica nazionale e comunitaria.
i consorzi interaziendali, invece, favorendo le piccole e medie imprese sono viste con favore dal legislatore, che ne agevola la costituzione e il funzionamento con una serie di favori redditizie e tributarie.
Sul piano della disciplina di diritto privato i consorzi anticoncorrenziali e i consorzi interaziendali sono regolati in modo uniforme.
Sul piano civilistico, invece, bisogna distinguere fra:
consorzi con sola attività interna; in questo caso, il consorzio non entra in contatto e non opera con i terzi e quindi il suo compito si esaurisce nel regolare i rapporti reciproci fra i consorziati e nel controllare il rispetto di quanto convenuto;
consorzi destinati a svolgere anche attività esterna; in questo caso le parti prevedono l'istituzione di un ufficio comune, art. 2612, destinato a svolgere attività con i terzi nell'interesse delle imprese consorziate.
Tenendo presente questa differenza, il codice prevede innanzitutto una disciplina comune, volta a regolare la costituzione del consorzio ed i rapporti fra i consorziati.
Poi, detta disposizioni relative ai soli consorzi con attività esterna, che regolano i rapporti fra i consorzi e i terzi.
2. IL CONTRATTO DI CONSORZIO
Il contratto di consorzio può essere stipulato solo fra imprenditori. Non sono richiesti ulteriori requisiti soggettivi e perciò al consorzio potrà partecipare qualsiasi imprenditore, anche se svolgono attività differenti fra loro.
L'art. 2603 stabilisce la forma e il contenuto del contratto:
forma : il contratto deve essere fatto per iscritto sotto pena di nullità
contenuto : esso deve indicare:
l'oggetto e la durata del consorzio (può essere fissata dalle parti, in caso di silenzio il contratto dura 10 anni);
la sede dell'ufficio eventualmente costituito;
gli obblighi assunti e i contributi dovuti dai consorziati;
le attribuzioni e i poteri degli organi consortili anche in ordine alla rappresentanza in giudizio;
le condizioni di ammissione di nuovi consorziati (se il contratto nulla prevede è da ritenersi che il consorzio sia a struttura chiusa);
i casi di recesso (per volontà del consorziato uscente) e di esclusione (per volontà degli altri consorziati); al consorziato uscente competerà la liquidazione della sua quota di partecipazione al fondo patrimoniale del consorzio;
le sanzioni per l'inadempimento degli obblighi dei consorziati.
Se il consorzio ha per oggetto il contingentamento della produzione o degli scambi, il contratto deve inoltre stabilire le quote dei singoli consorziati o i criteri per la determinazione di esse.
L'art. 2611 elenca i casi in cui è previsto lo scioglimento dell'intero contratto di consorzio:
1) per il decorso del tempo stabilito per la sua durata;
2) per il conseguimento dell'oggetto o per l'impossibilità di conseguirlo;
3) per volontà unanime dei consorziati;
4) per deliberazione dei consorziati, presa a norma dell'art. 2606, se sussiste una giusta causa;
5) per provvedimento dell'autorità governativa, nei casi ammessi dalla legge;
6) per le altre cause previste nel contratto.
3. I CONSORZI CON ATTIVITA' INTERNA. L'ORGANIZZAZIONE CONSORTILE
Carattere strutturale essenziale dei consorzi è la creazione di un'organizzazione comune, cui è demandato il compito di attuare il contratto assumendo e portando in esecuzione le decisioni a tal fine necessarie.
Questa organizzazione può avere rilievo solo interno o anche nei confronti dei terzi, ma in ogni caso non può mancare.
Nei consorzi, quindi, è necessario determinare quali siano gli organi preposti all' attuazione del contratto, nonché le rispettive funzioni e le modalità di funzionamento.
La disciplina legislativa è molto lacunosa avendo lasciato ampia libertà all' autonomia contrattuale dei consorziati, tuttavia la struttura organizzativa di ogni consorzio si fonda, di regola, sulla presenza:
di un'assemblea, quale organo con funzioni deliberative composto da tutti i consorziati,
di un organo direttivo, con funzioni gestorie ed esecutive.
Riguardo all'assemblea, l'art. 2606 prevede che le delibere relative all'attuazione dell'oggetto del consorzio sono prese col voto favorevole della maggioranza dei consorziati. Le delibere prese a maggioranza possono essere impugnate, dai consorziati, entro 30 giorni davanti all'autorità giudiziaria, se non prese in conformità della legge o del contratto.
Mentre, l'art. 2607 richiede il consenso di tutti i consorziati per la modificazione del contratto.
Entrambe le regole hanno carattere dispositivo, in quanto le parti possono disporre diversamente nel contratto.
In base all'art. 2605, i consorziati devono consentire i controlli e le ispezioni da parte degli organi previsti dal contratto, al fine di accertare l'esatto adempimento delle obbligazioni assunte.
L'articolazione dell'organo direttivo, attribuzioni ulteriori a quella di controllo, modalità di nomina, di revoca e di esercizio delle funzioni sono rimesse all'autonomia contrattuale.
L'art. 2608 dispone che la responsabilità verso i consorziati di coloro che sono preposti al consorzio è regolata dalle norme sul mandato (1710 e seguente).
4. I CONSORZI CON ATTIVITA' ESTERNA
Una disciplina specifica è invece prevista per i consorzi destinati a svolgere attività con i terzi, attraverso un ufficio a tal fine istituito. Questo al fine di regolare i rapporti patrimoniali fra il consorzio e i terzi, visto anche che i consorzi costituiscono una delle possibili forme di attività imprenditoriale.
Innanzitutto per i consorzi con attività esterna è previsto un regime di pubblicità legale, destinato a portare a conoscenza dei terzi i dati essenziali del consorzio.
Infatti, l'art. 2612, 1° comma, prevede che un estratto del contratto di consorzio deve essere depositato per l'iscrizione presso l'ufficio del registro delle imprese, entro 30 giorni dalla stipulazione a cura degli amministratori. A tale forma di pubblicità sono soggette tutte le modificazioni del contratto.
Altresì, l'art. 2615-bis, prevede che le persone che hanno la direzione del consorzio sono tenute a redigere annualmente la situazione patrimoniale del consorzio, seguendo le regole per la redazione del bilancio delle spa, e a depositarla presso l'ufficio del registro delle imprese.
L'art. 2612, n. 4, stabilisce che il contratto di consorzio debba indicare le persone a cui vengono attribuite la presidenza, la direzione e la rappresentanza del consorzio ed i rispettivi poteri; dati che poi devono essere iscritti presso l'ufficio del registro delle imprese.
L'art. 2613 prevede che i consorzi possono essere convenuti in giudizio in persona di coloro ai quali il contratto attribuisce la presidenza o la direzione, anche se la rappresentanza è attribuita ad altre persone. Ciò significa che, in deroga agli effetti propri della pubblicità legale, la mancanza di rappresentanza processuale passiva del presidente o del direttore è inopponibile ai terzi, anche se iscritta nel registro delle imprese.
Nei consorzi con attività esterna è espressamente prevista la formazione di un fondo patrimoniale, detto fondo consortile, costituito dai contributi iniziali e successivi dei consorziati e dai beni acquistati con tali contributi, art. 2614.
Tale fondo consortile è un patrimonio autonomo rispetto al patrimonio dei singoli consorziati. Esso è destinato solo a garantire il soddisfacimento dei creditori del consorzio. Infatti, fin quando il consorzio dura, i consorziati non possono chiedere la divisione del fondo e i creditori particolari dei consorziati non possono far valere i loro diritti sul fondo medesimo, art. 2614.
L'art. 2615 stabilisce quali siano le obbligazioni gravanti sul fondo consortile, distinguendoli fra:
obbligazioni assunte in nome del consorzio dai suoi rappresentanti, per queste i terzi posso far valere i loro diritti solo sul fondo consortile;
obbligazioni assunte dagli organi del consorzio per conto dei singoli consorziati, per tali obbligazioni rispondono solidalmente sia il consorziato o i consorziati interessati, sia il fondo consortile. In caso di insolvenza del consorziato interessato, il debito dell'insolvente si ripartisce fra tutti gli altri consorziati in proporzione delle loro quote.
Cioè, per tali obbligazioni, la responsabilità del fondo consortile ha funzione di garanzia. Se il consorzio è costretto a pagare, avrà azione di rivalsa per l'intero nei confronti del consorziato interessato e, qualora sia insolvente avrà azione di rivalsa pro quota nei confronti degli altri consorziati.
5. LE SOCIETA' CONSORTILI
I consorzi si differenziano dalle società. Tale differenza è più tangibile nel caso di consorzi con solo attività interna. Mentre, nel caso di consorzi con attività esterna, la differenza fra consorzi e società può notarsi maggiormente nello scopo perseguito.
Lo scopo consortile, che si ricava dall'art. 2602, non è lo scopo di lucro come per le società, ma è quello di usufruire dei beni o servizi prodotti e messi a loro disposizione dall'impresa consortile in modo da conseguire un vantaggio patrimoniale diretto nelle rispettive economie, sotto forma di minori costi sopportati o di maggiori ricavi conseguiti nella gestione delle proprie imprese.
Lo scopo consortile è più vicino allo scopo tipicamente perseguito dalle società cooperative, cioè lo scopo mutualistico. Perciò si parla si scopo mutualistico dei consorzi e di mutualità consortile.
La prassi di utilizzare forme societarie per il perseguimento di uno scopo consortile ha trovato riconoscimento legislativo con la riforma del 1976 nell'art. 2615-ter che, dispone che tutte le società lucrative, ad eccezione della società semplice, possono assumere come oggetto sociale gli scopi indicati dall'art. 2602, cioè gli scopi di un consorzio. Tale società sono dette società consortili. Perciò, si può costituire una spa che abbia una finalità consortile, senza voler conseguire utili da dividere fra i soci.
Ma nasce il problema di quale disciplina applicale, se quella delle società o quella dei consorzi o ad una disciplina mista.
I sostenitori della disciplina mista, prevedono che per i profili formali (articolazione, competenze, funzionamento degli organi) si applicano le norme societarie, mentre per i profili sostanziali (rapporti fra soci, e fra soci e terzi) si applicano le norme consortili.
Ma esigenze di certezza del diritto inducono a preferire l'impostazione che vede nelle società consortili vere e proprie società, in via di principio integralmente assoggettate alla disciplina delle società.
Gli imprenditori che danno vita ad una società consortile potranno inserire nell'atto costitutivo specifiche pattuizioni volte ad adattare la struttura societaria alla specifica finalità consortile perseguita, purché tali clausole non siano incompatibili con norme inderogabili dei tipo societario prescelto.
In mancanza di specifiche disposizioni di legge o dell'atto costitutivo, troverà integrale applicazione la disciplina legale del tipo societario prescelto. Indubbiamente gli imprenditori che danno vita ad una società consortile potranno inserire nell'atto costitutivo specifiche pattuizioni volte ad adattare la struttura societaria alla specifica finalità consortile perseguita, purché tali clausole non siano incompatibili con norme inderogabili del tipo societario prescelto .Così , in una società consortile per azioni potrà essere previsto l'obbligo dei soci di versare contributi periodici in danaro (diversi dai conferimenti ) per far fronte alle esigenze di funzionamento dell'impresa consortile, così come reso possibile dal secondo comma dell'art.2615 -ter .Si potrà (ma non è necessario) escludere del tutto la ripartizione degli utili fra i soci. Si potranno inoltre stabilire particolari condizioni per l'ammissione di nuovi soci o specifiche cause di recesso o di esclusione.Resta comunque fermo che, in mancanza di specifiche disposizioni di legge o dell'atto costitutivo, troverà integrale applicazione la disciplina legale del tipo societario prescelto. L ' enunciazione di uno scopo consortile non implica di per sé , né l'automatica disapplicazione di alcuna norma societaria (neppure di quelle in tema di destinazione degli ultimi), né l'automatica applicazione di alcuna norma consortile.
CAP. X IL GRUPPO EUROPEO DI INTERESSE ECONOMICO
1. CARATTERI GENERALI
Il Gruppo europeo di interesse economico, Geie, è un nuovo istituto giuridico predisposto dall'Unione Europea per favorire la cooperazione fra imprese appartenenti a diversi stati membri, rimuovendo gli ostacoli derivanti dalle diverse legislazioni nazionali.
La disciplina del Geie è fissata dal regolamento comunitario n. 2137 del 25/07/1985, direttamente applicabile in tutti gli stati membri.
Ciascun legislatore ha poi provveduto ad emanare specifiche norme integrative per disciplinare i punti che il regolamento rinvia agli ordinamenti nazionali o per i quali consente la scelta fra diverse alternative. L'Italia ha provveduto con il d.lgs. n. 240 del 23/07/1991.
I gruppi con sede legale in Italia sono perciò disciplinati dalle norme del regolamento comunitario e dalle norme integrative della legge italiana.
Struttura e funzione del Geie coincidono in larga parte con quelle dei consorzi con attività esterna.
Parti del contratto costitutivo del gruppo possono essere solo persone fisiche o giuridiche che svolgono un'attività economica, art. 4 reg. , ma, al contrario dei consorzi, non è necessario che siano imprenditori. Ma è necessario che almeno due membri abbiano l'amministrazione e/o esercitano la loro attività economica in stati diversi della comunità. Cioè non può essere utilizzato da imprese dello stesso stato.
Al pari del consorzio, il Geie ha la capacità, a proprio nome, di essere titolare di diritti e di obbligazioni di qualsiasi natura, ed ha capacità processuale, art. 1 reg.
Finalità del gruppo è quella di agevolare e di sviluppare l'attività economica dei suoi membri, e non di realizzare profitti per se stesso, art. 3 reg.
2. LA DISCIPLINA
Il contratto costitutivo del Geie deve essere redatto per iscritto, pena la nullità, art. 2 d.lgs. 240/1991.
Nel contratto devono essere indicati, almeno:
la denominazione del gruppo, preceduta o seguita dall'espressione "gruppo europeo di interesse economico" o dalla sigla "Geie";
la sede, che deve essere situata nell'Unione Europea;
l'oggetto;
il nome dei membri;
la durata, che può essere anche a tempo indeterminato, art. 5 reg.
Il contratto è soggetto a pubblicità legale, mediante iscrizione nel registro delle imprese (pubblicità costitutiva) e successiva pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica (pubblicità dichiarativa), art. 3 e 4 d.lgs. 240/1991.
Solo con l'iscrizione nel registro delle imprese il Geie acquista la capacità di essere titolare di diritti ed obbligazioni, art. 1 reg.
Per gli atti compiuti prima dell' iscrizione sono responsabili solidalmente ed illimitatamente coloro che li hanno compiuti, qualora il gruppo non assuma gli obblighi derivanti da tali atti, art. 9 reg.
Le cause di nullità del contratto costitutivo del Geie sono quelle previste dai singoli ordinamenti nazionali. La nostra legge non dispone nulla, perciò si applicano le norme di diritto comune fissate dalla disciplina generale dei contratti associativi, art. 15 reg.
Invece, gli effetti della nullità sono fissati dal regolamento comunitario, che coincidono con quelli previsti per le società di capitali, art. 2332 c.c. e perciò si discosta dalla disciplina del diritto comune.
Infatti, la dichiarazione di nullità del gruppo:
non ha effetto retroattivo;
non pregiudica la validità degli atti precedentemente compiuti;
opera solo come causa di scioglimento ex lege del gruppo;
la sentenza che dichiara la nullità provvede alla nomina dei liquidatori determinandone i poteri, art. 8 d.lgs. 240/1991.
La nullità del Geie è sanabile ed il tribunale, se ritiene possibile la regolarizzazione della situazione del gruppo, deve concedere un termine che consenta di provvedervi, art. 15 reg.
L'organizzazione interna e le regole di funzionamento del Geie sono in larga parte rimesse all'autonomia privata. Ma, sono espressamente previsti due organi:
un organo collegiale composto da tutti i membri,
un organo amministrativo.
I membri del gruppo possono adottare collegialmente qualsiasi decisione per la realizzazione dell'oggetto del gruppo. Le decisioni più importanti, specificate dall'art. 17 reg. , devono essere prese all'unanimità.
Ciascun membro dispone di un solo voto, ma il contratto può prevedere più voti per alcuni membri, a condizione che nessuno disponga da solo della maggioranza dei voti, art. 17 reg.
Nulla è disposto in merito all'invalidità delle delibere assembleari, perciò si applica la disciplina dettata per i consorzi.
La gestione del Geie è affidata ad uno o più amministratori, nominati dal contratto costitutivo del gruppo verso i terzi o con decisione dei membri. Può essere nominato amministratore anche una persona giuridica, la quale svolge le sue funzioni tramite un rappresentante, persona fisica, art. 5 d.lgs. 240/1991.
I poteri degli amministratori sono fissati dal contratto. Solo ad essi spetta la rappresentanza del gruppo verso i terzi, art. 20 reg. Se sono più di uno, la rappresentanza spetta a ognuno di loro disgiuntamente, salvo che il contratto preveda l'amministrazione congiunta.
Il Geie deve tenere le scritture contabili previste per gli imprenditori commerciali, indipendentemente dalla natura commerciale o meno dell'attività svolta. Gli amministratori redigono il bilanci, lo sottopongono all'approvazione dei membri e provvedono a depositarlo nel registro delle imprese entro quattro mesi dalla chiusura dell'esercizio, art. 7 d.lgs. 240/1991.
In applicazione del principio che il Geie non ha lo scopo di realizzare profitti per se stesso, art. 3 reg. , i profitti risultanti dall'attività del gruppo sono considerati direttamente profitti dei membri e ripartiti fra gli stessi secondo la proporzione prevista nel contratto o, nel silenzio, in parti uguali. Con lo stesso criterio i membri contribuiscono a coprire le perdite, art. 21 reg.
Delle obbligazioni assunte dal Geie rispondono solidalmente ed illimitatamente tutti i membri del gruppo, anche con il proprio patrimonio.
Tuttavia, la responsabilità di membri è sussidiaria rispetto a quella del Geie, infatti, i creditori possono agire nei confronti dei membri soltanto dopo aver chiesto al gruppo di pagare e qualora il pagamento non sia stato effettuato entro un congruo termine.
Ogni nuovo membro risponde anche delle obbligazioni precedenti al suo ingresso, salvo patto contrario opponibile ai terzi solo se pubblicato, art. 26 reg.
I membri uscenti continuano a rispondere delle obbligazioni anteriori alla loro uscita, art. 33 reg. , e la responsabilità permane anche dopo lo scioglimento del Geie, per un periodo massimo di 5 anno, art. 37 reg.
L'ammissione di nuovi membri deve essere decisa all'unanimità, art. 26 reg. , e l'unanimità è necessaria anche per l'efficacia della cessazione della quota di partecipazione, sia ad un terzo sia ad altro membro, art. 22 reg.
Le cause di recesso ed esclusione devono essere fissate nel contratto. Tuttavia, il recesso è sempre possibile per giusta causa o con l'accordo unanime degli altri membri, art. 27 reg.
Inoltre, per gravi inadempienze, l'esclusione può essere pronunciata dal giudice su richiesta della maggioranza degli altri membri.
Inoltre, sono esclusi:
il componente che perda i requisiti soggettivi per la partecipazione al Geie, art. 28 reg. ;
il membro insolvente che sia assoggettato a procedura concorsuale, art. 6 d.lgs. 240/1991 ;
Il componente uscente ha diritto alla liquidazione del valore della sua quota di partecipazione, art. 34 reg.
Sono cause obbligatorie di scioglimento del Geie:
la scadenza del termine;
il conseguimento o l'impossibilità di conseguire l'oggetto;
il venir meno della pluralità dei membri o della diversa nazionalità;
per sentenza del giudice per giusta causa.
Il verificarsi di una causa di scioglimento apre la liquidazione del gruppo, che è regolato dalle disposizioni in tema di società di persone, art. 8 d.lgs. 240/1991.
Il Geie che esercita attività commerciale è esposto al fallimento in caso di insolvenza, art. 9 d.lgs. 240/1991. Ma il fallimento del gruppo non determina il fallimento dei singoli membri, benché responsabili illimitatamente. Tuttavia, i liquidatori potranno chiedere ai membri il versamento delle somme necessarie per estinguere i debiti secondo la proporzione prevista in contratto, o, se non previsto, in parti uguali.
CAP. XI LE ASSOCIAZIONI TEMPORANEE DI IMPRESE
1. LA COLLABORAZIONE TEMPORANEA ED OCCASIONALE FRA IMPRESE
Le associazioni temporanee o raggruppamenti temporanei di imprese, dette anche joint ventures, sono forme di cooperazione temporanea ed occasionale fra imprese poste in essere per realizzare congiuntamente un'opera o un affare complesso
Si tratta di grandi opere pubbliche o private, che superano le capacità operative della singola impresa ma che, nel contempo, presentano caratteristiche tali da consentire il concorso di più imprese.
La costituzione di tali organismi comporta delle spese preventive che potrebbero risultare inutili qualora la gara di appalto non venga vinta. Inoltre, se le imprese partecipano alla gara attraverso una società o un consorzio, saranno tali organismi a risultare, giuridicamente, aggiudicatici dell'appalto e non le singole imprese che intendono cooperare nell'esecuzione dell'opera. Ma spesso le imprese voglio evitare la costituzione di queste società o consorzi. Cioè vogliono cooperare ma al tempo stesso mantenere la loro autonomia operativa. Vogliono eseguire ciascuna direttamente, con i propri mezzi e con la propria organizzazione, una parte dell'opera, pur assicurando al committente il coordinamento imposto dal carattere unitario dell'opera, garantendo l'esecuzione integrale dell'appalto.
Da qui si sono sviluppate degli accordi reciproci di cooperazione strutturati in modo da soddisfare le esigenze operative evitando nel contempo di dar vita ad un rapporto societario. In base a tali accordi, le imprese interessate si presentano alla controparte come imprese distinte ma collegate. Esse presentano un'offerta congiunta e si obbligano congiuntamente ad eseguire l'opera complessiva affidando ad una di esse , detta impresa capogruppo o capofila, il compito di gestire unitariamente i rapporti col committente e di coordinare i lavori nella fase esecutiva. Nel contempo, ogni impresa conserva la piena autonomia giuridica ed economica nel compimento della parte di opera o della specifica prestazione da essa direttamente assunta e risponde direttamente nei confronti del committente per la parte di propria competenza.
Queste forme di cooperazione fra imprese rendono difficile il loro inquadramento nei tipi contrattuali legislativamente previsti e regolati.
Secondo la giurisprudenza esse costituiscono contratti associativi innominati, espressione dell'autonomia contrattuale delle parti, art. 1322.
Nel nostro ordinamento questi fenomeni non sono stati ancora disciplinati in maniera organica ed unitaria.
La nostra legislazione si limita a regolare solo alcuni aspetti di alcune forme tipiche di cooperazione temporanea relative a determinati settori di attività:
gli accordi di cooperazione internazionale per la produzione di opere cinematografiche, art. 6 d.lgs. n. 28 del 22/01/2004;
l'istituto della contitolarità della concessione per la ricerca e la coltivazione di giacimenti di idrocarburi, art. 18 legge n. 613 del 21/07/1967, o minerari, art. 12 legge n. 221 del 30/07/1990;
le associazioni temporanee di imprese per la partecipazione agli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi, oggi disciplinate dal Codice degli appalti pubblici, d.lgs. n. 163 del 12/04/2006.
2. LE ASSOCIAZIONI TEMPORANEE PER LA PARTECIPAZIONE AGLI APPALTI PUBBLICI
La legislazione in tema di appalti pubblici consente che l'esecuzione di una stessa opera, ovvero la prestazione di forniture e servizi, siano affidate in appalto ad una pluralità di imprese che conservano la propria individualità.
Queste norme sono volte a garantire che la cooperazione di più imprese non pregiudichi gli interessi del committente nella fase di esecuzione del contratto.
Il raggruppamento temporaneo di imprese, disciplinato dal Codice degli appalti pubblici (d.lgs. n. 163/2006), si fonda su un mandato collettivo con rappresentanza, art. 1726, conferito dalle imprese che intendono partecipare alla gara di appalto ad una di esse, qualificata capogruppo.
Il mandato deve risultare da scrittura privata autenticata ed è per legge gratuito, art. 34, 1° comma, lett. d, cod. appalti.
In base a tale mandato la capogruppo è ammessa a formulare un'unica offerta, in nome e per conto proprio e delle altre imprese riunite.
Per assicurare all'ente pubblico committente un unico interlocutore per tutta la durata dell'appalto, la capogruppo conserva la veste di rappresentante per tutto tale periodo.
Il mandato conferito alla capogruppo è irrevocabile e la revoca, anche per giusta causa, non ha effetto nei confronti del soggetto appaltante, art. 37, 15° comma, cod. appalti.
Al contrario in diritto comune, art. 1726, il mandato è sempre revocabile, purché sia richiesta da tutti o dal singolo mandante se sussiste giusta causa.
È stabilito che la capogruppo ha la rappresentanza esclusiva, anche processuale, delle imprese mandanti nei confronti dell'appaltante per tutte le operazioni e gli atti di qualsiasi natura dipendenti dall'appalto, anche dopo il collaudo dei lavori, fino all'estinzione di ogni rapporto, art. 37, 16° comma, cod. appalti.
La posizione di rappresentante ex lege della capogruppo opera però solo a favore dell'ente committente in quanto questo conserva il diritto di far valere direttamente le responsabilità facenti capo ai mandanti.
La finalità di tutela dell'ente committente emerge anche dalla disciplina della responsabilità nei suoi confronti, diversamente articolata a seconda che l'opera comprenda o meno parti dichiarate scorporabili dall'ente stesso. Cioè, parti che possono essere assunte separatamente dalle imprese raggruppate.
Gli appalti non scorporabili danno vita ai cosiddetti raggruppamenti orizzontali. In tali raggruppamenti, tutte le imprese rispondono solidalmente per l'intera opera, anche nei confronti delle imprese subappaltatori e dei fornitori. La divisione dei lavori ha valore solo interno e l'ente committente potrà richiedere il risarcimento del danno, per l'intero, ad una qualsiasi delle imprese riunite.
Gli appalti con parti scorporabili danno vita ai cosiddetti raggruppamenti verticali. In essi, responsabile per l'intera opera è solo la capogruppo. Le altre imprese riunite rispondono esclusivamente per l'esecuzione della parte di propria competenza, in solido con la capogruppo, art. 37, 5° comma, cod. appalto.
La posizione di particolare rilievo assegnata alla capogruppo trova conferma nella disciplina dettata per le ipotesi di fallimento di una delle imprese riunite e di morte, interdizione o inabilitazione del suo titolare, art. 37, 18° e 19° comma, cod. appalto.
Se il fallimento riguarda la capogruppo, l'ente committente ha la facoltà o di proseguire il rapporto di appalto con altra capogruppo che sia di suo gradimento o di recedere dall'appalto.
Se il fallimento riguarda una delle imprese riunite, l'appalto prosegue senz'altro e la capogruppo ha la facoltà, ma non l'obbligo, di sostituirla con altra impresa che abbia gli stessi requisiti.
Qualora la capogruppo non provveda alla sostituzione, sarà tenuta ad eseguire la parte rimasta scoperta o direttamente o a mezzo di altra impresa del raggruppamento.
Per quanto riguarda i rapporti reciproci fra imprese riunite e con i terzi diversi dal committente, il legislatore lascia piena libertà alle stesse imprese.
È affermato espressamente che il rapporto di mandato non determina di per sé organizzazione o associazione delle imprese riunite e ognuna di esse conserva la propria autonomia ai fini della gestione, degli adempimenti fiscali e degli oneri sociali, art. 37, 17° comma, cod. appalti.
Le imprese sono perciò libere di mantenere il collegamento funzionale minimo determinato dal mandato collettivo oppure di dotarsi di un'organizzazione comune di tipo consortile, destinata a coordinare e regolamentare l'esecuzione dell'appalto.
Inoltre, è consentito che le imprese riunite per la partecipazione ad appalti di lavori pubblici costituiscono fra loro una società, anche consortile, dopo l'aggiudicazione dell'appalto per l'esecuzione unitaria totale o parziale dei lavori, art. 96 d.p.r. 554/1999. Tale società subentra automaticamente, senza bisogno di autorizzazione o di approvazione del committente, nell'esecuzione dei lavori.
Per evitare che il subingresso leda gli interessi dell'ente committente, è mantenuto fermo il regime di responsabilità delle imprese riunite, art. 96, 2° comma. Perciò, per l'esecuzione dell'opera risponderanno sia la società appositamente costituita, sia le imprese del raggruppamento. Sul raggruppamento graverà perciò l'obbligo di eseguire l'appalto, qualora la società a tal fine costituita si renda inadempiente o fallisca.
L'interdizione, dichiarata con sentenza, accerta lo stato di abituale infermità di mente. Presupposto necessario per l'interdizione è l'esistenza di una alterazione patologica della realtà psichica del soggetto, tale da dar luogo ad una totale incapacità di provvedere ai propri interessi. L'infermità, in ogni caso, deve presentare carattere di abitualità, anche se accompagnata intervalli di lucidità.L'inabilitazione, invece, è dichiarata sempre con sentenza laddove sia accertato che un individuo è affetto da uno stato di incapacità di gravità tale da non rendere necessaria l'interdizione.L'inabilitazione può essere dichiarata anche nei confronti di coloro che, per prodigalità o per abuso abituale di bevande alcoliche o di stupefacenti espongono sé o la loro famiglia a gravi pregiudizi economici, ovvero di soggetti affetti da sordomutismo o cecità dalla nascita o dalla prima infanzia, se essi non abbiano ricevuto un'educazione sufficiente. In ogni caso l'inabilitazione non esclude mai la possibilità di ricorrere all'interdizione se risulta che il soggetto stesso sia del tutto incapace di provvedere ai propri interessi.
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