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TRA LA PROMOZIONE DELLO SVILUPPO ORGANIZZATIVO NEGLI OSPEDALI E LE ESIGENZE DEI MALATI RARI

medicina



TRA LA PROMOZIONE DELLO SVILUPPO ORGANIZZATIVO NEGLI OSPEDALI E LE ESIGENZE DEI MALATI RARI



I  OSPEDALE: QUALE MANDATO SOCIALE?

Il medico specialista rappresenta per molti malati rari il riferimento clinico più importante. Come abbiamo visto opera, nella stragrande maggioranza dei casi, all'interno di strutture ospedaliere. Ma qual è di preciso la finalità che orienta l'organizzazioni ospedaliere?

Per provare a rispondere ci sembra necessario inquadrare il mandato e la domande sociali che sostanziano l'esistenza stessa degli ospedali. In effetti l'aspetto più palese è che queste domande quando arrivano all'ospedale sono in qualche modo ancora sospese, in un processo di "identificazione". Abbiamo visto precedentemente come promuovere salute nella popolazione rappresenti in modo essenziale il mandato sociale (e a più livelli: OMS, Libro bianco europeo, Costituzione italiana, Libro bianco "La vita buona nella società attiva"[1], ecc). Di conseguenza, dovrebbe essere questa la finalità[2] all'origine dei contributi offerti dall'ospedale alla popolazione. Ma più da vicino, cosa vuol dire salute, e cosa cerca l'utenza ospedaliera?



Tra la medicalizzazione e la promozione di salute c'è una differenza sostanziale, che viene immediatamente espressa attraverso due proposte diverse di relazione. Nell'intervento medicalizzante-sanitario si attua un "ripristino ad ortos", ossia: individuato il problema, si opera unicamente sull'oggetto-problematico per ripristinarlo ad una condizione precedente o per conformarlo ad una condizione desiderata. E' questo un tipo di intervento che si fonda sulla tecnica, che quindi presuppone una domanda forte, precisa e non ambigua dell'utenza: allo stesso tempo permette di trascurare gli elementi relazionali, perché la prestazione non implica livelli di negoziazione tra il professionista-tecnico e l'utente: la domanda, il problema e l'intervento si considerano già predeterminati e precisati, e ogni confronto vissuto come un'inferenza superflua, se non addirittura svantaggiosa. Qui l'intervento non è negoziabile, perché l'utente è il profano che non sa, mentre il medico colui che sa: questa assenza di negozio tra le parte circa la prestazione e il suo utilizzo, ha il suo presupposto nella fantasia dell'infallibilità dell'intervento. "Il modello della tecnicalità segna più di ogni altro l'organizzazione sanitaria. Ed ostacola tanto la competenza organizzativa, quanto il correlato orientamento al cliente della sanità. [.] Il cliente da noi proposto è pure un modello di relazione collusiva. Quella per la quale un tecnico debole offre la sua consulenza a un profano forte del suo problema, finalizzando l'intervento allo sviluppo del profano e non alla correzione del deficit di cui quest'ultimo sia eventualmente portatore"[3]. Nell'intervento di promozione della salute invece, la sostanziale indeterminatezza del termine salute, rende necessario procedere innanzitutto alla sua declinazione: attraverso "domanda-problema-contesto-servizio-prospettive possibili", un processo di negoziazione, appunto, tra utenza-professionista-servizio; nell'intento di promuovere salute, in definitiva, non si può non considerare la relazione, anzi questa dovrebbe intendersi lo spazio fondamentale di intervento.

Per chiarezza, vorremmo precisare che medicalizzare e promuovere salute non sono due modalità che crediamo autoescludentisi. Né è nelle nostre intenzioni proporre scenari semplicistici. La prevenzione, la diagnosi, il trattamento, la cura, la riabilitazione, sono ambiti importanti nella promozione della salute, ma di certo non la esauriscono: se li rappresentassimo come insiemi questi sarebbero sottoinsiemi dell'insieme "promozione della salute", e sue funzioni.

Promuovere salute, come indicato dall'OMS, è il risultato complesso della interazione tra i settori, i soggetti e le esperienze della persona all'interno della sua comunità: l'individuo è l'unità conclusiva di tale processo, mentre la finalità è l'implementazione della capacità dell'individuo di assumersi responsabilmente il proprio progetto esistenziale, riuscendovi a mobilitare i propri potenziali realizzativi attraverso le possibilità attuative (immediatamente disponibili o sollecitabili) nei propri contesti di vita. E questo è valido sia in presenza, che in (temporanea.) assenza di malattie.

Tornando agli ospedali, spostare l'asse organizzativo dall'enfasi della cura a quella della promozione della salute, vuol dire in qualche modo cominciare a confrontarsi con l'universo delle realtà e delle domande dell'utenza. Le riflessioni etiche, politiche e psicosociali sulla medicina, nel corso della storia e dell'evoluzione della stessa medicina, della società e dei sistemi di cura-assistenza-sviluppo, 535j91f si sono confrontate con una serie di questioni che hanno svelato in modo sempre più convincente la loro interrelazione e una impressionante continuità: almeno questo è ciò che è accaduto tra studiosi e specialisti impegnati in questo confronto. Destino diverso per l'utenza, soprattutto quella più sprovveduta, che è rimasta per certi versi al di qua di queste complesse considerazioni, continuando a fruire dei servizi con una certa ingenuità: e questo è constatabile dalle domande con cui arriva ad accedere ai servizi e dalla rappresentazione che ha dei servizi. Come nota Lanzetti (1999), ad una forte dipendenza tecnologica della medicina si accompagna una notevole carenza nel campo dell'educazione sanitaria: dedurre che la rappresentazione del potere della medicina domini le fantasie dell'utenza, sembra inevitabile. Ma non solo. La fantasia di poter disporre di rimedi e soluzioni di cura potenzialmente illimitate, espone ad una serie di modalità di rapporto fondate sulle paure e sui desideri, sulle illusioni e sulle delusioni, e sulla presunzione di certezza e sullo smarrimento. Lanzetti (1999) proponeva, a fronte di questa perdurante domanda di medicalizzazione da parte dell'utenza, di orientare le politiche sanitarie verso la territorializzazione dei servizi, nell'idea di decentrare le domande ospedaliere verso forme di intervento articolate nella rete (ossia in una multisettorialità di servizi, interconnessi), ed inoltre rendeva presente la necessità di accogliere le domande dell'utenza, non attraverso una risposta lineare, bensì una loro elaborazione, poiché già questo rappresenterebbe un passo fondamentale per la promozione della salute: "devono acquisire maggior rilevanza le opinioni e le attese del cittadino-utente, il suo diritto di informazione e tutto ciò che promuove un <<accesso più consapevole alle cure mediche e, di riflesso, la partecipazione più attiva e adulta del paziente nella sua relazione con i professionisti della sanità>> (Domenighetti, 1996, 64)"[4]. Noi vorremmo aggiungere che questa necessità di trattare le domande di medicalizzazione dell'utenza non dovrebbe essere considerata solo come una "funzione positiva" per il paziente: la nostra ipotesi è che le domande del paziente diventano organizzatrici dell'identità e del ruolo assunto dal medico, nonché spinte considerevoli nell'organizzazione stessa del servizio.

La situazione attuale dei processi istituenti tra "mandato sociale-organizzazioni ospedaliere-domande dell'utenza", ci sembra inquadri un sostanziale scollamento tra il mandato sociale (agire in sintonia con soggetti per promuovere salute), e le domande dell'utenza. Le domande dell'utenza sono mosse e animate dai processi collusivi specifici dei sistemi di convivenza (Carli, Paniccia, 2003) a cui partecipa e della cultura che li caratterizza: riuscire ad isolare il problema sembra un paradigma diffuso e, sia pur nella forza della sua grossolanità, accattivante. I temi della "colpa" e della "pena" (temi che rimandano, in maniera forte e diretta, al rapporto con l'autorità), abbastanza di moda in questi tempi, sembrano trovare molti contatti con quelli della sanitarizzazione sociale: "malattia" e "cura". La salute, conformata ad un fatto oggettivo (assenza di malattia, piuttosto che conformità a canoni estetici, ecc), non può far altro che abbandonarsi all'autorità riparatrice della tecnica. L'aspetto paradossale dell'enfasi "curativa", ossia dell'"espulsione dei problemi", è che il vero elemento indispensabile diventa proprio il problema: oltre quello non ci si muove, perché l'implicito detta che a quel punto "si deve stare bene" (magicamente?!). Nonostante questa tendenza, esiste una quota sempre più consistente di sensibilizzazione verso le criticità di questo modo di pensare, nonché sull'importanza della autonomia come prodotto e della possibilità di muoversi attraverso modelli co-determinati, piuttosto che imposti: è su questa sensibilità culturale che intravediamo possibilità di sviluppo nell'ambito dell'assistenza sanitaria. Così come sembra rendersi sempre più evidente che il prodotto del servizio ospedaliero implica nella sua definizione tutta l'organizzazione: questo ha inoltre spinto ad assorbire via via i modelli di Qualità, al punto che oggi la loro adozione rappresenta una consuetudine all'interno degli ospedali. Ma cosa si intende con qualità e a cosa tendono i modelli delle Qualità?


II SULLA QUALITA'

Una precisazione

Qualità etimologicamente discende dal latino qualis, corrispondente al nostro quale, ma nello stesso tempo in cui allude a qualcosa la arricchisce implicitamente delle sue caratteristiche, del suo modo di essere, della sua natura: qualitatem. Per qualità si intende di volta in volta qualcosa di intrinseco all'oggetto, sin'anche all'opposto, come qualcosa che è solo veicolata da un particolare oggetto e determinata invece dalla specifica capacità umana di dotare le cose di significato: dunque riferendosi ad una serie di attribuzioni date all'oggetto dal soggetto, ossia ad una serie di caratteri relativi e non oggetti Nel linguaggio filosofico il termine qualità indica un modo d'essere, che può venire affermato o negato, di un ente e che vale a determinarne la natura: la genericità del concetto riguarda tanto la soggettiva attività di determinazione, quanto l'azione di eterodeterminazione dell'ente.

Nell'ultimo secolo si è passati a costruire varie distinzioni attorno al concetto di qualità, affinché questo potesse essere ben fruibile all'interno dei diversi "sistemi moderni"; innanzitutto, come fa notare Cavalieri (1996), esiste una sostanziale differenziazione tra la qualità intesa come valore, legata perlopiù alla somiglianza (l'autrice parla  proprio di conformità, ossia con-forma-simile) rispetto ad un modello ideale ritenuto "buono", da quella intesa come caratteristica, che la stessa autrice indica come adeguatezza all'uso, quindi come qualcosa di (usando un gioco di parole) utile all'utilizzazione, e non aprioristicamente determinabile. Questa differenziazione apre ad una serie di considerazioni, che seguendo un excursus storico passano dalla qualità intesa come dimensione legata alla cultura del controllo (Idato, 2003), dell'omologo, del predeterminato, della conformità al modello (predominante soprattutto nei sistemi produttivi e industriali della prima metà del '900), alla cultura della qualità intesa come "soddisfazione del cliente", sino a sofisticarsi nella visione della qualità quale "prodotto co-costruito" (tipico della visione contemporanea della qualità. In questo caso i modelli utilizzati per questa co-costruzione assumono una rilevanza determinante). In particolare la dimensione del cliente (Carli, Paniccia, 2003) ci sembra fondamentale alla definizione della qualità.

I clienti dell'antica Roma erano persone libere ma subordinate ad un protettore, a cui si legavano attraverso un complesso di reciproci diritti e doveri. Oggi i tempi sono cambiati, ma il rapporto può essere ancora valido nella sua valenza simbolica: i protettori non esistono più, ma è presente un nutrito numero di aziende, alle quali si legano, per una serie di diritti/doveri, i fruitori. Un aspetto non trascurabile è che questo legame diritti/doveri apre ad una complessità che arriva a definire non solo gli elementi del prodotto (oggetto o servizio), o del suo corrispettivo, ma anche e soprattutto quelli della relazione tra le parti. Appare chiaro come parlare di qualità oggi corrisponda ad aprire le orecchie sul quel discorso più squisitamente filosofico che già gli antichi avevano iniziato e che oggi è proseguito con interesse anche dagli psicologi: la qualità è legata ad un implicito soggettivismo (Bianchera e Mezzani, 2000), che diventa una co-costuzione tra soggetti con fini comuni, diventa cultura, in cui schematicamente uno fornisce all'altro qualcosa di cui l'altro si potrà servire a sua volta. In questo senso la "qualità" si connota sempre di più come un qualcosa "prodotto attraverso il prodotto" definibile mediante  il processo di scambio tra le parti coinvolte nella sua definizione. Ecco che la qualità non si esaurisce solo nella possibilità di estrarre una particolare caratteristica in modo acontestuale e indipendente, bensì si disegna come una tensione d'insieme per definire gli elementi caratterizzanti il complesso di relazioni/obiettivi inclusi nella comune determinazione del prodotto "qualità", aprendo la possibilità di conquistare un processo globale, sia per l'ottenimento che per la valutazione della qualità: un circuito, un sistema determinato da ogni elemento, interagente in senso circolare (Proto, 1999). Come indica Spaltro (1995), la ricerca di qualità è figlia di un processo di costruzione che si integra a diversi livelli della vita, arrivando potenzialmente ad essere così ben inserito nella struttura del quotidiano e dell'ordinario, da potersi considerare il presupposto procedurale della ricerca della qualità di vita. Attorno il problema della qualità nel servizio pubblico Spaltro (1995) afferma che

informalità, buon senso, semplicità sono alla base del rilancio della funzione pubblica e della mentalità di servizio, alla quale si contrappone la mentalità burocratica. La mentalità di servizio è sintetizzabile in se io tratto bene te, tu tratti bene me. Il cliente è allegro e ottimista, mentre l'utente del pubblico è pessimista e sfiduciato: manca quella positività e quel potere creativo. Bisognerebbe operare un passaggio dalle norme (mentalità burocratica) alla mentalità, senza abolire la funzione delle strutture ma completandole con climi e mentalità adeguate. La salute sarà sempre di più un clima ed avrà come fondamenta la speranza e l'orizzonte temporale futuro, la credibilità del presente e degli abitatori del nostro presente, gli stili di comando usati nel proprio spazio quotidiano, il sentimento di potere elevato come quantità ed il potere a somma diversa da zero come qualità. Si sta verificando la sostituzione dei circoli viziosi con i circoli virtuosi e il passaggio dalla salute dell'organizzazione all'organizzazione della salute. Così dalla mitologia delle strutture si sta giungendo al gioco degli stati d'animo (p.128).

Cosa è la soddisfazione del cliente?

Parlando di Qualità, la "soddisfazione del cliente" (che in alcune Pubbliche Amministrazioni a volte è possibile ancora sentirla declinata in "soddisfazione dell'utente[5]", o nell'ospedale addirittura "soddisfazione del paziente": cioè come se la categoria - cliente, utente, paziente, ecc - fosse riferita ad una tipologia predeterminata di soggetti, e non alla funzione di un modello di relazione) sembra essere l'indiscutibile "parola magica" per uscire dall'autocentratura del servizio. Strumenti ampiamente diffusi per l'apertura del servizio alla relazione con i clienti (o utenti, o pazienti, che dir si voglia) sono: la carta dei servizi, i questionari di valutazione (quali-quantitativa) della soddisfazione dei clienti (che verranno poi confrontati con gli standard attesi), e il "Sancta Sanctorum" Ufficio reclami[6]: come si può notare, il primo (la carta dei servizi) si pone quale orientamento preliminare della relazione, gli altri due, quali misuratori di esito: ma in mezzo? La letteratura su esperienze applicate di modelli di Qualità, mette in evidenzia una particolare attenzione agli aspetti interni, strutturali, processuali e di esito (Donabedian, 1990) dell'organizzazione; poco interesse sembra proporre alla conoscenza approfondita del proprio cliente (Baraghini, Molinari, Roli, Trevisani, 2003) e alla relazione tra questi e il proprio servizio. Eppure, la valutazione del servizio da parte del cliente viene poi utilizzata proprio come criterio orientativo. C'è un unanime consenso tra i vari modelli della Qualità in ambito sanitario nel prevedere uno spazio di integrazione tra i Decisori politici, Management, Operatori e Cittadini (Gardini, 2004), ma di fatto questo può essere affrontato in molti modi, ed anzi è a questo livello che vanno a differenziarsi tra loro i modelli.

Uno strumento operativo che ha avuto una diffusione generale di adozione all'interno dei complessi ospedalieri, sono gli Uffici qualità: valutatori delle attività e promotori di piani di sviluppo organizzativo, operanti in posizione di staff, rispetto l'organigramma. Spesso proprio la posizione di staff diviene la fonte di problematicità, perché impone in una prima fase livelli di integrazione su ogni reparto, funzione, servizio, ciascuno dei quali è fondamentalmente diverso: superare questa prima fonte di difficoltà è tuttavia un passo necessario verso l'integrazione funzionale e la qualità. Le professionalità ospedaliere si fondano su un'importante e specialistica diversificazione di competenze, che tende a determinare numerose "isole operative", tendenzialmente disinteressate all'operato altrui; quindi operare per reintegrare queste scissioni funzionali e determinare una mentalità unitaria e complessa di servizio, è evidentemente un'impresa non semplice e impegnativa; l'obiettivo comune, appunto la soddisfazione del paziente, può assumere in questo senso, anzitutto la funzione di organizzatore complessivo dei processi.

Ma cosa è e come si può misurare la soddisfazione del cliente: dall'ampiezza del suo sorriso? Dal suo ottimismo? Dall'espressione del suo gradimento al servizio (con risposte dicotomiche o scale Likert)? Oppure come?

Qualsiasi cosa scegliessimo come indicatore della soddisfazione dovremmo aver ben chiaro quale ipotesi ci guida a scegliere proprio quegli indicatori. E una chiarificazione: l'ospedale è un sistema, e che funzioni come tale non è scontato, ma anche le reti di servizi sono sistemi, e il cittadino, nelle sue molte vesti (comprese quelle di malato, paziente, famigliare di un malato, ma anche medico, ecc) vi partecipa e ne è parte. Quale è allora il confine, il limite sensato entro cui applicare e misurare la qualità? Quale è l'ambito sensato da investigare? L'indicatore da misurare? In ospedale ad esempio, come considerare i rapporti di confine oltre i quali si giustifica un ignoramento degli aspetti "altri" della persona-paziente? In un'indagine fatta su un ospedale romano (Frisanco, 2000) per la valutazione della soddisfazione del cliente, si concludeva che i pazienti di quell'ospedale fossero soddisfatti del servizio e l'espressione più convincente di ciò era che molti di loro dichiaravano che, in caso di bisogno, avrebbero nuovamente scelto quell'ospedale. Non abbiamo motivo di dubitare che i pazienti di quell'ospedale abbiano effettivamente ritenuto soddisfacente quel servizio. Saremmo più incerti se dovessimo definire il prodotto di quella relazione. Pensiamo, in altre parole, di doverci confrontare indispensabilmente con un quesito: la misura della soddisfazione del cliente e di efficacia del servizio, lo stiamo intendendo come un fine (condizione propria della "cultura dell'utente"), una buona pratica organizzativa, oppure come un ponte verso- (condizione propria della "cultura del cliente")? Chi è l'effettivo cliente della nostra valutazione, l'ospedale o il paziente (o entrambi)? Di nuovo ci sembra che ritorni il problema di definire un raggio d'azione e un confine. Così come ci sembra ritorni l'importanza di chiarirci se stiamo prestando cure (efficaci) e ricovero (confortevole), oppure promuovendo salute. Essere "trattati bene", scegliere di ritornare, può essere considerato come l'indicatore della promozione della salute? E prima ancora, è la promozione della salute ci interessa misurare? E se ci interessa, come tradurre in qualcosa di più operativamente utilizzabile la "promozione della salute"? Considerando che questi punti di domanda ci offrono la possibilità di considerare quanto vasto possa essere il prodotto sanitario e quindi complessa la progettazione del suo servizio e la valutazione della sua qualità, proviamo a partire dall'ultimo punto di domanda: come tradurre in modo più operativamente utile promozione della salute. Proponiamo di provare a tradurla (rischiandone forse una riduzione.) in aiutare il paziente ad aiutarsi.

Qualità: attori, copioni, prodotti

Proviamo a utilizzare anche il senso degli altri quesiti evocati. Auxilia e Rosi (2006) sottolineano che il prodotto del servizio sanitario è considerato (almeno) da tre vertici di osservazione: "uno, quello manageriale, è proprio del terzo pagante attento a dimensioni quali la efficienza, la accessibilità, la sicurezza e la adeguatezza dei servizi. Una ulteriore macro area caratterizza il punto di vista della componente tecnico-professionale; in essa convergono le dimensioni della efficacia, della appropriatezza e della sicurezza. Infine la qualità percepita, propria del cittadino che utilizza i servizi nel cui ambito trovano collocazione le dimensioni della accettabilità, adeguatezza, accessibilità, sicurezza"[7]. Un aspetto sottolineato da questi autori ci sembra in questo caso particolarmente debole, come del resto un po' in generale nella letteratura dedicata a questo tema: sembra essere diffusa l'idea che un buon servizio deve "acquisire il punto di vista dei pazienti nella consapevolezza che gli sforzi messi in atto per migliorare la qualità dei servizi sono vani se non riflettono le loro attese e i loro desideri"[8]. Perché questo assunto assuma senso, ci sembra inevitabile che il paziente sia uno che "sappia ciò che vuole", avendo raggiunto quel grado di autonomia e di capacità critica di scelta, tale per cui il professionista deve solo "saperlo indovinare". Se immaginassimo di provare a trasportare questo criterio nelle scuole, prendendo come clienti gli studenti, forse scopriremmo che l'indicatore della loro soddisfazione potrebbe essere la durata della ricreazione: l'esempio è provocatorio, ma ci chiediamo se piuttosto che incontrare i desideri e le attese dei pazienti, un prodotto su cui investire non dovrebbe essere la capacità di intervenire su quei desideri e quelle attese, integrando così la visione "profana" del paziente con le dimensioni di realtà e di implementazione della conoscenza proprie delle competenze professionali degli operatori. Crediamo che le attese e i desideri, quelli che dovrebbero destare l'attenzione valutativa e stimolare la assunzione di opportuni indicatori, dovrebbero essere quelli co-determinati attraverso il processo di negoziazione che sottostà all'intervento[9]; in altre parole, se ci poniamo nell'ottica di promuovere salute, e non semplicemente sanare, o, se siamo bravi, sanare confortevolmente, ci sembra che vada da sé la necessità di intervenire non sul problema (perdippiù se un problema autocentrato[10]), ma sulla persona, utilizzando come strumento di lavoro la relazione. Del resto la proliferazione di modelli organizzativi ospedalieri centrati sul paziente ci sembra guidata dalla ricerca di queste finalità. Il paziente che è "aiutato ad aiutarsi" non è solo quello che è lì, materialmente presente in ospedale, ma è soprattutto quello che ne uscirà e che è determinato da una sua realtà specifica e che allo stesso tempo determina o potrebbe determinare la sua vita attraverso atteggiamenti e traiettorie progettuali. La proposta di Massei (1994) di un modello per lo sviluppo organizzativo che includa nell'analisi, come li definisce lei, gli interlocutori dell'ospedale, la rete di rapporti in cui l'ospedale è inserito, ci sembra innovativo ed interessante, ma nello specifico ancora disattento all'analisi delle risorse di rete rappresentate dagli altri servizi presenti sul territorio, mentre a noi sembra la direzione indispensabile per implementare la capacità di promuovere salute, e quindi per sviluppare una sensata efficacia organizzativa. Viceversa, la ricerca della soddisfazione, orientata dalle logiche di concorrenza tra organizzazioni, può portare a deviare la centratura dalle aree e dei prodotti che sostanziano l'organizzazione stessa, mettendo al loro posto in rilevanza aree che dovrebbero essere più marginali: un modo forse più semplice, ma poco utile. E' di certo per ogni paziente sarebbe auspicabile riuscire a godere durante un ricovero ad esempio di un vitto gustoso; abbiamo inoltre già notato che gli aspetti inclusi in un servizio ospedaliero sono complessi, multilivello, e declinati su moltissimi prodotti: proprio per questo il compito più difficile è quello di riuscire ad individuare indicatori di soddisfazione-qualità appropriati e che siano orientati allo sviluppo di una competenza organizzativa, integrata al mandato sociale, e non semplicemente rivolta ad un difficilmente (per non dire troppo facilmente) interpretabile gradimento. "La grande novità di questi anni è che queste forze hanno di fatto modificato il concetto elitario di 'Qualità dell'assistenza sanitaria' da un concetto definito solo dai tecnici, in maniera individualistica e paternalistica, a un concetto che prende spunto da tutte le idee che vengono sviluppate all'interno di una Società: da Qualità come 'il grado di applicazione delle conoscenze mediche comunemente disponibili per la fornitura dei servizi sanitari' a Qualità come 'l'insieme delle caratteristiche di un prodotto che dimostra la propria capacità di soddisfare ad un bisogno dato' (Deming)".[11] Gardini (2004), descrivendo il modello di Øvretveit, sottolinea l'importanza implicita che assume il contratto iniziale tra professionista e cliente: "Il bravo professionista [.] mette in linea le aspettative del paziente con quanto il servizio è in grado di offrire. Le aspettative del cliente si mettono d'accordo con le potenzialità del servizio in questa fase. Il cliente può qui anche decidere che il servizio non è quello di cui ha veramente bisogno e può, legittimamente, tirarsi indietro. Lo stesso può fare il professionista [.]. L'incontro, alla fine, deve concludersi con una decisione comune finale, un programma i cui significati e obiettivi debbono essere chiari e condivisi dalle due figure che interagiscono, un vero e proprio "contratto terapeutico" [.]. Oggi, in sanità, dal rapporto terapeutico al rapporto istituzionale si persiste troppo nell'usare una modalità di negoziazione coatta [dove il medico ha assolutamente maggiore forza], che ripete modalità che non si adattano alla complessità che ci è caduta addosso nel '900. E' necessario aggiornarsi"[12].


III   L'OSPEDALE NELLE MALATTIE RARE: UNA RISORSA REALISTICA

La sanità pubblica, e gli ospedali in special modo, dalle riforme degli anni '90, hanno "perseguito uno spostamento generale dalla gerarchia al contratto come criterio prevalente di regolazione delle attività nel settore - come criterio di governance, per usare un termine ora corrente"[13]. L'utente della sanità, da passivo bisognoso è diventato attivo portatore di domande, e le direttive gestionali imposte dall'alto hanno lasciato il posto all'autonomia gestionale dei servizi e all'autonomia professionale degli operatori. Il passaggio da una cultura dei bisogni ad una dei desideri, rappresenta lo di sfondo di questi cambiamenti nell'ambito della Sanità Pubblica.

La rilevanza delle strutture ospedaliere nella possibilità di contribuire alla promozione della salute, è stata colta nella Dichiarazione di Budapest, che ha iniziato una serie di impulsi, tra cui la costituzione della rete HPH ( Health Promoting Hospitals).  Nella storia e nei principi dell'HPH si ricorda che "La promozione della salute richiede quindi una serie di importanti cambiamenti culturali, professionali e organizzativi nel modo di operare delle organizzazioni sanitarie e in modo particolare dell'ospedale. Si tratta, in definitiva, di affiancare al concetto di monopolio della malattia il concetto di co-produzione della salute, attraverso una alleanza tra gli operatori sanitari, i pazienti e le altre componenti della comunità, ciascuno con la sua competenza, autonomia e responsabilità. [.] riconoscere l'importanza di un approccio globale e non perdersi nella frammentazione delle specializzazioni, abbandonare l'illusione meccanicista della "produzione" di prestazioni e orientare i pazienti lungo percorsi assistenziali multiprofessionali e multidimensionali nei quali i pazienti possono spendere la loro autonomia, provare a misurare non solo 'i fattori della produzione e i prodotti dell'organizzazione' ma anche gli esiti sui livelli di salute delle persone"[14]. I clienti diretti di questa rete sono: i pazienti, il personale ospedaliero e la comunità servita dall'ospedale. Una prima fase di attuazione del programma ha visto più ospedali impegnati in progetti comune, quindi sono stati valutati i risultati sull'implementazione della capacità di promuovere salute: i risultati positivi hanno spinto all'attuazione di progetti più estesi (allargando quindi la rete) e la pubblicazione delle Raccomandazioni di Vienna (1997) sulla promozione della salute negli ospedali. Esiste un livello comunitario, uno nazionale, uno regionale (coordinato da un Centro con funzioni di riferimento e stimolo di iniziative) e uno locale. Attualmente i successi riportati dall'approccio HPH, permettono a questo progetto di affrontare un ulteriore livello di sviluppo e di arrivare a confrontarsi con questioni fondamentali:

Come possono infatti gli ospedali pensare di promuovere salute la salute se non in sintonia con quanto svolto dai servizi distrettuali e dai medici di medicina generale e pediatri di libera scelta, se il LEA della specialistica ambulatoriale non viene sviluppato in modo coerente, se le strutture che si occupano di prevenzione sviluppano iniziative slegate dagli altri due contesti? E ancora: quale collegamento costruire con le altri parti interessate delle aziende sanitarie ospedaliere e territoriali come i comuni e le associazioni di cittadini? Nel momento in cui l'approccio dei LEA valorizza l'importanza dei percorsi assistenziali, veri e propri setting funzionali, ha ancora senso occuparsi di settino fisici come l'ospedale, l'ambulatorio, la casa di riposo?

In un sistema pubblico come il nostro, che punta alla integrazione in rete delle prestazioni, forse non ha più molto senso parlare di "ospedale per la promozione della salute" e dovremo cominciare a sviluppare una "assistenza sanitaria per la promozione della salute", che integra in un disegno unitario le molteplici attività che i diversi LEA realizzano a favore dei pazienti, del personale e della comunità[15].

Il movimento che porta avanti il progetto HPH tende a spostare la mentalità dei servizi ospedalieri dai fini di cura a quelli di promozione della salute, muovendo l'occhio dal governo autocentrato della struttura organizzativa, all'organizzazione come governo dei processi e delle relazioni, necessarie, possibili ed utili. L'ottica della concorrenza tra aziende ospedaliere e della frammentazione tecnicistica delle competenze all'interno della stessa organizzazione, viene in questo modo sollecitata ad un importante cambiamento, dove fondamentalmente le risorse sono vissute come collocate anche nel fuori: nel collega del proprio ospedale con cui si collabora ad un obiettivo, nelle domande di promozione della salute poste dalla popolazione e dai pazienti dell'ospedale, nelle attività ed esperienze degli altri ospedali, e nell'universo eterogeneo dei servizi esistenti all'interno della comunità.

Le prospettive contemporanee dell'HPH colgono e ripropongono il servizio d'assistenza nella sua complessità di sistema, fondandolo nei suoi attributi di interconnettività sociale, nella sua finalità di promozione della salute, di sollecitazione dei desideri, di potenzialità, di nuove domande da parte della popolazione: una popolazione che ogni tanto può ammalarsi, ma che comunque non si sospende mai dai suoi compiti sociali e progettuali. La proposta di integrazione funzionale non si esaurisce quindi nel coordinamento operativo interno all'organizzazione, pure indispensabile, ma investe anche il suo esterno, attraverso l'attuazione di legami cooperativi con gli altri soggetti nel territorio.

Oltre questo progetto HPH, resta comunque difficile a molti pensare di poter attuare la "clinica del singolo problema", intervenendo in modo isolato e occasionale sulla persona: come sottolinea Trabucchi (Gensini, Rizzini, Trabucchi, Vanara, 2007) l'esigenza di operare in rete non è più solo un vezzo ideologico (o un'aspirazione politica), ma una pura esigenza clinica! Tuttavia non è ancora un'esigenza (ahinoi) così diffusa tra i medici, né così prioritaria nelle politiche; mentre i cittadini (o molti di essi) ignorano notevolmente le prospettive e le opportunità che potrebbe offrire una rete di servizi, semplicemente perché non ne hanno fatto ancora esperienza; crediamo (per quanto possa valere un'intuizione.) che tanto più l'accesso ai servizi resta dis-integrato dal quotidiano e occasionale (quindi senza rapporti di continuità), tanto più la fruizione dei servizi, segnando un netto stacco dal quotidiano, tende a polarizzare verso i soli stati gravi e le emergenze. Una precisazione: quando facciamo riferimento alla rete, non intendiamo evocare solo una proliferazione di servizi "più territoriali", bensì lo sviluppo della capacità dei diversi servizi di co-operare in collegamento tra loro, permettendo quindi una continuità di processo, promuovendo e orientando domande, plasmando assetti d'intervento attorno ai casi. Non è solo la struttura ad essere determinante, ma la cultura, la mentalità di lavoro che muove l'azione organizzativa: una rete non si costruisce con i mattoni, né con l'asfalto, ma con l'esigenza di operare in modo plurimo, condividendo obiettivi con altri attori portatori di competenze diverse dalle proprie, in sintesi, accettando di non bastare a se stessi. E' chiaro che la prima cosa che si rende necessaria, scegliendo di operare in rete, è conoscere la realtà del territorio, degli utenti e dei servizi: ed è per questo che tale modello di promozione di sviluppo, noi lo intendiamo anche come un'alternativa decisamente migliore e più sostenibile del modello della concorrenzialità tra servizi (Barresi, 2005). Attraverso infatti approcci di rete, emerge chiaramente la ridondanza superflua dei servizi, l'individuazione di quelli più utili, nonché le aree non coperte dai servizi, dalle quali poter chiarire i bisogni, aprendo così a settori (anche occupazionali) nuovi su cui investire, e soprattutto utili-utilizzabili.

Nella consuetudine più che una vera e propria rete tra servizi può verificarsi che vengano a realizzarsi rapporti privatistici tra operatori appartenenti a diverse organizzazioni, e magari proprio attraverso la mediazione degli stessi pazienti: questa modalità "amicale", per quanto sia una risorsa importante, in special modo per il paziente, non può tuttavia essere ritenibile una valida prassi. "Una rete interaziendale può essere definita come un insieme di istituti giuridicamente autonomi, con distinti soggetti economici, caratterizzati da interdipendenze organizzate, per generare valore di sistema distributivo equamente tra i nodi [Kickert, Klijn e Koppenjan, 1997; Soda, 1998]"[16]: la spontaneità e l'informalità, se da una parte permettono l'attuazione di misure ampie di risposta alle esigenze, dall'altra sono deboli e nebulosi rispetto all'adozione dei criteri e alla verifica dei risultati (poiché dovrebbero considerarsi come un "in più".). Servono quindi accordi e obiettivi chiari, l'individuazione precisa delle risorse, la chiarificazione dei processi e degli scambi, servono indicatori di efficienza e di efficacia, più che le buone intenzioni, o "favori personali". Servono orientamenti organizzati

Nelle malattie rare, per l'esposizione più marcata alle incertezze procedurali dei percorsi di intervento, e per la costellazione di difficoltà sociali che è connaturata nel concetto stesso di malattia rara, la persona con la patologia, la sua famiglia, il medico di base, l'ospedale di riferimento, gli eventuali servizi territoriali d'assistenza, dovrebbero proporre un assetto di collaborazione reciproca e di sinergia: questi soggetti sono infatti funzionalmente molto connessi tra loro. Anche la ricerca, evidentemente, dovrebbe essere inserita in questa sinergia.

Nel Piano Sanitario Nazionale, vengono individuati di volta in volta fondi per la Ricerca Finalizzata, ossia rivolta verso gli obiettivi individuati come prioritari. Tra questi obiettivi è incluso lo studio delle malattie rare. Rispetto agli ospedali particolare interesse riveste quel tipo di ricerca detta traslazionale: ossia interessata ad operare un passaggio rapido delle conoscenze ottenute attraverso la ricerca di laboratorio alla pratica clinica, permettendo quindi un ponte, bidirezionale, tra la ricerca e la risposta del paziente, a vantaggio dell'esperienza clinica e dello sviluppo della diagnosi e cura. Gli IRCCS (Istituto Ricovero e Cura a Carattere Scientifico) pubblici o privati sono gli ospedali dove elettivamente si pratica questo tipo di ricerca e rappresentano importanti serbatoi di esperienze per il trattamento dei malati rari, perché amplificano notevolmente le potenzialità di intervento sul caso clinico e allo stesso tempo potenziano l'efficacia dell'esperienza clinica maturata sul singolo caso rispetto alla ricerca: questo da una parte sveltisce notevolmente il transito informativo tra l'ambito della ricerca e quello della clinica, dall'altro permette che attorno al caso clinico si rafforzi l'attenzione e la responsabilità professionale e si sollecitino nello stesso tempo rapporti operativi tra professionisti diversi.




[1] "Salute non identifica più semplicemente la cura della malattia ma, prima ancora, la promozione del benessere e lo sviluppo delle capacità personali, tenendo conto delle differenti condizioni di ciascuno"

[2] Il fine (o lo scopo) non è misurabile ed ha consistenza di un'idea. L'obiettivo invece può essere o meno raggiunto e il suo raggiungimento deve essere misurabile: ha quindi la consistenza delle azioni.  

[3] Paniccia R M, Di Ninni A. Cavalieri P. Un intervento in un Centro di Salute Mentale. In Rivista di psicologia clinica, 2006

[4] Lanzetti C. La qualità del servizio in ospedale: una ricerca sull'esperienza dei malati. Milano: Franco Angeli, 1999, p. 44

[5] La cultura legata all'utente è connotata da modelli paternalistici di beneficialità e assistenzialistici, che hanno cominciato a declinare proprio negli anni '90. Questa visione presupponeva un utente bisognoso e un servizio generoso, possessore di qualcosa desiderato dall'utente e solitamente operante in condizioni di monopolio. La cultura legata al cliente invece sottintende la promozione ideologica di elementi democratici, ponendo enfasi sulla possibilità di scelta

[6] La nascita degli Uffici reclami si incontra con lo sviluppo della consapevolezza dei "diritti dei pazienti", che prende avvio a metà degli anni '70

[7] Auxilia F, Rossi C. La valutazione nell'ambito sanitario. In Carpita M, D'Ambra L, Vichi M, Vittadini G (a cura di). Valutare la qualità: i servizi di pubblica utilità alla persona. Milano: Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA, 2006, p. 85

[8] Ibidem, p. 88

[9] "L'effettiva implementazione sistemica degli indicatori è il passaggio più critico, in quanto richiede la precisa identificazione di una molteplicità di destinatari delle informazioni e differenti tipologie di messaggi che determineranno risposte articolate e potenzialmente conflittuali" (Carlo L. La misura dei risultati nell'ambito della rete dei servizi sanitari. In Gensini G F, Rizzini P, Trabucchi M, Vanara F. Rapporto Sanità 2007: servizi sanitari in rete. Dal territorio all'ospedale al territorio. Bologna: Il Mulino, 2007, p 136).  E proprio per questo "i fattori che determinano il risultato finale della cure non vanno ricercati solamente a livello clinico-assistenziale, ma anche a quello organizzativo-gestionale [grassetto aggiunto]" (Ibidem, p. 138)

[10] In un grande ospedale di Roma (pochi anni fa), un questionario per la valutazione della soddisfazione del cliente, chiedeva ai pazienti informazioni come gradimento sulle aiuole e sulla statua posta all'ingresso, ed in generale informazioni di gradimento su aspetti strutturali, trascurando incredibilmente gli aspetti di servizio.

[11] Gardini A. Verso la Qualità. Percorsi, modelli, intuizioni ed appuntamenti di viaggio per migliorare l'assistenza sanitaria: ad uso dei cittadini, professionisti, managers, politici, donne e uomini di questo mondo. Centro Scientifico Editore, 2004, p. 175

[12] Ibidem, pp. 199-200

[13] Bordogna L, Ponzellini A M. Qualità del lavoro e qualità del servizio negli ospedali: organizzazione del lavoro e partecipazione dei lavoratori in Italia e in Francia. Roma: Carocci Editore, 2004, p. 10

[14] Storia e principi dell'HPH: Primari care nell'Europa mediterranea: l'integrazione tra ospedale e medicina di famiglia e di comunità per la promozione della salute (Lecce, 29 settembre - 1 ottobre 2005): La rete italiana degli Ospedali per la promozione della salute

[15] Storia e principi dell'HPH: Primari care nell'Europa mediterranea: l'integrazione tra ospedale e medicina di famiglia e di comunità per la promozione della salute (Lecce, 29 settembre - 1 ottobre 2005): La rete italiana degli Ospedali per la promozione della salute

[16] Gensini G F, Rizzini P, Trabucchi M, Vanara F (a cura di). Rapporto Sanità 2007: servizi sanitari in rete. Dal territorio all'ospedale al territorio. Bologna: Il Mulino, 2007, p. 79




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