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Salvatore Satta - Il giorno del giudizio - La vita dell'autore

letteratura italiana



Salvatore Satta

Il giorno del giudizio


La vita dell'autore

Quest'opera è stata composta tra il 1970 e il 1975 (anno in cui Satta muore), è perciò un testo scritto nel momento conclusivo dell'esistenza dell'autore. Viene pubblicato dalla CDAM nel 1977, casa che tratta testi giuridici, ma arriva al successo nel 1979 quando viene pubblicato da Adelphi. Satta nasce a Nuoro nel 1902 ed è l'ultimo di sette fratelli, il padre è notaio e la madre è una casalinga di origine piemontese.

Si laurea in legge a Sassari e nel 1925 si trasferisce a Milano, per il tirocinio nello studio di uno dei maggiori insegnanti di diritto Marco Tullio Zanzucchi. In quegli anni si ammala di tisi e viene ricoverato per due anni.

Negli anni '30 ottiene la cattedra di diritto processuale a Camerino, Macerata, Padova, Genova, Trieste e nel 1958 è a Roma, chiamato a Antonio Segni, leader della DC, anch'egli sardo e alla conduzione del Governo per due volte. Nel 1960 è Presidente della Repubblica.



Salvatore Satta è un uomo di destra, cattolico, conservatore e antimodernista.


Nuoro e Galtellì

Nuoro non era che un nido di corvi.

Due o trecento anni prima la vera capitale non era Nuoro, era Galtellì, il paesetto della Baronia lungo il Cedrino. Ne rimane la traccia nel titolo della diocesi, che non è di Nuoro, ma di Galtellì e Nuoro, e Galtellì prima di Nuoro. Pare che fosse un vescovo spagnolo, Mons. Roich, a disporre che la sede episcopale fosse trasferita altrove, cioè a Nuoro, poiché il paradiso in Baronia durava tre mesi dopo di che il sole diventava cattivo e in una settimana portava il deserto.

Due o tre secoli fa Nuoro non esisteva nemmeno come un nucleo di capanne, infatti nessuna delle carte antiche della Sardegna porta il nome di Nuoro. Questo vuol dire che quel vescovo aveva messo la prima pietra e popolato la nuova capitale coi suoi preti e i suoi parrocchiani di Galtellì.

La descrizione di Galtellì contiene elementi sia edenici che infernali. Galtellì è il locus amenus e ci restituisce il senso di un passato luminoso, il fiume Cedrino rappresenta una benefica entità, essendo un torrente di soave chiarezza che porta del fango fertile (limo) che permette alla terra di essere ben coltivata. Abbiamo poi un topos contrario che vede Glatellì trasformarsi in un deserto e arrivare delle zanzare portatrici di morte. Questa condanna è segno di infelicità, insania e rovina mentale (il fiume e il sole impazzivano).

L'elemento della sacralità e del Divino è presente ma non è oggetto di venerazione. Un trattamento analogo è riservato a Nuoro che è di un'angustia e di una strettezza insensate, nella quale si muovono individui che non si sopportano tra loro perché non sopportano se stessi. Perciò a Nuoro non c'era né odio né amore, solamente contestazione dell'altro, tuttavia si stava insieme per sopravvivere e per preservare se stessi.

Gli abitanti di Galtellì vengono descritti dall'autore come delle "marionette", sono buoni e miti, non come la gente di Nuoro che, invece, è cupa e chiusa.

Nuoro è un cosmo che esaurisce una totalità di destini, è esauriente e gliu abitanti della città non hanno bisogno d'altro.

Nuoro è divisa in tre parti:

Sèuna: casette basse, disposte senz'ordine e tutte a un piano, davanti a ciascuna di esse si trova un carro sardo (che è trainato da buoi).

Se fosse stato per Seuna Don Gabriele Mannu avrebbe potuto dispensarsi dall'andare a Roma, a prendere la laurea da ingegnere. I seunesi sono tutti contadini, fanno paese nel paese, e si dice che costituiscano il nucleo originario dell'insediamento, d'altronde a Seuna c'è la più vecchia chiesa di Nuoro e lo stesso prete che la officia è un contadino.

San Pietro (Santu Pedru): dalla parte opposta del paese rispetto a Seuna, qui si raccolgono i pastori. Ha case alte che danno su vie strette, ma nonostante ciò la vita, rimasta nomade, si svolge al pian terreno. Qui Don Gabriele Mannu potrebbe essere passato benissimo. Gli abitanti di San Pietro non posseggono carri sardi ma cavalli.

A San Pietro abita la dinastia dei Corrales, il cui capostipite è Bainzu*. Né lui, né i suoi figli, né i suoi servi potevano essere dimenticati dai carabinieri e cento volte il portone della Rotonda, la prigione circolare si era chiuso alle loro spalle, ma dopo tre o quatto mesi dovevano buttarlo fuori per forza, perché la voce del suo arresto correva per le campagne e dopo due giorni disponeva di tanti alibi che pareva avesse il dono dell'ubiquità. Aveva imparato, non si dove, a leggere e scrivere.

Il lungo corso appena lastricato di Nuoro è il simbolo della terza Nuoro, quella del tribunale, del municipio, delle scuole,di Don Sebastiano, di Don Gabriele, di Don Pasqualino, dei "signori" ricchi e poveri che fossero. Nessuno dei pastori, se non qualche Corrales (se aveva da fare con l'avvocato), si sarebbe mescolato a 858d39i quei signori del Corso.

Santa Maria era forse all'origine del centro storico, cioè del borgo abitato dai signori. Signori non vuol dire ricchi, è solo il contrario di rustico.

A Nuoro non vi era odio e non vi era amore: cera la contestazione dell'altro, che diventava la contestazione di se stessi.


Don Sebastiano Sanna Carboni (notaio)

Cap.1: Sua madre doveva essere morta presto. Egli aveva costruito la sua casa, vent'anni prima, su un terreno comprato da certi miserabili napoletani. Ha sette figli maschi, l'ultimo poco più che decenne ed era partito da zero. Secondo lui ciò che conta non è guadagnare molto, ma è spendere poco, anzi non spendere affatto e ciò era possibile grazie ai capretti e agli agnelli che la buona gente mandava in regalo.

Don Sebastiano da 5 anni non cenava affatto, perché le cure del dottor Ganga (il medico di famiglia), alcolizzato come la metà dei nuoresi, ma intelligente, non erano servite a nulla e così un giorno era andato a Sassari a farsi visitare e al suo ritorno aveva annunciato che non avrebbe cenato più. Prese perciò a trascorrere l'ora del pasto serale nello studio.

Don Sebastiano poteva ormai considerarsi ricco, ma sentiva che la sua ricchezza era legittima perché frutto del suo lavoro. Esisteva però in lui una specie di nostalgia della povertà, di concezione della povertà come esperienza o esercizio spirituale, di esaltazione del lavoro manuale.

Il suo sogno sarebbe stato se i figli man mano che crescevano e si avviavano agli studi, con grande successo, si dedicassero a qualche mestiere fuori dalle ore di scuola.

La verità che Don Sebastiano non voleva confessare era che la famiglia alla quale aveva dato tutto se stesso gli era rimasta estranea. Dalla famiglia egli aveva preteso una cosa sola: che non lo disturbassero nella sua opera e che ciascuno quindi facesse il suo dovere, come egli l'aveva fatto.

Prof: Il narratore fatica a descrivere questo personaggio e utilizza una tecnica a mosaico, dalla quale deriva un disegno non del tutto chiaro. Non ci è chiara la sua psicologia, il sua carattere e ciò a cui aspira.

Don Sebastiano appartiene alla piccola nobiltà di origine spagnola che nel corso del 1700 ha intrapreso le professioni giuridiche. Quando Ludovico si fidanza avvertiamo in lui l'orgoglio di casta.

E' presente in lui uno spiccato senso dell'iniziativa, poiché è teso a migliorare il proprio stato sociale attraverso i meriti personali. Nel contempo, l'attività febbrile volta a migliorare il suo stato, si unisce al culto della povertà, la quale intensifica l'essere. Questa opposizione crea una sintonia inattesa tra lui e la moglie e tra lui e il figlio Ludovico.

Don Sebastiano cerca di difendersi dai pregiudizi della gente con una mentalità quasi illuminista e durante la guerra del '15-'18 si risvegli in lui un profondo nazionalismo, perciò non nasconde i figli.

Non è un uomo privo di sensibilità interiore (v. oleandro), ma pecca di semplicità.

Don Sebastiano si produce, inoltre, in uno sforzo assiduo verso l'avvenire (infatti ha sette figli, che con lui sono freddi e per questo motivo soffre in silenzio), ma nutre sfiducia su tutto ciò che ne potrà derivare.

Nel I capitolo possiamo notare una scelta stilistica insolita:

  • L'autore utilizza formule ultrasintetiche;
  • Non si ricorre ad un nome che individui un personaggio ma ad un "un": "l'entrata di un padre nella stanza.", l'autore adotta perciò il punto di vista dei figli e l'io narrante ci suggerisce il Sebastiano piccolo.



Donna Vincenza (moglie di Don Sebastiano)

Cap.1: è moglie e madre e sta in un angolo, come si conviene ai suoi 50 anni. Esausta e ingrossata dalla maternità. I suoi figli sono la sua vita, non la sua speranza, perché lei è una donna senza speranza.

Cap. X: Aveva le vene della gamba che le facevano male per via della prima maternità e subito dopo averla affrontata aveva chiesto al marito di portarla dal medico. Lui le aveva risposto che i soldi c'erano e che avrebbe potuto andarci da sola e da quel giorno era sempre stato così.

Ma non si poteva lasciare così una donna sull'orlo dell'abisso, perché tale era per lei la soglia della casa nella quale a poco a poco si andava rinchiudendo. Perchè questo avveniva, che giovane e piena di vita non uscisse più, si immergesse in una solitudine disperata, che solo l'immensa cura dei figli e della casa riusciva a farle sopportare. Ma il peggio era che l'immobilità cominciava a minarle la salute, le si ingrossavano le gambe e si deformava.

Cap. XII: Era passato del tempo e Donna Vincenza viveva ormai inchiodata al suo seggiolone. I suoi figli erano quasi uomini, frequentavano le scuole, alcuni andavano a Sassari o a Cagliari, poiché a Nuoro c'era solo il ginnasio. Tutti i nuoresi li invidiavano a Don Sebastiano. Crescevano legati l'uno all'altro consapevoli della propria responsabilità.

Per Donna Vincenza non esistevano che i figli ed erano come il giorno in cui erano nati. Dal seggiolone cui era ridotta vigilava l'indole e le tendenze di ciascuno e prima ancora ne studiava la salute, perché qualcuno era delicato.

Peppino da bambino aveva avuto il tifo e si era salvato per miracolo, ma sembrava non essersi mai ripreso e poi c'era Ludovico, l'eterno malato che bisognava curare con brodini, e liu preparava lei con le sue mani. Ella vedeva che Giovanni, il primo, aveva delle stranezze: tendeva a isolarsi, si chiudeva nella sua stanza, sprofondava in terribili mutismi che esplodevano in urla se qualcuno, e fosse anche il padre o la madre, gli chiedeva perché. Quel che era peggio, da qualche tempo pareva che anche la scuola ne soffrisse, ed egli non fosse più quello studente regolare che era prima. Correva voce che si fosse innamorato della prima figlia di Don Pasqualino, che era bellissima ma inguaribilmente malata. Pareva si vergognasse persino della madre.

Pasquale, poi, il terz'ultimo non aveva mai avuto la passione dello studio degli altri fratelli.

Prof: Donna Vincenza vive un'esistenza travagliata dalla malattia ma ricorda un breve passato felice (si consuma in un giardino incantato, l'orto che le deriva dai suoi avi e che la rendeva felice da bambina). Lentamente si autodistrugge, poiché misura lo scarto tra la felicità passata e la situazione odierna della vecchiaia. La sua psiche è sempre al confine con il rancore delirante.


Rapporto tra Don Sebastiano e Donna Vincenza

Cap. 3: Nella corte di Don Sebastiano c'era un oleandro (come nella casa del narratore che comincia il capitolo III con i suoi pensieri e parlando della sua casa), poiché un giorno, mentre stava andando dai suoi clienti, aveva strappato un ramo da un oleandro e l'aveva piantato in fondo alla corte e il ramo aveva messo radici. Il guaio è che l'oleandro è una pianta velenosa, così almeno si credeva a Nuoro e così credeva Donna Vincenza, che con l'andare degli anni cominciò ad odiare quell'unica pianta che il marito avesse messo nella sua corte, per fare dispetto a lei, certamente. Ogni giorno Donna Vincenza prendeva una pentola di lisciva e la buttava sulla pianta, con l'assurda volontà che bruciasse le radici.

Donna Vincenza non era completamente sarda, era nata come Don Sebastiano nel Regno di Sardegna, ma il padre era piemontese e la madre (Donna Nicolosa) era sarda.

Donna Nicolosa era rimasta sola e con molti figli, poiché Monsù Vugliè (suo marito) era morto senza nemmeno conoscere Donna Vincenza e così non avrebbe potuto rifiutare l'offerta di un diplomato notaio che chiedeva la mano di sua figlia.

Don Sebastiano aveva dieci anni più di Donna Vincenza e aveva chiesto la sua mano perché si era invaghito di lei, ma è difficile dire quanta parte avesse avuto l'amore in questo matrimonio.

Don Sebastiano chiamava la moglie Vincenza, ma Donna Vincenza chiamava il marito per cognome (Sanna). Così fu fondata questa famiglia, quasi sulla carta.

C'era stato un tempo in cui Donna Vincenza era stata lieta, perché aveva avuto il dono di un'anima semplice e tutto aveva un valore per lei. Aveva fatto le prime scuole e aveva imparato a leggere e scrivere quanto bastava.

Donna Vincenza amava i poveri mobili della sua casa, i ricami sulle federe alle quali attendeva con la madre tutto il giorno e amava soprattutto l'orto di Vugliè, dove si recava spesso. Aveva amato anche Don Sebastiano, ma forse i primi dissidi erano cominciati proprio con La vendita dell'orto. Il fatto è che ad un certo punto Don Sebastiano aveva imposto a sua moglie di vendere quell'orto e lei aveva resistito con tutte le sue forze, ma Don Sebastiano non aveva nemmeno sentito le sue parole e così l'orto era stato venduto. Forse Don Sebastiano l'aveva fatto perché si faceva ricco, per quei luoghi e per quei tempi, e ora quei pochi beni della moglie lo disturbavano.

Don Sebastiano non lasciava mettere il becco nell'amministrazione della casa a Donna Vincenza e anzi, ancora peggio, bastava che essa manifestasse un'opinione, esprimesse un consiglio perché fossero rigettati, e tanto più quanto più erano ragionevoli. Inoltre siccome anche i figli fanno parte della fortuna, faceva fare a Donna Vincenza quasi ogni anno un figlio, senza accorgersi che ogni figlio le accorciava la vita.

[Condizione della donna sarda]: Per la Sardegna di allora la donna non esisteva. Per il sardo la moglie era come l'oggetto di un culto silenzioso e non è da escludere che ci fosse un senso di inferiorità del marito nei confronti della moglie.

A questa natura non faceva eccezione Don Sebastiano che, però, non aveva capito una cosa e cioè che nelle vene di Donna Vincenza scorreva mezzo sangue piemontese e per quanto sardizzata fino a non conoscere altra lingua, quel sangue operava sulla volontà e le impediva di non esistere.

Donna Vincenza doveva rivolgersi al marito anche per chiedere gli spiccioli relativi ai bisogni della casa, perché tutto il governo della famiglia passava per le mani di Don Sebastiano. Quegli spiccioli rappresentavano il terribile prezzo che lei doveva pagare per riconoscere la propria inesistenza e mai si sarebbe piegata a questo. Aveva pregato il marito nei primi anni, di darle un fondo cui attingere per le spese, ma lui aveva risposto che non ce n'era bisogno, perciò Donna Vincenza rimediava come poteva: nella notte, quando il marito dormiva, entrava nella sua stanza e frugava nei taschini del panciotto. D'altronde era il suo denaro (l'autore sottolinea che in quella famiglia vigeva la comunione dei beni, ma che era solo una stupidaggine perché, appunto, tutto il potere era nella mani di Don Sebastiano) e il marito non se ne accorgeva o faceva finta di non accorgersene.


I sette figli di Don Sebastiano e Donna Vincenza (cap. 4):

Di sette figli, tutti maschi, c'erano state due femmine: la prima e primogenita era tanto lontana che svaniva nel ricordo; ma l'altra, l'ultima, era morta da poco e quel ricordo non sarebbe svanito mai più dall'animo di Donna Vincenza. Se n'era andata a tre anni.

Quando nacque l'ultimo figlio in lui ripeterono il nome del padre, lo chiamarono Sebastiano, e i letti di Donna Vincenza e Don Sebastiano si separarono. Egli rimase nella stanza attigua all'ufficio e lei emigrò al terzo piano, solo che nella stanza attigua non c'era un ufficio, ma dormivano i due figli più piccoli, Sebastiano e Peppino, che erano distanziati di quattro anni (nel mezzo c'era stata quella bambina che era morta). I figli dormivano due a due: Pasquale e Ludovico, Michele e Gaetano.

Il primogenito dormiva solo, si chiamava Giovanni, come il nonno piemontese e tra lui e l'ultimo correvano sedici anni di differenza. Era già quasi un uomo. Faceva lo schizzinoso per il modo in cui gli stiravano le camicie, per il disordine della casa e arrivava a criticare la trasandatezza campagnola del padre.

L'ambizione di Don Sebastiano era quella di far studiare e laureare tutti e sette i figli, a ciascuno costruiva il suo destino e loro rispondevano al suo sogno, perché erano intelligenti e studiavano.

Con i figli erano entrati in casa i libri e Don Sebastiano, che era un uomo istruito, non aveva mai letto un vero libro, per la semplice ragione che non ne sentiva il bisogno. I libri erano i libri di scuola, quelli che si studiano e non si leggono. Il suo libro era il giornale.

I due figli più piccoli avevano formato una biblioteca di un centinaio di libri. Gli altri, già grandicelli, avevano impegni di scuola, e qualcuno avrebbe presto cominciato il grande esodo verso Sassari, la città favolosa distante 120 km, perché a Nuoro le scuole finivano con il ginnasio.

Ludovico dava molta preoccupazione alla madre perché cresceva magro, delicato, con la pancia sempre in disordine, questa malattia era in parte vera e in parte immaginaria. Andava già al ginnasio e la madre non riusciva a farlo smettere di studiare. Naturalmente partecipava alla vita comune e si faceva voler bene. Programmava la sua esistenza, che senza programma gli pareva non avrebbe avuto senso. I libri che Ludovico portava in casa erano oggetti di culto ed erano ben distanziati da quelli degli altri. Egli voleva raggiungere la conoscenza nella sua totalità e tra i suoi libri si annoveravano grammatiche (italiana, latina e greca), vocabolari, antologie e libri di filosofia. La sua era una vera vocazione enciclopedica che si sarebbe realizzata il giorno in cui avesse potuto leggere tutti i libri che raccoglieva.

Per Sebastiano e Peppino i libri erano venuti in casa di soppiatto. Un giorno Peppino nel tornare da scuola si era fermato davanti al chiosco dei tabacchi e dei giornali del siciliano Tortorici e aveva visto le Vite di Plutarco della collezione dei classici economici Sonzogno, così Tortorici glielo aveva lasciato.

I classici Sonzogno avevano la copertina azzurra e costavano una lira, la Biblioteca universale aveva la copertina giallognola e la Biblioteca Popolare aveva una copertina in bianco e nero.

A Don Sebastiano tutto questo sembrava un gioco ed egli non amava i giochi. Per fortuna non saliva quasi mai al piano di sopra, e sempre meno si accorgeva di quel che gli accadeva intorno.

Realizzare il sogno di Don Sebastiano voleva dire mandare i figli a Sassari o a Cagliari e ciò implicava l'invio ogni mese di cento lire per ogni figlio e questo metteva a dura prova le sue forze. D'altra parte non gli importava se i figli potessero essere spaventati dall'affrontare da soli la vita in una città lontana. Questa pena era per Donna Vincenza, che vedeva i figli staccarsi dal suo seno, che si alzava prima dell'alba per preparare il viatico (le cose che ciascuno amava o ella credeva che amasse) e sentiva che quando sarebbero tornati per le grandi vacanze non sarebbero più stati i suoi figli.

Donna Vincenza guardava con amore i libri che i figli raccoglievano con amore ma in lei vi era (come in Don Sebastiano) l'inconsapevole rifiuto della fantasia, che nonostante tutto entrava nella casa austera con i libri.


Il resto della famiglia Sanna

Dopo qualche tempo, ingrandendosi la sua fortuna, Don Sebastiano si era messo la suocera in casa e là aveva vissuto lunghissimi anni, testimone impassibile della crudeltà del genero verso la figlia.

Il padre di Don Sebastiano, Don Ludovico, viveva ancora e doveva vivere fino ai 94 anni, quando si addormentò tranquillamente su una panchina dell'orticello. I nipoti più piccoli, Peppino e Sebastiano, andavano a trovarlo di quando in quando.

Don Ludovico era un piccolo proprietario terriero e aveva una campagna. Aveva messo al mondo parecchi figli che erano tutti vivi e tutti grandi e Don Sebastiano, sposandosi, pareva aver fatto punto e a capo.

Lo zio Matteo, a vent'anni, uscito di casa disse addio a Nuoro. Si diceva si fosse arruolato nei carabinieri in un paese presso Oristano. Là certamente abitava. Dovevano morire il padre, la madre, i fratelli, i nipoti, non si fece mai vivo. Uno dei figli maggiori di Don Sebastiano, Gaetano, già avanti anch'egli negli anni, capitò per caso in questo paese ed ebbe la curiosità di conoscere questo zio, che lo accolse con benevolenza.

Lo zio Goffredo era conosciuto dai ragazzi perché lo vedevano per la strada, ma egli non aveva mai varcato la soglia di casa. Dietro di lui c'era una vicenda opaca di dissesti finanziari.

Lo zio Priamo era il sindaco di Nuoro ed era l'unico che avesse conservato rapporti con Don Sebastiano. Egli era rimasto col padre e il padre vedovo e il figlio scapolo si sostenevano a vicenda. Aveva già raggiunto i 50 anni e l'idea del matrimonio non gli era mai passata per la testa.

La sola casa che frequentasse era quella di canonico Murtas, il quale viveva con la decrepita madre e una matura nipote, che si chiamava Franceschina.

Era accaduto che Don Priamo guardasse il padre e si accorgesse che aveva già passato gli 80 anni; una cosa gli parve molto chiara e cioè che il padre poteva morire. E se il padre fosse morto egli sarebbe rimasto completamente solo e quella solitudine lo spaventò. Così chiese la mano di Franceschina che gli disse di sì, perché ora erano in tre nella casa di Santa Maria. Figli non ne avevano avuti.

Giovanni Maria (Cap.X): Un certo giorno a Nuoro era apparso un giovane che si era presentato a Don Sebastiano chiamandolo zio: era il figlio di Matteo, che voleva stabilirsi a Nuoro e darsi ai commerci. Il fatto è che chiedeva assistenza al potentissimo zio e questi gliela aveva dato, tanto che in poco tempo era diventato ricco col traffico delle mandorle. Aveva invaso la casa di Don Sebastiano, come se fosse la sua, riempiendo i figli di giocattoli e leccornie. Donna Vincenza, però, aveva capito che era diventato il rivale suo e dei suoi figli e lo aveva costretto ad andarsene.


Peppedda era in casa di Don Sebastiano da tanti anni e governava la casa come se fosse la sua.


Zio Poddanzu era un servo di campagna di Don Sebastiano, viveva a Locoi ed era più padre dei figli di Don Sebastiano stesso, tanto che i piccoli credevano che il padrone fosse lui.

Locoi

Cap. 5: Parlando di Locoi il narratore si avvicina al punto di vista del piccolo Sebastiano ed è infatti con i suoi occhi che noi la vediamo. Locoi era la vigna sulla collina che Don Sebastiano aveva lasciato alle cure di zio Poddanzu. Era un vasto rettangolo, quasi un quadrato di vigna dentro il quale in duemila anni era cresciuta una quercia.

In mezzo a quel deserto era venuta su, in qualche anno, un'oasi di verde, dove regnava un tepore da giardino terrestre. Un grande casa rossa sorgeva nel mezzo.

Zio Poddanzu aveva in Locoi la sua dimora, anche se possedeva una delle casette di Seuna, dove stavano la moglie e le figlie, che andavano per servizio da Donna Vincenza. Secondo l'autore tra lui e Don Sebastiano non correvano rapporti di denaro, i due erano nati, cresciuti e invecchiati insieme. Don Sebastiano gli aveva battezzato le figlie. Donna Vincenza voleva bene a zio Poddanzu e lo accoglieva lietamente le rare volte che veniva nella casa e gli offriva un bicchiere di vino.

A Locoi lo zio Poddanzu riceveva i figli di Don Sebastiano come padroni ma faceva sentir loro i limiti della proprietà.

Zio Poddanzu non aveva trascorso tutta la sua vita a Locoi, poiché nella sua giovinezza, prima che l'Italia diventasse Italia, gli avevano fatto fare il servizio di leva e lo avevano mandato in mondi lontani, come Camerino. Questi posti avevano riempito la sua vita e lui ne parlava la sera sullo spiazzo.

In casa di Don Sebastiano non si faceva il presepe, a Natale, perché non si badava a queste sciocchezze e in fondo si credeva poco, ma i ragazzi trovavano senza saperlo il presepio nella vigna.

E' l'alter ego positivo di Don Sebastiano. Presiede alla gestione di Locoi saggiamente, mentre Don Sebastiano non sa districarsi nelle situazioni complicate.


Le persone che volevano bene a Donna Vincenza (Cap. XII):

La modesta casa nella quale Donna Vincenza aveva vissuto prima che Don Sebastiano la portasse nel rione Santa Maria era circondata da ancora più modesti abituri, dove svolgevano la propria vita povere donne, tra le quali Zia Isporzedda, che aveva la mola prima che Don Pasqualino la fermasse col suo mulino a vapore. Tutta questa gente guardava con amore a Donna Vincenza e con il passare degli anni non l'avevano dimenticata: andavano a trovarla nell'immensa casa e le portavano i loro piccoli doni.

Zia Isporzedda soprattutto le prestava quanto poteva i suoi servizi e le raccontava quello che di nuovo c'era a Sa Bene, così che Donna Vincenza era sempre al corrente della storia, pur vivendo in clausura.

Don Sebastiano non degnava nemmeno di uno sguardo questi poveri fedeli di sua moglie, chi invece salutava, senza però fermarsi, era la zia Gonaria, la cugina povera di Donna Vincenza. Era "zia" perché così la chiamavano i figli, specialmente il più piccolo che essa aveva tenuto in battesimo.

Tra Gonaria e Donna Vincenza c'era una misteriosa complementarità: Gonaria sapeva tutto di Dio, ma non sapeva nulla della vita. Vergine per assoluta vocazione, come le tre sorelle con le quali viveva, era maestra e tutte le generazioni delle ragazze nuoresi erano passate sotto di lei. Chi poteva imparava a scrivere, ma tutte uscivano innamorate di Dio.

La casa dove era nata era grande e ricca ma in pochi anni divenne piccola e povera. Suo padre vedendo i continentali accatastare denari col taglio delle foreste, aveva creduto di imitarli e anche lui aveva fatto in principio fortuna. Ma una volta venne un temporale che durò tre giorni e le scorze che egli aveva accumulato all'aperto, in attesa del compratore che doveva ritirarle, marcirono tutte. Disperato si imbarcò per Livorno e da quel momento nessuno lo vide più; poco dopo la madre morì e rimasero sole Gonaria, Battistina, Tommasina, Giuseppina con un fratello che si chiamava Ciriaco.

Gonaria riuscì presto a diventare maestra, ed ebbe uno stipendio di 93 lire mensili, sulle quali si edificò la nuova dimora della famigliola. Le 93 lire andavano a finire nelle mani di Giuseppina, la sorella che pensava alla cucina e alle spese. Erano molto diverse l'una dall'altra e dormivano tutte nella stessa stanza perché avevano paura.

Ciriaco, il fratello prete, aveva preso gli ordini perché era l'unico modo che aveva per vivere con le sorelle. Gonaria, in particolare, lo circondava di cure, ne sopportava le asprezze del carattere, accettava le male parole con le quali egli talvolta le rispondeva. Ciriaco era un buon uomo, ma aveva fatto studi limitati.

Una casa di quattro sorelle nubili non è mai sola, infatti con regolare costanza venivano dal vicinato le altre vecchie nubili, entravano senza bussare nel soggiorno e sedevano immobili nella sera che invadeva la stanza, perché si risparmiava la luce.

Negli ultimi tempi la casa si era ingrandita un poco perché ai guadagni di Gonaria si erano aggiunti quelli del prete.

Tommasina, però, pensava che i pochi soldi che le consentivano venivano dalle ricchezze del suo passato ed era anche capace di distribuire i soldi ai poveri gettando nella disperazione Giuseppina, che su quelli doveva contare per sfamare la famiglia.

Il fratello prete, del resto, si manteneva estraneo a quel modo di vivere delle sorelle, anche se profittava degli agi che gli procuravano. Egli covava nel suo cuore semplice un grande sogno, quello di essere fatto canonico, per raggiungerlo, frequentava la curia, acquistandosi la fiducia dei vescovi che man mano si succedevano.


La vicenda di Gonaria, Giggia e Peppeddedda (Cap. XVIII):

Donna Vincenza era ormai rimasta sola nel grande sepolcro della casa. Anche Peppedda, la serva, si era sposata, le stanze non venivano più spazzate e un velo di polvere si stendeva sui mobili. Ora ascoltava i lamenti del marito con indifferenza perché quella differenza d'età tra i due ora si faceva sentire e il marito mostrava il peso dell'età. Era giunto anche per Don Sebastiano il momento in cui stava al mondo proprio perché c'è posto. Il tragico era che i figli tenevano tutti per la madre e il più ostile a lui era quel "merdoso ultimo", come Don Sebastiano lo chiamava nei momenti d'ira. Ludovico aveva aperto finalmente lo studio di avvocato. C'era però nella lunga giornata di Donna Vincenza un'ora di gioia ed era quando veniva a trovarla la cugina Gonaria. Pareva ormai certo che in settimana il vescovo si sarebbe espresso per la nomina a canonico di Ciriaco. Anche Donna Vincenza era contenta per questa notizia perché per quella famiglia ora tutto andava ricomponendosi, nel frattempo Sebastiano non scriveva mai e non si sapeva che cosa fosse di lui.

Il cordone rosso arrivò e per tre giorni la casa fu piena di gente, per la famiglia cominciava una nuova vita e bisognava prepararsi.

Tutto sembrava avviato verso il domani ma ad un tratto Ciriaco cominciò a tossire e poi arrivò la febbre. Nella casa scoppiò la pazzia. Gonaria parlava di un raffreddore trascurato e si faceva in quattro per soccorrere il malato e per la prima volta nella sua vita Ciriaco guardava con dolcezza questa sorella che aveva sempre creduto matta.

La verità era che per Gonaria, Ciriaco non poteva morire perché egli era canonico, cioè era la presenza stessa di Dio nella sua casa, la prova che Dio esisteva.

La morte, comunque, doveva venire e infatti venne e quando Ciriaco non ci fu più si scatenò la follia di Tommasina che vedeva i microbi e li teneva lontani con tutti gli accorgimenti possibili. Anche Battistina li vedeva ma Tommasina cominciò con l'impiastricciarsi le mani di sapone, per ungere il tavolo da pranzo specialmente nel punto in cui Ciriaco soleva mangiare. Nel frattempo Gonaria decise che la camera dove il fratello era morto era un tempio e nessuno sarebbe più entrato, così la chiuse a chiave e appena si trovò fuori si sentì precipitare in un baratro: era rimasta senza Dio perché Dio era rimasto là dentro. Aveva amato il creatore che ora si rivelava un fantasma, una realtà crudele. Col tempo cominciò a pensare che Dio non esisteva o che non arrivava a quel piccolo borgo, i nuoresi che vivevano tutti senza Dio avevano ragione. Restava quella stanza che non si sarebbe aperta mai più, quella in cui Dio era morto. Dalla morte del fratello Gonaria non andò più in chiesa e Donna Vincenza non la rivide più.

Passò il tempo e morì Giuseppina e con la sua morte, improvvisamente, Tommasina cominciò a star meglio, smise di disinfettare e bruciare, ma in compenso riprese l'antica mania di grandezza, convinta di essere ricca.

Secondo Tommasina esse erano ricche perché possedevano una casa propria e siccome era troppo grande per loro avrebbero potuto affittare una stanza, quella in cui era morto Ciriaco. Gonaria intuì subito il pericolo e con la sua volontà tentò di impedire alla sorella di realizzare il suo intento.

L'autore ci presenta Gonaria nella notte precedente il giorno l'apertura della porta (20 anni dopo la morte di Ciriaco) in attesa di un arcano messaggio. Sentì dei rumori e si affacciò alla finestra: qualcuno le disse che era morto maestro Manca. Entrambi avevano distrutto per vie diverse la loro vita.

Salvatore Satta ci presenta, ora, Giggia (un accenno era già stato fatto) che da giovane e bella era stata l'amica dei tagliatori di foreste che venivano dal continente e la facevano servire nuda a tavola. Ora vecchia e sola faceva la prostituta a San Pietro. E' difficile fare la prostituta a Nuoro senza diventare pazza ed infatti Giggia perse la coscienza di se stessa. Anche gli scapoli del caffè Tettamanzi erano stati suoi clienti e ora era invecchiata e si era coperta di piaghe ma era sempre una donna e poiché lasciava la porta aperta gli avvinazzati notturni entravano e la possedevano nel sonno. Chi se ne ricordava lasciava due lire in una scodella sul comodino. Quella mattina Giggia era stata sfrattata e adesso camminava per tutta Nuoro dicendo di essere morta.

Arrivò la mattina dopo e Gonaria attese molto prima di aprire la porta, ma quando lo fece sentì un odore di chiuso e di morte che le ferì le narici, vide un nido di topi scavato nella coperta e il letto stesso si reggeva in bilico a mala pena perché non appena vi si appoggiò cadde senza neppure uno scricchiolio. Dal soffitto a volta pendevano grappoli di ragnatele e i topi avevano divorato tutto ciò che si trovava nell'armadio. Non era più possibile per Gonaria restare nella casa dove Dio era morto., così uscì dalla casa e s'incamminò verso una larga strada bianca che portava al mare, perché era là che voleva arrivare, ma non aveva pensato che era una distanza immane e prese a camminare.

Non si fermò per tutta la notte e la mattina seguente vide una casa cantoniera. Sapeva che queste case erano distanti l'una dall'altra nove chilometri, dunque aveva fatto nove chilometri soltanto in tutta la notte. Si avvicinò alla porta e bussò per chiedere un po' d'acqua, ma in quella casa abitava una sua vecchia allieva che la invitò ad entrare e la fece sdraiare sul letto matrimoniale. La fuga dalla vita e dalla morte era finita. Allora le venne alla mente Peppeddedda, una sua allieva poco più che bambina, intelligente e studiosa che aveva lasciato Nuoro per Genova , dove ella aveva una zia, che serviva da anni una ricca famiglia, e i padroni, sentendo della sua intelligenza, si erano offerti di farla studiare.



Peppeddedda scriveva ogni settimana e poi d'improvviso ci fu il silenzio. Dopo due mesi arrivò una lettera della zia che diceva come Peppeddedda si fosse ammalata e fosse stata ricoverata al Santa Tecla (il tubercolosario). Don Sebastiano avrebbe detto che anche lei era andata "a cercare pane migliore di quello di grano".

Prof.: Il fratello Ciriaco è, per Gonaria, una controfigura del Dio supremo e nel momento in cui la sua presenza le viene a mancare cade in un baratro di disillusione religiosa che la porta all'autodistruzione.


La casa di Don Sebastiano e Donna Vincenza (Cap. 5):

La casa aveva due porte: il "porticino" che dava quasi sul Corso e che non si apriva mai se non quando si presentava qualche cliente di Don Sebastiano e il "portale" che dava sul dietro e che era sempre aperto al grande soffio della campagna.

Così la casa aveva due facce: una triste e una lieta.

C'erano intorno alla corte delle casette rustiche, ognuna delle quali prendeva il nome dai doni della terra che custodiva, la casetta dell'olio, la casetta del grano, la casetta della frutta e la casetta del forno nella quale, per cuocere il pane, venivano donne dal vicinato.

L'arrivo più atteso dal grande portale era quello dell'uva, nelle giornate di ottobre, dove si sarebbe fatto il vino per bere il quale i nuoresi avrebbero fatto lunghe file nelle bettole di Nuoro, quando non avrebbero attinto direttamente dalla cantina di Don Sebastiano, poiché il suo era il vino migliore di Nuoro.

La fine della vendemmia restituiva alla casa la sua solitudine.


Don Gabriele Mannu (ingegnere)

Cap.1: Abita nella casa in fronte a quella di Don Sebastiano, la casa signorile forse più vecchia di Nuoro. Egli è ricco e vive in miseria, ma era stato a Roma e aveva studiato.

Gli uomini del ceto di Don Sebastiano

Vi era in loro come un prolungamento del secolo dei lumi che si manifestava in un sereno e inconsapevole ateismo, senza avversione per la religione e neppure per i preti.


La politica:

La politica, per le persone del ceto di Don Sebastiano, che erano nate per lavorare, letteralmente non esisteva. Del resto a fare politica a Nuoro erano quei quattro o cinque avvocati che si presentavano eternamente candidati. Uomini come Don Sebastiano non solo non si mischiavano con la politica, ma non votavano neppure. Don Sebastiano era nuorese e quelli che facevano politica, i candidati, erano tutti dei paesi che guardavano a Nuoro come alla capitale. Nella mente dei loro figli si formava l'idea che bisognava diventare nuoresi per essere qualcuno e quest'idea li spingeva a studiare. Certo, nuoresi non potevano diventare ma l'asse del lavoro si spostava sempre più verso questi estranei.

Essere sindaco significava concedere spesso qualcosa.

C'era poi una cosa che i nuoresi non avevano avvertito, ovvero che la gente venuta da fuori, dal remoto continente, il sottoprefetto, il comandante della guarnigione, il capitano dei carabinieri. In breve i nuoresi si trovavano amministrati e rappresentati dagli estranei e, in fondo, non se ne dolsero, poiché era un fastidio di meno.


Il cimitero

Il VII capitolo inizia con la voce dell'autore che ci dice di essere stato, di nascosto, a visitare il cimitero di Nuoro. E' arrivato di buon mattino per non vedere e non essere veduto.

Apre una parentesi sulla questione.

La luce elettrica (immagine più inquietante dell'opera!):

La luce elettrica era venuta a Nuoro incredibilmente presto. Qualcuno che era tornato dal continente parlava di queste città che si illuminavano improvvisamente.

Mestro Ferdinando, che era muratore, prima dell'avvento della luce elettrica, si era assunto il compito di accendere ogni sera i fanali a petrolio, rito che tutte le sere attirava i ragazzi che gli correvano appresso nel tentativo di accaparrarsi i fiammiferi da lui usati.

La luce arrivò in una gelida sera di ottobre. Tutto il paese era uscito di buon'ora per assistere piena di diffidenza e anche di malaugurio all'evento. Quando le luci si accesero un urlo immenso si levò per tutto il paese che sentiva di essere entrato nella storia. I fanali a petrolio che a Nuoro restavano attaccati morti nei muri furono venduti al paese di Oliena, dove risiedevano i vicini poveri.

Riprende la parola l'autore dicendo di essere tornato a Nuoro, tra un piroscafo e l'altro, per vedere se riesce a mettere un po' d'ordine nella sua vita, a riunire i due monconi, a ristabilire il colloquio senza il quale quest'opera non può continuare.

Dice che percorrendo le vie della sua città natale nessuno lo riconosce. Quando arriva al cimitero cerca Milieddu (il becchino di tutti i nuoresi) ma non lo trova, perché già morto e si chiede chi sarà stata a seppellire lui, che tutti aveva seppellito. In realtà non era altro che un contadino, dice l'autore, sia pure sottratto ai rischi e alle intemperie. Era un uomo buono e pareva chiedere scusa ad ogni uomo di doverlo seppellire.

Quando si parlava, a Nuoro, e qualcuno chiedeva se proprio era sciuro di quel che diceva, la risposta era "Sicuri si è in mani di Milieddu", insomma a Nuoro la morte aveva un nome.

L'autore torna a parlare del suo viaggio e ci racconta che il cimitero si è dilatato e che trova nomio che non gli dicono nulla, finchè non giunge al luogo che rappresenta la ragione del suo viaggio, quella parte del cimitero in cui sono seppellite le persone di cui parla l'opera: la famiglia Mannu, Boelle Zicheri, Don Gaetano Pilleri, Maestro Manca (ucciso dall'ultimo bicchiere di vino che stava assorbendo), Pietro Catte (quello che si era impiccato ad un albero la notte di Natale)

Dice che in questo remoto angolo di mondo, da tutti ignorato fuorché da sé stesso, sente che la pace dei morti non esiste, che i morti sono sciolti da tutti i problemi, meno che da uno: quello di essere stati vivi.


Don Pasqualino Piga è una figura comica ma allo stesso tempo angosciosa. Era alto, bello e ricco e aveva la vocazione per l'industria (è quindi profeta di modernità), quasi unico tra i nuoresi. Al limite di Seuna aveva impiantato un mulino a vapore, con annesso un pastificio, dove i suoi figli lavoravano come e più degli operai. Questo mulino fa fermare gli asinelli di Nuoro e perciò spegne i valori morali primari. Restavano in casa le donne (la vecchia Donna Rina, la madre di Don Pasqualino, la moglie Donna Angelica e le sue figlie, una più bella dell'altra).

E' lui che spegne tutte le fiammelle di Nuoro, introducendo la luce elettrica.


La scuola

La scuola era il convento dei francescani che in un tempo lontano era stato soppresso e incamerato con tutti i beni degli ecclesiastici.

Maestro Mossa usciva alle 8.30 tutte le mattine (tranne il giovedì e la domenica che in quei tempi erano giorni di vacanza). Maestro Mossa si incamminava per i vicoli saltellando e da ogni porta usciva un ragazzino e si univa agli altri che gli andavano appresso. Il maestro si arrestava alla soglia del Convento.

Nell'aula in cui Maestro Mossa insegnava, la cattedra (che non era altro che un tavolino) era raggiungibile percorrendo quattro gradini, che erano visibilmente i gradini di un altare. Il maestro, che era religiosissimo, non saliva mai quei gradini e se ne stava davanti ai ragazzi.

Prima di cominciare la lezione faceva alzare in piedi gli alunni e tutti si facevano il segno della croce e ripetevano le parole del padre nostro.

Aveva 50 anni e non era nuorese ed era figlio di contadini. Si era sposato con una buona donna e aveva messo al mondo due figli, che non erano molto intelligenti e occorreva che egli trovasse loro un lavoro.

Le scuole erano fatte in modo che i maestri seguissero i ragazzi dalla prima alla terza e un altro maestro li rilevava per la quarta e la quinta. In quella scuola tra maestro e scolaro si stabiliva un rapporto umano: Maestro Manca tesseva le lodi del vino che già dal mattino gli impregnava le vene, Maestro Murru si sfogava coi ragazzi contro la moglie che gli rendeva la vita difficile per le modeste risorse. Lo stesso, del resto, valeva per i ragazzi, perché ognuno, povero o ricco, recava in classe il suo mondo particolare che lo faceva essere lui.

Egli aveva creduto per un momento che si sarebbe aperta con lui una nuova era per la sua famiglia: ma ora guardando i figli che ripetevano le vecchie generazioni capiva che la sua era stata una parentesi.

Zio Longu era il bidello, anch'egli era un mezzo maestro avendo imparato a leggere e scrivere.

Maestro Manca quando varcava la soglia della scuola aveva già quattro o cinque bicchieri di vernaccia in corpo. E' passato nella vita con il nome di Pedduzza (pietruzza). Maestro Manca aveva questo vizio di bere, che del resto era di tutta la sua famiglia. Ma era un uomo buono ed era straordinariamente dotato, perché suonava la chitarra, componeva poesie ed era molto abile nel mimare la gente. Diceva che la sua disgrazia era quella di aver sposato una continentale e forse era vero, ma non avrebbe dovuto raccontarlo ai ragazzi della scuola. Di quando in quando aveva degli scoppi di collera e i ragazzi si erano organizzati perché ciascuno ne fosse, a turno, la vittima.

Maestro Fadda era uno di quegli uomini che non ride mai, come Don Priamo. Insegnava nelle classi superiori e non credeva molto in Dio. Quando entrava nella sua classe appariva pacato, un po' perché lo era, un po' per il tabacco da fiuto, di cui era ghiottissimo.

Un giorno comparve nella vecchia casa dei frati un altro maestro, giovane ma non giovanissimo, perchè veniva dalle scuole dei paesi. Era sardo, ma non aveva un nome sardo, si chiamava Marinotti. Era un buon uomo e la sua profonda aspirazione era quella di diventare un giorno ispettore scolastico, una carica istituita di recente. Con i ragazzi si mostrava affabile, anche se un po' riservati ed essi apparivano rassicurati.

A lui furono assegnate subito le classi superiori e fece lega con il più screditato dei maestri, che era Ricciotti Bellisai: suo padre Don Dissente era stato molto ricco, la casa di Lureneddu, così come la tenuta di Isporosile erano sue. Una notte però si giocò alle carte per dispetto Isporosile, che infatti oggi è di Giovanni Maria Musiu (il padrone del caffè). Loreneddu, invece, passò nelle mani di Don Sebastiano.

Don Ricciotti manteneva se stesso, il padre e la famiglia col suo diploma da maestro e non degnava i Mossa, i Manca e i Fadda di un saluto.

I tre vecchi maestri avevano l'oscuro presagio del proprio tramonto e Don Ricciotti assecondò subito le mire del nuovo arrivato, si mise a parlare come lui, e trovò giusto che egli fosse nominato direttore didattico. Il primo segno che qualche cosa cambiava si ebbe una mattina quando Maestro Mossa si accorse che il suono della campanina del Convento non accompagnava i suoi passi. Al Convento trovò zio Longu con la faccia nera a dirgli che da quel giorno la campana non si avrebbe suonato più.

La campana della scuola era una delle due voci di Nuoro, l'altra era il rullo del tamburo di Ziu Dionisi, il banditore municipale, ed era la voce serale, come quella della campana era la voce mattutina.

Maestro Mossa era religiosissimo e per lui quella campana ferma non era la voce di Nuoro, era la voce di Dio che si spegneva.


I vescovi, i canonici e i mendicanti (Capitolo IX):

Un oscuro medioevo si estende per due secoli dopo il fantomatico Mons. Roich. Il primo vero vescovo di Nuoro è stato Mons. Dettori che era ricco e aveva portato con sé la sua ricchezza. Arrivò nell'ultimo quarto dell'800. I piccoli indigeni nuoresi videro scendere dalla carrozza un uomo alto e grosso che li benediceva dall'alto e sorrideva. Il vescovo non era venuto solo ma portava appresso due fraticelli, che curavano la sua mensa: fratel Giossanto e fratel Baingio. Mons. Dettori fece del palazzotto vescovile una reggia.

Egli sapeva benissimo che sarebbe andato in un luogo inameno, dove non c'erano che poveri, ma appunto questo contrasto con la sua civile Gallura lo aveva affascinato.

I suoi modi erano così gentile che parve alla gente un messia.

I notabili sentivano che qualche cosa stava per cambiare nella vita di Nuoro. Un giorno Mons. Dettori li invitò a pranzo per la domenica successiva dopo la messa.

I nuoresi avevano per natura uno spirito laico perché conoscevano i preti uno per uno, e non li stimavano, salvo il rispetto per l'estrema unzione. Perciò accolsero lo strano invito con diffidenza. Quando arrivò quel giorno, però, prima di sedersi a tavola tutti si fecero il segno della croce, se non altro per non dispiacergli. Dopo pranzo il vescovo si alzò, disse le parole di ringraziamento, e tutti fecero coro poi tutti se ne andarono e ciascuno fu quello di prima.

Per la prima volta i nuoresi si accorgevano di avere un vescovo. E il guaio è che sarebbe diventato il modello di tutti i vescovi, perché egli era caritatevole e aveva istituito addirittura un elemosiniere, nella persona di fratel Giossanto, poiché Nuoro era piena di mendicanti:

Poddanzu arrivava da Seuna. Era semplicemente rimasto bambino a 70 anni e così, morti i suoi, si era ritrovato solo.

Zesarinu veniva da San Pietro, ma egli non era isolato perché solo non avrebbe potuto assolutamente vivere: aveva trovato un ricettacolo presso due vecchie continentali sardizzate e tornava utile perché all'imbrunire si caricava sulle spalle una latta con tutti i rifiuti di quelle povere donne.

Dirripezza pare fosse di buona famiglia, ma ora non aveva più braccia per lavorare e sedeva sul lastricato senza mai chiedere nulla.

Sa Tataja (che vuol dire la balia), il cui nome diceva che aveva avuto figli e aveva allevato figli altrui, ed era stata tre o quattro volte a Tunisi, dove le donne scappavano quando restavano incinte, per "farsi il bastardo".

Baliodda portava il costume del lutto, non si sa per chi.

Tutta questa gente si incamminava ogni venerdì verso l'episcopio.

Il Signore chiamò a se Mons. Dettori e fu certamente un errore perché il vescovo si portò appresso il suo mito e i preti di Nuoro ripresero a guardarsi in cagnesco.

Il nuovo pastore fu Mons. Canepa, che aveva un nome continentale ma era cagliaritano, quindi si presentava già male. Egli era increbilmente pio e aveva un particolare culto per la Madonna. Egli aveva solo un torto: aveva una fitta schiera di nipoti, lasciategli sulle spalle da un fratello e da una sorella che gli erano morti e ai quali aveva dovuto provvedere. Tanti ne aveva sistemati alla buona ma gliene restavano quattro, i più giovani e con essi egli era sceso dalla carrozza.

La verità è che essere vescovo a Nuoro non era una cosa facile. C'era una sola parrocchia e parroco era il canonico Monni, che si avviava da tempo alla novantina. Canonico Monni aveva una missione da compiere, teneva le fila dei destini di tutti i nipoti.

L'arciprete Pirri, che viveva in un'ala dei vasti dominari dei Corrales, nel cuore di San Pietro non usciva più (così come il canonico Monni). Il suo viaggio quotidiano era dal letto alla poltrona e solo a guardarlo si capiva che nella lunga vita non aveva mai sorriso. Egli governava tutta la dinastia dei Corrales che erano una banda di predoni e il fiero istinto si era conservato anche negli altri discendenti, molti dei quali si erano laureati e imborghesiti.

Canonico Pirri, prete onesto e incapace di male, si era acquistato il rispetto di tutti i parenti anche perché era molto ricco di suo e ora ripensava al pericolo che aveva corso l'intera famiglia con la tenebrosa faccenda dell'avvocato Orecchioni. Quello era stato il suo capolavoro anche se da quel giorno era cominciato quel maledetto affanno che gli toglieva il sonno. L'avvocato Orecchioni, zio Mario per il nepotame dei Corrales, era avvocato per modo di dire perché non faceva nulla dalla mattina alla sera e si era estraniato dal parentado. Abitava comunque a San Pietro, curato da una serva che aveva fatto una bastarda, la ragazza crebbe ma un giorno sparì. Nessuno si preoccupò, tanto più che a diciassette o diciotto anni le ragazze di Nuoro sparivano tutte, andavano a Tunisi per farsi senza vergogna il bastardo. Dopo qualche tempo, infatti, la ragazza tornò con un bambino appresso, al quale aveva dato il nome del suo vecchio padrone, ma il Mario grande non volle in casa né il Mario piccolo né sua madre. Ora il piccolo Mario era diventato un muratore o un fabbro, come tanti altri.

L'autore poi ci illustra Zia Luisa, mentre riflette sulla tanca di Mario, che era suo cognato, che confinava con la tua di suo marito, del resto tutti i domini dei Corrales erano vicini poiché venivano da un unico ceppo. Zia Luisa pensava che quella tanca fosse una meraviglia e si chiese che cosa ne avrebbe fatto Mario, che era vecchio oramai.

Quando Mario morì subito si sparse la notizia e le varie generazioni dei Corrales penetrarono nella casa.

Bersagliere (un membro della famiglia) si avvicinò alla serva chiedendola se il padrone avesse lasciato qualcosa e lei rispose che prima di ammalarsi aveva cercato una penna e un calamaio e si era messo a scrivere nell'altra stanza. Così dicendo di andare nell'altra stanza per indossare la cravatta, Bersagliere, rovistò tra le carte del morto e ci trovò il testamento, all'interno del quale c'era scritto che zio Mario lasciava tutti i suoi averi a suo figlio naturale, Mario. Bersagliere piegò la busta e se la mise in tasca.

In seguito la serva era corsa anche lei a cercare il testamento e dopo l'interro cominciò a spargere la voce che c'era una copia del testamento.

Così canonico Pirri aveva chiamato uno per uno i suoi famigliari e li aveva minacciati che avrebbe lasciato tutto il suo alla Chiesa e si era fatto consegnare il testamento. Allora aveva chiamato la vecchia e le aveva offerto del denaro in cambio degli averi del defunto e la serva accettò.

Ma canonico Monni e canonico Pirri erano ormai estranei alla Chiesa e, destinato a diventare arciprete quando canonico Pirri sarebbe morto, era canonico Floris.

Canonico Floris non disdegnava la vita mondana e qualche volta si sedeva anche ai tavolini del caffè Tettamanzi. Gli altri canonici lo odiavano ma sentivano la sua superiorità.

I sei o sette preti vivevano praticamente di elemosine. Qualcuno aveva un campiello che continuava a coltivare, ma i più soffrivano la fame.



Cap. XI:

Caffè Tettamanzi: qui i signori esercitavano il diritto di non far niente. Era una caffè grazioso, con piccole salette orlate di divani rossi. Proprietario del caffè era adesso Giovanni Maria Musiu.

Don Ricciotti passava la vita al caffè Tettamanzi, lo stesso dove suo padre si era giocato tutto il patrimonio. Ma egli non mangiava e non bevevo, stava là, perché la casa che gli era rimasta gli riusciva insopportabile, spoglia com'era di tutto. Meditava di presentarsi a Don Sebastiano e chiedergli la restituzione di Loreneddu.

Boelle Zicheri e Paolo Bartolino erano i personaggi più cospicui della vita del caffè, perché erano ricchi e continentali di origine. Boelle era farmacista, mentre Paolo Bartolino era piemontese, si era dato agli appalti e si era fatto la casa in stile veneziano che è attaccata al caffè e sovrasta tutte le altre. Erano scapoli entrambi.

Maestro Manca faceva spesso le spese della compagnia era passato qualche anno da quando lo abbiamo conosciuto e ora mezzo bicchiere di vino bastava ad ubriacarlo e le mani cominciavano a tremargli. Aveva una terribile paura di morire e poiché gli si era gonfiata la vena della tempia, si era messo in mente che quella dovesse rompersi e che da lì sarebbe venuta, un giorno, la sua morte.

Pietro Catte ora era un uomo fatto. La sua disgrazia era che aveva imparato a leggere e a scrivere, perché lo avevano assunto come fattorino nella prima corriera che avevano istituito a Nuoro, ed egli si era fatto sorprendere a far viaggiare la gente senza staccare il biglietto. Lo avevano licenziato e ora, sempre vivendo alle spalle di quella zia che non aveva altri al di fuori di lui, se ne stava lì a occupare un tavolino del caffè.

L'autore ci scrive che è da due settimane che ha interrotto il suo racconto e che è stato proprio Pietro Catte a fermargli la penna. La sua figura gli si è parata davanti nella sua totale inutilità. Inutile come Boelle, come Bartolino, come Don Sebastiano e Don Pasqualino, come Nuoro intera. Pietro Catte ha tentato di sottrarsi alla realtà impiccandosi ad un albero.

Fileddu poteva considerarsi come il buffone di quella corte che era il caffè Tettamanzi. In effetti era un tranquillo demente che aveva concepito l'idea di accompagnarsi ai signori, credendosi signore anche lui. Era il cane fedele di Boelle Zicheri e sedeva al suo stesso tavolo, che poi era anche quello di Bartolino. Una sera fu proprio Bartolino a dirgli che si sarebbe dovuto sposare e a proporgli di fare la corte a Carolina, la figlia di Don Pasqualino, una delle più belle ragazze di Nuoro. Così, l'indomani, Fileddu avrebbe cominciato a passare sotto le finestre e avrebbe atteso le sue uscite.

Ma la madre di Fileddu, demente anche lei, seguiva mmobile la scena di là dai vetri della porta, come sempre avveniva, e nell'istinto avvertiva l'ingiustizia che si consumava là dentro, sentiva che doveva salvare suo figlio e aspettava per ore che tutti se ne fossero andati per raccogliere questo suo figlio.


La vicenda di Pietro Catte (Cap. XVII):

Dopo anni in cui viveva rattrappita su una poltrona era morta la zia di Pietro Catte e l'aveva lasciato erede di tutti i suoi beni. Da quel giorno Pietro Catte non mancò mai una sera al caffé, ma si vedeva chiaramente che non era più lo stesso di prima, ora mal sopportava le beffe della gente comune. Pietro andava in giro dicendo che era ricco e chi avrebbe mai pensato che la zia Mariantonia avesse tanti soldi? Ma il guaio fu che ad un certo punto gli venne a noia la vita inutile dei nuoresi. La fama di Milano dove i soldi si moltiplicavano solo a guardarli era arrivata sino a Nuoro e là sarebbe andato.

Una sera bussò alla porta di Don Sebastiano e andò ad offrirgli in vendita la casa e la terra aperta: tutta la sua eredità. Don Sebastiano gli aveva risposto che andava cercando pane migliore di quello di grano.

La casa e la terra furono comunque vendute ad un'altra persona e Pietro Catte prese il treno, in seconda classe, tra i veri signori, ai quali non tardò a raccontare dell'eredità e che aveva centomila lire in tasca. Gli si presentò un signore che gli chiese se avesse qualcuno a Milano e Pietro Catte gli rispose di no, così lui che possedeva un quartierino dove non andava mai e che glielo offriva. Prima di salutarlo gli porse le chiavi e gli scrisse l'indirizzo.

Pietro Catte trovò la casetta e si addormentò subito, il mattino seguente fu svegliato dal signore gentile del treno che lo invitava per pranzo in Galleria, al Savini.

A tavola il signore si affrettò a presentarlo ad un grosso industriale che voleva conoscerlo. E' chiaro che si trattasse di un imbroglio e l'imbrogliato era Pietro Catte. Per lui, ora, c'era un punto fermo soltanto ed era Nuoro, che la realtà del mondo.

Arrivò a Nuoro in una sera tempestosa e gli vide un gregge di morti (Boelle, Fileddu, la zia) e di vivi (i giocatori di tresette, Bartolino, Don Sebastiano), la sua coscienza lo accusava. Poi raggiunse la quercia di Biscollai e qui s'impiccò, spinto dal diavolo.

Pietro Catte è un esule che non ha più nessuna possibilità di riscatto e non ha nessuno a cui fare riferimento (individualismo assoluto).

Tradire Nuoro è trasgredire la legge dell'appartenenza e strappare i legami è strappare il rapporto con il senso. Chi tradisce le sue origini è perseguitato da un voce che punisce dal di dentro.


La morte di Boelle Zicheri e di Fileddu (Cap. XIV):

Ognuno dei personaggi di questa storia stava invecchiando e i clienti del caffè Tettamanzi erano aumentati, perché la tendenza all'imborghesimento e dei pastori e dei contadini creava disoccupazione.

Boelle Zicheri era ora affetto da tremore per colpa del quale ora non riusciva neppure a portare alle labbra il bicchiere. Il farmacista aveva calcolato che ne avrebbe avuto ancora per qualche mese. Così avrebbe cercato Don Sebastiano perché lo aiutasse con il testamento, ma prima voleva scrivere di suo pugno due righe. Come tutti gli scapoli nuoresi odiava i preti e perciò scrisse che al suo funerale non avrebbe voluto né preti né croci e che il suo corpo sarebbe stato gettato nella terra nuda, senza nome.

L'indomani mattina alle sette era già in farmacia attendendo che Don Sebastiano passasse davanti alla porta, lo chiamò all'internò e gli lasciò una busta nella quale erano racchiuse le sue volontà. Nel testamento avrebbe poi scritto che avrebbe lasciato tutti i suoi avere all'Ospedale.

Boelle Zicheri morì quasi d'improvviso in una notte di maggio e quando fu avvertito, Don Sebastiano aprì la busta che gli era stata affidata. Fu un coro di proteste: la vergogna per la famiglia, la dannazione per l'anima.

Dopo circa un mese dalla morte di Boelle qualcuno si accorse che Fileddu non si faceva vedere e poco dopo lo scoprirono morto. E allora venne uno dei più strani che l'autore ancora oggi non si riesce a spiegare: cominciarono a muoversi dalle loro case le donne del popolo, i pastori e persino i principali della grande dinastia dei Corrales e i signori di Santa Maria. Così Fileddu ebbe la sua gloria.


Il riscatto di Don Ricciotti (Cap. XIII):

Don Ricciotti disprezza tutti quei gaudenti che popolavano il caffè Tettemanzi. In quel periodo a Nuoro arrivavano giornali mai visti prima, come l'"Avanti!". Cominciò così per Nuoro il tempo della confusione. Nel corso dell'anno ci sarebbero state le elezioni politiche e Don Ricciotti si sarebbe presentato come candidato. Un'idea folle perché i deputati di Nuoro erano stati sempre avvocati.

Con San Pietro non c'era nulla da fare, quelli erano ricchi o ladri o entrambe le cose e perciò non avevano bisogno di lui. Il centro, il borgo di Santa Maria era la sede del nemico: là stava Don Sebastiano, Don Pasqualino, Don Serafino e tutti gli altri come Don Sebastiano. Restava il borgo contadino di Seuna, dove tutti vivevano alla giornata e non sapevano di essere poveri perché non conoscevano la ricchezza. Don Ricciotti giurò, così, a stesso che i contadini di Seuna gli avrebbero restituito la casa di Loreneddu.

A Seuna abitavano molti dei suoi scolari che, fallita la scuola, avevano rimesso il costume e decise di andare a trovarli per raccontare loro le ingiustizie che subivano senza saperlo, di Dio che aveva creato la terra e c'era chi la possedeva e chi l'arava e di una possibile resurrezione. Il suo scopo era soltanto quello di aprire nei loro cuori una speranza; dopo avrebbero odiato i signori del centro, i naturali ostacoli alla speranza. Anche zio Poddanzu che aveva la sua umile dimora a Seuna, anche se la sua esistenza si svolgeva a Locoi, era rimasto pensoso una volta che l'aveva sentito e decise di chiedere un parere a Don Sebastiano, che gli rispose che questo Ricciotti Bellisai era un'immondezza. Zio Poddanzu accettò la definizione e non ci pensò più. Ma la fama di Don Ricciotti si spargeva sino a San Pietro e persino nel borgo di Santa Maria. Don Ricciotti andava dicendo che la cosa pubblica era di Dio e quindi dei poveri e che era ingiusto che il sindaco e gli assessori si tenessero tutti quei beni, infatti se si fosse arrivati alla ripartizione degli stessi ogni senese avrebbe arato il suo pezzo di terra. Fu in mezzo a questi discorsi che egli lanciò di costituire un'associazione che alle prossime elezioni si sarebbe trasformata in partito.

L'indomani mandò Dionisi ad annunciare per tutta Nuoro che chi voleva iscriversi all'associazione di Don Ricciotti doveva andare ad apporre la firma la domenica successiva.

Nelle case dei nobili e dei borghesi si tremò, la sera Don Pasqualino, Don Gabriele, Don Sebastiano e tutti gli altri scesero in farmacia per consultarsi. Don Sebastiano pensava, senza però manifestarlo, che Don Ricciotti tesseva qualche trama per Loreneddu. Quella domenica era il giorno della Pentecoste e Don Ricciotti aveva messo un tavolo nel suo magazzino con un registro e una matita. Ad uno ad uno i seunesi avanzavano verso il tavolino di Don Ricciotti, che salutava tutti con il nome e con il nomignolo (perché il soprannome non era considerato un'offesa) e su quel libro tracciavano il segno di croce.

Don Ricciotti sentì che doveva parlare e dire in pubblico le cose che aveva sussurrato nelle case e sul sagrato di Seuna e, montato sul tavolino, si espresse. Da tutte le parti fu un accorrere affannato di gente e i figli di Don Sebastiano furono tra i primi perché la loro casa non era lontana.

Terminato il discorso si levò un urlo dal fondo della piazza, che non proveniva dai contadini di Seuna ma dai figli di Don Sebastiano, di Don Pasqualino e degli altri borghesi di Nuoro.

In quei giorni non si parlava d'altro, Don Sebastiano tutto avrebbe immaginato meno che quel farabutto di Ricciotti Bellisai avrebbe trovato credito nella sua famiglia. Finalmente un giornò sbottò e in casa si accese una discussione, nella quale si arrivò persino a mettere in dubbio la legittimità del possesso di Loreneddu. Donna Vincenza, in questo atteggiarsi dei figli in favore dei poveri, vedeva un altro segno della loro incapacità di vivere, poiché erano pronti alla rinuncia per quattro parole che avevano sentito.

Un giorno arrivò la notizia che a Roma avevano sciolto le camere e che presto ci sarebbero state le elezioni. Don Ricciotti aveva calcolato il suo rischio e aveva concluso che se avesse perduto sarebbe stata la sua fine. Così, una sera, si presentò a casa di Don Sebastiano e chiese di parlare con lui. Gli disse che si presentava deputato e che se fosse stato eletto tutti i signori di Nuoro se ne sarebbero pentiti e gli chiese di restituirgli Loreneddu, altrimenti se la sarebbe ripresa con la forza. Ma da Don Sebastiano ricevette una risposta negativa e così se ne andò via.



Don Ricciotti aveva ridotto il problema politico di Nuoro in termini semplicissimi, ovvero ad una lotta dell'uomo contro l'uomo, la sola che quei seunesi e i miseri di tutte le contrade potessero capire.

Si espresse ancora una volta in pubblico dicendo che il monte Ortobene era dei seunesi non più di 50 fa e che il sindaco Mereu avrebbe voluto darne un pezzo ma che oggi il monte era dei Corrales. Poi si mise a parlare dei padroni di Nuoro, che sono signori e li indicò, tendendo la mano verso la farmacia dove essi risiedevano. Si scagliò contro Don Gabriele Mannu, contro l'avvocato Porru e infine contro Don Sebastiano che sapeva che tutte le infamie precedenti erano solo una scusa per consumare l'infamia più grande, quella contro di lui. Rimasero fuori dal suo tiro Boelle Zicheri, Paolo Bartolino e Giovanni Maria Musiu perché Don Ricciotti doveva conservare il tavolo al caffè Tettamanzi, da dove lo avrebbero altrimenti cacciato.

Canonico Pirri aveva, dopo quel giorno, chiamato al suo capezzale tutti i nipoti che sapeva più facili all'ira e alle azioni sconsiderate, poiché sapeva che altrimenti le ore di Don Ricciotti avrebbero potuto considerarsi contate. Ordinò ai nipoti di non fare nulla che i loro figli avrebbero dovuto cambiare costume e non si sarebbero potuti presentare al mondo come figli di assassini. Aggiunse che a questa questione ci avrebbe pensato lui stesso.

L'indomani, raccogliendo le poche forze che gli restavano, spedì un messaggio a canonico Monni, assicurandogli che San Pietro avrebbe votato compatto per suo nipote, il dottor Porcu. Poi cominciò a chiamare uno per uno i pastori e i servi di San Pietro. Chi cosa disse loro non si saprà mai.

Sui seunesi non poteva far nulla, perché quelli si confessavano da prete Porcu, che si era messo dalla parte di Don Ricciotti. Poi, Canonico Pirri, chiamò a se Paolo Masala, il formidabile oratore e altro candidato dicendogli che la domenica seguente Don Ricciotti avrebbe parlato dal balcone di casa sua e dopo l'ultima parola egli sarebbe apparso dal balcone della casa di fronte.

Quel giorno Paolo Masala urlò con la sua voce di piombo.

Don Ricciotti perse le elezioni, ma non perché Paolo Masala lo aveva subissato con la sua eloquenza, bensì perché la notizia che Don Ricciotti avesse offeso Don Sebastiano era giunta fino a ziu Poddanzu ed egli era senese. Il giorno prima delle elezioni si era avviato a piedi a Nuoro e arrivato a Seuna aveva afferrato il primo che aveva incontrato e gli aveva rinfacciato le giornate di lavoro che Don Sebastiano non aveva mai fatto mancare, le festose vendemmie nelle sue vigne e l'umiltà di quel suo compare.

L'anno della confusione era terminato.

Prof. . Don Ricciotti è una figura storica, poiché rappresenta in Sardegna il primo socialismo (nel romanzo troviamo una mescolanza tra verità storica e invenzione).

Ci viene presentato con una metafora negativa ("Eloquente come un messia", per via della sua capacità di predicare alle masse). Vuole sovvertire l'ordine. In tutto il romanzo solamente in questo capitolo ritroviamo una prefigurazione del giorno del giudizio, in quando proprio quest'ultimo viene trasfigurato in parodia.


La guerra (cap.15):

Una sera, sul giornale che Don Sebastiano leggeva quotidianamente, i titoli annunciavano l'uccisione di un arciduca austriaco in un paese della Serbia. Attraverso un velo di pianto lesse che l'Austria minacciava la guerra alla Serbia, e queste guerra avrebbe trascinato tutta l'Europa.

Don Sebastiano aveva, nel 1914, aveva 64 anni, che per quel tempo erano molti ma se li portava benissimo.

Nella vecchia casa erano rimasti il piccolo Sebastiano e Peppino (che però l'anno venturo sarebbe partito anche lui per Sassari o Cagliari) e poi trascorreva a casa lunghi periodi Ludovico, la cui nevrosi si era accentuata, e frequentava poco la facoltà di legge alla quale si era iscritto.

Pian piano, per il suo forbito parlare andava diventando il punto di riferimento della famiglia e lo stesso Don Sebastiano cominciava a consultarlo nelle difficoltà che incontrava.

Nel frattempo Donna Vincenza vedeva le sue gambe ingrossarsi sempre più, i denti devastati e la vista velata, ma Sebastiano e Peppino le erano rimasti attaccati.

L'autore ci racconta poi di Antoni Mereu, un contadino che viveva ai margini di Seuna, che aveva un campicello e questo lo metteva sopra gli altri. Era compare di Don Sebastiano che aveva tenuto il suo unico figlio a battesimo. Antoni Mereu si era messo a sognare e il sogno era quello di avviare suo figlio agli studi. Mandò il figlio a scuola e alla licenza normale ci sarebbe arrivato. Antoni Mereu lavoravo come una bestia aspettando quel giorno. Ma ognuno deve seguire il proprio destino e infatti d'improvviso il figlio si ammalò e la colpa di tutto questo era sua, perché aveva voluto sognare.

Gaetano si era laureato con grandissima lode in medicina e lo stesso avrebbe fatto Michele che studiava da ingegnere. Pasquale, che sembrava destinato a perdersi, era stato salvato da Ludovico. Pasquale era certamente intelligente ma non aveva voglia di studiare, perciò l'onta di un figlio inutile gravava sulla famiglia. Ludovico andò a parlare con il direttore del ginnasio e insieme presero la decisione di avviare Pasquale agli studi tecnici, rinunciando a farlo laureare. Furono giorni di lutto per don Sebastiano, ma Pasquale avrebbe studiato ragioneria.

La vera grande pena era per Giovanni, il maggiore dei fratelli, poiché la bellissima figlia di Don Pasqualino era morta e da quel momento pareva ch'egli fosse entrato in un alone di follia. Aveva raggiunto l'università, anche lui nella facoltà di legge, ma era andato fuori corso. La tragedia era quando, dopo le sconfitte agli esami, ritornava a casa. Pareva, infatti, che quel disgraziato odiasse la famiglia.

Quella sera Don Sebastiano comunicò la notizia dell'arciduca ucciso e Ludovico disse che, se non avesse avuto quella nevrosi gastrica, sarebbe andato volontario. Solo Donna Vincenza capì che in guerra si muore e che dei sette figli cinque erano esposti a morire, se l'Italia entrava in guerra.

Il mondo entrò in guerra e l'Italia rimase, per un anno, sospesa sull'orlo dell'abisso.

La guerra venne e così i figli di Donna Vincenza presero la via del fronte. Essa rimase nella casa con i due più piccoli e con Ludovico e Giovanni che erano stati scartati. I rapporti con Don Sebastiano si esasperavano, preda del suo sentimento non aveva voluto far nulla per nascondere i figli.

La guerra si faceva sentire a Nuoro che davano notizia dei caduti al fronte. Vennero poi in casa di Don Sebastiano due fogli di carta coi quali si chiamavano alle armi Giovanni (che aveva più di 30 anni) e Peppino (che ne aveva 18). Peppino era poco più che un adolescente e lo volevano proprio per ammazzarlo, così Sebastiano rimase solo nella casa deserta, perché Ludovico era andato a Sassari.

Fin dai primi giorni il governo aveva mandato al confino una ventina di persone, che si erano sparse per il paese, la maggior parte erano ebrei, ma c'era anche una famiglia di mezzi zingari composta da due sorelle e un fratellino di dodici anni che appena sceso dal treno si mise a trottare gridando "cilolaicì" e quello fu il suo nome. Don Gaetano Pillori ne ebbe pietà e lo assoldò come strillone, ma in breve morì e il cimitero di Nuoro lo ricevette e poiché non aveva un nome non si sapeva neppure se fosse realmente esistito.

Intanto Peppino era stato mandato all'ospedale e scriveva della sua lieve indisposizione che lo teneva lontano dal fronte. Finalmente un giorno giunse un telegramma nel quale Peppino annunciava che sarebbe presto tornato con una lunga licenza. Era un mattino di aprile, Don Sebastiano andò per tempo alla stazione e quando il treno si fermo emerse dall'unica vettura uno spettro che avanzava barcollando verso il padre. Quando tornarono a casa Don Sebastiano si rese conto che per lui non c'era speranza e cominciò così la sua lenta discesa verso la morte. Il dottor Manca consigliò di far cambiare aria al malato, così si pensò a Locoi, dove Sebastiano e Peppino vissero la loro ultima favola.

Ziu Poddanzu stava sempre vicino al malato e gli raccontava dei tempi in cui anche lui era stato soldato.

Dopo qualche tempo Peppino fu riportato a casa, era arrivato ottobre e ormai non si alzava più. In novembre Ludovico allontanò dalla stanza Sebastiano, che continuava a non capire, e Don Sebastiano e Donna Vincenza si disposero intorno al letto. La guerra era finita e Peppino se n'era andato.


La fine della guerra, il ritorno di Giovanni e la partenza di Sebastiano (Cap. XVI):

Un'ondata di panico parve sconvolgere la famiglia. Ludovico aveva intanto preso la laurea.

La famiglia di Don Sebastiano aspettava e temeva il ritorno di Giovanni che era riuscito a prendere la laurea in un'università improvvisata per i soldati. Quando finalmente arrivò apparve un uomo radicalmente cambiato, non aveva mutato l'atteggiamento verso la famiglia, ma almeno non stava tappato in casa, anzi era spinto a una continua evasione, a mescolarsi in quel mondo imbastardito che era venuto fuori dalla guerra. Infatti in Sardegna erano venuti molti continentali, specialmente del meridione e in mezzo a questa gente Giovanni si era tuffato e pareva provasse gusto a involgarirsi.

A Donna Vincenza questo figlio che era tornato chiassoso e rumoroso faceva più paura di quello che intristiva nella solitudine della casa. Un giorno Giovanni, senza dir nulla a nessuno, si presentò agli esami di notaio, poiché vedeva che Don Sebastiano invecchiava, così da poter prendere il suo posto. Improvvisamente rinsavito, alla sera contava i denari guadagnati tutti le sere, ma non per questo si erano assopiti i terrori di Donna Vincenza.

Un bel giorno disse che si sarebbe sposato. Don Sebastiano andò dalla sposa e le disse ciò che era nella realtà suo figlio, ma quella, che si avviava negli anni, rispose che l'avrebbe sposato lo stesso.

Questo matrimonio di Giovanni poteva essere per Donna Vincenza una liberazione, ma lei capì subito che l'uscita di Giovanni era l'inizio della fine.

Nel frattempo Ludovico pensava di aprire uno studio di avvocato. Pasquale, il solo che avesse fatto tutta la guerra, era tornato e pareva volesse darsi ai commerci.

Le restava quell'ultimo nato che nell'autunno sarebbe andato a Sassari o a Cagliari e Donna Vincenza temeva molto l'avvicinarsi di quel giorno e aveva ragione perché quando quel giorno venne la madre gli preparò il viatico ma Sebastiano lasciò tutto lì, vergognoso di sua madre, che pure adorava, e partì nel buio della notte.

Per Donna Vincenza, però, quest'azione rappresentava il rifiuto d'un atto d'amore.


La vicenda dei campi (Cap. XIX):

Ci fu un periodo in cui un vento caldo durò quattro giorni e quando smise di soffiare chi aveva terre al sole prese la via dei campi per vedere i guasti che quella maledizione aveva fatto.

Fu così che Don Sebastiano si diresse a Isporosile, dove aveva trovato tutto come prima e, stupito, si chiedeva per qual privilegio il suo possesso era rimasto immune alla strage.

Nella contemplazione della su fortuna aveva dimenticato il mezzadro, Nanneddu Titùle il quale da circa un anno teneva il podere. Ora si avvicinava a lui per spiegare il motivo grazie al quale la sua terra si era salvata. Lo accompagnò alla casa e lì Don Sebastiano trovò un cane crocifisso con le zampe anteriori divaricate e inchiodate nel legno. Don Sebastiano restò pietrificato, era un sacrificio rituale.

Dopo avergli mostrato questa magia Nanneddu disse al padrone che il mezzadro del fondo vicino non lasciava scorrere l'acqua dopo che aveva bagnato il suo orto e che ci sarebbe stata la possibilità di rimanere all'asciutto durante l'estate. Don Sebastiano, infastidito, aveva risposto di arrangiarsi.

Nanneddu Titule era dominato da un'idea fissa: vincere la propria miseria. Era arrivato a Nuoro come uno zingaro con la moglie e i figli e Don Sebastiano che aveva un fondo di umanità li accolse e li insediò a Isporosile. Il raccolto sarebbe andato per la metà al padrone, tranne la vigna perché il notaio era gelosissimo del suo vino e non aveva mai concesso le vigne a metà.

I mezzadri vicini avevano in un primo tempo cercato di avvicinarlo ma Nanneddu aveva rifiutato ogni contatto.

Dopo il vento africano che egli era riuscito a sconfiggere con la magia, però, arrivò una siccità terribile. A Isporosile l'acqua non era mai mancata e invece quell'anno cominciò a mancare. La terra impietrava e verso luglio fu la fine. Intanto l'orto moriva e con esso le speranze di Nanneddu.

Eppure l'acqua era di là dalla siepe, sarebbe bastato distruggere i pozzetti che il vicino mezzadro aveva creato per conservare l'acqua. Così una notte Nanneddu e suo figlio di quindici anni avevano scavalcato la siepe e avevano ucciso il vicino., dopodichè lo avevano sotterrato.

Scoprire il delitto fu per la polizia un gioco da bambini. Si scoprì che i pozzetti d'acqua non erano mai esistiti.

Ricciotti Bellisai intanto era stato colto da un cancro e trascorreva le sue lunghe ore mandando notiziole ad un giornale di Roma e quando gli arrivò la notizia di Nanneddu di colpo ringiovanì di vent'anni poiché ciò gli metteva a portata di mano Loreneddu o almeno la sua vendetta.

Scrisse subito un articolo in cui insinuava che l'omicidio fosse stato compiuto per mandato e il mandante sarebbe stato il padrone del terreno: Don Sebastiano. Dopo una settimana apparve un altro articolo in cui Ricciotti si chiedeva il perché Nanneddu fosse andato a trebbiare il grano del podere a un'aia distante almeno cinque kilomentri. La fiducia dei nuoresi nei confronti di Don Sebastiano cominciò a vacillare. Il notaio fu chiamato dal procuratore per discutere la questione e Don Sebastiano gli chiese di riferirsi al suo fattore, ovvero ziu Poddanzu.

Ziu Poddanzu si recò dal procuratore e disse tranquillamente che il grano era stato portato fuori da Isporosile perché così avevano fatto sempre, poiché a Isporosile l'aia non c'era.

Così per la seconda volta, e fu l'ultima, ziu Poddanzu aveva salvato Don Sebastiano.


Il Fidanzamento di Ludovico (Cap. XX):

Donna Vincenza non vedeva e non sentiva più il marito. Tornava alla vita soltanto nei rari periodi in cui il piccolo Sebastiano rientrava per le vacanze, poi egli ripartiva e non dava più notizie di sé. La diaspora dei figli si era praticamente conclusa con questo piccolo, ma certamente non sarebbe tornato perché anche lui avrebbe "cercato pane migliore di quello di grano". Ma la diaspora non era soltanto quella dei figli che se n'erano andati per il mondo; anche quelli che erano rimasti non c'erano più: Giovanni e Pasquale avevano introdotto a forza nella vita della madre donne e figli che essa rigettava come corpi estranei. E poi c'era Ludovico che aveva aperto uno studio d'avvocato e aveva ormai raggiunto i 27 anni. Egli aveva saputo circondarsi si un alone di rispetto e il borgo di Nuoro aveva bisogno di idoli. All'ombra di Don Sebastiano i clienti cominciavano ad affluire e quelle connette in costume che costellavano i gradini della scala aspettavano ore ed ore, quando non erano giorni, prima di essere ricevute.

Don Sebastiano era gongolante nel vedere le sue scale piene di gente seduta, in attesa, e gli pareva di essere tornato ai bei tempi, prima che Giovanni lo detronizzasse.

Ma la vocazione di Ludovico era quella di attendere sempre di cominciare, restando fuori dalla realtà, il suo motto era "Ogni cosa ha la sua ora". Perciò quando arrivava una lettera, la rigirava fra le mani e poi la riponeva in un fascicolo senza aprirla, perché ogni cosa ha la sua ora. Così pareva facesse delle persone che venivano a parlargli delle loro pene: riusciva magicamente a rimandarle sempre all'indomani, un domani che non arrivava mai.

I nuoresi avevano finalmente trovato il loro avvocato perché il fatto più importante della loro vita era quello di avere una causa: non bisognava né vincerla né perderla perché altrimenti la causa sarebbe finita.

Don Sebastiano aveva praticamente abbandonato le redini nelle mani del figlio così saggio e i fratelli riconoscevano tacitamente in lui il centro della famiglia, ma Donna Vincenza vedeva questo figlio lontanissimo, più lontano di quelle che la diaspora aveva seminato nel continente.

Le figlie di Don Gabriele Mannu erano ormai anch'esse in età da marito. La prima delle figlie si chiamava Celestina e di tanto in tanto si affacciava alla finestra dalla quale poteva vedere Ludovico e i loro sguardi cominciarono ad incontrarsi. Ludovico non aveva mai pensato all'amore e ora tutto precipitava, poiché sentiva che la sua vocazione era quella dello scapolo, come ce n'erano tanti a Nuoro. Allo stesso tempo, però, non si poteva dire di no alla figlia di Don Gabriele e poi era intimamente lusingato di essere stato prescelto. Fu così che furono stabiliti i giorni e le ore in cui Ludovico avrebbe potuto visitare Celestina.

Don Sebastiano era fiero di imparentarsi con i Mannu, ma Donna Vincenza non era felice, un oscuro senso l'avvertiva che quel matrimonio non si sarebbe mai fatto e per questo aveva rifiutato di conoscere la futura nuora. Ludovico intanto si misurava nel suo nuovo ruolo di fidanzato, incontrando Celestina nella sua casa e in presenza di Donna Sabina (la madre), ciò era provvidenziale per lui perché gli consentiva di evitare effusioni che, nel caso in cui fossero stati soli, gli sarebbero sembrate doverose.

Questo fu l'inizio di un fidanzamento che doveva durare dodici anni, poi un giorno Celestina pregò Ludovico di non farsi più vedere.





Appunti del prof

"Il giorno del giudizio" è un romanzo buio, di rara intensità catastrofica che presenta un pessimismo lugubre e complicato, tre immagini ce lo dimostrano:

Nuoro, con i suoi conflitti, è descritta come "un nido di corvi";

La famiglia Sanna Carboni "un nodo di Vipere";

Il cimitero al centro del borgo è un "groviglio inestricabile di ombre e fantasmi che ancora chiedono una loro ragione".

Dal titolo del romanzo ci aspetteremmo una distinzione dei meriti e dei torti, mentre quello che ci colpisce è che l'esperienza del male è talmente connaturata nell'uomo da rendere vane le distinzioni: tutti scontano una pena e commettono una colpa, che è poi quella dell'essere in vita. E' l'essere finiti la colpa che tutti devono scontare.


Punti stilistico-retorici

Il testo cerca di mettere argine al contrasto di sentimenti, carpiamo dal testo un desiderio di mettere ordine. "Il giorno del giudizio" è il romanzo di un io impegnato a ricordare e a comprendere, che tenta di dare conto della sua sorte e di quella altrui.

Il romanzo analizzato è fortemente fonologico e tutto è ricondotto alla centralità dell'io che cerca di darsi ragione.

Piano stilistico

Forme interrogative: l'io si apre al ragionare e troviamo spesso domande retoriche:

Parlando di Donna Vincenza dice "Era un simbolo, ma che cosa poteva fare questa donna di cinquant'anni?"

"Del resto chi faceva politica a Nuoro? Quei quattro o cinque candidati."

Asseverazioni (frasi in cui si afferma, si dà per certo che sia così):

"Il fatto è che.", "Vero è che.", "Tanto è vero che.", "Si capisce che.", "La verità è che.", "Non c'è minimo dubbio che.". Il tono del narratore è autorevole e cattedratico, questo monologare è una specie di tema senza scioglimento che non dà soddisfazione emotiva:

"Va bene ma.", "In breve.", "Forse il guaio è che.".

Costrutti formati da nesso causale (perché, poiché) + sentenza o proverbio. Il bilanciamento è sempre fatto sul pessimismo (accanto alla morale c'è sempre una nota di tipo funebre, osserviamo un cupo pessimismo). Utilizza anche modi di dire nuoresi, come:

"Una procura fa bollire la pentola" (praticità, porta denaro);

"Tu stai al mondo proprio perché c'è posto" (aggressivo);

"Ricco è solo il cimitero" (pag. 230);

"Dopo il bianco il nero" (risposta data dai genitori di una giovane donna data in sposa ad un settantenne);

Questi motti ribadiscono la precarietà del destino individuale e l'insensatezza del destino umano:

"Sicuri si è nelle mani di Milieddu" (trasfigurazione di "Sicuri si è nelle mani di Dio", motto blasfemo).

Sul piano retorico ritroviamo una frequente ironia:

Antifrasi ironica (si dice una cosa per far intendere il contrario):

"Era quella del caffé proprio della brava gente" riferendosi ai clienti del caffé Tettamanzi, che deridevano e si prendevano gioco di Fileddu;

"Una scelta libera come il battesimo" che non è affatto libero e non è una scelta.

Ossimoro (figura del significato):

"Modesta signorilità", "Cimitero di vivi", "Tristi lazzi".

Antitesi (accostamento di elementi contraddittori):

"Breve e infinito", "Visione orrida e dolce", "Piccoli uomini di cui anche l'infinito ha bisogno", "Inno sacro e blasfemo, come sempre l'ode di vita era anche ode di morte".

Aggettivazione, frequenti descrizioni paesistiche che fanno perno su un nome e un aggettivo:

"Assurdi villaggetti" (assurdi = area emotiva dove il sentire umano prevale sul paesaggio, c'è una perdita di confini);

"Aspre solitudini" (aspre = sfera paesistica, solitudini = concezione antropomorfa);

Questa prosa tende all'assoluto e alla rottura dei confini. Qui emerge la retorica dell'indeterminato e dell'immenso:

"Buoi immenso", "Infinita povertà", "Infinita lontananza", "Inverosimile piccolezza"

____ =marche del sublime.

Da un lato troviamo ciò che è indecifrabile e dall'altro il luttuoso e l'orrorifico:

"Spettro orrendo", "Mugolii sinistri", "Demoniaca tristezza".

Similitudini a base naturale:

"Una scrostatura in mezzo al.", "Come in un'aurora boreale le lampadine si accesero",

"Come un onesto ragno Don Sebastiano tesseva la sua tela" (comparizione zoomorfa).

Metafore riguardanti l'orroristico o il meraviglioso-avventuroso:

"Coltre funebre in silenzio", "Fioche ombre di donne", "Nel grande sepolcro della casa", "Le donne apparivano dietro i vetri come fantasmi", "Opaca ragnatela di favole" (Opaca ragnatela = orroroso, di favole = meraviglioso).


Strutture narrative (molto complesse):

Uso dei tempi verbali: in indica un'anomalia, poiché il narratore non è disposto a concludere, infatti non è presente il passato remoto. Al posto di questo utilizza: imperfetto, trapassato prossimo, presente indicativo, futuro e futuro anteriore (nelle prolessi), condizionale composto.

Nell'ultima parte usa il passato remoto, quando appare il tempo della devastazione.


Narratore

Satta esibisce di continuo il suo stato di disagio, è un autore pienamente novecentesco e deve governare un flusso memoriale che sembra non avere argini, i ricordi fremono e l'immagine è quella del flusso.

La linea narrativa è fortemente contrastata, colma di excursus e di interferenze (i personaggi si affollano nella sua mente, Per Esempio: "Ma lasciamo stare, che non c'entra."), numerosi sono perciò i tentativi di riprendere ordine.

Posizione narrativa

Il narratore anonimo sembra in equilibrio tra i due criteri di rappresentazione (come quello di Demetrio che sa tutto ma dovrebbe essere testimone): da un lato ci sono elementi di superiorità morale, come nel caso di un narratore onnisciente (legge i pensieri dei personaggi ed esprime la sua opinione), dall'altro c'è un testimoniare qualcosa che è stato che è parziale, ma allo stesso tempo il narratore partecipa ai destini che ci descrive.

Queste due posizioni si mescolano continuamente: in un caso la materia è oggettiva, mentre nell'altro l'autore la vuole sentire sua e la distanza si accorcia.

Ritroviamo il narratore onnisciente quando è messo in crisi dalla sua famiglia, ovvero là dove si annidano le tensioni più dirompenti dalle quale il narratore vuole distanziarsi. La soggettività si presenta, invece, quando l'autore ci descrive Nuoro nella sua interezza (cimitero, abitanti, case, vie, ecc.), qui la distanza si azzera.

Punto di vista narrativo

Quando vengono descritte le tensioni domestiche il punto di vista è quello dell'autore adulto, mentre regredisce a fasi infantili quando si dà conto alle esperienze extrafamiliari (x es. quando ci parla di Locoi).


Il percorso dall'io narrato all'io narrante non si salda e infatti Satta scrive "Sono venuto a riunire i due monconi" (quello isolano e quello continentale) ma alla fine non ci riuscirà.

In alcuni tratti del testo il narratore riflette sul suo narrare e fronteggia delle questioni antiromanzesche che mettono la scrittura a rischio di fallimento, x es. "Ho riletto [.] le cose che ho buttato giù senza troppo pensarci e mi sono reso conto di quanto sia difficile fare la storia." (l'autore ci dimostra un novecentesimo problematico).



L'obiettivo dell'autore è esplicito, poiché ce lo mette di fronte, è un obiettivo metafisico che è quello di assecondare l'urgenza della memoria secondo un'idea simultanea, ma la simultaneità non è adatta al romanzo. Vorrebbe perseguire la globalità ("come se tutta l'esistenza si fosse svolta in un solo istante"), dare una rappresentazione totale immediata.

Per questo motivo trova difficoltà nel mantenere le distanze e nel rappresentare la propria vita.

L'autore è messo in crisi soprattutto quando scattano in lui i meccanismi di identificazione con il cosmo nuorese, perché ripensa all'idea blasfema dell'inutilità creaturale.

La prima crisi è da noi avvertita circa a metà del romanzo "Sono due settimane che ho interrotto il mio racconto, è stato proprio Pietro Catte a fermarmi la penna.", poiché l'autore avverte un drammatico senso di vuoto.

La seconda crisi si trova sul finire del testo, quando il narratore ci illustra la fuga di Gonaria, il vivere della quale non ha più alcun senso. Il narratore stava infatti parlando di Ludovico quando ha fatto irruzione Gonaria, all'interno del testo, e l'autore, sofferente, per mesi non scriverà più.

Il romanzo si interrompe in un momento di crisi che ha prevalso sulla scrittura e i due tronconi non si salderanno mai.

Satta preferisce affibbiarsi l'immagine del dilettante "scrivere non è il mio mestiere", anche se ha scritto moltissimo durante la sua vita, ma lo scrivere in senso romanzesco non è il suo mestiere.

Quest'opera contempla una doppia dimensione emotiva:

Qui, delle origini (Nuoro)

Altrove, la storia ci viene raccontata da qui (Roma), dal pergolato della sua casa che egli ha costruito dopo lunghi anni. Da qui il narratore si chiede se sia felice e se abbia fatto bene a lasciare Nuoro, infatti secondo lui la casa vera non è quella che acquistiamo ma quella che ci viene tramandata dai nostri avi, ottenuta grazie al lavoro (onesto o disonesto che sia), quindi qualunque sia la sua casa a Roma non ha alcuna importanza (riflessione ultraromantica e antiborghese).

L'autore, durante la sua vita, ha lavorato molto ma nel testo non si risente di moti d'orgoglio, Satta non sembra soddisfatto della sua condizione e il suo ritorno in Sardegna è un ritorno nel tempo piuttosto che un ritorno nello spazio (ci ritorna mentalmente, mentre Pavese intraprende un viaggio fisico).


Come lavora Salvatore Satta?

Il narratore è un anziano giudice in pensione che scrive da un luogo diverso da quello delle sue origini, lo cogliamo come privo di contatti con esse e con il senso della vita ed è in una condizione di sofferenza.

La nascita di Sebastiano coincide con lo spegnersi dell'eros tra i genitori (il frutto di eros coincide con la fine di eros), tra le pareti domestiche c'è onniscienza dietetica del narratore.

Tra le resistenze primarie di Sebastiano c'è la resistenza ad accettare il concetto della morte (quando la nonna materna muore il bambino non capisce che cosa stia avvenendo), questo è un punto sul quale l'autore insiste molto.

Quando muore Peppino, Sebastiano gli rimane affianco (ha 10/12 anni) ma ancora non accetta il pensiero della morte.

Evidenti pulsioni di tipo edipico agitano questo bambino e nel contempo agitano il narratore adulto di pesanti sensi di colpa.

Quando la focalizzazione è interna Sebastiano è adulto (prolessi) e ciò che noi vediamo del piccolo Sebastiano ci è descritto dal narratore. L'autore porta è rancoroso nei confronti del padre (elemento evidenziato quando Don Ricciotti aggredisce il padre), mentre la madre costituisce per lui un edipo positivo, poiché ci dice che ricercava sempre il corpo materno e che le faceva dei piccoli regali (come i fiammiferi).

Tra la madre e il padre c'è un forte contrasto, ma Sebastiano e Peppino prendono le difese della madre.

Quando abbandona la casa, però, tradisce l'oggetto materno, per via del suo desiderio di emancipazione dalla madre e da Nuoro, che genera angoscia nell'uomo adulto, che sa di non poter può tornare indietro.

I momenti di maggior coinvolgimento di Sebastiano si accordano a un codice comportamentale di tipo paterno, per esempio, è gioioso quando condivide gli ideali della libertà e della povertà o quando partecipa ai riti stagionali (x es. quando si fa il pane il vino). E' il padre che garantisce il legame con la terra.

Nella figura di Sebastiano ci sono sentimenti contradditori e ombrosi, una ragione etica regola il racconto, anche se l'inquietudine del narratore aumenta.


Limiti che il romanzo ci pone

Il narratore non vuole far trasparire la sua angoscia e si difende attraverso alcune strategie di occultamento:

  • Non risolve la sua identità in quella di Sebastiano;
  • Tiene a freno l'aggressività nei confronti di Ludovico;
  • Mette in ombra la scena della morte dei due genitori ( omissione);
  • Il concetto di simultaneità ha un significato difensivo poiché gli consente di deviare l'oggetto della narrazione più incandescente: la famiglia;
  • Mostra compassione verso Gonaria e Pietro Catte, ma non nei riguardi di Donna Vincenza;
  • Ci descrive in maniera positiva il personaggio di ziu Poddanzu, perché è l'alter ego di Don Sebastiano.


Analisi

All'interno del romanzo si trovano molti discorsi indiretti liberi che sembrano dare conto di psicologie ottocentesche e naturalistiche. Satta non ama entrare nell'intimità della psiche, in cui albergano pensieri di vita e di morte e in cui l'istinto di morte (tanatologico) prevale sulle dinamiche di appagamento erotico.

All'interno del romanzo l'elemento erotico non è completamente escluso ma quando compare non porta a un piacere che deriva da una comunione di affetti, poiché:

  • il sesso si giustifica come un bisogno economico-culturale e come un prolungamento dell'io nelle generazioni future;
  • uno sfogo passeggero (come avviene per i clienti del caffè Tettamanzi);
  • colpa da rimediare lontano da occhi indiscreti (le ragazze vanno a partorire a Tunisi i figli non riconosciuti).

Ne discende un cosmo in preda a disturbi palesi di irrequietudine psichica (rimuovere un elemento positivo come il sesso porta ad una società con problemi inquietanti, soprattutto per le donne).

Il rapporto dei sessi nella società descritta dall'autore è squilibrato, poiché il patriarca esercita un potere assoluto in opposizione alla condizione della donna per la quale non è prevista alcuna alternativa di affetti.

All'interno del romanzo sono presenti due binomi:

  • Don Sebastiano / Ziu Poddanzu (il quale garantisce un principio positivo);
  • Gonaria / Donna Vincenza.

All'interno del romanzo non troviamo una spaccatura netta tra io giovane ed io maturo (cosa che invece notiamo in Pavese). L'io adolescenziale sente di vivere un momento di cambiamento quando ci parla della guerra (che porta alla dilatazione del borgo e alla laicizzazione degli istituti scolastici). Il disagio del cambiamento inquieta l'autore, poiché nota una perdita di ricchezza sensoriale in Nuoro (per esempio si zittiscono la campana del convento e il tamburo).

Un altro indice di cambiamento è presente nel momento in cui l'elettricità fa la sua comparsa a Nuoro.

Il narratore avverte una scissione tipicamente borghese tra pubblico e privato e la depreca perché guarda i riuti del vivere sociale dal punto di vista preborghese.

Il sogno di acculturazione del popolo nuorese va spesso incontro a sconfitta (z es. figlio di Antoni Mereu e Peppeddedda). Il rapporto con i libri interessa gli ultimi due figli di Don Sebastiano (Peppino e Sebastiano), che iniziano insieme un percorso di estasi culturale. Quando il narratore ci parla di questo interviene con parole dure rimproverando coloro che attraverso la cultura cercano di raggiungere un obiettivo e contrappone otium (interessamento gratuito nei riguardi della cultura) a negotium (interessamento volto ad ottenere un mutamento di classe).

L'autore mette sullo stesso piano la rovina di una città premoderna e la catastrofe di un narratore che sta per morire, infatti il narratore torna nel cimitero di Nuoro, ma non si riconosce più in quello che trova: il paese è imborghesito e la vecchia Nuoro non c'è più e d'altra parte l'affaticarsi sulla carte non produce acquisti intellettuali. L'autore non è più consapevole della vita ma lo è di dover morire.





Un paese che non ha motivo di esistere (di Gabriella Còntini)


Nuoro

Il Giorno del giudizio costituisce ancora oggi un enigmatico caso letterario: la prova definitiva di un narratore legato a una serie di ossessioni tematiche, pervenuto in solitudine a originalissima maturità di scrittura.

Le prima opere di Satta, cronologicamente, sono molto lontane dall'ultima:

De Profundis, del 1948 è una meditazione storica sulla sconfitta italiana nel secondo conflitto mondiale, sulla "morte della patria" e sulle colpe collettive di un popolo. L'autore aveva tentato di proporlo a Einaudi, che non lo accetta.

La veranda è forse del 1930 ma è stato recuperato e pubblicato solo nel 1981. Anche qui la morte domina. Il romanzo è ambientato in un sanatorio di poveri.

Soliloqui e colloqui di un giurista, CEDAM, 1968, è una raccolta di saggi di tipo storico-giuridico ed etnogiuridico.

A partire da questo romanzo Satta trova il suo modello narrativo: da un lato scopre la possibilità di costituire se stesso come l'unica coscienza in grado di concepire la fine come evento cosmico, dall'altro si impone di testimoniare il dramma di ogni solitaria vicenda di morte.

L'autore punta sull'ipotesi che si possa raccontare ogni morte come un avvenimento e viceversa tradurre ogni avvenimento in una morte.

C'è da chiedersi perché il giurista Satta, intellettuale senza nostalgie ("Non c'è nulla che io detesti come la vita passata" p. 63) e senza amore per il presente ritorni alle memorie sarde per trasformarle nei materiali del suo romanzo visionario.

Senza dubbio il repertorio nuorese è il più consono a disporsi in disegno che l'autore possiede.

La prima parte del romanzo si presenta come un pellegrinaggio nelle strutture anatomiche dell'antica città, l'autore ci parla della casa paterna, con la sua scala centrale. Vedremo in seguito come la madre salga a fatica quelle stesse scale ora che, invecchiata e sfinita dalle gravidanze, relegata all'ultimo piano, si sente ripetere che sta ancora al mondo "soltanto perché c'è posto". Ecco la vita, mentre avviene il segreto miracolo della crescita e si prepara la fine della famiglia, con la diaspora dalla casa paterna.

Fuori dalla casa c'è Nuoro con le sue grandi famiglie, le strade, le chiese con le campane e il cimitero. Una topografia minuziosa al servizio dell'"effetto verità".

Esempio dell'inutilità di tutto ciò che esiste, Nuoro si assolutezza: "Era la realtà morale, il luogo e il giorno del giudizio. ] Tutto il male e il bene che fai lo fai per Nuoro. Dovunque tu vada, Nuoro ti insegue." (p. 235).

La città si trasferisce intera nel suo cimitero, abitato da nomi familiari e da storie individuali, ma il cimitero è di morti e di vivi.

In quest'opera i nomi sono riconoscibili e i luoghi rintracciabili topograficamente. Il romanzo può essere letto come una piccola mappa per il recupero di "come eravamo", come una guida turistica dell'antica città al servizio della nostalgia.


Il Narratore

Colui che racconta ha poetere assoluto sui fatti evocati, si colloca fuori e dentro i personaggi, ne spia emozioni e pensieri non detti, me conosce origine e destino.

A differenza del tradizionale romanzo di memoria in cui l'io narrante incontra a intermittenza il suo passato, il Narratore sattiano non dà l'impressione di cercare e trovare, ma di sapere. L'artificio tecnico che sorregge la simulazione della visione e caratterizza l'intonazione profetico-apocalittica del romanzo consiste innanzitutto in un massimo di auctoritas della voce narrante.

E' subito evidente che il destinatario interno al testo non è prefigurato come sardo (ecco perché troviamo le descrizione delle "differenze" e le traduzioni delle parole). Satta spiega il suo mondo ad un lettore che non lo conosce, ad un italiano che vive in un'altra Italia, pari al Narratore per cultura scolastica ma diverso per cultura antropologica.

I personaggi cardine possono essere decifrati fino in fondo solo dal figlio. Il Narratore ammatte che possano esserci dei vuoti e che il reticolo possa essere incompleto, perché la scrittura non può coprire tutto il vissuto.

La precisione dei dettagli certifica che la memoria del Narratore è infallibile e, per analogia, che il suo giudizio è infallibile "Non c'è parola di quelle che ho scritto che non sia vera." (p. 54).

Il potere del Narratore si esplica anche nella libertà di evocare i personaggi senza ostacoli cronologici. Ecco, ad esempio, le apparizioni di Pietro Catte( impiccato a un albero, poi scolaro, in seguito tra gli oziosi del caffè Tettamanzi) incauto erede di una piccola fortuna economica e avviato al suicidio tra "i ghigni e gli sberleffi" di una processione diabolica.

Indiscutibili le grandi metafore:

Il carro sardo;

Il vino;

La prima luce elettrica a Nuoro.

Massime, giudizi e sentenze di impongono e confermano lo statuto autoritario del narratore:

Sentenze della saggezza popolare e collettiva: "Dio è col contadino e non col pastore" (p. 33);

Sentenze assolute: "L'assenza del padre nella casa è una terribile presenza" (p. 64);

Sentenze personali: "E' la vita che è crudele e il diritto esprime tutta la crudeltà della vita" (p. 147).


Il modello apocalittico

Siamo in presenza di un modello romanzesco che esaurisce tutti i fatti possibili, che non lascia alternative per un'altra storia o un'altra spiegazione della stessa storia. Una struttura con la quale è impossibile dialogare.

All'origine di questa e di ogni finzione visionaria e profetica: la Bibbia e l'Apocalisse, ma anche una serie di altri testi quali la Commedia dantesca le Visioni di Blake, il Mody Dick di Melville, confrontabili tra loro per la centralità del problema del "male".

La prosa sattiana è caratterizzata da ipnotiche ricorrenze:

L'aggettivazione che accompagna il tema della morte (terribile, demoniaco, mortuario, lugubre, orrido, arcano, ecc.) e del male. La vita è un'anticipazione della morte.

Il tono profetico, infatti il testo riproduce il mondo in un simbolico sistema di opposizioni: la traboccante antitesi amore/odio è delegata ai personaggi sacri dei genitori, poiché l'amore diventa odio nel matrimonio.

A Nuoro "l'odio e l'amore si compensavano" (p. 41) a garanzia della sopravvivenza comune.

Analoga l'equivalenza antifrastica vita/morte: il cimitero è "cimitero di vivi" (p.98).

Il momento della fine, presenza che circola liberamente nel testo. L'autore è affascinato dal carattere conflittuale e irriducibile del sacro che p nella morte.


La morte

Il ritmo degli episodi di morte costituisce la cadenza del lubro. Ogni personaggio puà finire in qualsiasi momento. O meglio: la morte è l'avvenimento costantemente possibile in qualsiasi posizione testuale.

Il romanzo non si fonda sulla tradizionale convenzione della "catena" narrativa, non segue cioè un principio che disponga gerarchicamente gli eventi in vista di un risultato conclusivo e va al di là dei rapporti causa-effetto.

L'ipotesi problematica è quella di un gigantesco coordinamento di fatti che appartengono tutti alla stessa serie che danno vita ad una rete di inediti rapporti tra elementi remoti, secondo un sistema di parallelismi:

Di identità;

Di sostituzione che si risolve in identità;

Di opposizione che si risolve in identità.

Il capitolo che appare più lavorato, costruito come un racconto e provvisto di parziale autonomia è quello che incasella le morti una dietro l'altra. La morte di Gonaria è preceduta da quella del fratello Ciriaco. Riaprendo dopo vent'anni la stanza in cui crede di aver rinchiuso Dio, Gonaria scopre il nulla e la polvere, la devastazione ripugnante dei topi, la morte di Dio. Sono presenti due presagi: la morte del maestro Manca e il grido agonico di Giggia, la vecchia prostituta innocente.

Finchè il fantasma di Peppeddedda, la fanciulla assetata che implora l'acqua di Obisti, riconcilia la vecchia con la morte.

Ma la pagina più disperata è l'immagine sacra del cane crocifisso.




La scrittura, il tempo

La prima parte (venti lunghi capitoli) gravita verso la tagliente epigrafe della seconda parte (28 righe, nemmeno una pagina).

Il Capitolo XX ha funzione conclusiva e propone un epilogo "sospeso": sembra segnalare un appannarsi della memoria. Ultimo personaggio: il fratello Ludovico, che prende il posto del padre nella stanza all'ultimo piano, ma non sa prendere la decisione di vivere.

Contrapponendosi al suo pigro antagonista, il narratore appare bruscamente, per parlare solo di se stesso, nel sigillo finale. All'ignavia del fratello, colpevole per tutti i suoi "non letti", contrappone la sua colpa: il libro "scritto".

Il Narratore non si è mai tenuto nascosto anche in precedenza:

Ha descritto la sofferenza del ricordo e della scrittura ;

Si è presentato come personaggio furtivo di pellegrino, visitatore di tombe;

Dubita della realtà che ha creato sulla pagina;

Dichiara le volubile motivazioni della sua ricerca: "metter un po' d'ordine" nella sua vita e "riunire i due monconi" (pag. 97-98) che la costituiscono.

Il mistero insolubile del romanzo è rappresentato anche dalla impossibile intersezione dei tempi che lo attraversano:

Tempo rettilineo, del pensiero ebraico cristiano che precipita verso il giudizio ultimo;

Tempo circolare e stagionale, della tradizione pagano contadina;

Tempo vano della Storia, in cui l'uomo lavora alla "sua distruzione

Tempo artificiale, nel quale il Narratore simula lo svolgimento individuale dei personaggi che sono tutti contemporaneamente presenti nell'"assurdo disordine" della memoria.

Esauriti gli eventi, il Narratore ammette la sua menzogna: non ha obbedito alla preghiera dei morti, ansiosi di essere liberati della loro vita, ma ha raccontato a proprio conforto.

Il romanzo rivela qui un'altra inesplorata potenzialità: rinnega la sua anima collettiva, si risolve nell'autobiografia, si chiude col monologo, una voce sola ha sempre recitato per tutti.

Il Narratore restringe il campo su se stesso: avviato verso la fine, come ogni altro personaggio, ma senza innocenza, in consapevolezza e in solitudine.

Ma c'è anche la solitudine dell'ultimo sopravvissuto che non avrà nessuno alla sua fossa che voglia raccoglierlo e raccontarlo: la vera fine è senza memoria.









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