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ALTRI DOCUMENTI
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IL TEATRO:
IL DRAMMA PASTORALE; IL MELODRAMMA
Passando a discorrere del teatro, diciamo subito che esso è caratterizzato
dalla Commedia dell'arte o "improvvisa".
Feste e mascherate carnevalesche e sacre rappresentazioni diedero origine alla
"commedia improvvisa" che, da principio, fu del tutto popolare, e
poi, perfezionandosi e diventando patrimonio di attori colti, sedusse le nobili
società e le corti più ricche d'Europa, e riuscì a scalzare la "commedia
letteraria". Lo scopo della parodia e della satira generò le maschere; l'
indole del popolo e il personaggio messo in caricatura diedero carattere ai
tipi. A Venezia dalla parodia dei ricchi mercanti sorgeva Pantalone; a Bologna,
città di studi, dalla caricatura dei professori sorgeva il Dottore; dalle
regioni ove dominavano gli Spagnoli smargiassi e presuntuosi veniva fuori il
tipo spaccone del capitano foggiato a mo' del Miles gloriosus di Plauto; i
Napoletani allegri e gioviali perpetuavano il loro carattere nella maschera di
Pulcinella; i Siciliani formavano quella buffa di Pasquino. Passata dalle
maschere carnevalesche agli attori, dal popolo agli artisti, dalla piazza al
palcoscenico, la commedia improvvisa si perfezionò, fissò i tipi, ne aggiunse
degli altri e, facendo la satira della società con un metodo primitivo,
impersonando cioè il vizio di una classe in un solo, invariabile tipo, percorse
un cammino glorioso, che nel secolo XVII doveva raggiungere l'apice.
Di ogni commedia che si doveva rappresentare si concertava prima la trama;
questa poi veniva svolta dagli attori, i quali, impersonando costantemente un
tipo ed avendo un ricco repertorio di lazzi, arguzie, cognizioni, sentenze,
concetti, discorsi d'amore, rimproveri, disperazioni, deliri, non incontravano
grande difficoltà nel sostenere la loro parte.
Il teatro improvviso raggiunse il suo apogeo con
Accanto alla commedia dell'arte, la commedia letteraria vive una vita molto
grama. Essa imita, come nel secolo precedente, Plauto e Terenzio o cerca di
rinnovarsi prendendo a modello i grandi spagnoli Lope de Vega, Tirso de Molina
e Calderon de
Maggior valore dei commediografi non hanno i tragici sia che trattino soggetti
profani, sia che trattino soggetti sacri. Fra le tragedie sacre ci limiteremo a
notare le quarantacinque di ORTENSI ORTENSIO SCAMACCA da Lentini e
"Maddalena" e l'"Adamo" di GIAMBATTISTA ANDREINI; fra
quelli di argomento profano noteremo la "Cleopatra", il "Creso"
e la "Lucrezia" di GIOVANNI DOLFINO, l'"Aleippo", le
"Gemelle carovane", e la "Principessa Silandra" del CEBÀ
l'"Aristodemo" del DOTTORI, la "Rosmunda" del MUSCETTOLA,
il "Corradino" del CARACCI, l'"Arsina" e l' "Isola
d'Alcina" del TESTI 555d38f , la "Reina di Scotia" del RUGGERI, l'
"Erminia" del CHIABRERA, l' "Evandro" e
l'"Olimpia" del BRACCIOLINI, "Gli amori d'Armida" e la
"Sofronia" del VILLIFRANCHI, il "Tancredi" del CAMPEGGI, il
"Tradimento per l'onore" del CICOGNINI, il "Medico
innamorato" e il "Solimano" del BONARELLI.
Posto migliore della commedia e della tragedia non potremo dare al dramma
pastorale. Molti furono i poeti che nel Seicento, dietro le orme del Tasso e
del Guarini, trattarono questo genere: il D'AGLIÈ con l' "Alvida", il
CHIABRERA con l'"Al cippo", il MALMIGNATI col "Clorindo",
l' ORONO con la "Fida Armilla", il CONTARINI con "
Il dramma pastorale si andava a poco a poco trasformando nel melodramma. Già -
come altrove accenato - la poesia aveva sviluppato i suoi elementi musicali e
le agili e tenui canzonette del Seicento preludevano molto da vicino alle
ariette; la poesia cantata, che aveva avuto il suo maggiore sviluppo al tempo
dei trovatori, aveva continuato a vivere una vita intensa, e la musica aveva
fatto la sua comparsa, sulle scene negli irtermezzi introdotti nelle commedie.
Il melodramma era virtualmente iniziato; ora col rinnovamento della musica
cominciato da JOSQUIN DE PRÈS nella prima. metà del Cinquecento, acquista
ragion d'essere. La musica non è più un sapiente giuoco di contrappunto; con il
PALESTRINA ed altri essa diviene vita, espressione della vita, in un linguaggio
arcano e sublime, acquista la potenza di scrutare nel cuore e nell'animare e di
riprodurre, in tutte le sfumature, i sentimenti, la magia di ritrarre le voci della
vita, di rappresentarne i fatti esteriori prima in stile polifonico, poi in
melodico. Quando la musica fu capace di ritrarre al vivo il sentimento
drammatico, nacque il melodramma. A Firenze vide la luce il primo, la
"Dafne", scritto da OTTAVIO RINUCCINI e musicato da JACOPO PERI, cui
seguì poco dopo l' "Euridice" dei medesimi autori. Questi due
melodrammi furono di gran lunga superati dall'"Arianna" dello stesso
Rinuccini, che fu messo per la prima volta sulla scena a Mantova in occasione
delle nozze di Francesco Gonzaga con Margherita di Savoia.
Nell'"Arianna" l'azione ha maggiore ampiezza e compattezza; l'opera
non è, come le prime due, un insieme di episodi collegati da un nesso
tenuissimo, ma è un vero e proprio dramma, perfetto nella fattura metrica,
squisito nella musica, composta in parte dal Peri, in parte dal più grande
musicista del secolo, CLAUDIO MONTEVERDI. Questi seppe infondere nell'Arianna
tutto il pianto dell'anima sua, e della musica con la quale la rivestì non fece
un ornamento puramente esteriore ma l'anima stessa del dramma. Altre opere
musicate dal Monteverdi furono l'"Orfeo" di ALESSANDRO STRIGGIO e
l'"Incoronazione di Poppea", il "Ritorno di Ulisse" e le
"Nozze di Enea con Lavinia" di GIACOMO BADOARO. Ma con queste due
ultime il melodramma si presenta a noi trasformato, e questa trasformazione era
stata iniziata dal CHIABRERA e da GIULIO CACCINI, autori del "Rapimento di
Cefalo". Qui si sente già l'influsso del secolo con lo sfoggio della
coreografia. L'arte scenica non ha più nulla da inventare per stupire gli
spettatori: nuvole, monti, draghi mostruosi, pitoni ululanti, conchiglie tratte
da delfini, terribili visioni infernali, paesaggi grandiosi. Il melodramma
comincia a seguire la moda del Seicento. Inoltre la parte musicale comincia a
prevalere sulla poesia che diventa un mezzo per la musica, mentre l'azione
drammatica si assottiglia e perde la sua importanza.
Così trasformato, fin quasi dal suo nascere, il melodramma si svolse nelle
principali città, sacrificando spesso l'arte ai capricci dei cantori e alle
condizioni dell'ambiente. In Firenze esso si mantenne per lungo tempo
aristocratico e cortigiano con MARCO DA GOGLIANO che rivestì di musica la
"Regina di Sant'Orsola" e la "Flora" di ANDREA SALVATORI;
lo stesso carattere ebbe a Bologna, dove il GIACOBBI musicò
l'"Andromeda", l'"Amor prigioniero" e la "Selva dei
mirti"; a Roma si svolse con carattere religioso ed allegorico in forma di
oratorio, nel qual genere, portato a grande altezza dal PALESTRINA, si
distinsero EMILIO DEL CAVALIERE, il VITALI, il LANDI e il MARAZZUOLI. A
Venezia, portato sulle scene dei teatri pubblici, assunse un carattere popolare
spiccatissimo con il MARINELLI ed altri; a Napoli ebbe numerosi cultori fra i
quali citiamo il DI PALMA, lo ZUCCHI, il SORRENTINO, il CHIAVEPORTA e il
PERRUCCI e il famoso compositore FRANCESCO PROVENZALE.
Ben presto, dietro l'esempio di Venezia, anche in altre città d' Italia i
melodrammi furono dati in pubblici teatri acquistando carattere popolaresco e
borghese ed accogliendo l'elemento comico, il quale, sviluppatosi a poco a
poco, dava origine, all' opera buffa ed alla commedia musicale. Ma ormai il
melodramma letterario era al suo tramonto perché trattato da verseggiatori da
dozzina e sopraffatto spesso dalla musica, il cui decoro era tenuto alto dal
MONTEVERDI dal CACCINI, dallo STEFANI e dal trapanese ALESSANDRO SCARLATTI,
l'autore famoso di "Tigrane", della "Caduta dei Decemviri"
e di cento altre opere applauditissime, il fondatore di quella scuola
napoletana che doveva poi esser gloria d'Italia. Mentre da noi il melodramma
decadeva, fuori, specie in Germania, per opera del Keiser, seguace diretto
dello Scarlatti, e in Francia, per merito di G. B. LULLI fiorentino, giungeva a
grande altezza; ma all'Italia che gli aveva dato i natali doveva spettare il
vanto di riformarlo.
LA PROSA: L' ELOQUENZA SACRA; IL ROMANZO E
La
Commosso dagli applausi degli ascoltatori, volendo manifestare il suo amore per
l'uditorio, il predicatore disse: "La vostra attenzione ha fatto da balia
a questo amore; lo ha fasciato e cullato e ora, divezzato dal poppare malgrado
l'amarezza della partenza, si pascerà con il solito cibo delle memorie. La
brama di tornare a voi è una gravidanza matura, sicchè io sto con la doglia del
parto, finchè la grazia del Cielo non mi servirà una Lucina, per figliare un
nuovo maschio quaresimale" Simili al padre Orchi sono il padre GIOVANNI AZZOLINI,
che, nei suoi "Paradisi retorici", ci dà un esempio di stile roboante
e grottescamente artifizioso; monsignor PAOLO ARESI, che, nei sette volumi
delle sue indigeste "Imprese sacre" e nelle "lezioni Delle
tribolazioni e suoi rimedi", dà ai predicatori consigli e modelli da
seguire; il padre FRANCESCO FRUGONI, enfatico; il gesuita LUIGI GIUGLARIS, i
padri BONI, BOTTI, BOLDONI, DE BOSSI, SORMANO ed altri molti, il cui nome è
caduto nell'oblio con le loro raccolte insipide di prediche fredde, prolisse,
vuote e manierate. Migliore di tutti fu il padre SEGNERI, che, pur fra i molti
difetti comuni al suo tempo, non manca di impeto, slancio e vemenza nel suo
"Quaresimale", nei "Panegirici2 e nelle "Prediche",
cui sono da aggiungere le prose sacre intitolate il "Cristiano
istruito", la "Manna dell'anima" e l' "Incredulo senza
scusa.
Se dall'oratoria sacra passiamo al romanzo troviamo che questo è tutto o
quasi di imitazione francese. Il romanzo eroico-galante è il tipo più comune
dei romanzi del Seicento, chè quello di costumi, se ebbe non pochi cultori fra
cui GIROLAMO BRUSONI autore della "Filismena", di "La gondola a
tre remi del Carrozzino alla moda" e del "Poeta smarrito", non
rappresenta il gusto dell'età in cui fiorì; nè il romanzo storico, trattato anche
esso da parecchi fra cui GREGORIO LETI ("gli Amori di Carlo Gonzaga e
della contessa della Rovere"), ANTONIO LUPIS ("
Scomparvero così i maghi, le fate, i mostri, gl'incantesimi; e le avventure dei
cavalieri, prive del soprannaturale, divennero narrazioni monotone e noiose, nè
valse a supplire alla mancanza del meraviglioso la sdolcinata galanteria che
tolse ai cavalieri la primitiva caratteristica e li rese damerini del Seicento,
grotteschi entro la pesante corazza, i fastidiosi schinieri e l'elmo troppo
piumato. Ma il meraviglioso tornò ben presto e, unito agli altri elementi
propri della tragedia e della commedia del Seicento, quali i travestimenti, le
finte morti ecc., culminò nel "Calloandro" di GIOVANNI AMBROGIO
MARINI, che è il più goffo e nello stesso tempo il più attraente romanzo
eroico-galante del secolo perchè l'autore sa sovente tener desta alla curiosità
del lettore.
Anche la novella ebbe molti cultori: essa ebbe tutti i difetti del teatro e del
romanzo quando volle imitare gli Spagnoli ma si adornò di grazia, di brio,
quando seguì l'esempio dei novellieri del Tre del Quattro e Cinquecento. Le
facezie di Curzio da Marignolle raccontate da ANDREA CAVALCANTI, le avventure
di Vaiano narrate da STEFANO ROSSELLI, le novelle del BALDINUCCI, del REDI, le
"Lepidezze di spiriti bizzarri e curiosi avvenimenti" di CARLO
ROBERTO DATI hanno pregi indiscutibili di stile e tutta la vivacità della
lingua toscana. Anche fuori della Toscana la novella si svolse dietro i grandi
modelli italiani e se non vanta pregi di lingua non è priva di leggiadria e
spigliatezza. Così l"'Arcadia in Brenta" di GIOVANNI SAGREDO,
modellata sul Decamerone, malgrado la gonfiezza dello stile, è una raccolta
piacevolissima di quarantacinque novelle, le quali stanno molto al di sopra
delle "Novelle amorose dei signori accademici Incogniti" e delle
Curiosissime novelle amorose del DRUSONI.
Ma tanto il romanzo quanto la novella non ci diedero, nel Seicento, un'opera
degna di passare alla posterità e lo stesso si dica di un altro genere
letterario che si avvicina al romanzo e alla storia. Intendo parlare dei libri
di viaggi, di cui non ci fu scarsezza nel secolo XVII: viaggi veri in luoghi
veri, quali quelli intrapresi da NICCOLÒ MANUCCI, autore delle "Memorie
storiche dell'impero del Mongol", da OTTAVIO SAPIENZA, da FRANCESCO
CARLETTI che visitò quasi tutto il mondo per scopi commerciali, da PIETRO DELLA
VALLE, che visitò l'Oriente e lo descrisse in lettere piene di interesse, da
FRANCESCO NEGRI, autore del curiosissimo "Viaggio settentrionale", e
viaggi immaginari in luoghi reali quali quelli descritti dal MARANA, autore
dell' "Esploratore turco", tradotto in frantese col titolo "L'
Espion" e imitato, pare, dal Montsquieu nelle "Lettres
persanes", e i numerosi volumi del gesuita ferrarese DANIELLO BARTOLI,
autore dei "Pensieri sacri", di un 2Trattato dell'ortografia
italiana2, dell' "Uomo di lettere", della "Ricreazione del
savio", "Del ghiaccio e della coagulazione", e celebre per la
sua "Storia della Compagnia di Gesù2, in cui sono narrate le missioni dei
gesuiti nell'Oriente e le cose da loro operate in Europa. " " .Retore
e moralista astratto, pieno il capo di mitologia e di sacra scrittura,
copiosissimo di parole e di frasi in tutto lo scibile, colorista brillante
", il BARTOLI - come dice il De Sanctis - credè di poter dire
tutto, perchè tutto sapeva ben dire. La natura e l'uomo non è per lui altro che
stimolo e occasione a cavargli fuori tutta la sua erudizione e frasario. Altro
scopo più serio non ha. Estraneo al movimento della cultura europea e a tutte
le lotte del pensiero, stagnato in un classicismo e in un cattolicismo di seconda
mano, venutogli dalla scuola, e non frugato dalla sua intelligenza, il suo
cervello rimane ozioso non meno che il suo cuore; e la sua attenzione è tutta
intorno alla parte tecnica e meccanica dell'espressione ".
Di storici il Seicento ebbe una schiera numerosa: GIROLAMO BRIANI, autore di
una "Istoria d'Italia", EMMANUELE TESAURO che scrisse "Del regno
d'Italia sotto i barbari", LUCA ASSERIVO autore delle "Rivoluzioni di
Catalogna" e di una incompleta "Storia delle guerre e dei successi
d'Italia dall'anno 1613 al 1630, GIROLAMO BRUSSONI che ci lasciò una
"Istoria d'Italia", GIAMBATTISTA NANI ed A. MASCARDI, autore l'uno
d'una "Storia della Repubblica Veneta" e l'altro della "Congiura
di G. L. Fieschi", FERRANTE PALLAVICINO, GREGORIO LETI, COSTANZO BUONFIGLI.
Fra i tanti storici civili ed ecclesiastici si deve dare un posto onorevole a
ENRICO CATERINO DAVILA e a GUIDO BENTIVOGLIO. Il primo scrisse la "Istoria
delle guerre civili di Francia", il secondo "Della guerra di
Fiandra2. Vissuti a lungo nei luoghi, che furono teatro degli avvenimenti che
narrano, in contatto di testimoni ed attori, conoscitori dell'ambiente e
raccoglitori diligenti di notizie, essi penetrarono a fondo nell'anima degli
uomini di cui si occuparono e seppero fare rivivere il mondo che fu oggetto
delle loro storie. Più acuto, più sintetico, più rapido e robusto, quantunque
sovente artificioso, è il Bentivoglio ; meno imparziale e profondo il Davila,
ma più chiaro ed ordinato; spesso la sua narrazione si muta in rappresentazione
vivissima e potentemente drammatica, in cui lo stile, che per solito è piano,
facile e sovente dimesso, acquista calore e vivezza tali da suscitar la
commozione.
Ma le storie del Bentivoglio e del Davila, somo del resto quelle di tutti gli
altri di questo tempo, sono condotte coi sottili metodi consigliati dai retori,
sono prive d'indagine critica e si pavoneggiano, con danno della verità
storica, di dialoghi c concioni inventati di sana pianta. Fra tutti gli storici
occupò il primo posto PAOLO SARPI (1552-1629), servita veneziano,
successivamente teologo del duca Guglielmo, lettore di teologia a Mantova,
canonista della Repubblica veneta; strenuo difensore dei diritti della potestà
civile e incrollabile oppositore delle pretese del potere ecclesiastico; scomunicato
prima da Paolo V, assieme alla
La riforma luterana se non era attecchita nella società italiana, vi aveva
sviluppato l' innato spirito di indipendenza; il concilio tridentino aveva
accresciuto gli odi per
Ma l'opera cui è legato il suo nome, che rispecchia le sue idee e da la misura
del suo ingegno è la "Storia del Concilio Tridentino". Questa non è
solamente un'opera di storia, ma insieme libro di fede, di rivelazioni, di
polemiche, di passione. Facendo la storia di quel concilio, che chiamò l'
"Iliade del secolo", il Sarpi intese dimostrare le cause da cui fu
promosso, gli scopi dei promotori, le dannose conseguenze delle conclusioni. Di
fronte al concilio egli non è spettatore inerte; vorrebbe ma non può narrare
freddamente perché non può comprimere i palpiti del cuore e strozzare la voce
della coscienza. C'è in lui l' intenzione di essere grave, spassionato, giudice
impassibile; ma l'intenzione soltanto. In realtà da ogni pagina dell'opera sua
traspare l'uomo che vuol far trionfare le proprie idee. Già. prima di prender
la penna è un avversario dichiarato delle decisioni del concilio, contro cui
difende l'opera sua di uomo politico e di pensatore. Dalla condizione in cui si
trova non può nascere una storia imparziale. E il Sarpi ha non poco merito se
ha potuto conservare, scrivendo, tanta moderazione e precisione, se non ha
svisato fatti e taciuto circostanze. Il Sarpi non trascende mai; scruta,
esamina, analizza pazientemente; descrive e narra con temperanza encomiabile di
espressione; non si lascia trascinare ad invettive; e i suoi giudizi su uomini
e avvenimenti sono il risultato di attentissimo esame, di ragionamenti di una
logica terribile. L'ossatura della sua storia è solida, l'armonia delle parti è
perfetta; la forma non è veste retorica. Scevro di pompa, di declamazione, di
levigatura ed artificiose eleganze, lo stile del Sarpi procede robusto e forte,
vivo e chiaro. E nella sua ruvidità che non offende e non disgusta noi
riconosciamo l'uomo fiero e coraggioso che, scrivendo, ci prende l'anima, ci fa
vivere a sua passione e ci trascina con sé.
Paragonata con l'opera del Sarpi, appare cosa ben meschina la "Storia del
Concilio di Trento" che, per incarico della Curia romana, scrisse il
cardinale SFORZA PALLAVICINO, che, pur avendo a disposizione molti e importanti
documenti, non di tutti a bella posta si servì, e del famoso avvenimento non ci
diede, come poteva, una storia completa ed esatta. La sua è una confutazione di
quella del Sarpi; partendo da un punto opposto, il Pallavicino cerca di
dimostrare la necessità del potere temporale e di giustificare lo splendore
della corte pontificia, i privilegi degli ecclesiastici e le decisioni del
concilio Ma sebbene rettifichi non poche inesattezze del Sarpi, neppure lui sa
essere imparziale. La sua storia non ha neppure quei pregi letterari che il
Giordani le attribuisce. In essa tra il contenuto e la forma non esiste alcun
legame; lo stile è sovente lezioso e ricercato, freddo e fiacco, e l'ostentata
eleganza non vale a dargli nessuna vivezza di colorito.
In mezzo alla generale indifferenza, alla mancanza di fede e di ideali, il
Sarpi non fu il solo che si ribellasse alla tradizione e additasse con audacia
alcune piaghe che insanguinavano l' Italia. La luce comincia a illuminare le
menti e un soffio animatore, contrastato ma non soffocato dalle prigioni e dai
roghi dell' Inquisizione, spira dal nord e dal sud della Penisola. I primi semi
del libero pensiero buttati dal secolo precedente germogliano e si sviluppano
nel XVII. Aristotele e lo scolasticismo ricevono fieri colpi. Già fin dal
Cinquecento BERNARDINO TELESIO aveva iniziato la nuova filosofia ribellandosi
alle dottrine aristoteliche e sostenendo la necessità di studiare i fatti
naturali; e GIORDANO BRUNO aveva sostenuto l'unità e l' infinità dell'
universo, la completa indipendenza della ragione, la libera ricerca, in molte
opere latine ed italiane.
Nel Seicento è TOMMASO CAMPANELLA che segue il Telesio e il Bruno nella lotta
contro Aristotele. Ingegno potente, tenta la costruzione di nuovi sistemi
filosofici, pur non riuscendo a liberarsi dai metodi scolastici, intuisce molte
verità, sogna l'avvento dell'età dell'oro ed una repubblica utopistica che
descrive nella "Città del Sole".
Mentre costoro speculavano teoricamente, altri con risultati meravigliosi,
studiavano direttamente i fenomeni della natura, e fra questi GALILEO GALILEI,
oltre che il maggiore scienziato, fu il più grande prosatore del secolo. Benché
vissuto in tempi in cui il latino era di moda e si reputava la sola lingua
adatta a lavori eruditi, benché profondo conoscitore della lingua latina, egli
scrisse la maggior parte delle sue opere in volgare. Si provò nella critica
letteraria con due lezioni intorno al pensiero del Manetti su Dante e, fra le
altre cose, con alcune "Considerazioni sulla Gerusalemme liberata"
con le quali cercò di demolire il capolavoro del Tasso paragonandolo a quello
dell'Ariosto. Scrisse trattati sulla "Dottrina del Moto2,
sull'"Architettura militare", sulla "Bilancetta" e sulla
"Sfera2, un "Discorso intorno alle cose che stanno nell'acqua o che
in quella si muovono", tre lettere contro lo Scheiner intitolate
"Istoria e dimostrazione intorno alle macchie solari e loro
accidenti", il "Saggiatore", scritto in risposta a un libro del
gesuita Grassi, il "Dialogo sopra i due massimi sistemi, il tolemaico e il
copernicano", e i "Dialoghi delle nuove scienze", capolavori
dove non si sa se ammirare di più le profonde verità o la bellezza del dettato.
Il Sarpi, il Campanella e il Galilei sono gli scrittori che riabilitano il Seicento.
In tanta strana e goffa pompa, in tanta frivolezza di contenuto, in tanta
mancanza di serietà, la loro voce si leva alta, espressione superba di verità e
di fede, monito solenne alle coscienze, esempio stupendo di operosità
antesignano di progresso
E del futuro progresso numerosi sono gli indizi. Nel Seicento abbiamo già i
precursori del Muratori e del Baretti. Per tutto, accanto alla vanità dei
poeti, un fervore di studi che annunzia il Settecento. Non tutto ciò che si
scrive è ottimo, ma si ricerca, si studia, si illustra, si discute, dentro e
fuori delle accademie, coi vecchi metodi è vero, ma qualche volta, per opera di
spiriti liberi e bizzarri, con una certa originalità. Gli eruditi e i critici
formano una schiera numerosa; ogni città ha il suo erudita: il PIGNORIA, il
FERRARI, il BELLONI, il ROSSI, il MALVASIA, il FABBRETTI, il CIAMPINI e il
BACCHINI si distinguono fra gli altri. Uomini di vasta erudizione attendono ad
opere bibliografiche, LEONE ALLACCI nella sua "Drammaturgia" fa un
catalogo di componimenti drammatici e nelle "Apes urbanae" raccoglie
notizie dei dotti fioriti a Roma dal 1630 al 1632; FRANCESCO MARUCELLI compone
il suo "Mare Magnum", RAFFAELLO SAVONAROLA il suo "Orbis
litterarius", ANTONIO MAGLIABECHI meraviglia l'Italia con la sua profonda
erudizione; ANGELO APROSIO fa nella "Visiera alzata" un elenco di
opere pseudonime; il DELLA CHIESA compila un catalogo di scrittori piemontesi,
una "Biblioteca napoletana" scrive NICCOLÒ TOPPI, il GHILITINI un
"Teatro di uomini letterati", il FRANCHINI una "Bibliografia di
scrittori francescani".
Tentativi si fanno anche di storia letteraria e fra questi vanno ricordati
quelli dello ZIBOLI, autore di una" Storia dei Poeti", e del
CRESCIMBENI che scrisse una "Storia della Volgar poesia". Sorgono a
diecine i trattati retorici; si stampano numerose lezioni accademiche, elogi di
letterati, studi di critica, fra i quali qualche fama ebbero i
"Proginnasmi" del FIORETTI, le considerazioni del VILLANI
sull'"Occhiale" dello Stigliani e sulla Commedia di Dante, il commento
del MAGALOTTI ai primi cinque canti dell' "Inferno2 e le
"Considerazioni" del TASSONI sul "Canzoniere del Tetrarca".
Ma è critica di vecchio stampo che segue i precetti aristotelici e procede
sotto il peso di una erudizione disordinata e farraginosa. Colui che si innalza
su tutti per originalità e vivezza d' ingegno e per libertà di giudizio, in un
secolo in cui la critica è elogio o libello o catalogo, è TRAIANO BOCCALINI,
discepolo ideale del Machiavelli, sferzatore dell' ignavia degli Italiani, amante
della patria, di cui brama l'unità e la grandezza, nemico dichiarato dei
dominatori spagnoli, uomo senza viltà nel cuore e senza peli sulla lingua.
L'opera sua principale sono i "Ragguagli di Parnaso", scritti in
forma allegorico-satirica in cui il Boccalini finge di pubblicare in due
"centurie" e "avvisi" gli avvenimenti di Parnaso, ove
Apollo, circondato da una numerosa corte, dà udienza e pronuncia sentenze.
Il Boccalini si dimostra osservatore finissimo e conoscitore profondo della
società del suo tempo e dei difetti della letteratura e della politica. E non
risparmia nessuno. Sul Parnaso troviamo il mondo in cui vive,
Con il Sarpi, con il Campanella e con il Galilei, il Boccalini è uno degli
uomini nuovi, i quali contengono in sè germi di una età che sorge, pur
mantenendo la fisionomia del loro secolo. Questo ha ancora le pastoie del
Cinquecento, ma tende la mano al Settecento; non si può svincolare dalla
tradizione, ma aspira al rinnovamento; ammira il Tasso e l'Ariosto, ma beffa la
cavalleria, sferza l'Italia papale e spagnolesca e prepara il PARINI; imita il
CAPORALI ed apre la via al BARETTI, al GOZZI e al VERRI; mantiene i caratteri
della commedia cinquecentesca e annunzia il GOLDONI, parte dal GUARINI e giunge
al METASTASIO.
E fra un secolo e l'altro, fra l'Inquisizione e l'abolizione dei gesuiti, fra i
sospiri dei Petrarchisti e i belati degli arcadi, fra il Dalla Porta e Vico,
fra le lucide corazze dei paladini e dei Crociati e le armi di latta degli eroi
metastasiani, canta a piena voce, delirando in un'orgia di colori, di immagini
e di suoni, il cavalier MARINO.
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Prima di lasciare questo fecondo periodo della commedia dell'arte, non possiamo qui citare, GIULIO ROSPIGLIOSI (meglio conosciuto negli ultimi due suoi anni come PAPA CLEMENTE IX). Della stagione della Roma barocca Giulio Rospigliosi è stato uno degli attori più brillanti per quasi un trentennio. Benché la sua opera sia rimasta quasi interamente inedita fino a qualche anno fa, quando è stato celebrato il 400esimo anniversario della nascita, non vi è dubbio che in Giulio Rospigliosi sia da riconoscere in assoluto uno dei migliori librettisti italiani e il protagonista principale dei fasti del melodramma romano del Seicento, avendo contribuito in modo decisivo a determinarne i gusti e gli orientamenti.
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