Caricare documenti e articoli online 
INFtub.com è un sito progettato per cercare i documenti in vari tipi di file e il caricamento di articoli online.


 
Non ricordi la password?  ››  Iscriviti gratis
 

LIBRI E LETTURE NEL MONDO ROMANO - SUPERFICI SCRITTORIE

letteratura italiana



LIBRI E LETTURE NEL MONDO ROMANO


SUPERFICI SCRITTORIE

IL PAPIRO

Diffuso presso i Greci fin dal VI sec. a.C., il papiro venne introdotto piuttosto tardi a Roma. È attestato per la prima volta nel 181 a.C. quando, sul Gianicolo, venne scoperta un'arca contenente numerosi rotoli, peraltro ben conservati, appartenuti - così si voleva far credere - al re Numa Pompilio. I libri di contenuto filosofico, ritenuti pericolosi, vennero distrutti, giustamente a detta di Livio, i 222d38c n quanto «non erano originali, ma prodotti da poco tempo». Solo alcuni decenni più tardi, Roma ebbe modo di conoscere ed apprezzare libri confezionati con carta di papiro, in occasione del trasferimento a Roma della ricca biblioteca del re Perseo al termine della III guerra macedonica.

TAVOLETTE Dl LEGNO

I Romani, quindi, conobbero relativamente tardi l'uso del papiro quale materiale scrittorio: tutti i loro testi più antichi erano, infatti, costituiti da tavolette di legno unite insieme, dagli atti pubblici e privati agli scritti di natura letteraria. Riuscirono, comunque, a correggere i difetti di fabbricazione del papiro in Egitto e ne resero la superficie perfettamente liscia. Esistevano vari tipi di carta: la «ieratica», di prima qualità, cosìchiamata perché destinata alla redazione dei testi sacri, successivamente denominata "Augusta" dal nome dell'imperatore; la "carta di Livia", dal nome della sposa di Augusto, di seconda qualità; quella "dell'anfiteatro", chiamata anche "di Fannio" dal nome del grammatico latino che 1'aveva resa perfetta grazie ad un accurato processo di lavorazione. Carte meno pregiate erano la «saitica» e la teneotica, che prendevano il loro nome da centri di produzione del papiro ed erano fabbricate con fibre prossime alla corteccia; ed ancora "l'emporitica" destinata ad imballare le mercanzie. La qualità della carta dipendeva, oltre che dalla bianchezza e levigatezza, anche dalla sottigliezza. Per questo motivo l'«Augusta» era ritenuta la migliore, anche se l'eccessiva trasparenza mal tollerava l'uso del calamo. Perciò, pur rimanendo la più ricercata, subì una modifica al tempo dell' imperatore Claudio, che ideò un nuovo tipo di carta, raffinata ma robusta al tempo stesso. La «carta di Claudio» utilizzava per lo strato-base strisce di seconda qualità, per quello superiore strisce di prima. Anche la larghezza venne aumentata, passando da una media di 20 cm a 29,6, cioè un piede.





«SENZA RASURA»

Spesso, per questioni di economia, i rotoli potevano essere riutilizzati, dando cosí origine a «palinsesti», esemplari cioè in cui, cancellato lo scritto originario, ne veniva eseguito un altro. Per questo motivo molti testi giunti fino a noi recano una sorta di garanzia espressa dalla formula «senza rasura». Altri rotoli invece erano «opistografi», scritti cioè fin dall'inizio del loro utilizzo sul recto e sul verso. Questa prassi potrebbe spiegare la perdita parziale di testi antichi, avvenuta durante il loro processo di trasmissione. È stato inoltre notato in diversi volumina di carattere documentario l'impiego del verso per scrivere opere letterarie. Si pensa che questa consuetudine sia derivata dal poter disporre in qualche modo di rotoli già usati per copiarvi libri di seconda qualità. La carta non veniva comunque mai sprecata; e non infrequente era il suo riuso nelle scuole. Il libro riutilizzato piú celebre è l'insieme dei quattro volumina, tutti diversi tra loro, contenenti la Costituzione degli Ateniesi di Aristotele, precedentemente ricoperti sul recto dai rendiconti di un certo Epimaco.

LA PERGAMENA

Come ad Alessandria venne attribuito il merito di aver ideato la carta sfruttando la pianta del papiro, cosí a Pergamo fu attribuito quello di aver scoperto la pergamena. Ambedue queste città erano famose in età ellenistica quali centri di cultura; ma in realtà non inventarono nulla, in quanto sia il papiro che la pergamena erano conosciuti da epoche di gran lunga antecedenti. La consuetudine di scrivere su pelli animali era molto diffusa nel mondo orientale, sia per l'impossibilità di procurarsi il papiro in aree geografiche che ne erano sprovviste, sia per la trascrizione di memorie reali, come nel caso dei commentarii dei sovrani achemenidi o dell'archivio del satrapo persiano d'Egitto Arsam, risalente al V secolo a.C. A Roma la prima menzione di un libro confezionato con pergamena risale ad età flavia. Rispetto al papiro, la pergamena aveva il vantaggio di poter ricevere la scrittura sia sul recto che sul verso; si prestava meglio ad essere disegnata e più facilmente vi si poteva correggere, grattando la superficie, senza pericolo di rottura. Dagli esemplari rinvenuti si deduce che la pergamena risultava poco adatta ad essere lavorata su larga scala in forma di rotolo, come invece avveniva per il papiro, anche se sappiamo che a volte veniva confezionata in tale modo. Ben presto si comprese che era meglio unire le singole parti di pelle in pratici quaderni, piuttosto che cucirle laboriosamente fra loro per raggiungere l'ampiezza necessaria.

LE TAVOLETTE CERATE

Le tavolette cerate costituivano un tipo di supporto scrittorio noto nel mondo greco fin dall'età arcaica. Mentre in Grecia vennero, però, soppiantate dall'uso del papiro, in ambiente italico, soprattutto presso gli Etruschi e quindi anche a Roma, conobbero larga diffusione e molteplicità d'impiego. Di forma rettangolare, si presentavano di varie dimensioni, imbiancate col gesso e so1cate da righe per facilitare la scrittura (dealbatae), oppure ricoperte di cera (ceratae). Soprattutto in quest'ultimo caso mostravano l'orlo rilevato, in maniera che all'interno si potesse spalmare la cera che serviva ad incidere le lettere. Ugualmente in rilievo era una piccola parte della superficie destinata alla scrittura, in maniera che quest' ultima non venisse alterata dal contatto delle due parti adiacenti. La cera usata aveva un colore piuttosto scuro: per questo motivo Marziale chiama le tavolette «tristi». Le tavolette, tutte di legno, d'abete, larice, bosso o tiglio, potevano trovarsi riunite nella forma del codice in dittici o polittici; ed erano collegate fra loro a mezzo di un cordoncino, fatto passare lungo dei fori praticati sul lato esterno.Questo tipo di superficie scrittoria era adoperato sia per operazioni quotidiane, quali potevano essere le esercitazioni degli scolari o gli appunti degli uomini d'affari, sia per gli atti giuridici e amministrativi. Per i documenti pubblici di interesse generale venivano costruite grandi tabulae, mentre per quelli particolari (come ad esempio i testamenti o i diplomi militari) si usava invece una procedura specifica, nell'intento di evitare che le tavolette potessero essere falsificate. Le tavolette venivano chiuse mediante una cordicella, che si legava nella parte posteriore e sulla quale si mettevano uno o piú sigilli, alla presenza di testimoni che vi apponevano accanto la propria firma. Nerone emanò un senatoconsulto in base al quale, affinché i documenti scritti su tavolette cerate avessero valore legale. occorreva che prima dell'apposizione del sigillo la cordicella di chiusura fosse girata tre volte intorno al legno, e ugualmente tre volte passasse in fori praticati appositamente al centro dei lati lunghi della tavoletta. Oltre che a Pompei ed Ercolano, tavolette cerate sono state ritrovate un po' dovunque. in Nord Africa, Egitto ed Europa.


ALTRI TIPI DI MATERIALE SCRITTORIO

Altri tipi di tavolette di una sottile scorza di giovani esemplari di ontani e betulle,scritte con inchiostro, sono state ritrovate nel nord dell'Inghilterra, a Vindolanda, fortilizio romano lungo il vallo di Adriano. Lettere e documenti amministrativi che datano dai primi anni della conquista romana e dal I al II sec. d.C. Costituiscono una straordinaria testimonianza sulla vita quotidiana di una guarnigione romana ai confini dell'impero. La conservazione di questi importanti documenti è stata resa possibile grazie alla quasi assoluta mancanza d'ossigeno nel terreno in cui si trovavano, unita ad una certa percentuale di tannino prodotta dalla decomposizione dei reperti di cuoio presenti nello stesso scarico. Originale si presenta il loro confezionamento: ogni segmento-pagina è fornito di fori per l'allacciatura alle due estremità, il che fa desumere che l'insieme dei «fogli» abbia avuto una forma di piegatura «a soffietto>>. La scrittura, in caratteri corsivi, a disposta lungo in lato corto e, nel caso delle lettere, l'indirizzo è posto dietro l'estremità esterna destra.


LIBRI Dl TELA

Ugualmente strutturati si presentavano i libri lintei. Come suggerisce il nome stesso si tratta di libri di tela di lino, materiale scrittorio molto adoperato in età arcaica. Destinati in origine a custodire testi di natura sacrale e liturgica - erano lintei ad esempio i libri Sybillini introdotti a Roma da Cuma sotto Tarquinio il Superbo - sono attestati ancora in piena età imperiale per la registrazione delle res gestae (imprese) degli imperatori, conservate nella Biblioteca del Foro di Traiano. Libri di questa natura erano usati dalle antiche popolazioni italiche; non ne conosciamo però in ambito romano. Siamo comunque in grado di ricostruire la tipologia, in base ad un esemplare giunto fino a noi in maniera davvero singolare. Si tratta del liber linteus Zagabriensis, uno dei più cospicui testi in lingua etrusca finora conosciuti, riutilizzato a distanza di anni dalla sua redazione per avvolgervi la mummia di una tomba egizia acquistata intorno al 1850 in Egitto da un nobile slavo. Il liber contiene un lungo scritto di prescrizioni rituali, che si snodano lungo una striscia frammentaria di lino di m 3,50. Il testo si sviluppa da destra a sinistra in righe parallele ai margini lunghi: ed una doppia linea verticale rossa separa le colonne che lo compongono, delimitando in tal modo vere e proprie pagine. La struttura, come già detto, era «a soffietto» ed ogni piegatura coincideva con una pagina.



STRUMENTI SCRITTORII

IL CALAMUS

Il calamus era una bacchetta di canna o metallo appuntita intinta nell'inchiostro o adatta per superfici cerate. Si tenevano vari calami, riuniti in un fascio o dentro un astuccio, theca calamaria o graphirria. L'uso di tale strumento si conservò anche nell'alto Medioevo; ma a partire dal IV secolo fu sempre piú usata la penna d'uccello. Il calamo veniva intinto nel calamaio, atramentarium che conteneva 1' inchiostro nero, atramentum, spesso accoppiato con un altro vasetto per l'inchiostro rosso, cinnabaris. Il tipo più comune di calamaio era in terracotta, di varia forma: cilindrico, ovoidale o tronco-conico, munito di un foro al centro per il passaggio del calamus. I calamai potevano anche essere fabbricati in materiale più prezioso; tutti però avevano in comune un piccolo coperchio, sovrapposto alla base e provvisto di scanalatura affinché l'inchiostro si depositasse senza fuoriuscire. Era uso comune portare con sé, appesi alla cintura, la theca calamaria ed il calamaio, che a questo scopo erano forniti di anse o anelli.

INCHIOSTRI

Alcuni calamai rinvenuti a Pompei hanno rivelato al loro interno tracce di inchiostro. Questo poteva essere composto in vari modi; gli impasti più comuni erano costituiti da fuliggine, feccia di vino o nero di seppia. sempre comunque con una buona percentuale di sostanze gommose.  Il procedimento per ottenere l'inchiostro era il seguente. Una stanza appositamente costruita con volte e pareti di marmo era messa in comunicazione. per mezzo di un doppio condotto, con una stufa in cui bruciava della pece. Il fumo passava nella stanza ed aderiva alle pareti ed alla volta, formando uno strato di fuliggine che si raschiava e si lasciava seccare al sole. Si otteneva cosí un inchiostro solido, che per essere usato doveva essere diluito in acqua. Abbiamo anche notizia dell'impiego dell'inchiostro rosso, cinnabaris. Era ricava to da un minerale proveniente dalla Spagna. Blocchi di questa sostanza allo stato naturale venivano spedlti a Roma in pacchi sigillati, quale tributo provinciale. Solo a Roma il minerale poteva essere lavorato, trattandosi di un monopolio di Stato. Dopo che era stato pestato e tritato, veniva cotto per poterne estrarre il cinabro puro. A causa dei gas che esalavano durante quest'ultima operazione si rendeva necessario per gli operai portare una maschera, vescica. Talvolta accadeva che dalla Spagna, mescolati al minerale, venissero mandati pezzi di minio o calce. Anche il minio era usato quale inchiostro rosso; i Romani lo chiamavano minium secondarium e lo consideravano un cinabro di seconda qualità, il cinnabaris era usato per scrivere sull' oro o per far risaltare lettere incise. Nei libri venivano scritti in rosso i titoli, le iniziali, le prime linee e le note. Rari sono i libri scritti completamente in tale colore. Da Plinio conosciamo anche l'uso di inchiostri simpatici. Sappiamo da Ovidio che a volte se ne servivano gli innamorati per scambiarsi messaggi segreti. Uno di questi inchiostri era a base di latte: per renderlo visibile bastava cospargere la pagina di polvere di carbone. L'inchiostro di buona qualità non si rovinava con il passare del tempo. Ne abbiamo ottimi esempi nei rotoli rinvenuti nella Villa dei Papiri di Ercolano. Per cancellare gli errori invece, si adoperava una piccola spugna bagnata, spongia deletilis. Qualora la scrittura fosse molto vecchia, tanto da confondersi con le fibre del papiro che si voleva riutilizzare, si faceva ricorso all'alchimia, usando un preparato impiegato anche per rendere brillanti le perle. A quanto pare, le composizioni non gradite potevano anche essere, per punizione, cancellate con la lingua, come ci riporta Svetonio a proposito del comportamento dello stravagante Caligola durante un concorso di eloquenza: "Quei concorrenti poi, che erano piaciuti meno, ebbero anche l'ordine di scegliere tra cancellare con una spugna o con la lingua i propri scritti o essere trustati con verghe, o venir gettati nel fiume vicino».


ACCESSORI

Per tracciare le linee guida sulla carta e segnare i margini delle colonne si usava una sorta di rondella di piombo, che insieme al compasso serviva a squadrare geometricamente il foglio per prepararlo alla scrittura. La pietra pomice, infine, serviva a non far sfrangiare gli orli estremi del volumen, gli unici non incollati, che in tal modo venivano accuratamente levigati.    I rotoli che caratterizzavano le edizioni di lusso erano dotati di umbilici, bacchette di legno o di osso che si ponevano di solito alla fine del libro per facilitare 1' operazione di riavvolgimento del testo. Tali bacchette, a volte, presentavano le estremità ingrossate e colorate, alle quali potevano essere attaccati dei cartellini di identificazione, tituli, di forma triangolare, su cui veniva riportato il nome dell'autore e dell'opera contenuta nel rotolo. La carta destinata a contenere un buon libro non doveva essere solo di buona qualità, ma anche subire un trattamento tale che ne consentisse la conservazione. A questo fine si usava l'olio di cedro che, spalmato sui fogli prima della scrittura, li preservava, secondo Vitruvio, «dalle tignole e dalle muffe», dando loro un caratteristico colore giallo. Un'altra protezione efficace per i libri di papiro era costituita dalla membrana, un foglio di pergamena che avvolgeva il rotolo, proteggendolo. Questo involucro viene da Marziale chiamato paenula, vocabolo col quale s' indicava di solito un mantello piuttosto pesante, e toga. Il poeta, scherzando sulla doppia accezione di questi termini, teme che i suoi libri possano presto o tardi finire sui banchi del mercato, diventando toghe per tonnetti o mantelli per le olive.


.Il luogo deputato alla conservazione dei libri era la biblioteca, privata o pubblica. Sappiamo che questi edifici venivano dotati di armadi con ripiani o scaffali, all' interno dei quali erano collocati i rotoli, a file sovrapposte, con la fronte rivolta all'esterno ed il cartellino ben visibile per individuare subito l'autore e l'opera. La consultazione dei testi era facilitata dalla presenza di veri e propri cataloghi che, apposti sugli armadi, ne consentivano un semplice e rapido reperimento. Pare che i criteri in vigore per la catalogazione siano stati per tutta l'antichità quelli della famosa biblioteca ellenistica di Alessandria, in cui gli autori erano divisi, a seconda della natura dei loro scritti, in poeti e prosatori. All'interno di ogni gruppo poi venivano ulteriormente separati per ordine alfabetico, mentre le opere erano disposte a seconda dellà parola più importante contenuta nel titolo. Con tutta probabilità venivano accordati anche dei prestiti. Abbiamo diverse notizie dalle fonti, che a questo riguardo sono però alquanto discordanti. In alcuni casi pare che tale pratica fosse difficilmente perseguibile anche da parte di persone di una certa levatura; in altri si nota, invece, una certa superficialità, indice forse di lassismo. È quanto ci riferisce lo storico Vopisco a proposito del prestito, accordato dagli addetti della biblioteca Ulpia, dei rari e preziosi libri lintei. Sappiamo anche di libri concessi in cambio di laute mance. È il caso di Frontone, precettore dell'imperatore Marco Aurelio, alla ricerca urgente e disperata di due orazioni di Catone. Alcuni libri potevano avere un elevato valore commerciale e non di rado si verificavano furti. Cicerone si fece promotore di una vera e propria caccia all'uomo nei confronti di uno schiavo che, incaricato del riordino della sua biblioteca, era fuggito in Illiria con un gran numero di libri. Singolare appare invece il regolamento redatto da uno zelante bibliotecario greco del II secolo a.C., comprensivo di una formula di giuramento contro i furti: «Un libro non sarà portato via perché lo giurammo. [La biblioteca] sarà aperta dall'ora prima alla sesta». Infine, un ultimo sistema per conservare bene i libri in papiro era quello di riporli in speciali contenitori rettangolari, chiamati scrinia. o cilindrici, capsae, costruiti in legno di faggio. Di queste ultime conosciamo numerose rappresentazioni, dove appaiono munite di un coperchio con serratura e corregge per facilitarne il trasporto.

IL VOLUMEN

Gli antichi classificavano i loro libri essenzialmente in base alla forma in cui essi si presentavano. Per questo motivo è molto importante soffermarsi sulla definizione dei singoli termini con i quali vengono indicati i vari testi scritti. Il vocabolo volumen si riferisce all'azione stessa della lettura, che avveniva per srotolamento e avvolgimento (volvere) di un rotolo, il volumen appunto, di papiro o pergamena. Testi così confezionati potevano comprendere sia scritti di natura privata che opere letterarie. I rotoli, che in gran quantità provengono dall'Egitto, sono per lo più di carattere amministrativo: si tratta di note e resoconti economici, ma anche d'uso scolastico, come il lungo (9 m) papiro Guéraud-Jouguet di età ellenistica. A Roma 1'esempio più noto di volumina d'uso privato è costituito dall'epistolario ciceroniano. Il termine volumen stava ad indicare anche sezioni di un' opera letteraria: poteva cioè, insieme ad altri esemplari, formare un'unica composizione. In pratica, il rotolo costituiva un'unità-tipo sulla quale si basava il sistema di catalogazione in uso. Di rado un rotolo solo poteva contenere un'intera opera letteraria, salvo nel caso di brevi componimenti quali potevano essere ad esempio le elegie o gli epigrammi. Normalmente, anche per evidenti difficoltà pratiche di srotolamento, la sua lunghezza non era superiore a 20 fogli, corrispondenti a circa 12 m.    L' intera opera di un autore era quindi suddivisa in più rotoli. Questi ultimi erano a loro volta raggruppati in pentadi o decadi, cioè in gruppi formati ciascuno da 5 o 10 rotoli. Tale sistema di catalogazione potrebbe spiegare la perdita nel tempo di intere pentadi, o decadi, come nel caso dei libri VI-X di Diodoro Siculo o XIX-XL di Polibio. Dall'esame dei reperti in lingua latina si nota che l'uso del volumen perdura sino alla fine del III secolo d.C. Successivamente quasi tutti i testi saranno trascritti su codici; ma anche nell'epoca della loro piena affermazione il rotolo rimarrà quale simbolo unico ed insostituibile della vita intellettuale piú alta.


IL CODICE

L' altra forma libraria in uso presso gli antichi era il codice. Comunemente per codice s'intende un testo su pergamena; conosciamo però anche codici in papiro, soprattutto opere di carattere popolare, come ad esempio i Phoinikikà di Lolliano del II secolo d.C. Il sistema di confezionamento di un codice in pergamena avveniva praticando una particolare piegatura delle pelle, in modo da evitare le differenze di colore una volta eseguito il taglio. Si cercava, cioè, di alternare il lato carne ed il lato pelo, in maniera tale da non creare squilibri cromatici all'interno del libro. Il formato classico del codice era il quaternio, composto da 4 fogli, 8 pagine, 16 facciate. Questo criterio veniva però modificato nel caso di inserimento di altri fogli, che formavano dei fascicoli in più all' interno del libro. Tale operazione poteva avvenire nel corso della trascrizione di un testo troppo lungo, che necessitava di uno spazio maggiore di quello previsto L'immissione di altri fogli permetteva spesso di aggiungere anche altre brevi opere. È il caso ad esempio del corpus delle orazioni di Lisia e degli oratori attici minori, pervenuteci nel codice X della metà dell'XI secolo. Questo codice, che si rifà ad un modello tardo-antico eseguito per la biblioteca imperiale di Costantinopoli, doveva originariamente comprendere solo le orazioni III-XXXI di Lisia. Successivamente vennero aggiunti anche i discorsi di Antistene, Alcidamante e Demade, le prime due orazioni di Lisia, nonché l'Encomio di Elena di Gorgia: certamente questo sistema, dovuto allo zelo di qualche anonimo scrivano bizantino, ha consentito che pervenissero fino a noi opere che altrimenti sarebbero andate perdute per sempre.

LINEE GUIDA

Compiuto 1'allestimento dei fogli, si procedeva ad allineare le righe del manoscritto, praticando dei fori nei fogli in maniera tale da mantenere sempre costante il rapporto tra testo e margine. Quindi con lo stilo si tracciavano le linee guida per la scrittura. Una volta ultimata la trascrizione, i fascicoli venivano cuciti verticalmente e rilegati. Ad evitare che il libro cedesse lungo la costola, i fascicoli erano inoltre uniti fra loro con linguette orizzontali e quindi incollati alle tavolette di rilegatura. La prima testimonianza dell'uso di un codice in pergamena a Roma si trova in Marziale. Siamo negli anni 93-94 d.C. ed il poeta esalta le qualità di questo nuovo prodotto: la maneggevolezza e la capacità di accogliere un testo molto più esteso di quello che poteva essere contenuto in un rotolo. I Romani, come già visto, avevano fin dalle epoche più antiche utilizzato libri in forma di codice, a tavoletta o «a soffietto»; quindi la riscoperta del codice in pergamena, come contenitore di scritti destinati anche ad un pubblico colto, fa sì che progressivamente il codice prenda il posto dei raffinati ma ingombranti rotoli introdotti dalla moda ellenizzante della tarda repubblica. In realtà il codice, che come concezione si avvicina al libro moderno, esisteva da tempo, sia per scritti occasionali, quotidiani, scolastici e per registrazioni pubbliche e private, sia nelle regioni periferiche dell'impero, dove minore era l'influenza del rotolo, anche per ragioni di lontananza geografica dall'Egitto, come nel caso delle tavolette di Vindolanda. La maggiore praticità, unita ad innegabili fattori economici, alla fine ebbe il sopravvento, grazie anche alla completa adesione al codice della nuova religione cristiana.

GLI ACTA DIURNA, ANTENATI DEI NOSTRI GIORNALI

Con il termine Acta diurna, urbana, o populi, i Romani indicavano la registrazione di tutti gli atti pubblici piú importanti e degli avvenimenti che accadevano in città. Anticamente questo compito era affidato ai pontefici, che scrupolosamente annotavano tutte le vicende inerenti la vita sociale e ne custodivano la documentazione. Gli Acta venivano conservati negli archivi pubblici, fornendo così una preziosa fonte d'informazione per gli storici che spesso ci hanno tramandato, anche se rielaborate, importanti notizie che diversamente sarebbero andate perdute. Spetta a Giulio Cesare il merito di aver provveduto, durante il suo primo consolato, alla redazione ed alla pubblicazione degli Acta ad uso del popolo. Infatti le notizie, scritte giornalmente su appositi muri imbiancati, venivano ricopiate dai librarii e messe in vendita a pagine e capitoli. Ognuno era così in grado di apprendere fatti relativi alla vita pubblica, dagli estratti dei senatoconsulti ai discorsi dell'imperatore, ai processi e relative condanne o ancora alle notizie riguardanti la casa imperiale ed i suoi componenti. A lato di queste informazioni ne venivano date anche altre minori, di cronaca, riguardanti le persone piú in vista della capitale, le vittorie nei giochi, i prodigi, le curiosità ed i pettegolezzi: fabulae et rumores per dirla con Cicerone.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Per un inquadramento generale della materia si vedano i seguenti volumi e saggi: F. Pesando, Libri e Biblioteche. (Vita e costumi dei Romani antichi, 17), Roma, 1994; A. M. Liberati, libri, giornali e corrispondenza, in Vita quotidiana nell'Italia antica, II, Milano 1993, pp. 115-129; G. Cavallo, Libro e cultura scritta, in Storia di Roma, IV, Torino 1989, pp. 693-734. Per il problema della diffusione del libro nella società romana, si possono consultare i saggi di G. Cavallo, Libro e pubblico alla fine del mondo antico e di T. Kleberg, Commercio librario ed editoria nel mondo antico, in Libri, editori e pubblico nel mond(J antico, Roma-Bari 1977 pp. 83-132 e 40-80; quelli di P. Fedele, Autore, committente, pubblico in Roma, I, in Introduzione alle culture antiche, I, Torino 1983, pp. 80-103 e I sistemi di produzione e diffusione libraria, in Lo spazio letterario di Roma antica, II, Roma 1990. Sulla conservazione dei libri e sulle biblioteche, si consultino i saggi di P. Fedeli, Biblioteche private e pubbliche a Roma e nel mondo romano e di L. Canfora Le biblioteche ellenistiche, in Le biblioteche nel mondo antico e medioevale, Roma-Bari 1989, pp. 31-64. Per problemi particolari sono inoltre utili il saggio sulla mummia di Zagabria di F. Roncalli , I1 Liber Zinteus di Zagabria in Scrivere etrusco, catalogo mostra, Perugia 1985, pp. 17-64; e il volume di G. Cencetti, Lineamenti di storia della letteratura latina, Bologna 1954, che contiene interessanti informazioni sulla scrittura antica.


LA SCUOLA NELL'ANTICA ROMA

Ludus (ludus litterarius) era la scuola elementare, la media e la superiore erano schola. La tecnica del parlare in pubblico o retorica era insegnata da un docente specializzato (rethor oppure orator) (Archeo 151 settembre 1997, pag.71).


Ludi magister per indicare il maestro elementare fu sostituito da Diocleziano nel 301 d.C. con magister institutor litterarum. Orator era l'insegnante di retorica. La lezione terminava con la correzione dei compiti (emendatio) e con il voto (iudicium).



Per gli alunni vi erano sedili senza schienale (scamna), magari con sgabello per i piedi (scamillum). Il maestro stava su una cathedra con braccioli, su una pedana (pulpitum). Vestito di un matello (pallium) o di una toga. Un rotolo di papiro si srotolava da destra verso sinistra per lo scorrere della scrittura che era inversa, e alla fine della lezione si riponeva in un contenitore (scrinium). Si scriveva con una cannuccia (calamus) intinta in calamaio (atramentarium). Su tavolette cerate colorate si scriveva con uno stilo (stilus o graphium) in metallo, avorio od osso, legno o materiale più prezioso, con all'altra estremità una spatola per cancellare o correggere (stilum vertere). Gli scolari portavano con sè i loro strumenti in un astuccio (theca).


EDUCARE A SUON DI FERULA

Le punizioni facevano parte del programma educativo. Infatti per una categoria professionale che doveva impartire nozioni quasi solo mnemoniche e prive di un effettivo interesse, che lavorava in edifici spesso precari senza godere di alcuna considerazione, l'unico modo per attirare l'attenzione degli.alunni in maniera efficace e costringerli allo studio era spesso quello di ricorrere alle percosse.

Lo strumento piú comune era la ferula, una canna provvista di nodi di legno. Per infliggere punizioni piú gravi si usava la scutica, una frusta fatta di strisce di cuoio o staffile, ed ancora la virga, uno scudiscio formato da un fascio di strisce di cuoio. Lo scolaro veniva appoggiato sulle spalle di un compagno, mentre un altro ne teneva ben ferme le gambe, e quindi veniva frustato. La pena, oltre che dolorosa, era anche umiliante, perché il malcapitato veniva denudato prima di essere sottoposto alla punizione. I castighi rimasero impressi nei ricordi di gioventù di molti scrittori antichi. Il poeta Orazio, per esempio, ritrae il suo maestro Orbilio Pupillo come un isterico che mollava sberle per un nonnulla (plagosus); Marziale descrive spesso le urla dei bambini che provenivano da una vicina scuola; mentre S. Agostino racconta di essere stato percosso orribilmente perché non riusciva a imparare il greco.

L'AUTORITA' DEL PADRE

Sin dai tempi più antichi i Romani attribuirono grande valore ad un tipo di educazione dai contenuti fortemente morali e che consisteva in gran parte nella trasmissione di conoscenze ed esperienze (mos maiorum) dalle vecchie alle giovani generazioni, con lo scopo di formare buoni cittadini partecipi della vita politica, bravi contadini e valorosi soldati, madri e spose onorate. Il massimo responsabile di questo sistema educativo era il capofamiglia (pater familias). I capifamiglia dell'aristocrazia riuniti in assemblea (patres conscripti) costituivano il maggiore organo consultivo dello Stato romano (senatus). I loro compiti educativi rientravano in una organizzazione familiare di tipo patriarcale, fondata su un potere assoluto, rispetto ai membri del proprio nucleo: questa potestà aveva valore legale e veniva praticata sulla. moglie (manus), sui figli, su schiavi e clienti (patria potestas). La patria potestà non coincideva necessariamente con la paternità biologica e poteva essere estesa agli orfani e agli adottati; non ammetteva alcuna interferenza, se non da parte dei censori in caso di comprovata crudeltà. I privilegi del padre erano senza limiti: poteva disporre dei beni materialì dei figli, rifiutare, se voleva, il neonato, venderlo, farlo incarcerare o condannare a morte.



LE ORIGINI DELL'ERMETISMO

(Storia delle religioni, UTET, Vol. III, 1971, GIULIA SFAMENI-GASPARRO pp.397 sgg.)


Sotto il nome di Hermes Trismegisto fiorì nei secoli intorno all'era volgare una ricca e varia letteratura in lingua greca, le cui più antiche espressioni furono, con ogni probabilità, scritti di astrologia (III o II sec. a.C.). Più tardi, peraltro, la tradizione ermetica si inserì vivacemente nella problematica spirituale del proprio tempo, interessandosi ai principali interrogativi filosofici e religiosi. Nei primi secoli dopo Cristo si sviluppò così un ermetismo « dotto » dalle chiare implicanze gnostiche espresso soprattutto dai diciassette trattati del cosiddetto « Corpus Hermeticum » giunti fino a noi - il quale proponeva una propria soluzione al dramma spirituale di quanti ormai, più che una rigorosa dottrina - ché tale non fu mai l'ermetismo -, cercavano una << fede >> nella quale dimenticare dubbi ed incertezze. La letteratura ermetica, infatti, già nella sua forma più antica, «popolare» (1) è, una letteratura di rivelazione e come tale si appella all'autorità della parola ispirata di un dio, Hermes Trismegisto (2), che i greci identificarono con il dio egiziano Thot. Per tale identificazione le dottrine ermetiche si presentano come espressione ultima dell'antica sapienza egiziana.


(1) Cioè tutto il complesso di opere pseudo‑scientifiche (astrologia, magia, alchimia ecc.) attribuite al Trismegisto.

(2) Questo attributo del dio secondo il Festugière (Paris 1950) avrebbe avuto origine da una contaminazione del superlativo greco meghistos comunemente riferito agli dèi egiziani, col superlativo egiziano ottenuto con la ripetizione del positivo. Nel testo greco di Rosetta l'aggettivo egiziano << il grande >> riferito ad Hermes, appare tradotto con l'espressione megas kai megas e in un papiro di Monaco il dio è chiamato meghistos kai meghistos (Hopfner in H. Bonnet, Berlin 1952). Ancora, dal tempo di Tolomeo IV Filopatore (221‑205 a. C.) il superlativo egiziano è tradotto in greco con la ripetizione per tre volte, di meghistos. Sembra quindi che appunto da tale uso sia derivato l'appellativo trismeghistos, << tre volte grandissimo >>. Questo attributo, peraltro, già nell'antichità fornì il pretesto alle più varie interpretazioni. Tra gli studiosi moderni, il Reitzenstein (Poimandres, Leipzig, 1904, p.117) ritiene che esso derivi dal fatto che Hermes, come risulta da un papiro magico da lui citato, sarebbe stato accompagnato da due divinità, formando così una triade.


IL DIO THOT E LE ORIGINI DELLA TRADIZIONE ERMETICA

Una prima caratteristica di Thot è quella di essere lo scriba degli dèi, e in questa sua qualità egli è protettore delle scienze e in genere di tutte le attività spirituali (1). Talvolta gli è accanto Seshat, dea della scrittura. Egli è ritenuto l'inventore del sistema geroglifico, è chiamato <<principe dei libri » ed infine, secondo una proprietà comune ai saggi egiziani, è anche mago (2). Ancora, Thot assume una posizione di primo piano nel sistema teologico elaborato dai sacerdoti di Hermoupolis (Khmonou, nel Medio Egitto), i quali gli attribuirono una precisa funzione cosmogonica. Il dio, infatti, nella sua qualità di mago, avrebbe attuato la creazione del mondo attraverso la parola, come per una sorta di incantesimo. Le prerogative medico-magiche di Thot sono sottolineate anche nel ciclo dei miti relativi ad Osiride, in cui appunto questo dio assolve una importante funzione (3).


In Erodoto (II, 138) troviamo la prima testimonianza dell'identificazione di Thot con il greco Hermes, la cui personalità ben si prestava ad essere accostata a quella del dio egiziano, patrono delle scienze, saggio per eccellenza. Thot, secondo diversi scrittori antichi (tra cui Clemente Alessandrino), sarebbe stato autore di varie opere. Tuttavia, come avverte il Festugière (op. cit., I, p. 76), non esistono prove concrete dell'esistenza, in epoca faraonica, di una letteratura attribuita a Thot, salvo alcuni riferimenti alquanto vaghi a composizioni di carattere magico. Numerose fonti testimoniano invece il sorgere e l'ampio diffondersi, fin dall'epoca dei Tolomei, di una letteratura ermetica in lingua greca, cioè l'affermarsi di quella tradizione, che ormai si appella all'Hermes-Thot in quanto Trismegisto.

(1) Sotto il patronato di Thot sono poste la medicina, l'astronomia e più tardi anche l'astrologia e l'alchimia oltre che la magia.

(2) Thot ha rapporti con l'oltretomba. Infatti gli è attribuita la composizione del Trattato segreto dell'officiante e la codificazione delle cerimonie che trasformano i morti in spiriti gloriosi.

(3) Egli guarisce Horus, figlio di Iside e di Osiride, ferito nella lotta con Seth, il dio nemico ed uccisore del padre. E'interessante la connessione di Thot con i miti isiaci perchè essa si riflette anche nell'ambito della tradizione ermetica (Kore Kosmou).





Privacy




Articolo informazione


Hits: 2913
Apprezzato: scheda appunto

Commentare questo articolo:

Non sei registrato
Devi essere registrato per commentare

ISCRIVITI



Copiare il codice

nella pagina web del tuo sito.


Copyright InfTub.com 2024