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LETTERA NOME NUMERO. L'ORDINE DELLE COSE IN DANTE di Guglielmo Gorni - Il numero di Beatrice

letteratura italiana



LETTERA NOME NUMERO. L'ORDINE DELLE COSE IN DANTE di Guglielmo Gorni


Premessa.


Testo rinvia soprattutto alla Commedia

leggere nasconde un significato totalizzante: percepire, ricomporre, significar per verba (parole) il gran volume del mondo; nonché, come è costume di Dante, farsi interprete in prima persona del proprio, specchio tutt'altro che distaccato di quello




Non è affatto casuale che il titolo di questo libro si condensi in forma di trinomio; e che il numero dei saggi, 9, rappresenti il quadrato di questa cifra.


quanto più invecchia e si fa assidua la mia frequentazione dell'opera dantesca, tanto più mi appare problematico il tentativo di dare un'immagine unitaria dell'autore

quanto più unitaria mi appare, nella sua dialettica e singolarità, l'opera di Dante, tanto meno definibile mi sembra l'intero organismo


Si tratta di un sistema che si può ammirare solo di lontano, molto di lontano, nella sua integralità.


Altra cosa, però, è l'interpretazione dei testi ci si aspetta più audacia, un abito meno convenzionale e conformista


L'interprete deve operare in campo aperto, senza la copertura di scopi pratici, o la scusa di compromessi scolastici.


Accade poi, nella pratica, di

essere limitati dalla propria inadeguatezza cognitiva

patire scarsezza di mezzi, difetto di dati superstiti o di erudizione


L'interpretazione deve puntare con decisione su certi aspetti o su certi toni, a discapito di altri magari validissimi, ma non immediatamente pertinenti


si deve trattare di una lettura che si avventuri fuori dagli itinerari consueti, e voglia arrischiare nuove combinazioni al gioco


la tensione del lettore si allenta, se disturbata da troppi segnali, proiettata nei vortici di note senza fine, se oppressa da mille minuti accidenti, dati indistricabili, fonti accumulate a scopo didattico


Come arrivare all'interpretazione del testo?? per 3 vie, da separare fermamente:

o con atti di filologia pura, che tendano ad una ricognizione dei fatti esperta e precisa, e dunque alla soluzione, o alla nuova impostazione, di questioni specialmente legate alla critica testuale

o in forma di commento, puntualissimo e veramente al servizio dei testi

o infine grazie ad una conoscenza dell'opera per nuclei differenziati, frammentaria e intermittente


La conoscenza dell'opera per nuclei differenziati ha però il vantaggio di poter percorrere trasversalmente il poema, rivitalizzando con connessioni inattese zone opache dell'opera, tematicamente distanti fra loro.


lettera

nome

e numero

mi sono sembrati parametri importanti per misurare, nella testualità dantesca, l'ordine delle cose


Principio e fine dell'impresa, punto di partenza e punto di arrivo di ogni discorso, l'opera di Dante; la bibliografia specifica, l'erudizione settoriale relativa all'autore studiato sono una condizione necessaria, ma nell'atto di far critica devono saper tacere.


questo libro non raccoglie atti di filologia dantesca pura, contributi tecnici, studi di metrica

ha spazio qui un commento continuato e rettilineo, parallelo ai testi

Invenzione dantesca: quella che s'intreccia intorno alla I, lettera, nome e numero di particolare prestigio


nella gamma alfabetica delle 5 vocali, spicca significativamente la centralità della I

nel sistema dantesco, I è anche nome, il Nome per eccellenza

I è anche un omaggio all'unità del solo Dio, per quanto può esprimersi l'indicibile in terra

nel segno di I, il rapporto tra lingua umana e nome di Dio, tra terra e sommo bene è verticale, diretto, da creatura a creatore D nel segno di L, tale rapporto si complica di una dimensione orizzontale, come è nella natura doppia di questa lettera (intaccamento, sul piano dell'espressione umana, con quanto di terreno, di torto, di greve veicola un'orizzontalità aggiunta sopra)


I è numero che indica, con misero computo, di quante buone qualità vada adorno Carlo II detto il Ciotto, re di Napoli e di Gerusalemme, a paragone dei suoi mille difetti


c'è insomma I e I:

I è il sommo bene

la stessa I (minuscola, anche per visualizzare il discrimine tra l'unica sua gamba e le 3 della m) designa invece una bontà tutt'altro che somma, anzi ridotta ai minimi termini


La mutabilità delle lettere, e cioè la loro intrinseca ricchezza e forza di rivelazione del reale, è un fenomeno sorprendente.


Questo libro, sempre movendo dalla scrittura di Dante e non da occasioni esterne ad essa, dal concreto della lettera e non da prestesti astratti, intende indagare i presupposti profondi del testo, esplicitati solo in parte da chi l'ha prodotto

E

il che non significa affatto che esso si ponga sulle tracce dell'inconscio del testo

E

questo libro cerca anzi, all'opposto, di portare in luce progetti taciuti, ma in larga misura noti e ben presenti alla mente consapevole dell'autore


La Commedia tutto sopporta, e ha sopportato, nel corso di un'interpretazione secolare; ma è poi fieramente impermeabile ad ogni approccio che non faccia i conti con l'autocoscienza dantesca.


È necessario ipotizzare e assumere, per quanto è possibile, la forma mentis di Dante.


È necessario altrettanto guardare alla metrica del poema: della quale non si potrebbe dire che è un fatto puramente pratico e accidentale.


I.   Il nome di Beatrice.


Al nome di Beatrice, Dante riconosce valore di modello, con un solo significato, dichiarato una volta per tutte.


L'appellativo della gentilissima è inclusivo di tutta la fenomenologia medievale relativa al segreto onomastico.


Finzione e mascheramento, imprecisione e segreto sono condizioni essenziali della lirica romanza, della concezione cortese dell'amore:

trovatori e trovieri si conformano a queste regole d'arte allusiva

ciò è programmatico nei cultori della poetica del trobar clus (stile di alcuni trovatori provenzali volutamente ermetico e oscuro)


ciò si realizza nell'invenzione di strutture metriche portatrici di ambiguità semantica (relativa al significato)


L'onomastica (studio dei nomi propri), più di ogni altro elemento, è sottoposta ad un esteso processo di trasformazione e di stratagemma

E

il nome proprio è indice di un grado, più o meno elevato, di segretezza, depositario di virtù nascoste

Non di rado anzi il contesto onomastico risulta indecifrabile

tanto più al lettore

alla persona a cui il poeta parla

o a quella stessa di cui parla


Nel testo medievale il nome proprio ha una doppia natura:

quel d'entro, cioè la parte segreta, materia di riflessione interpretativa ovvero oggetto di rivelazione

e la scorza, l'apparenza fisica della lettera, la cui funzione oggettiva entro l'opera non è affatto esplicita


il rapporto tra queste 2 qualità è illustrato nella pratica dell'interpretatio nominis (interpretazione del nome), strumento privilegiato della ricerca antica


È necessario attuare una lettura che non ignori la natura di testo forte della Commedia e delle altre opere (il testo parla, oltre la volontà dell'autore e le formalità della lettera, e non dice tutto lui).


È necessario

trasmettere un'eredità aperta e non definibile di un sapere oggettivabile

restando a Dante, rinunciare ad uno statuto di pura e assoluta soggettività, mirando solo al suo ordine ferreo di discorso


Dante, sul nome di Beatrice, ha già elaborato una sua teoria: fin dalla Vita Nuova, l'interprete si è sovrapposto in lui all'autore, nella puntigliosa decifrazione del senso.


Perché il segreto del nome?? è chiaro che lo statuto di incomprensibilità riconosciuto al nome proprio

rimette in causa la sua funzione oggettiva

e spezza l'univocità tra la persona e la sua appellazione


l'infrazione è grave, perché tale legame, instaurato dal sacramento del battesimo, a cui si sottomise pure Cristo, è, nella concezione medievale, un legame sacro


Sotto la giurisdizione del segreto

il nome muta

oppure, nella sua stabilità apparente, allude ad una realtà diversa, più complessa e più ricca di quella che designa


mutar nome, al tempo di Dante, significa pronunciare una fedeltà totale (il monaco che entra in convento e assume il nome di un santo dell'ordine)

E

anche il divenire suddito d'Amore comporta una professione di fede cortese, con il cambiar di nome entro la cerchia degli eletti


Perché il segreto del nome proprio??

una prima ragione è per soddisfare un'esigenza di discrezione cortese, specialmente allo scopo di non compromettere una persona determinata, iscrivendone a chiare lettere il nome nel testo (discrezione, in quanto tale, impaziente di rivelazione)

un'altra casistica di singolare interesse, diversa dalla precedente, ma indirizzata al medesimo fine, è esposta dal caso della donna schermo, collocata in un punto intermedio della traiettoria che lo sguardo di Dante traccia verso Beatrice, e perciò creduta oggetto delle sue attenzioni in questo modo, il segreto non è più soltanto un fatto di appartenenza onomastica, bensì cantare una donna con il proposito nascosto di rivolgere ad altra donna il proprio canto (un segreto creato non per semplice contraffazione di nome, ma radicalmente per interposta persona: il che tuttavia significa per interposto nome, perché la persona non conta)


Ma se per definizione il nome proprio designa l'individuo nella specie, ovviamente un nome che rinvia infallibilmente ad una persona reale è inadeguato al livello stilistico a cui il testo aspira di qui la necessità del mutamento


Il nome non dev'essere un ostacolo alla scoperta del vero, all'affermazione della natura intrinseca di chi lo porta, chiusa nelle virtualità del significante; anche se l'indagine onomastica può in definitiva approdare all'impossibilità di dire e di andre oltre, nella lode o nell'indagine.


Il senso segreto connesso al nome proprio non è un'iniziativa privata dell'autore

E

l'autore, operando la sua scelta onomastica, deve rispettare il criterio di consequenzialità enunciato in primo luogo nel nome di Amore, dittatore interno della poesia ispirata, e dunque modello assoluto di ogni interpretazione del nome


Il mistero del nome è decifrabile nella sua interezza solo da chi sa leggere oltre il senso primo e al di là della circostanza, ammaestrato a cogliere quel d'entro dietro la scorza

E

forte polemica nei confronti delle interpretazioni avventate e rivendicazione del carattere misterioso dell'interpretazione, strumento delicato da non lasciare nelle mani degli inesperti


Dante segna lo stacco tra vera e falsa interpretazione contrasto tra:

posizione di chi ingenuamente, in Beatrice, non vede se non il nome di "colei che bea" (colei che rende beato) (lettura elementare, limitata, se non proprio fallace, della lettera)

e quella di Dante stesso, che giunge "a dare ad intendere ch'ella ero uno nove, cioè uno miracolo" (autentica interpretazione)


Per Dante il cammino di approssimazione alla verità della lettera, nell'interpretazione del nome, passa attraverso una stazione che non si può evitare, quella di Giovanna, la donna di Guido Cavalcanti.


Nelle rime del primo amico di Dante il suo nome non si trova scritto, in chiaro o in cifra, nel testo

E

in un sonetto però, "quella ch'è nel tondo sesto" è la perifrasi astrologica di Giovanna, il cui nome, di tutt'altra origine e di sacralità evangelica, è qui connesso dal Cavalcanti a Giove, con invasione etimologica dal mondo cristiano a quello pagano

E

a partire dai soli testi cavalcantiani però non è lecito operare alcun collegamento tra Primavera e Giovanna


Dante sarà il primo a collegare, di propria iniziativa, questi 2 nomi, in un processo di derivazione e di consecuzione necessarie, esplicitando le virtualità della lettera


una densità di significato profetico, un'esemplarità di ordine miracoloso va riconosciuta al nome di Giovanna ed è Amore in persona che scioglie l'enigma

E

si tratta proprio di un secondo battesimo voluto da Amore per sua misteriosa astuzia: la verità del secondo nome Primavera apparirà chiara solo in un evento futuro e imprevedibile, cioè "lo die" che la donna "prima verrà"


Il nome di Giovanna è il più alto dei nomi di donna, perché deriva da quello di Giovanni, il Battista, che è il maggior profeta.


Ma se Giovanna, per una donna, è il nome più alto possibile, sul fondamento di quello di Beatrice Dante vuol superare l'amico e antagonista, e occupare la posizione suprema che nella lirica duecentesca è occupata da Giovanna.


Il nome di Giovanna è una specie di prova generale dell'interpretazione del nome applicata a Beatrice, colei che verrà dopo.


Beatrice o la pienezza del nome


In un caso il nome di Beatrice opera come fattore negativo: dunque, rispetto alla lettera, in forma di paradosso vi si sottolinea la coincidenza di amore e dolore


una Beatrice che, invece di amore, dà morte


Basta leggerlo, quel nome, per soggiacere ad un'efficacia e ad un potere evocativo di cui la persona stessa non potrebbe fornire prova più calmante.


La virtù del nome di Beatrice è talmente forte, che a farne sentire gli effetti bastano sparse sillabe, lettere spezzate di quel mirabile insieme.


Il nome di Beatrice occupa tutti i sensi, estendendo il suo influsso non solo sull'occhio che legge, ma anche sull'orecchio che ode.


La pronuncia di quel nome non comporta per Dante alcun indugio sensuale, o piacere edonistico: è invece uno stimolo alla mente, rinvia ancora una volta ad un "libro de la memoria" da leggere

E

già nella Vita Nuova la prima definizione in assoluto di Beatrice era appunto quella di "gloriosa donna de la mia mente"


Amore = Beatrice


La designazione di Beatrice beata, latinizzata in Beate Beatrix è l'interpretazione del nome più ovvia, non la più comune.


Un'eccezione anche più arcaica si ritrova nell'autentico hapax legòmenon di Dante, che fa di Beatrice una bella gioia quasi a correzione di questa bella gioia profana e cortese, si avanzerà più avanti un'interpretazione di segno opposto


Beatrice e il nove sono una cosa sola


l'essenza profonda del nome consiste appunto in questa singolare amicizia che lega Beatrice al nove, in vita non meno che nella data di morte


La costanza del nove sarebbe dunque una sorta di rispecchiamento terreno della perfetta disposizione dei nove cieli, quale si verificò al momento del concepimento della donna

E

una spiegazione naturalistica tuttavia non basta: per sostenere il suo assunto, Dante sviluppa una teoria basata sulla Trinità: il nove come diretta emanazione del 3, immagine prima, prodotto primo della Trinità


Beatrice fu accompagnata dal nove in coincidenza di tutti i principali momenti della sua vita


si tratta di vedere se questo accompagnamento

si limita ad un piano puramente esistenziale, scandito cronologicamente da un modulo costante

oppure se il numero nove incide sulla natura stessa del nome, e accompagna intrinsecamente la consistenza fisica della lettera


Nelle poetiche e nella pratica testuale del Medioevo, latino e volgare, si possono trovare numerosi punti di contatto tra lo statuto del nome proprio e quello del numero.


Tutto, secondo Dante, può servire alla scrittura; ogni segno del reale è leggibile come una lettera tracciata su un gran libro aperto; la lettera si stampa e si rivela ovunque, nella natura delle cose.


Numeri che raffigurano delle lettere, e lettere che compongono un nome.


Alla luce di questa ricerca medievale del numero/nome, si può trovare una più sottile ragione di parentela tra Beatrice e il nove si consideri la scrittura latina del nome, BEATRIX


essa, come AMOR (A + MOR), può essere scomposta in 2 elementi, corrispondenti a radice e desinenza, BEATR + IX: in questo modo, Beatrice risulta letteralmente accompagnata dal nove, dato che IX ne costituisce appunto la parte terminale (anche se il nome della gentilissima, nell'opera dantesca, è sempre registrato in volgare)


la radice del nome, BEATR, accompagnata dal IX, è a sua volta anagramma di BERTA, la donna per antonomasia secondo le categorie dantesche


in definitiva Beatrice, anche secondo le ragioni segrete della lettera, è una donna (Berta) - miracolo (IX), come appunto volevasi dimostrare


Vi è poi una "più sottile ragione", evocata sì, ma taciuta, che invita il lettore, "più sottile persona", a tentare di colmare la lacuna lasciata dall'autore e a collaborare attivamente alla scrittura chiave di lettura gematrica (il sistema dell'alfabeto designa una serie biunivoca e continua di numeri) per evidenziare la conversione del nome di Beatrice in quello di Amore


il valore gematrico di AMOR (A+M+O+R) è 44, e che anche BEATR+IX dà 44-IX: Beatrice dunque come somma di Amore e miracolo


Ci si può chiedere se, nel corpus della lirica di Dante e nei suoi corrispondenti poetici, il nove, con i suoi annessi novo, novello, indotti dal gioco di parole, funziona realmente come segno della donna la semantica (significato) di nove e di Vita Nuova s'intrecciano indissolubilmente nel prosimetro


Le lodi del nove, e del nome che lo incarna, si limitano alle rime della Vita Nuova e della giovinezza

E

nella Commedia, l'elogio del nove non ha luogo, perché il nove è un miracolo per occhi umani, e non per i beati, che, al cospetto della Trinità, ne fanno benissimo a meno


Se la Vita Nuova è il libro del nove, del miracolo terreno, la Commedia è il libro del 3: in un'ascesi

dall'umano al divino

dal riconoscimento dell'evento alla contemplazione dell'idea


II.     Il nome di Amore.


Il nome di Beatrice, ad un certo punto della Vita Nuova, si converte in quello di Amore


Dante imnagina Amore che gli compare davanti e gli parla come se fosse una persona viva; Amore precede 2 donne: Giovanna, che "fue già molto donna di Guido Cavalcanti", e Beatrice stessa; al dire dell'autore, "parve che Amore mi parlasse nel cuore"


la chiusa realizza una sapiente simmetria con l'esordio, sottolinenando Incipit vita nova (inizio della vita nuova)


il congedo da Beatrice e dal libello ha un prolungamento nell'opera futura, proprio nel momento in cui Dante ritrova la sua "antica fiamma" nel Paradiso Terrestre


La seconda, e più diffusa, digressione di Amore illustra la ragione vera, ma non proprio evidente, che indusse "lo imponitore del nome" a chiamare Giovanna con il nome di Primavera.


Il nome originario della donna (Giovanna) conteneva già in potenza il significato di guida, di precursore.


Lo stesso Cavalcanti dà una lettura ingenua o noncurante, ferma riduttivamente all'idea che l'appellativo floreale di Primavera non fosse che un'allusione galante alla famosa bieltade della sua donna.


In Dante Amore è dio, come in tanta poesia duecentesca

E

Beatrice, fatta a immagine e simiglianza d'Amore, è dunque creatura d'Amore, degna perfino di portare il nome di lui


Non pare sfacciato ipotizzare che il nome di PRIMAvera/PRIMA-verrà trovi una ragione complementare di pertinenza dall'essere assegnato alla donna del PRIMO amico.

Ma da dove viene a Dante l'idea di chiamare Amore la sua donna, che è già titolare di un nome così ricco di implicazioni?? forse l'autorizzazione viene da Ovidio, e cioè dal secondo libro dell'Ars amatoria, un testo che sarà poi di capitale importanza nell'invenzione dell'Ulisse dantesco


L'identità onomastica di Beatrice e Amore è anche equivalenza di qualità.


Beatrice, nove e Amore, è dunque titolare di tutte le facoltà di grazia e di cortesia.


Il nome di Amore vanta una ricca tradizione medievale di trasformazioni legate all'etimologia (origine delle parole), anagrammi ed altri giochi della lettera dai poeti, con alterna vicenda:

Amore è detto amaro

Amore, mare di ogni naufragio

Amore, collegato alla radice di Morte (A, mòre!)

Amore, amo che cattura l'incauto amante, pesce perduto chissà dove nell'infido mare amoroso


Immagine del pesce all'amo, concetto di Amore-amo


tra le Rime di Dante, Amore-amo, fa una comparsa ironica, gestita da quell'artista sapiente e ormai disincantato che è il Dante delle liriche tarde


Cino è spiritosamente rietimologizzato nello strumento di quella sua eterna incostanza amorosa, l'uncino da cui troppo spesso si lascia pigliare:

se amore è da hamus (amo)

Cino è da unCINO


e poiché hamus e uncino sono una cosa

così anche Cino e l'amore plurimo che egli sperimenta (amore qui più che mai instabile, fuggitivo e alato)


C'è una ragione precisa a tutto questo cavillare intorno al nome di Cino: in Dante, neppure il divertimento è gratuito è per sconfessare e mettere in burla l'etimo personale che Cino si era coniato in rima


Cino è vezzeggiativo di Guittoncino, a sua volta blando titolo di Guittone, inteso come vile


Che amore sia sire, non occorre spender parole.


Non sempre l'etimologia, o almeno la pertinenza della lettera, entrano in gioco nella ricerca della vera natura di Amore, a partire dal suo nome Amore viene giudicato dai suoi frutti


allora Amore può ben dirsi guerra

più rispettosa delle ragioni della lettera la mutazione anagrammatica che fa di AMOR un RAMO, per lo più ricoperto di vischio


Gran dibattito, a cui neppure Dante resta estraneo, verte sul fatto se Amore sia amaro o dolce:

i sostenitori di amaro hanno dalla loro le risorse del gioco di parole (concorrente di amaro è, presso certi autori, amarone; in effetti, amaro, meglio che ad amore, si associa propriamente ad amare, scindibile in amar è)

altri optano per una via media, a metà tra amaro e dolce (Dante ?)


Tema centrale di Amore apparentato etimologicamente a Morte (es: Guittone; le parole di Francesca nell'Inferno).


AmORE che è ArdORE, non solo ai fini di una definizione, ma anche di una puntuale ricomposizione linguistica.


Molti stimano che Amore sia dio, deo malefico o benefico secondo i casi (l'attributo di reo dato talvolta ad Amore deriva proprio da una polemica mutazione di lettera deo > reo).


Nelle poesie morali e nella Commedia, sembra farsi luce un'etimologia più sottile di Amore: di ambizione filosofica, sdegnosa della fenomenologia e degli accidenti, e intrinseca dell'essenza


si tende ad avvicinare e a connettere aMOre a Moto, MOve e a parole della stessa radice



Dio è cristianamente amore e aristotelicamente motor primo


in questo Amore-movimento, virtù di carità, è la pace di tutti i beati


pace anche, e soluzione, di ogni vano tentativo terreno di predire nelle creature, nelle cose, negli accidenti e nei nomi la natura inesprimibile di Amore


"l'AMOr che MOve il sole e l'altre stelle" è l'estremo approdo della speculazione dantesca su Amore, una divisa carica di allusioni e di storia


Prima di giungere a tanto, a questo

eterno moto

e ricerca sedata

val la pena di soffermarsi su 2 testi precedenti alla Commedia:

  1. un capitolo dellaVita Nuova
  2. uno scambio di sonetti con Cino

a.   Vengono elencati qui gli effetti che il saluto di Beatrice induce sulla persona del suo servitore; il primo effetto, e più singolare, consiste nella risposta enigmatica, univoca, valida per ogni domanda, che Dante oppone alle questioni dei suoi interlocutori


quell'unico nome, Amore, dice tutto; è un nucleo che racchiude ogni significato possibile, dotato di una potenzialità infinita


il miglior commento concettuale a questo passo è fornito dal De vulgari: qui si sostiene che Adamo, e non Eva, abbia parlato per primo; e si sostiene che il primo discorso del primo parlante si restringesse ad una sola parola, l'unica che un intelletto sano potrebbe razionalmente postulare come prima, e cioè Dio

E

anche al principio di un'esperienza assoluta, qual è la vita nuova per Dante, il primo discorso del protagonista non poteva che farsi specchio del nome dell'autore di tanta novità, eco del benefico titolare di ogni valore: Amore, che è il Deus del giovane Dante nella sua vita nuova, è la prima parola di lui citata, nel prosimetro, tra virgolette



Amore è veramente posto al principio e alla fine dell'opera di Dante, dalla Vita Nuova al Paradiso


b.   L'estraneità di Dante poeta nei confronti di una concezione esclusivamente fisica e soggettiva dell'amore, pulsone incostante e cieca, ironicamente si consuma in uno scambio di sonetti con Cino


Cino si è innamorato un'altra volta; ha coscienza però, in modi molti aneddotici, di quanto Amore sia bugiardo, restio a rendere poi ciò che promette; il cuore diffida, avendo già patito altra ferita (ferite)


per Cino le donne (e i loro nomi) sono interscambiabili: lo sciagurato addirittura si augura che la donna gentil, tanto decantata e temuta nel sonetto, possa essere beatrice: la sua (di Dante); Cino qui veramente scherza col fuoco

E

la risposta di Dante è un piccolo capolavoro di sapienza metaforica: ironica nel dettato e severa nella sostanza


l'instancabile cacciatore di femmine stia attento: la giovane donna gli farà pagar cara la sua leggerezza in amore; così com'è nato, il suo (di Cino) non potrà essere che un amore senza frutto

non è amore che assilla Cino, bensì omore: un omore tutto fisico, oscura e rietimologizza Amore a suo uso, insofferente di distinzioni


Il gioco di parole su amore/omore ricorda dappresso una singolare nota contenuta in un passo del Convivio voluptade che si distingue da voluntade per il discrimine di una sola lettera


una sola lettera, sembra suggerire Dante, cambia i destini degli uomini e la qualità delle cose


In Dante la coerenza metaforica è sempre straordinaria quando egli scrive che alla creazione del suo poema hanno "posto mano cielo e terra", il senso allegorico è chiaro, sul presupposto di un testo che si vuole scrittura ispirata (nella generazione delle piante cielo e terra, elemento maschile e femminile, cooperano nel fare, di un seme, un albero forzuto e fruttifero)


La replica a Cino rivela uno spessore culturale insospettato.


III.   Il numero di Beatrice.


DellaVita Nuova, sbiaditi i ricordi scolastici, temo che al lettore profano ben poco resti; diversamente che della Commedia

E

tutt'altro il discorso per il passato: nessuna delle opere cosiddette minori della nostra tradizione letteraria ha contato tanto quanto la Vita Nuova il prosimetro dantesco è sempre stato un modello


Potenzialmente, i veri responsabili della divulgazione nazionale dell'aristocratico volumetto sono da ricercarsi in ogni prosatore fornito di buoni studi liceali.


Nel dopoguerra, invece, caduta la prescrizione di una lettura obbligatoria nelle scuole, le azioni del libretto sono andate declinando.


Si constata poi una divaricazione tra

la stima, che si mantiene alta, presso i moderni fedeli di Beatrice

e la scarsa udienza nel pubblico dei non addetti ai lavori


Intatta, e su buoni livelli, è la fortuna critica della Vita Nuova presso i dantisti.


Ma questi documenti di nobilità non bastano: è proprio la memorabilità dell'opera che patisce limitazioni evidenti.


Della debole forza d'attrazione era cosciente lo stesso Boccaccio, autore certo non sospetto di danneggiato dantismo il Boccaccio editore aveva tagliato dal prosimetro le cosiddette divisioni (commenti), relegandole fuori testo così facendo, dimetteva il ruolo di testimone fedele ai documenti, per assumersi coraggiosamente la parte del divulgatore spregiudicato, non indifferente alla modernità e alla larga diffusione della sua merce


Se c'è qualcosa che nella Vita Nuova non persuade, è proprio la varietà non composta, né pienamente dominata, dei registri stilistici che l'allegoria, le digressioni simboliche o le dichiarazioni teoriche rallentino la narrazione è anche tollerabile D ma che al tono alto, e spesso alla felicissima riuscita delle liriche o di certe parti narrative, si accompagni l'arida prosa dell'espositore scolastico di sé stesso, è soluzione ibrida e scostante, con poco guadagno del testo


la polifonia (molteplicità di suoni) dantesca non era ancora padrona dei suoi mezzi espressivi; né, a quell'altezza cronologica, viveva in un'organizzazione testuale abbastanza compatta perché tutto vi si fondesse in unità


La modesta virtù evocativa dei miti del libello conosce almeno 2 eccezioni, per quanto è della prosa:

la donna-schermo

e la connessione tra Beatrice e il nove, che è forse l'invenzione di più comune notorietà

Beatrice appare per la prima volta a Dante "quasi dal principio del suo anno nono" e "quasi de la fine" del nono anno di lui il primo saluto si dà esattamente 9 anni dopo, con perfetta congruenza di giorno

Nella Vita Nuova:

la misurazione del tempo relativo è alquanto minuziosa

mentre quella del tempo assoluto è deficitaria e ostile


non una data esplicita che circoscriva gli accadimenti: vi è solo una data precisa, quella della morte di Beatrice, 8 giugno 1290


Le diverse espressioni temporali sono lasciate senza contesto esterno ad una vita nuova, il cui incipit fonda un calendario esclusivo.


Lo stesso discorso vale anche per lo spazio: per Firenze o il suo fiume, mai nominati in alcun luogo del libro.


Si assiste ad una riduzione delle coordinate spazio-temporali alle sole convenienze del soggetto: in principio è "lo mio nascimento", posizione alfa a cui tutto si riconduce.


L'autore tende a riconoscere una ciclicità, a conferire emergenza novenaria alla serie ordinata degli accadimenti.


Eccesso di cavillosità di Dante nelle sue coordinate temporali.


Il capitolo 29 si propone 2 scopi:

ricondurre a ingredienti novenari, a norma di 3 diversi calendari (arabo, siriano e romano), l'unica data confessa dell'intero libro

e spiegare per quali ragioni il nove si trova associato a Beatrice in vita e in morte


si tratta del breve capitolo della Vita Nuova, dove si dà notizia di un componimento in lode delle 60 più belle donne fiorentine


Molti sono i punti oscuri nell'invenzione di questo componimento


non si capisce, ad esempio, perché Dante pretenda di accompagnare il nome di Beatrice con il nome della prima donna-schermo

E

che la gentile fosse eleggibile con pieno merito tra le 60 belle fiorentine, si è disposti a concedere; meno chiaro risulta il motivo di questa speciale, insistita menzione:

forse perché la donna era schermo al 9 anche nella geometria interna della lista?? E dunque, rispetto al 9, in una posizione simmetrica: ad esempio sul 6, sua immagine capovolta??

oppure, se si scrive IX, allora XI??

o per altra più sottile ragione??



quel che conta è rendere omaggio alla problematicità della scrittura dantesca; in Dante le parole non sono mai fini a se stesse, ma collaborano tutte tenacemente a serrare le maglie di un sistema di simmetrie


la gentile è spezialmente citata, perché, per taciuti riguardi, è necessaria alla gentilissima e al fatale 9


Il Barbi mirava ad assegnare alla donna-schermo il numero 30; comunque sia, la questione è di quelle che vivono esclusivamente di uno statuto interrogativo, che si alimentano del loro mistero.


Analogamente ci si può chiedere con quale criterio Dante abbia formato il suo poetico elenco: chi fosse mai, ad esempio, la cara creatura che occupava il primo, o il terzo, o il 30°, o il 60° posto, punti importanti della sfilata.

Al primo posto vedrei convenientemente installata la donna Pietra (se non fosse che l'esperienza delle rime petrose sono successive) (rime "petrose", per una donna (detta Petra) dal cuore duro, caratterizzate da uno stile aspro e raffinato)


La città terrena, dove la donna "fue posta da l'altissimo sire", non è che un luogo di passaggio, un sito provvisorio per lei più che per altra cosa venutaci

E

in età ancor giovane, Beatrice "per suo valore / fu posta da l'altissimo signore / nel ciel de l'umiltate, ov'è Maria"



a Dante preme far sapere come alla gentilissima, nell'aldiqua e nell'aldilà, parimenti si addica un posto che solum è suo Dio pone le sue creature in cielo e in terra; Dante le pone in forma metrica e nel numero, nello spazio del testo


Il serventese sarebbe addirittura il primo componimento in cui è menzione di Beatrice


fin dal cominciamento la donna è collocata al suo posto, che è anche il suo numero, in un universo di nomi: e per tal via è tempestivamente assunta nell'ordine delle cose scritte


Il serventese di Dante si vuole scrittura di una realtà che esso stesso sostituisce, microcosmo e immagine ben ordinata di una Firenze mai altrimenti descritta.


Pare improbabile che la lettera in versi, che per suo statuto doveva avere un destinatario, fosse indirizzata a Cavalcanti: troppa grazia per il primo amico, che si sarebbe visto recapitare, sulla stessa materia cortese, il sonetto Guido, i' vorrei, il serventese e la Vita Nuova, per quanto in essa è menzione di questo componimento (né, in tal caso, Dante avrebbe omesso di citare nella prosa il ruolo eminente attribuito a Guido)

E

se proprio si vuole avanzare un nome e un indirizzo, Amore personificato avrebbe più titoli al suo attivo; o forse le stesse Donne che hanno intelletto d'Amore, con le quali la corrispondenza poetica è, di questi tempi, fittissima


"A li principi de la terra" descrive la condizione della desolata città di Firenze dopo la morte di Beatrice.


La donna schermo è peraltro senza nome nel libello, e non si sa se sia identificabile.


La gentile schiera di donne avrebbe invaso lo spazio del prosimetro con una pluralità avversa alla strategia misteriosa e allo statuto lirico che Dante aveva imposto alla sua opera

E

di tante signore fiorentine non si salva che un nome, quello della gentilissima, e un numero, il nove


l'urgenza della citazione nel serventese taciuto è dunque, anzitutto, necessità imperiosa di assegnare precocemente a Beatrice un posto che non può esserle tolto nell'ordine femminile della città


Ma il nove non è che il numero terreno della gentilissima, aspetto secondario di una radice trinitaria che si rivelerà solo in cielo.


L'elenco di donne del serventese riscatta la sua enumerazione un po' inerte, se si associa mentalmente (all'altro capo della carriera dantesca) al lungo sistema di Ebree che attraversa longitudinalmente la candida rosa del Paradiso (enunciata da San Bernardo)

E

di contro si sgrana la schiera mascile complementare, partendo da Giovanni Battista, il maggiore dei nati di donna


dalle belle donne alle beate

dalla corte d'Amore alla corte del cielo

dalla schiera adunata nella "pistola sotto forma di serventese" alla milizia "in forma di candida rosa"

da Fiorenza al "fior venusto, al gran fior"

dal nove al 3



tale è l'itinerario di Beatrice

E

è un viaggio che sperimenta, in termini non molto dissimili, lo stesso Dante parte umana e parte spirituale sono convocate insieme, senza annullarsi, in una luce definitiva che tutto fonde


Dante, nel disporre i seggi nella candida rosa, infligge alla lista delle Ebree una sconcertante eccezione, quella della presenza stessa di Beatrice


non è la sola dissimmetria: al terzo posto (caso unico) si affollano a pari merito 2 donne, Rachel e Beatrice.


La saggezza femminile del fiore paradisiaco è anonima "dal settimo grado in giù"; le sole citate per nome sono, naturalmente, quelle che occupano i posti d'onore:

le prime 2 donne, Maria ed Eva, sono in rapporto dialettico tra loro

l'Ave mariana, a norma di un gioco di parole diffusissimo, ha virtù di restituire integrità di nome e di lettera alla peccatrice Eva: da Eva, a Vae [la maledizione della colpa], a Ave


ma la connessione tra le 2 Ebree è anche di natura carnale: la linea che le congiunge è in forma di antica e fisicissima piaga: cicatrice rimarginata da Maria, che richiuse e unse la ferita inferta dalla progenitrice


grazie a questo segno, la rosa mistica di pura luce reca al suo interno un solco, che è la traccia di un'umanità offesa e medicata


così, lo stesso lume dell'Empireo è sì un'essenza di immaterialità e di astrazione, ma su quella realtà eterea stingono pur sempre l'umanità e la passione di Cristo


in tutto l'Empireo, anche nella preghiera di San Bernardo, si manifesta una forte impronta di carnalità, non sempre trasfigurata in simbolo


sulla stessa figura della rosa, singolarmente attraversata da una doppia riga, tutta femminile da un lato e tutta maschile dall'altro, altri ha già proiettato il sospetto di un'immagine sessuale sublimata: segnatamente se, nella candida rosa celeste, si vede la negazione o il pentimento della rosa carnale del Fiore


al terzo seggio, il rapporto tra le prime donne da verticale si fa orizzontale, dato che Beatrice è posta sullo stesso grado di Rachel


non si può escludere in questa configurazione (unita alla precedente, perpendicolare ad essa) un omaggio al segno della croce


Sara, Rebecca, Iudìt e Ruth (l'antenata di Davide) si succedono digradando


la successione Rachel, Sara, Rebecca sovverte la cronologia biblica nel primo posto, ma certo la storia umana non poteva essere, per la divina provvidenza, un parametro vincolante


l'eccellenza riconosciuta a Rachel è tributata in ossequio alla vita contemplativa, di cui è tradizionale personificazione


Beatrice si colloca di diritto accanto alla titolare della vita contemplativa: partecipe di una condizione di pura visualità


Rachel opera con i soli occhi, e forse la chiave dell'invenzione dantesca sta qui: l'immagine duplicata, la proiezione resa vera di questa specularità incessante, sarebbe proprio lei, Beatrice; Beatrice che è il doppio di Rachel: che sta dunque alla grande Ebrea come compiuta figura del Nuovo Testamento


Beatrice celebra con umiltà la sua nuova collocazione celeste


dire il loco paradisiaco a cui si è assegnati, vale, per ogni beato, quanto evitare la propria, non preferibile anagrafe: con atto che onora la misericordia e la giustizia divine, e che insieme rende serena testimonianza dei propri meriti

E

è anche desiderio di fruire della visione di Dio nel modo conveniente all'ordine delle cose


La rivelazione che il vero numero di Beatrice è il 3 si fa luce soltanto nell'Empireo, là dove è possibile avere piena e immediata conoscenza della "forma general di paradiso", senza che ostacoli vengano ad interporsi, o limitazioni soggettive di vista nascondano l'apparizione


Beatrice non si contenta di alludere ad una sua generica collocazione paradisiaca, bensì ad un suo banco doppio particolarmente onorevole.


Le 60 donne del serventese "fioran Fiorenza" della lor cortesia

E

ma poi che Beatrice "fue partita da questo secolo, rimase tutta la sopradetta cittade quasi vedova dispogliata da ogni dignitade": dispogliata, e quasi disfogliata "di foglia in foglia"

E

quel Fiore è distrutto e sfiorito la candida rosa del Paradiso è anche risarcimento sublime di quella lontana, ma ancora (per nuove ragioni) attualissima desolazione terrena del primo Fiore


IV.   Numeri figurati e Trinità.


Il numero, per Dante, è un parametro qualitativo, non solo quantitativo, nella conoscenza delle cose.


Non soltanto, e volgarmente, della realtà fisica; ma anche, e soprattutto, di quella intellettuale.


Se Dio ha disposto ogni cosa in misura e numero e peso, per Dante si tratta di riconoscere nel mondo, ed eventualmente operare per ristabilirvi, con atti e con parole, quell'ordine certo e provvidenziale.


Del fatale trinomio biblico (misura, numero e peso), è il numero il modello più alto.


La simpatia di Dante va al 3: numero sacro, ingrediente del mistero di Dio uno e trino.


La forma ternaria della mente dantesca rinvia a qualcosa di più profondo; ad un'idea innata, tanto ferma è l'emergenza del 3 fin dal primo testo organico, la Vita Nuova

E

il 3 non è che l'elemento più nobile della numerologia dantesca: all'altezza della Commedia, una vera e propria fede


Altri numeri, prima, lo accompagnano


Credo che il Fiore sia opera di Dante nel momento in cui si afferma che il numero, per Dante, è una categoria primaria del pensare e del comporre, sarebbe sconcertante se il Fiore si sottraesse a questo postulato, risultando resistente ad ogni investigazione numerologica


Anteriore di un buon quinquennio (5 anni) alla Vita Nuova (1292-1293), se vale la datazione 1286-1287, il poemetto è un buon banco di prova delle 2 congiunte ipotesi:

mano dantesca

e, di conseguenza, prevedibile interesse numerologico da parte dell'autore


Tracce del 3, e del suo quadrato, 9, nel cosmo sarebbero l'impronta di Dio uno e trino.


Resta da vedere

se da una concezione laica e tutta terrena della vita, trasgressiva di comandamenti e di dogmi, quale è quella del Fiore, non emerga altra fissazione numerica

o se il 3 non vi sia usato con funzione parodica, piegato ad un uso antifrastico (una parola viene usata con significato opposto a quello proprio)

oppure se il 3 sussista come elemento complementare, senza altro motivo che la sua perfezione di numero primo di indubbia suggestione


il reperimento di armonie numeriche nel Fiore, calate in una struttura salda e continua, indubbiamente rinforza il giudizio concorde di confezione artigianalmente abilissima


se poi si constata la messa in atto di simmetrie tipiche, più o meno latenti; e se specialmente si avverte, nel testo, la costante presenza di una mente intrinsecamente matematica, si sarà tentati di riconoscere, al passaggio, l'ombra di Dante più che di altro contemporaneo


che l'autore del Fiore sia buon geometra, lo attesta già, in maniera macroscopica

il metro prescelto

la corona di sonetti



struttura vincolante ed esigentissima, a paragone della forma aperta della Rose: se il metro della Rose è figura di licenza, il Fiore è figura di disciplina


Molti numeri che fanno riferimento alla composizione delle opere di Dante, si ritrovano nella tabella dei numeri figurati (numeri studiati da Pitagora in funzione della rappresentazione geometrica dei numeri interi):

232 (numero dei sonetti del Fiore)

100 (numero dei canti della Divina Commedia)

34 (numero familiare ai dantisti)

33 (allusivo alle 12 parti del cielo)

66 (numero di versi della sestina doppia Amor, tu vedi ben che questa donna: questo componimento è esperimento irto e fiero di ogni più laboriosoa cura interpretativa; il 66 è figura che pare di suprema eleganza)


L'immagine fisica del 232 è speculare (come uno specchio) nelle sue 3 cifre: il 3, al centro, è affiancato dal 2, a destra e a sinistra.


I sonetti del Fiore hanno schema costante: ABBA ABBA CDC DCD.


le quartine sono perfettamente speculari tra loro


nelle terzine, misurandole per terzetti, in CDC si nota la stessa figura che è in 232; come anche, invertite le lettere, nell'ultimo terzetto DCD


il 2 e il 3 ritornano sempre, nelle combinazioni; e sempre si riflette, nel microtesto, la specularità della cifra a cui ammonta la somma dei soggetti del macrotesto


Prima di esaminare l'intero insieme, preme appurare se in certe parti del poemetto si possano riconoscere gruppi di sonetti, affini per contenuto, che risultino significativi per il numero di soggetti che li compongono:

preliminari tra Bellacoglienza e la Vecchia

discorso della Vecchia

rimproveri di Falsembiante

dopo il secondo fallimento subito da Durante, in seguito ai suoi avventati tentativi di cogliere o di toccare il fiore, si legge un sonetto di ispirazione metatestuale (che riflette sul testo), ricapitolativo della vicenda a venire

discorso di Amico, l'ultimo essendo un testo di chiusa, come rivela l'incipit



importa segnalare la rotonda ricorrenza di certi moduli numerici, e soprattutto, all'inizio e alla fine degli stessi, l'emergere di formule che rivelano una coscienza organizzativa molto vigile, e che specialmente s'accampano nei capoversi

Importa ora aguzzare la vista verso l'intero organismo 3 possibili paradigmi di ordinamento interno:

a.   gli ultimi 2 sonetti non presentano propriamente rottura di continuità sintattica: questo fatto può indurre a considerare i 2 sonetti come un solo microrganismo bipartito


231: 3 = 77, speculare nelle sue 2 cifre e notevole per più ragioni


il 7 (secondo l'ipotesi di alcuni autori) sarebbe il numero di Dante (Durante, tra l'altro, mi permetto di aggiungere, è formato da 7 lettere)


7 + 7 = 14, che è il numero di versi di ciascuna unità dell'insieme


Piuttosto che inseguire in astratto combinazioni numeriche pur cariche di suggestione, importa verificare se le divisioni che ne conseguono abbiano qualche funzione fisiologica o virtù separativa nell'intero organismo.


come attacco di capoverso, Lo Dio d'Amor ricorre solo 3 volte


155 non presenta l'apertura che si è evidenziata: segno che l'autore non opera sempre con eccessiva sistematicità; instaura sì simmetrie incontestabili, ma con una certa dose di allusività e di intermittenza

E

è doverso annotare che 155, costituisce un punto cruciale, segna una svolta nel discorso

E

analogamente, nella prima porzione ipotizzata, il sonetto 77, ultimo della serie, metteva fine a quella che è realmente la prima parte del Fiore, entro l'arco di un anno (dopo un anno riprende, con nuovi mezzi e qualificato sostegno, il tentativo di Amante di cogliere il fiore)


b.   un secondo organigramma, anch'esso tripartito, si può postulare nel Fiore sul fondamento della materia trattata


Il punto di separazione tra la parte iniziale di Guillaume e quella finale di Jean, largamente ridotta, cade nel sonetto 34.


i primi e gli ultimi 34 sonetti del Fiore sono narrativi, d'azione; la parte dei si stende nel mezzo




(questo 34 non è un numero insignificante agli effetti futuri, coincidendo con il numero dei canti dell'Inferno)


c.   è proprio la chiave di lettura imposta dal numero dei canti della prima cantica a suggerire un terzo modello possibile per l'anatomia interna del Fiore


se i 34 capitoli della prima cantica vanno scissi in canto proemiale e materia dell'Inferno, dunque 1 + 33, si è tentati di applicare anche al Fiore questa ricetta


1 + 231 e 231: 33 = 7 (mantenendo il valore simbolico del 7 = Durante)


Stagione invernale che si vuol proprio sfasata rispetto alla Rose, e in quanto tale, come poi la storia mostrerà, non propizia ai primi 2 tentativi di Amante.


richiesta d'aiuto

a 77 si interrompe il primo rimprovero di Amico

in 78 riprende la parte dialogica tra Amante e Amico

lunga zona indivisa

199 obbliga a collocare un termine nel testo, dato che è l'ultimo sonetto in cui parla la Vecchia, che si congeda profetizzando ad Amante

fine, felice e guerreggiata, della storia, dopo tanti ammaestramenti: da "verso ´l giardin n'andai", all'effettivo godimento del fiore, con finale ringraziamento ai benefattori, vincitori ed efficaci malgrado le forze avverse


(spesso nel poemetto sussistono legami di capfinidad (l'ultima parola di una strofa è la prima della strofa successiva e riprende per così dire il discorso)



Se la struttura della Commedia si ordina palesemente, e per rubriche, secondo lo schema 1 + 33 + 33 + 33, il Fiore, poemetto indiviso, sopporterebbe bene la scansione 1 + 33 + 33 + [33 + 33 + 33] + 33, appropriata anche come mappa di ricognizione e di lettura


Mi son chiesto se tra Fiore e Commedia, sotto il profilo puramente geometrico e sul piano verbale, sussistessero altre affinità, oltre a quelle che si sono diagnosticate la reazione del testo a nuove sollecitazioni è molto più pigra


la parola "fiore", nel poemetto, è in sede di rima 5 volte e altrettante 5 volte nella Commedia


Il 3 e i suoi multipli, tra i quali specialmente 33, non sembrano dunque estranei alla geometria del Fiore, anche se in funzione subordinata al tutto.


Ma più di tutto impressiona la forza che le ragioni numeriche hanno, in generale, nell'economia mentale dell'autore: sia nell'atto di produrre i singoli testi, sia nell'organizzazione di tutto quanto il poema come volevasi dimostrare



Quali risultati offre la Vita Nuova, sottoposta a questa geometria del compasso?? 2 soli dati intrinseci sono da prendere in considerazione:

la bipartizione del libello, segnata, più che dall'evento della morte di Beatrice, dall'interruzione della canzone Sì lungiamente, e dalla conseguente ri-rubricazione del libro in grazia delle parole di Geremia

la contrapposizione binaria e l'alternanza di prosa e di poesia, com'è nella natura del prosimetro


L'attenzione si concentra sulle 31 poesie:

1 ballata

5 canzoni

e 25 sonetti (2 dei quali ripetuti per 3 volte)


Lo schema interno della Vita Nuova riposa perciò su questi capisaldi simmetrici:

sonetto - canzone - canzone - sonetto


Indipendentemente dai contenuti, opera nella Vita Nuova una legge di attrazione tra sonetti di uguale schema.


Comunque li si interpreti, difficilmente tali esiti sono figli del caso: a norma delle leggi di probabilità, la casualità di tali aggregazioni è anzi da escludere


segno, ancora una volta, di una discrezione organizzativa che cerca, nelle cose, parametri d'ordine numerico e figure di simmetria


Forzando un po' i termini, si potrebbe dire che la Vita Nuova, opera bipartita, è una corona di sonetti, raggruppati in sequenze tendenzialmente omometriche (di uguale misura), e di stanze sonettoidi (alla forma del sonetto), saldata insieme da una prosa che unisce.


nella prima parte della Vita Nuova sono contenuti 434 versi

e nella seconda 242



il totale dei versi nel libro assomma a 676


tutti numeri che, come già il 232 del Fiore, sono del tipo xyx, speculari rispetto alla loro cifra media: evenienza che si ripete 4 volte e che, lasciata al caso, comporterebbe un tasso di probabilità minimo

La trinità esclusiva, totalizzante, è un'opzione abbastanza precoce: si afferma, per Dante, nella prosa della Vita Nuova


se un criterio di contiguità tra soggetti simili interviene nell'ordinamento delle rime entro il libro

la prosa, dal canto suo, adotta una scansione ternaria nella scrittura, in modo programmatico


importa ora mostrare "come tripartito si ragiona" nel prosimetro


del tutto trinitaria è la descrizione che segue, che unisce

sincronia, e dunque unità ("in quello punto", 3 volte ripetuto)

e tripartizione


si tratta della reazione dei 3 spiriti alla vista di Beatrice: la sede rispettiva degli spiriti è per lo più designata con perifrasi


Il latino dello spirito naturale [stomaco] è stilisticamente il più basso.


In questo passo si dispiegano i 3 stili

alto [spirito de la vita = cuore]

medio (e dialogato, dato che gli spiriti animali [cervello] parlano a quelli del viso)

e basso o malinconico [spirito naturale = stomaco]


qui la tripartizione è funzione anche dei 3 generi del linguaggio



3 le risposte superstiti a A ciascun' alma presa, anche se l'autore non dà riscontri precisi:

la replica di Guido, Vedeste, al mio parere, onne valore, l'unica che Dante menzioni, è indubbiamente di stile alto

quella attribuita a Terino o a Cino, Naturalmente chere ogni amadore, con annesso finale felice (che conferma simmetricamente l'impressione di Dante) è di stile medio

di stile basso infine Di ciò che stato sei dimandare, risposta di Dante da Maiano, che prescrive salutari bagni refrigeranti ad altra parte che il cuore



Tralasciando di enumerare tricola seducenti, di cui talora la prosa è intessuta, si arriva al capitolo 11, nel quale si constata non già coincidenza, bensì diacronia (evoluzione nel tempo) e triplice anafora:

"quando ella apparia"

"e quando ella fosse alquanto propinqua"

"e quando questa gentilissima salute salutava"

con innalzamento stilistico evidente



Le 3 reazioni verbali sono

"Amore"

"andate a onorare la donna vostra" (di andamento endecasillabico)

e il grado zero, il puro silenzio dell'alienazione amorosa

da "Amore", che contiene ogni possibile messaggio, all'inesprimibile



"una fiamma di caritade"

e poi "uno spirito d'amore" invadono il protagonista

e infine il suo corpo "si movea come cosa grave inanimata", culmine del totale spossessamento del soggetto, ridotto a corpo grave in caduta libera



all'inizio del capitolo 17, Dante isola una triade di "sonetti che fuoro narrati di tutto quasi lo mio stato"

a 18, le donne si dividono in 3 gruppi

l'interlocutrice di Dante, nello stesso capitolo, parla per 3 volte

La compresenza, nel cominciamento, delle 3 potenze dell'anima

intelletto

volontà

e ragione

che Sant'Agostino considerava un segno della Trinità nell'uomo, è un cominciare il nuovo stile nel nome di una trinità riflessa


Un trinomio importante, nella riflessione teorica dantesca, è quello riferito ad Amore personificato.


nel capitolo 28, è per 3 ragioni che Dante rinuncia a trattare della scomparsa di Beatrice

nel capitolo 29, 3 sono i calendari interrogati (arabo, siriano, romano), con movimento da oriente a occidente

3 i tipi di pellegrini


Firenze è al centro di questa peregrinazione: e nel centro di Firenze, "una via la quale è quasi mezzo de la cittade ove nacque e vivette e morio la gentilissima donna"


è il punto di massima concentrazione terrena, anzi municipale, nella storia di Beatrice; poi Firenze sarà veramente svuotata di ogni fiore, spogliata di ogni centralità


Il 3, nella prosa del libello ha vita difficile, parziale, derivando più da una pratica di discorso di deduzione o da una astratta superstizione, che da virtù propria.


Spiegherà tutto il suo pregio solo nella struttura della Commedia, forma congeniale e invenzione mirabile, che si intreccia tra l'autore e la sua materia.


V.     Cifre profetiche.


Quesiti nuovi sul vecchio tema del rapporto tra profezia e Commedia

E

un tema serio e di assoluto rilievo, intorno al quale è cresciuta una vegetazione rigogliosa e danneggiante


questo legame di testo ostile e di bibliografia anche troppo loquace non ha giovato in generale alla corretta percezione di un problema reale, affrontato dai dantisti più autorevoli e prudenti in singoli episodi, ma spesso evitato nella sua antipatica completezza


Qui non si tratta di novità rare sul Veltro e altri misteri, chiusi senza rimedio alla mia vista

E

ci si domanda invece sul tema di Dante profeta per:

illustrare il poema come visione profetica concessa a Dante per una grazia speciale di Dio, che lo ha scelto ad annunziare il nuovo suo messo, presentando i passi della Commedia sospettati di profetismo, confrontandoli con scritture analoghe già note e per lo più false

riaffermare la validità teologica (scienza della natura di Dio) del discorso dantesco


Alberto Magno era disposto ad ammettere l'attualità della profezia, privilegio che può esser concesso anche a illuminati contemporanei.

Accanto al profetismo di Dante (e di Cacciaguida, a lui interamente assimilato come portavoce celeste), vanno annessi i numerosi passi in cui l'antivedere è dono di altri personaggi, dannati o beati:

puntuali preveggenze

profezie ante o post eventum

previsioni politiche dei vari Ciacco, Farinata, Vanni Fucci

la predizione di Bonagiunta che mormora "non so che Gentuccia"

e altri memorabili episodi dello stesso tipo



ne risulta un testo farcito di messaggi profetici, percorso da voci oscure di rimprovero e di presagio


se la Commedia in sé, in quanto tale, è un libro profetico, non già, semplicemente, un libro che colleziona profezie, è possibile indicare spie testuali di questa natura profetica conferita al poema??

se la profezia, nella Commedia, non ha statuto di frammento entro l'opera, bensì è una struttura latente e persistente, che emerge e quasi si coagula in singoli episodi, in quali punti del poema Dante fa emergere la coscienza metatestuale di questo fatto decisivo nella costruzione della sua visione??

perché Dante sia ascritto al rango di profeta, non basta la sua volontà di autore, fatto per molti anni macro nell'impresa; né è garazia sufficiente la sua ubbidienza di scrivano del verbo ispirato


oltre alla materia delle sue visioni, e all'uso di uno stile congruo a questa materia, Dante profeta deve fornire al suo tempo un segno oggettivo, indiscutibile, indipendente dalla sua volontà, ma non nascosto alla sua intelligenza: la concreta impronta del suo privilegio


"Io non Enea, io non Paulo sono" è un'alta affermazione di dignità e insieme di modestia Dante, per altro verso, non poteva correre il rischio di apparire come un falso profeta:

non soltanto da un punto di vista personale, di autocoscienza del personaggio Dante entro il poema

ma anche nella dimensione storica di Dante autore, nelle sue coordinate reali di individuo eletto


Dante è segnato da 2 date fatidiche, tratte dalla Scrittura, il 1290 ed il 1335


L'assunzione del profetismo come ingrediente essenziale della poetica di Dante è tanto più giustificata, se si pon mente che il suo libro a venire, cioè la Commedia, è annunciato precocemente fin dalla Vita Nuova, nell'ultimo capitolo: si tratterà, scrive Dante, di una mirabile visione


l'ultimo capitolo della Vita Nuova è la profezia di una profezia


A proposito dell'esordio della Commedia, è singolare che si dica Nel mezzo, "nel mezzo del cammin di nostra vita", invece di dire In principio, come sarebbe lecito aspettarsi da un testo che afferma esplicitamente la sua sacralità

E

è proprio segnalando la continuità fisica dei 2 libri, tra primi paragrafi del "libro de la memoria" e la Commedia, che l'esperienza di Dante, agli effetti della scrittura, comincia proprio con le prime carte del libello, sotto la rubrica ben esplicita Incipit Vita Nova: è rispetto a questa Vita Nova precedente che si qualifica il mezzo del cammino di nostra vita da cui muove il poema


la Vita Nuova è essa stessa un libro precursore: precursore profetico di un profeta più grande, "più forte di me", la Commedia appunto


Non è il caso ora di richiamare alla mente i vari passi della Vita Nuova ispirati ai profeti biblici; basti ricordare che alla morte di Beatrice, la ri-rubricazione del libro si opera sotto il segno di Geremia: da qui comincia la seconda parte del libello


Per situare meglio il ruolo di Dante profeta, si deve tener conto, in primo luogo, delle ragioni della storia, che nel 200 è attraversata da uno spirito profetico di grande vigore.


Nel Paradiso Dante introduce 2 personaggi particolari:

Gioacchino da Fiore, personaggio controverso e inquietante, morto fin dal 1202, ma segno ancor vivo di contraddizione nelle controversie religiose dentro e fuori l'Ordine francescano (è un'apparizione provocatoria: Dante manifesta, polemicamente, una volontà tutta evangelica di scandalo)

Sigieri di Brabante, filosofo con chiara fama di averroista (accoglimento del principio dell'eternità del mondo e idea dell'esistenza di un unico e separato intelletto per tutti gli esseri umani, in contrasto con le dottrine cristiane), inquisito, condannato e morto a ghiado (con la spada)


Sigieri da una parte

e Gioacchino dall'altra

rappresentano 2 esperienze estreme: aristotelismo radicale nell'uno e profetismo apocalittico nell'altro, ai limiti dell'audacia intellettuale e spirituale, e della stessa ortodossia (chiesa cattolica)


Intorno a Gioacchino da Fiore si è prodotta una letteratura importante, anche se non sempre provvista del necessario rigore

E

una bibliografia molto suggestiva, che di là da certe forzature interpretative avrà avuto il merito incontestabile di leggere l'opera dantesca alla luce, talora abbagliante, di una corrente di idee, la gioachimita, fondamentale nella storia del pensiero religioso duecentesco e oltre

E

ora la Commedia dantesca non sarà un'Apocalisse gioachimita; ma certo si impedisce una dimensione essenziale del testo chi ignora la componente profetica in un libro che rivendica a sé il genere di "poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra"


con Gioacchino da Fiore (o meglio, con il profetismo medievale che egli incarna quasi per antonomasia) dovremmo necessariamente fare i conti


è necessario misurare l'efficacia sotteranea e controversa della dottrina di Gioacchino da Fiore, in quanto molti furono attratti dal suo carisma, diffuso ben oltre l'Ordine florense (ordine fondato da Gioacchino da Fiore) da lui fondato


Restò nell'aria la suggestione o l'ossessione di una voce, ripercossa negli ambienti rigoristi e desiderosi di una riforma voce raccolta con ammirazione anche da Dante (anche in questo dettaglio si ammira l'adesione dantesca al reale, alla verità perentoria della lettera e delle sue fonti; ed è anche un decisivo avvertimento a non collocare l'opera, e l'esperienza stessa, di Dante sotto il segno di confusi esoterismi, di sette segrete)

E

Dante non è un tardo seguace dell'abate; certi temi caratteristici della dottrina di Gioacchino dovettero indibbuamente suggestionarlo (si sono segnalate alcune impressionanti tra il Liber Figurarum assegnato all'abate da Fiore e la Commedia: ma si tratta, nel migliore dei casi, di parallelismi validi sul piano strutturale e tematico; se si passa al piano propriamente testuale, alla dimensione della lettera, le coincidenze si dissolvono)


l'acceso profetismo gioachimita non sarà altro per Dante che un segno dei tempi, una tendenza religiosa, e non una nuova fede; una voce genuina di verità entro la Chiesa istituzionale, non già una tentazione all'eterodossia o allo scisma


Anche nei momenti più aspri della sua polemica contro

la malfatata donazione di Costantino

la mondanità delle alte gerarchie ecclesiastiche

la simonia (lucro sulle cose sacre)

l'abuso del diritto ecclesiastico

Dante non contesta mai l'autorità del pontefice


In Dante, il profetismo ha una funzione, più che di disaccordo, di richiamo soprannaturale si risolve, di volta in volta, nella condanna di

Bonifacio VIII, "principe d'i novi Farisei"

pastori simoniaci (lucro sulle cose sacre) e traditori, come Niccolò III, Bonifacio VIII, Clemente V

pastori giudicati troppo sottomessi e colpevolmente rinunciatari, come (se di lui veramente si tratta) il monaco Pietro da Morrone, "che fece per viltade il gran rifiuto", cioè quel Celestino V che fu la speranza delusa degli spirituali, nel volgere di pochi mesi del 1294

una larga indipendenza di giudizio che non impedirà al Dante profeta di condannare l'oltraggio di Anagni, arrecato alla persona di Bonifacio VIII dagli emissari di Filippo il Bello, e proprio in forma di visione profetica, nelle parole di Ugo Capeto


e nessuna comprensione ideale, o eventuale simpatia umana, possono attenuare per Dante la colpevolezza del "seminator di scandalo e di scisma" fra Dolcino, condannato dal fermo pronostico di Maometto


nelle polemiche tra Francescani conventuali e Francescani spirituali o rigoristi, Dante prende egualmente le distanze dagli eccessi di entrambi i partiti


Dante non aveva dubbi sulla possibilità che anche in età moderna fosse concesso, ad alcuni privilegiati, il dono della profezia


forma specifica della profezia in Dante è la visione, da non confondere con il sogno


all'interno della visione principale, possono darsi

sogni (l'aquila con penne d'oro, la femmina balbuziente, ..)

e visioni minori, come quelle di mansuetudine e di iracondia punita del Purgatorio 15 e 17


Alla vigorosa "imaginativa" dantesca corrisponde una facoltà di memoria solida e costante.


Nel poema è sottolineata la puntuale vocazione di Dante alla scrittura profetica è una vocazione affermata a chiare lettere nel Purgatorio, quando, in 3 occasioni, Beatrice (come poi farà anche Cacciaguida) esorta Dante a manifestare agli uomini la sua visione


le affinità con il profetismo biblico sono sconcertanti: come già Ezechiele, Dante per compiere la sua missione, deve liberarsi da ogni timore o rispetto umano


"Disviluppe" rinvia all'idea di nodo, di lingua legata, che è uno dei temi più originali della scrittura dantesca


c'è un nodo per il poeta, prima che gli giunga la parola ispirata

e c'è un nodo per il profeta, che si disviluppa a fatica da Dante autore


è quanto già accadde ad Ezechiele, fatto muto o eloquente secondo il volere di Dio


C'è un secondo brano in cui il messaggio profetico ha per oggetto non già una visione allegorica, bensì un enigma forte detto da Beatrice, e cioè l'annuncio del misterioso "cinquecento diece e cinque, / messo di Dio", preannunciato in enigma (enigma cristiano dunque, e non enigma pagano proposto dalla Sfinge)

E

all'inizio del poema, Dante protestava di non esser Enea né Paolo; ora vuol chiarire che neppure è un nuovo Edipo; è bensì un profeta


Tu nota è un esplicito richiamo all'altro grande cominciamento dantesco, cioè all'affermazione del Dolce Stil Novo nell'episodio di Bonagiunta da Lucca


A Beatrice, preme che il poeta dia un resoconto fedele delle sue parole ai vivi, e timorosa che il suo intelletto "fatto di pietra e, impetrato, tinto" non ricordi a dovere.


Il libro dantesco diventa libro sacro, suggellato.


I segni di riconoscimento del profeta, enumerati nel libro di Daniele, Dante li possiede tutti:

spiritus amplior et prudentia (spirito grande e preveggenza) sono una sua eredità certa, dacchè la nascita lo ha posto sotto il "lume pregno di gran virtù" della costellazione dei Gemelli

intelligentia et interpretatio somniorum (intelligenza e interpretazione dei sogni) segnano fin dall'origine Dante, se il suo primo sonetto, A ciascun' alma presa (Vita Nuova) verte proprio su questa materia

dell'ostensio secretorum (manifestazione dei misteri) si hanno prove insigni in tutta la Commedia

la solutio ligatorum (spiegazione dei legami) è ben viva in tutta l'autointerpretazione dantesca, e comunque è ripresa alla lettera in "che solveranno questo enigma forte"

si aggiungano i dati dell'esperienza soggettiva di Dante: il suo essere exul inmeritus (esiliato senza colpa), quando è risaputo che "ciascuno profeta è meno onorato ne la sua patria"

il suo aderire al grande tema evangelico e francescano della povertà, che sostiene tutto il pensiero ecclesiologico (inerente al concetto di Chiesa) di Dante, e incide nella sua vicenda di uomo, che ingiustamente soffre "pena d'essilio e di povertate"


tutto congiura a far di Dante un profeta


Segnali linguistici del discorso profetico si possono reperire anche nelle parole di Cacciaguida.


A parte i contenuti, sui quali sarebbe perfino ozioso soffermarsi, basti dire che le metafore di linguaggio oscuro, di messaggio profetico, mimano felicemente certo forte linguaggio biblico (in particolar modo Isaia).


Un grido, quello dantesco, un annuncio, degni di Giovanni autore dell'Apocalisse, a cui alludono alcuni versi Dante profeta apre la bocca non soltanto in un'epoca di grandi lacerazioni e di decisivi conflitti, bensì anche in un tempo che volge al suo fine e alla sua pienezza a giudizio di Dante, la fine del mondo non è lontana, se in Paradiso non si trova quasi più posto


Si è privilegiato il rapporto diretto tra Scrittura e Commedia, lasciando in secondo piano gli altri protagonisti del profetismo moderno: precursori venerati, nel migliore dei casi, mai comunque modelli autentici per Dante

E

in generale invece, si è preferito indagare sui rapporti tra letteratura gioachimita e Dante, o sviluppare ricerche, pur importanti, sui contenuti e sugli stereotipi ideologici, piuttosto che misurare la corrispondenza letterale del nuovo verbo dantesco con il Verbo divino parlato nel Vecchio Testamento


se Dante è profeta, lo è in senso squisitamente biblico, nella volontà di collegarsi direttamente ai grandi profeti del Vecchio Testamento, non già nella vocazione ad essere un seguace di una o l'altra delle varie sette della sua epoca


tutti questi positivi riscontri, tuttavia, non bastano a conferire oggettivamente a Dante la qualifica di profeta; in effetti potrebbero essere i frutti di un visionario, o per meglio dire di un falso profeta; Dante avverte bene l'insidia di un antivedere non confermato da contrassegni certi

E

la profezia di tanta parte del poema si pretende ispirata perché poggia anche su contrassegni oggettivi, di ordine numerico

E

si sa che numero e profezia sono strettamente legati nella tradizione, e Dante non fa eccezione a questa regola; anzi, sulla numerologia dantesca esiste ormai una ricca bibliografia


In questa indagine si vuol privilegiare non già la scoperta di numeri segreti, o l'impiego di calcoli misteriosi e di altri ingegnosi esercizi; ci si propone invece di verificare quale applicazione profetica possano avere, nel caso di Dante, 2 brani di Daniele, che nella Bibbia latina è il quarto dei profeti maggiori


ci troviamo di fronte a 2 anni precisi, 1290 e 1335 il parallelismo con l'esperinza dantesca è sconcertante

Il 1290 è l'anno di morte di Beatrice, spentasi l'8 giugno: anno accuratamente taciuto nella Vita Nuova come numero esoterico, ma facilmente ricavabile dal contesto. Che Dante, ponendo mente all'anno di morte di Beatrice, pensasse proprio al testo di Daniele, è dimostrato chiaramente da una corrispondenza che collega il brano biblico citato con il primo paragrafo della Vita Nuova, 30. C'è una sola occorrenza di "desolato" nell'intera opera dantesca, ed è appunto questa, calco di "in desolationem" del testo di Daniele.

Resta il 1335. Beato, scriveva Daniele, chi aspetta e arriva fino al 1335. Dante nacque nel 1265. A 35 anni, nel mezzo del cammin di sua vita, si colloca la data del suo viaggio ultraterreno nella Settimana Santa dell'anno giubilare 1300. L'arco della vita umana è fissato a 70 anni in un famoso passo del Convivio, se è vero che il "colmo del nostro arco è ne li trentacinque". Dunque Dante sarebbe arrivato al termine della sua vecchiaia a 70, nel 1335, proprio come il beato di Daniele.


la consecuzione Beatrice (1290) - beato/Dante (1335) è davvero impressionante, perché nel libro di Daniele i 2 brani afferenti a questi 2 protagonisti si succedono uno di seguito all'altro


Dante, che si sentiva eletto da Dio nel 1300, si concepiva beato nel 1335.


L'età perfetta, aggiuntavi la parte per così dire accessoria attinente all'estrema vecchiaia, è di 81 anni


le chiavi interpretative offerte dalla Vita Nuova consentono di interpretare 81 come 9 volte 9, 9 volte il numero-miracolo, come si addice all'età di Cristo


Il terremoto avvenuto alla morte di Cristo, posta da Dante nell'anno 34 dell'era volgare, ha sconvolto anche gli inferi; e ciò è accaduto per l'appunto 1266 anni prima del viaggio ultraterreno di Dante

E

insomma la redenzione universale vige da 1255 anni al momento del viaggio ultraterreno di Dante


anche la redenzione personale di Dante era cominciata 1266 anni dopo Cristo, al momento della nascita di Beatrice, venuta al mondo nel 1266, come lascia intendere la Vita Nuova


Beatrice, ovvero colei per cui Dante è beato, attraverso il 1266 assume una più sottile sembianza figurale di Cristo


anche in base a questa serie ben congegnata di corrispondenze numeriche (1266, 1290, 1300, 1335), Dante ha le carte in regola per essere profeta, e per far manifesta senza timori o riluttanze la sua visione


Nella seconda metà del 300, per il profetismo, i tempi si fanno meno propizi è il segno, con tanti altri

di un radicale mutamento del pensiero e delle pratiche religiose

nonché della repressione, o del progressivo riassorbimento in seno all'ortodossia (della chiesa cattolica), delle tendenze variamente riformistiche, profetiche e spirituali, da Gioacchino da Fiore all'effimero mito romano di Cola di Rienzo


la profezia diventa il mestiere degli astrologi popolari e degli indovini da fiera


Si vuol concludere con una lettura nuova dei famigerati versi di Cecco d'Ascoli (l'astrologo ascolano fu arso vivo a Firenze nel 1327 come eretico), fieramente avverso alla Commedia nella sua Acerba, nei quali viene deriso Dante.


che senso ha insinuare che Dante canta "al modo de le rane" ?? "Al modo de le rane" è calco del sintagma dell'Apocalisse "in modum ranarum", attribuito al falso profeta


il filosofo naturale Cecco rifiuta bensì le pretese profetiche e apocalittiche che esibisce la Commedia, deridendo l'ipotesi presuntuosa di una mirabile visione e di un poema sacro


il rogo dell'inquisizione, che nel 1327 arse l'infelice scienziato ascolano, non risparmiò l'anno seguente il Monarchia, condannato come testo in cui il messaggio profetico dantesco si distende in una prosa argomentativa e dialettica, e dunque più direttamente insidiosa veri o falsi, non era più tempo di profeti


VI.   Parodia e scrittura. L'uno, il due e il tre.


La pratica medievale del contrafactum (variazione del testo su una melodia preesistente), nella sua ricca accezione di parodia sacra, è un genere letterario ben studiato riscrittura parodica


serie di parodie specialmente liturgiche, cerimoniali o devozionali è il solito repertorio medievale:

preghiere burlesche sulla filigrana di Pater, Ave e Credo

preghiere baccaniche

inni cristiani e sequenze mutate di segno

confessioni o atti di culto volti al carnevalesco

battesimi nel vino

Beatitudini profanatrici

e soprattutto divini uffici e messe, che diventano Missae potatorum (messe delle bevute)


in questo ampio panorama medievale, la parte riservata a Dante è molto modesta, relegata in nota


ben si comprende, perché Dante, con i procedimenti letterari evocati, ha qualche affinità stilistica, ma poca o nulla affinità mentale


di rado le prove dantesche sono così esplicite, e francamente ostentate


circostanza che spiega, tra l'altro, l'assenza (nella sterminata bibliografia dantesca) di una trattazione espressamente dedicata alla parodia; nonché la mancanza della relativa voce nell'Enciclopedia Dantesca, se non nell'accezione di parodia linguistica

E

e dire che la riscrittura parodica risulta essere, ad ogni livello testuale e senza forzare i termini, una costituente essenziale dello stile dantesco


Parodia che, il più delle volte, è di natura serissima; intesa a riprodurre, nell'opera seconda, un doppio di pari dignità rispetto all'originale preso di mira in questa pratica scritturale, particolare rilievo ha la Bibbia (si può ben dedurre che Dante la sapesse tutta quanta, e che Vecchio e Nuovo Testamento fossero un patrimonio costitutivo della sua memoria d'autore, sul quale sempre fondarsi con naturale dimestichezza)


Si prenda in esame non già una parola, bensì (caso molto meno frequente) un gesto.


C'è una cultura gestuale che si perde, d'una in altra generazione: gesti che, dopo anni, non significano più nulla ad occhi inesperti, e si disperdono nel tempo come una lingua morta; gesti simbolici e augurali, gesti contadini, quasi sacrali, che ognuno di noi ha incontrato, specialmente nelle culture marginali o in provincia; destinati ad estinguersi e ad esser cancellati da comportamenti urbani conformisti

E

eppure il gesto è portatore di una profonda, continua ricchezza semantica (relativa al significato)


anche il gesto di Brunetto Latini verso Dante non è una stravaganza insensata: in quella mossa di Brunetto è la stessa confidente devozione dei seguaci di Gesù, e in particolare della donna haemorrhoissa (donna che soffriva di perdite di sangue, guarita miracolosamente da Gesù), che tocca il lembo del mantello di Cristo (implicazione sacra dello scatto di Brunetto)


Brunetto, che di Dante fu maestro in terra, onora nell'aldilà il suo antico discepolo, con quella reverenza appunto che si deve ad un maestro: tenue, ma significativo contrappasso


talvolta l'individuazione del calco biblico consente il recupero di un sottile gioco allusivo, altrimenti sfuggente all'analisi l'adagio di Prov. "principium sapientiae timor Domini" (il principio della sapienza è il timore del Signore) imprime di sé tutto l'episodio di Sapia senese, la cui esclamazione a Dio, "ormai più non ti temo!" è tanto più grave sulla bocca di una donna che si denomina dalla Sapienza (e infatti: "savia non fui, avvenga che Sapìa / fossi chiamata")


Fonti bibliche (non solo di tipo lessicale o concettuale, ma di natura stilistico-sintattica) sono già nelle rime petrose.


Di particolare rilievo, anche ai fini della paternità dantesca dell'opera, è il ritrovare precoci calchi biblici, di gusto parodico o no, perfino nel poema profano del Fiore.


Direi che da nessun altro autore duecentesco, tranne Cavalcanti e Dante, potremmo aspettarci questa fruizione sapiente e spregiudicata della Scrittura.


Meglio che illustrare una serie composita di esempi, il nostro discorso intende privilegiare alcuni fatti di coerente rilevanza strutturale e, in particolare, 2 gruppi unitari di parodie:

accertare come il postulato dell'unità e trinità di Dio sia adibito a modello di costruzione, di interpretazione e perfino di scansione descrittiva dell'aldilà nella Commedia

l'altra parodia è quella di derivazione cristologia, fondata sulla dialettica di natura umana e natura divina: dualità nell'unità della persona


Chi ha fatto l'Inferno?? E, nel caso che Dio ne sia l'artefice, se l'Inferno non sia forse fatto, pur con ordine perverso, a sua immagine e somiglianza.


Del resto l'Inferno, diviso com'è in 9 cerchi, potrebbe anche dirsi "uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade".


La cavità infernale non fu provocata dallo sprofondamento di Lucifero

E

fu fatta in modo disordinato e senza legge, bensì a norma di una simmetria e di una morfologia altamente suggestive e manifestamente simboliche, alle quali non può esser estranea la divina provvidenza

anzitutto Dio è, quanto meno, l'architetto dichiarato della porta dell'Inferno


anche nel sabbione di Brunetto ci si imbatte nel segno costruttivo della mano di Dio



ma se l'intervento divino si manifesta nei dettagli, non è pensabile che il progetto dell'intera fabbrica gli sia sottratto


Nella Bibbia non si dà conto della forma dell'Inferno; anzi si sottolinea il suo aspetto informe, lo spazio caotico che lo contiene

E

ma è chiaro che, per Dante, l'inferno non può essere un luogo che nessun ordine governa

E

è bensì manifestazione della giustizia di Dio, e in quanto tale modellato secondo una forma regolare, retto da una legislazione razionale

E

uno spazio arredato con ordine, anche se di necessità "con ordine corrotto": un regno che è "imagine perversa" dell'altro regno celeste, e specialmente del suo Fattore uno e trino (difatti è un triangolo capovolto, poggiante su uno dei vertici, non già su un lato preso come base; rovesciato al modo di Lucifero)


Dante non ci fornisce elementi sufficienti per appurare se si tratti, come sarebbe elegante supporre, di un triangolo equilatero postulare questo fatto mi pare una trovata ingegnosa, che conferisce, alla parodia trinitaria della "trista conca" voluta dalla provvidenza, un perfetto adempimento


Il mistero del 3 in uno, di "una sustanza in tre persone", di "tre persone in divina natura", attiva nel Paradiso una ricerca della definizione breve e sublime

E

e nell'Inferno determina un trinitarismo perverso, fieramente opposto a quello vero:

non solo nella descrizione di Lucifero, adorno di "tre facce a la sua testa"

ma anche in quella di Caifas (sacerdote che condannò a morte Gesù), "un, crocifisso in terra con tre pali"

o del primo cerchio infernale


Perfino certi gesti dei dannati non appaiono né immotivati, né genericamente allusivi; rapportati bensì ad una realtà teologica che, loro malgrado, li persegue


nel canto dei sodomiti, i 3 peccatori fiorentini "fenno una rota di sé tutti e trei": quasi lo spazio di un congegno inarrestabile e rovinato senza rimedio


Parodia positiva della trinità sarà viceversa l'immagine della Prudenza, "una di lor ch'avea tre occhi in testa".


L'Inferno dantesco è popolato di personaggi che recano il segno trino di una divinità negata: un segno che è anche ragione supplementare di tormento, ricordo continuo di una privazione e di un'assenza irrimediabili.


Cerbero latra caninamente con "tre gole", come nella mitologia classica; ma la sua funzione ternaria è esaltata da un agire che si definisce a trittico, "graffia li spiriti ed iscoia ed isquarta", in un aere dove si riversano "grandine grossa, acqua tinta e neve"

per vincere le "tre furie infernal di sangue tinte", il Messo celeste è come vento impetuoso, che "li rami schianta, abbatte e porta fori"

anche Gerione, mostro con faccia d'uom giusto, corpo di serpente e coda di scorpione è uno e trino

delle 3 facce di Lucifero si è già detto


La descrezione ternaria può estendersi ai fatti stilistici e alle modalità descrittive in particolare si vuol redigere un inventario di trinomi esposti nell'unità compatta del verso o, molto più raramente, della terzina:


la porta dell'Inferno

la selva in cui Dante si smarrisce è "selvaggia e aspra e forte"

nell'entrata dell'Inferno si alzano "sospiri, pianti e alti guai"

la valle d'abisso dolorosa "oscura e profonda era e nebulosa", con turbe "d'infanti e di femmine e di viri": solo il nobile castello, in questa zona, è designato con notazione positiva, "in loco aperto, luminoso e alto", posto che le anime, davanti a Minosse, "dicono e odono e poi son giù volte", là donde si alzano "le strida, il compianto, il lamento"

gli iracondi si percuotono non pur con mano, "ma con la testa e col petto e coi piedi"

già nel nono canto, della Giudecca, si dice che "è ´l più oscuro, / e ´l più lontan dal ciel che tutto gira"

se "a Dio, a sé, al prossimo si pone / far forza", agli averi altrui si danno "ruine, incendi e tollette dannose", e più oltre si enumerano "falsità, ladroneccio e simonia, / ruffian, baratti e simile lordura", con la lista di "incontinenza, malizia e la matta / bestialitade"

nella selva dei suicidi, "non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ´nvolti; / non pomi v'eran, ma stecchi con tosco", con Arpie che "ali hanno late, e colli e visi umani", e con branchi "di nere cagne, bramose e correnti"

al dire di Brunetto, i suoi concittadini sono gente "avara, invidiosa e superba": definizione ternaria che, come si vedrà, ha una certa fortuna nel poema

ecco la fiera con la coda aguzza, "che passa i monti e rompe i muri e l'armi!": è Gerione, che ha dipinti di nodi e di rotelle "lo dosso e ´l petto e ambedue le coste"; per similitudine, gli usurai sono come morsi "o da pulci o da mosche o da tafani"

nella settima bolgia dell'ottavo cerchio, si prende la via per uno scoglio "ch'era ronchioso, stretto e malagevole"; e la pena dei ladri induce alla similitudine lucaniana della Libia, che produce "chelidri, iaculi e faree"

i ladri stessi sono puniti con modalità ternarie, "né O sì tosto mai né I si scrisse, / com'el s'accese e arse, e cener tutto / convenne che cascando divenisse"; "le cosce con le gambe e ´l ventre e ´l casso / divenner membra che non fuor mai viste"

ancora Firenze è citata in un trinomio infamante, "godi, Fiorenza, poi che se' sì grande / che per mare e per terra batti l'ali, / e per lo ´nferno tuo nome si spande!", come poi nel Purgatorio 6, "tu ricca, tu con pace e tu cone senno!", e ancora nel Paradiso 17, "che tutta ingrata, tutta matta ed empia / si farà contr'a te", secondo la profezia di Cacciaguida

Ulisse non ascolta, per suo danno, "né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né ´l debito amore / lo qual dovea Penelopè far lieta"

come modello di curiosità, Ecuba è "trista, misera e cattiva"; e dei Giganti, oltre la faccia, Dante scorge con timore "le spalle e ´l petto e del ventre gran parte"

a provocare l'incontro con Bocca degli Abati non si sa "se voler fu o destino o fortuna"

nel sogno premonitore del conte Ugolino, "Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi" si presentano "con cagne magre, studiose e conte"

nel Purgatorio, trinomi negatori della trinità si concentrano nel canto 20°, "quindi non terra, ma peccato e onta / guadagnerà"; dove è Pigmalione, "cui traditore e ladro e paricida / fece la voglia sua de l'oro ghiotta"

nel Paradiso, polemicamente, l'esercito di Cristo "si movea tardo, sospeccioso e raro", e il popolo ebreo è "la gente ingrata, mobile e retrosa"


Il Paradiso è dichiarata perfezione del regime ternario anche in ambito stilistico, sotto il segno di una parodia positiva

E

il trinomio positivo, peraltro, penetra e risplende largamente in tutte e 3 le cantiche


già nel primo canto dell'Inferno, "sapienza, amore e virtute" ciberanno il veltro

altrove si enumerano "memoria, intelligenza e volontade", facoltà dell'anima che riappaiono in "perché appressando sé al suo disire, / nostro intelletto si profonda tanto, / che dietro la memoria non può ire"

senza dimenticare la sequenza della porta dell'inferno, messa in opera da "divina podestate", "somma sapienza" e "primo amore"


Trinomi perfetti, in implicita opposizione a "virtute e canoscenza", che è il difettivo binomio che perderà Ulisse e compagni.


anche la Fortuna, in quanto esecutrice della provvidenza, si dà un andamento ternario, "questa provede, giudica, e persegue / suo regno"

sempre a conferma della relativa perfezione dell'Inferno, valga l'esclamazione: "o somma sapienza, quanta è l'arte / che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, / e quanto giusto tua virtù comparte!"

Virgilio che, insieme con Dante, condivide la condizione di pellegrini "taciti, soli, sanza compagni", è designato ritualmente "tu duca, tu segnore e tu maestro" fin dall'inizio

al momento del suo congedo, nel canto 27 del Purgatorio, Virgilio accumula sapienti trinomi, "vedi l'erbette, i fiori e li arboscelli / che qui la terra sol da sé produce", "libero, dritto e sano è tuo arbitrio"

non è meraviglia che, ormai assente, venga evocato dal discepolo per 3 volte: "ma Virgilio n'avea lasciati scemi / di sé, Virgilio dolcissimo patre, / Virgilio a cui per mia salute die'mi", e che Beatrice replichi sullo stesso registro: "Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / chè pianger ti convien per altra spada"



ambigue, ma con prevalente connotazione positiva, le similitudini infernali della madre avveduta e coraggiosa, "che prende il figlio e fugge e non s'arresta"

o del villanello che "si leva, e guarda, e vede la campagna / biancheggiar tutta", si perde d'animo, ma poi "la speranza ringavagna"


In più esempi si insinua il principio "omne trinum perfectum" (ogni trino perfetto), del tipo "lo mio maestro e io e quella gente", o ancora meglio "che ´l Notaro e Guittone e me ritenne" e simili, antitetici al caso di Farinata, "fieramente furo avversi / a me e a miei primi e a mia parte".


Ciò vale non solo per le persone, ma altresì per le modalità dell'azione:

come fa Virgilio di fronte a Catone, "e con parole e con mani e con cenni / reverenti mi fé le gambe e ´l ciglio"

Oderisi, "e vidimi e conobbemi e chiamava"

la mano di Dante, che supplisce alla vista, "e cerca e truova e quello officio adempie"

il profeta Ezechiele, che vide i 4 animali alati "venir con vento e con nube e con igne"


Contrapposto a distanza dell'Inferno 6, "grandine grossa, acqua tinta e neve", sarà il verso purgatoriale "per che non pioggia, non grando, non neve".


Un endecasillabo quale "a sofferir tormenti, caldi e geli", perfettamente infernale per gli ingredienti, se riferito alla condizione delle anime purganti, libera un segnale positivo.


"Fami, / freddi o vigilie" sono, del resto, l'eroica ascesi ternaria del buon allievo delle Muse.


La raccolta più ricca si raccoglie nel Paradiso, fornita di varie funzioni:

si annoti, ad esempio, "però parla con esse e odi e credi", che è avviso di Beatrice

o che "in voce voce si discerne, / quand'una è ferma e altra va e riede"

la triplice anafora di "imagini" nell'esordio del canto 13

la ripetizione di "crescer" in una terzina di 14, "onde la vision crescer convene, / crescer l'ardor che di quella s'accende, / crescer lo raggio che da esso vene"

Cacciaguida "vede e vuol dirittamente e ama"

se Dante "ama bene e bene spera e crede", non è celato a San Pietro

vergine lieta "surge e va ed entra in ballo"

l'angelica natura "è tal, che ´ntende e si ricorda e vole", almeno secondo la dottrina di certa scolastica

finalmente si perviene alla rosa sempiterna, "che si digrada e dilata e redole" (30, 3 trisillabi!), ove l'occhio va "mo sù, no giù e mo recirculando"


Ancora tricola nominali (in un mondo ben regolato, nel gran mare dell'essere retto dall'ordine, "questi ne porta il foco inver' la luna; / questi ne' cor mortali è per motore; / questi la terra in sé stringe e aduna") si riscontrano in:

"l'aere e la terra e tutte lor misture"

"d'un giro e d'un girare e d'una sete"

"perch'io lo ´ngegno e l'arte e l'uso chiami"

"amore e maraviglia e dolce sguardo"

"per Moisè, per profeti e per salmi"

"del sangue mio [è San Pietro che parla], di Lin, di quel di Cleto"

"e come in vetro, in ambra o in cristallo"

"sustanze e accidenti e lor costume"


Nel mondo che rende gloria "al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo", anche le lettere si dispongono in moduli ternari, come in "or D, or I, or L in sue figure".


A quel modo che Virgilio è insignito di una simbologia trinitaria, anche Cacciaguida merita tale onore: "voi siete il padre mio; / voi mi date a parlar tutta saldezza; / voi mi levate sì, ch'i' son più ch'io".


Si omettono i casi degli elenchi di nomi propri, del tipo "Eurialo e Turno e Niso di ferute" o "d'i Troiani, di Feisole e di Roma".


La doppia natura, divina e umana, di Gesù è affermata più volte nella Commedia


o in forma di verità rivelata, come nella ritrattazione dell'imperatore Giustiniano che, già seguace della dottrina monofisita (che nega la duplice natura di Cristo, ammettendo solo quella divina), "una natura in Cristo esser, non piùe, / credea, e di tal fede era contento"

o sotto specie simbolica, come nei canti finali del Purgatorio, dove si segnala almeno "un carro, in su due rote, triunfale" (figura della Chiesa), e specialmente 31, "la fiera / ch'è sola una persona in due nature", di aquila e di leone, ed è immagine di Gesù



Altri personaggi infernali, portatori di dualità, ricordano naturalmente Cristo:

anzitutto Minosse "conoscitor de la peccata", il mitico, saggio re di Creta che ringhia e, nell'entrata del secondo cerchio, fa della coda di cui è fornito uno strumento di procedura penale

il grido duale di Pluto, "Pape Satàn, pape Satàn aleppe!" viene dall'"(i)nfiata labbia" di un mostro designato da Virgilio come "maledetto lupo"

il Minotauro sta a guardia di un girone infestato da altri animali duplici, i Centauri, in cui "le due nature son consorti": quei Centauri "maledetti / nei nuvoli formati, che, satolli, / Teseo combatter co' doppi petti"

anche le Arpie "ali hanno late, e colli e visi umani, / piè con artigli, e pennuto ´l gran ventre": non meraviglia che esse abitino il luogo dei suicidi, uomini dolorosamente trasformati in piante sensibili e parlanti: "uomini fummo, e or siam fatti sterpi"

Caco, "centauro pien di rabbia", la cui groppa è coperta di bisce e le cui spalle sono sormontate da un drago: già per Viriglio "semihomo" (semi-uomo) e "semifer" (semi-fiera), incarna bene l'orrenda parodia che celebrano i ladri con la loro punizione



Il canto 25, per le mostruose metamorfosi dei ladri fiorentini, è in proposito rivelatore un esempio è la trasmutazione di Agnello Brunelleschi e di Cianfa Donati


l'insistenza sul processo metamorfico dei 2 ridotti a (ness)uno non è, semplicemente, un pezzo di bravura descrittiva; è contemplazione analitica, istruttiva, della falsa natura di 2 in uno



Per affinità di situazione, e per via di simbolo, si possono citare alcuni tra gli episodi più celebri dell'Inferno, nei quali è nascosta, o immediatamente evidente, una dualità nell'unità dualità, in questi casi, di persone unite


Paolo e Francesca, "quei due che ´nsieme vanno", sono tra i lussuriosi "giunte persone": solo che il rapporto duale non può sussistere nell'aldilà, e dunque già in sé la situazione è irregolare

E

Catone (e si sa che Catone è vicinissimo a Dio) in effetti è separato senza rimpianto dall'amatissima Marzia: "più muover non mi può"


anche Ulisse e Diomede sono costretti ad un'inaudita simbiosi, che è una sorta di punizione supplementare, "due dentro ad un foco"

E

"foco" singolo per due, di contro alla massa ammucchiata nelle tombe ardenti degli eretici, da cui si ergeva Farinata con Cavalcante


ancora, l'atroce unione di Ugolino con l'arcivescovo Ruggieri, "due ghiacciati in una buca, / sì che l'un capo a l'altro era cappello", è strazio del due in uno.



Se l'opposizione più radicale a Dio uno e trino si realizza, nell'Inferno, nel volto triforme di Lucifero, in Caifas, "un, crucifisso in terra con tre pali", la giustizia divina addita il più tenace sostenitore della condanna a morte di Cristo: perfetto contrappasso a "o sommo Giove / che fosti in terra per noi crucifisso".


la pena inflitta a Caifas configura una complessa parodia della crocifissione


alla posizione verticale di Cristo si oppone la giacitura orizzontale di Caifas: se Gesù è appeso, il sommo sacerdote è invece "disteso in croce"


soprattutto colpisce la circostanza che il patibolo di Caifas sia confezionato "con tre pali", mentre per Cristo 2 bastarono


Non si spiega il ripudio della forma canonica della croce nel patibolo di Caifas.


Sulla simbologia dei 2 pali della Croce, va richiamata tutta una vasta riflessione teologica:

i 2 pali della Croce di Cristo, che nella parte traversa diventano, per estensione antropomorfica, "due braccia della croce", risponderebbero ad una profezia implicita in un episodio biblico

nella sua variante latina, la Croce assume forma di bilancia, l'unica bilancia in grado di riscattare il peccato originale con la salvezza

inoltre, per la posizione perpendicolare al suolo, "la croce congiunge il cielo e la terra"

o ancora "è unione delle Scritture, e una specie di limite e contenitore di cose antiche e di cose nuove", con il corredo di altre qualità, quali si convengono ad un manufatto che in definitiva risale a Dio stesso


Un Thau contrapposto ad un probabile Ipsilon, formato dai "tre pali" infernali



valori, tutti questi, che sono negati nell'atroce patibolo di Caifas, immagine pervertita della Croce cristiana


Il mondo, terreno e ultraterreno, di Dante riposa su una struttura significante in ogni dettaglio


E la parola di Dio, consegnata alla Bibbia, fornisce un senso e una traccia autentica alla successione cieca delle apparenze.


Il Boccaccio polemizza con chi crede che la Scrittura abbia "il naso di cera", e che perciò possano "i predicatori e i dottori, secondo che lor pare, torcerlo ora in questa parte e ora in quella

E

forse il Boccaccio ha ragione in teoria; ma certo ha torto nella pratica la Scrittura, nelle letterature europee, par proprio avere il naso di cera: e il suo Dante ne dà buonissimo esempio


VII.   Arti divinatorie.


Della lingua di Dante (ancora così decifrabile e viva anche per il lettore non specialista) non sono poi molti gli elementi oscuri (taluni, è ben vero, di interpretazione disperata).

E

quel che più conta, è che tali elementi si possono circoscrivere con agio nella scrittura del poema, senza che il contesto abbia troppo a patire di questa irriducibile zona d'ombra


alcuni elementi sono spesso restii ad una soluzione soddisfacente dell'enigma per volontà stessa dell'autore, che tutela, e in tal modo riafferma, la sostanza profetica e misteriosa del libro



Più insidioso è il caso di una lettera che sembri trasparente alla lettura

solo perché la nostra vista non è abbastanza addestrata a cogliere le sfumature del senso e a vagliare rettamente le proprietà della lingua antica

o addirittura perché il nostro orecchio è impreparato all'ascolto di un linguaggio tecnico di precisione insospettata, sordo ad una semantica (relativa al significato) lontana dalla nostra cultura e della nostra storia


un esempio, estratto dalla prosa della Vita Nuova, documenta bene questa situazione ambigua: è dove si discorre degli effetti che l'apparizione, l'avvicinamento e il saluto di Beatrice inducono su Dante, secondo una progressione scandita dalla triplice anafora di "quando"


tali effetti sono, di necessità, sempre più intensi: "fiamma di caritade" e "viso vestito d'umiltade", poi il "tremare de li occhi", e infine la totale alienzazione del soggetto


le modalità di un moto che si svolga come accade a "cosa grave inanimata" sono state riportate, non senza fascino, al movimento meccanico di un automa

E

qui, però, il senso è un altro: se il corpo di Dante "si movea come cosa grave inanimata", vuol dire, semplicemente, che esso era soggetto alla sola forza di gravità: che insomma, perdendo i sensi, Dante cadeva a terra svenuto



così "lo verace giudicio" del sogno narrato nel primo sonetto della Vita Nuova e nella prosa che lo introduce, e "non veduto allora per alcuno", non è un termine generico


"giudicio" è propriamente il iudicium (giudizio) professionale della mantica (nel mondo antico, l'arte di rivelare il futuro) tecnicismo che nasce dal campo semantico (relativo al significato) della divinazione (nelle religioni antiche e primitive, arte di predire il futuro attraverso l'interpretazione di eventi ritenuti manifestazioni divine)


Quanto più una disciplina è lontana dalle nostre curiosità o dalle ideologie correnti, tanto più difficile è riconoscerne le tracce e i segni linguistici chi oggi, italianista di professione, ha tanta familiarità con il vocabolario della mantica, da riconoscerne la presenza, con infallibile fiuto, nei versi danteschi??


Alcune nozioni sono tutt'altro che rare (che gli astri allineati in congiunzioni infauste siano presagi e fautori di mali, che gli elementi naturali siano un foglio bianco nelle mani del Signore, e neppure l'arte della chiromanzia (arte di predire il futuro di una persona attraverso l'esame delle linee della sua mano) e della fisionomia (attraverso l'esame dei lineamenti del viso)

E

meno comune, invece, la conoscenza di scienze ormai del tutto affini, come l'idromanzia (arte di predire il futuro basata sull'interpretazione dei movimenti di un oggetto immerso in una fontana o in uno specchio d'acqua connesso a un luogo sacro), l'aeromanzia (mediante l'osservazione dei fenomeni atmosferici) e la piromanzia (mediante l'osservazione della colorazione e del movimento di una fiamma), delle quali resta succinta notizia


Esaminerò le più singolari di queste discipline, per lo più misteriossissime per tecnica e statuto, nel loro eventuale rapporto con l'inventio del poema dantesco.


Dante, pur con le limitazioni qui espresse, ha assunto una posizione di costante e ferma condanna nei confronti delle arti divinatorie, specialmente quando pretendono di operare con artifici una profezia sul futuro: ciò in ubbidienza, del resto, alla dottrina corrente della Chiesa

E

il rifiuto, però, non esclude affatto una certa competenza dell'autore in questo settore; né annulla lo stimolo di una spregiudicata curiosità intellettuale, di cui restano segni evidenti nella scrittura


Non si darà conto qui di quanto perviene a sogni e visioni, a oniromanzia (basata sull'interpretazione dei sogni) e onirocritica (scienza dell'interpretazione dei sogni): tanto importante, quest'ultima, che presiede, com'è noto, agli esordi poetici di Dante nella Vita Nuova, e al conseguente carteggio.



La chiromanzia non trova credito nella Commedia.

E

quasi a riprova del silenzio dantesco, è confrortante ritrovarne un elogio senza riserve nell'opera del proverbiale avversario del poema, Cecco d'Ascoli


Della fisionomia, un lettore attento troverebbe forse traccia, non so quanto convincente e certa, nelle rare descrizioni fisiche di personaggi del poema.


preziosa in proposito è la testimonianza del Convivio [Platone visse 81 anni e, se Cristo avesse vissuto più a lungo di quanto in realtà è vissuto, avrebbe vissuto sicuramente fino agli 81 anni]


ma soprattutto importa, a prova della competenza dantesca, la celebre terzina sull'aspetto dei golosi, "parean l'occhiaie anella senza gemme: / chi nel viso de li uomini legge OMO / ben avria quivi conosciuta l'emme" (Purgatorio)


non può trattarsi, in questo caso, di un chi generico: si farà bensì allusione qui ai cultori della fisionomia come scienza


Nel caso della geomanzia (arte di predire il futuro interpretando i segni sul terreno, naturali o prodotti casualmente), la stima e la competenza di Dante sono fuori di dubbio.


la Maggior Fortuna, e cioè la cosiddetta Fortuna maior, è la regina delle 16 figure geomatiche


D simmetricamente, ancora una volta con perfetta antitesi alla posizione difesa dalla Commedia, Cecco d'Ascoli professerà invece il suo disprezzo nei confronti di una scienza peraltro reputatissima ai tempi suoi



L'attrazione esercitata su Dante, pur in disaccordo in linea teorica, da arti magiche e tecniche divinatorie è ben precoce, se si manifesta già nel componimento giovanile Guido, i' vorrei


l'auspicio formulato dal celebre sonetto è che l'autore, con i suoi amici e con le donne di ciascuno, siano "presi per incantesimo, / e messi in un vasel, ch'ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio"


Dante si figura un viaggio su una barca governata da volontà più che naturale, una forza amica che domini, a suo talento, il gioco rischioso dei venti, "sì che fortuna od altro tempo rio / non ci potesse dare impedimento": vera e propria magia bianca al servizio di un'avventura amorosa


se il "buono incantatore" è il mago Merlino, sarà dunque da riconoscere nella letteratura arturiana uno dei filoni della curiosità mantica di Dante



Piuttosto indovini che incantatori saranno i dannati della quarta bolgia, sottoposti, come è noto, ad un ben significativo contrappasso


troppo e presuntuosamente parlarono: dunque vanno, nell'Inferno, "tacendo e lagrimando"

"travolto" ciascuno nella figura, "chè da le reni era tornato ´l volto, / e in dietro venir li convenia, / perché ´l veder dinanzi era lor tolto", a conveniente sanzione della loro pretesa di veder "troppo davante"


L'inversione del corpo dei dannati è tale, che ognuno di loro "di retro guarda e fa retroso calle": circostanza, questa, che rende ragione del necessario capovolgimento cui deve sottomettersi la pietà di Dante


"qui vive la pietà quand'è ben morta" è una sentenza messa in bocca a Virgilio che è sembrato duro ai commentatori, e in contrasto con altre espressioni di simpatia umana, di cui è ricco l'Inferno: ma "vive", nella quarta bolgia, ciò che è "morto", e dunque anche la pietà, in ragione del travolgimento fisico dei dannati, che per simmetria inverte anche ogni altro segno e ogni valore etico

Il giudizio negativo di Viriglio su maghi, auguri e indovini (introdotto a ragion veduta da Dante, forse anche per screditare la diceria medievale di un Virgilio dedito alla negromanzia (antica arte divinatoria fondata sull'evocazione degli spiriti dei defunti e su pratiche occulte effettuate sui cadaveri) è temperato da sfumature e distinzioni

E

in effetti, il poeta mantovano riserva una specie di reverenza professionale a Manto (figura eponima (personaggio storico o mitico che dà il nome ad una città) della sua città) della quale sono rievocate le "arti", esercitate con l'ausilio di "servi" non umani, che si sospetta dunque esser demoni: rispetto che non implica simpatia, ma che riconosce con franchezza una certa maestria nell'esercizio di pratiche illecite, o addirittura demoniache


più fermo ed esplicito è il giudizio su Michele Scoto, "che veramente / de le magiche frode seppe ´l gioco": con lieve indugio ammirativo


più distaccato e referenziale, invece, l'additamento delle anonime maghe, nella cui schiera sono incluse le sibille e le pitonesse della tradizione classica, e forse anche le fate della tradizione romanza: "vedi le triste che lasciaron l'ago, / la spuola e ´l fuso, e fecersi ´ndivine; / fecer malie con erbe e con imago", condannate nel duplice ruolo di indovine e di seduttrici


L'aeromanzia, scienza piuttosto sconosciuta che semplicemente malnota, non pare presente nella Commedia, o almeno non è ben definibile nella sua eventuale efficacia.


Dell'idromanzia, invece, mi sembra che resti più di una traccia nel poema.


di natura idromantica è il fenomeno descritto all'inizio del 15° canto del Paradiso: esame delle acque sacre in un vaso variamente mosso


si può ricondurre alla pratica dell'idromante che scruta i liquidi, e in essi pretende di scorgere volti e figure, anche la visione che Dante ha degli iracondi


Per altro verso, invece, non più che osservazione naturale e ispirazione mitica (dal racconto ovidiano di Narciso) sono alla base dell'esperienza che Dante descrive nel canto 3° del Paradiso; anche se questo attento esame delle acque può far pensare alla riflessione che opera l'idromante nell'esercizio della sua arte.


il 3° canto del Paradiso, del resto, è come impregnato di immagini idriche, se, nella chiusa, di Piccarda si dice che va "cantando, e cantando vanio / come per acqua cupa cosa grave"


Della negromanzia, ben familiare a tutta la cultura filosofica e, in senso lato, letteraria vicina a Dante, non è fatta speciale menzione nella Commedia: anche se, paradossalmente, l'arte di far apparire e parlare i morti, dispiegata peraltro nel suo luogo naturale, e cioè l'oltretomba, è l'ingrediente primario della narrazione di Dante.


La negromanzia, nella sua larga accezione di scienza che fa apparir viventi coloro che sono già morti, è, nella Commedia, operazione esclusivamente diabolica


Dante, infatti, incontra come dannati anche personaggi che si reputa essere ancora al mondo, vivi e vegeti (si spiega con il fatto che privilegio del demonio è reggere di vita fittizia il corpo dei traditori, perduti per sempre nell'atto stesso di commettere il loro peccato)


Ben vigile in Dante è l'osservazone del volo degli uccelli, atto istituzionale dell'antico auspicio

E

inefficace invece l'arte di ascoltarne e decifrarne il canto; per non dire le operazioni di profezia gestite dal cosiddetto "pullarius" (custode dei sacri polli), che tanta importanza riveste nella mantica latina


Un autentico caso d'auspicio in atto, proprio in quanto lettura misteriosa e privilegiata del volo ordinato di creature celesti nel cielo di Giove, è quello che si esplica nella decifrazione della scritta DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICANTIS TERRAM (amate la giustizia che giudica in terra), che Dante vede man mano formarsi sotto i suoi occhi


Dante, nuovo augure cristiano, nell'apprestarsi a compiere questo atto solenne di mantica celeste, invoca l'aiuto della "diva Pegasea", una delle 9 Muse l'identità di questa diva è controversa:

Euterpe

Talia

Urania

una musa indefinita che le impersonerebbe tutte quante (ma non si vede ragione dell'uso del singolare)


opterei senz'altro per Urania, già invocata in altri momenti critici della scrittura


Il motto-auspicio, che il poeta-profeta è abilitato a leggere in cielo per virtù divinatoria, è un versetto biblico


si tratta di un incipit  questa circostanza è rilevante

non solo in rapporto alla teoria dantesca del cominciamento, che si vuole alto e denso

bensì anche in una prospettiva propriamente mantica


le prime lettere di questa sentenza esibiscono i nomi di Dio, D e I e L: così il triplo nome di Dio è posto profeticamente davanti nel cielo di Giove


Proseguendo nella rassegna dei motivi magici nel poema, è da avvertire che una valenza esoterica è connessa alla semantica (relativa al significato) di mormorare questo verbo ricorre

sia nell'episodio di Ulisse

sia in quello della profezia di Bonagiunta


Ma è la piromanzia che presta le immagini più forti all'invenzione dantesca.


invenzione dantesca delle fiamme parlanti, che fasciano i consiglieri fraudolenti


in questa porzione della cantica Virigilio opera come piromante, con atti e con parole caratteristici dell'arte divinatoria


anzitutto Dante brama che la fiamma a 2 punte, che ospita Ulisse e Diomede, parli

ma non può, lui solo e inesperto, praticare l'invocazione rituale

è Virgilio (rivestiti, una volta tanto, i panni di mago che la tradizione medievale gli conferiva) che è abilitato ad esprimersi ritualmente


Nel verso "ma fa che la tua lingua si sostenga", è da vedere una ripresa della nota formula magica "favete linguis" (fate silenzio), preliminare ad ogni operazione mantica.


Virgilio, operatore sapiente, sceglie di propria iniziativa "tempo e loco" dell'interrogazione, e trova, ai suoi fini, le parole giuste.


La forma audivi, forte calco dal latino, è un hapax nel Dante volgare dietro il solennissimo "in questa forma lui parlare audivi" resta forse l'eco parodica di un antico rituale di mantica antica


La descrizione, vagamente antropomorfica (di carattere umano), della "fiamma cornuta", che si snoda in forma di lingua (bifida, ognimodo, e dunque simbolo stesso della frode), ricorda la sofferenza della profezia, a cui, in ogni arte mantica, è soggetto il "medium" nell'esercizio delle sue funzioni.


La frase di Virgilio "dentro dai fuochi son li spiriti" può suonare anche come una dichiarazione di fede nella piromanzia: in quella almeno esercitata, a buon fine, nell'aldilà.


Altri versi, "e vidi spirti per la fiamma andando", "e io facea con l'ombra più rovente / parer la fiamma", "e come in fiamma favilla si vede", attestano nell'autore una esperienza del fuoco attenta ai minimi dettagli.


Abitatori favolosi delle fiamme si ritrovano anche tra i lussuriosi purganti, a popolare un mondo di fuoco insospettato.


VIII.     Le "ali" di Ulisse, emblema dantesco.


Il presente saggio, piuttosto che tentare un'interpretazione globale dell'Ulisse dantesco, si svilupperà, paradossalmente, intorno ad un solo verso, "de' remi facemmo ali al folle volo" (Inferno 26).


Le ali di Ulisse sono per Dante un mito fondatore, una radice poetica di assoluta efficacia anche nella sua propria storia.


Questa immagine forte è ricalcata su sintagmi affini di Virgilio e di Ovidio.


Se, e in qual modo, il naufragio di Ulisse e dei suoi possa collegarsi all'esperienza, reale o simbolica, di Dante; del Dante uomo, nonché del Dante autore e personaggio del suo poema.


Molta critica ormai, con varia efficacia, ha esaltato le virtù esemplari dell'eroe dantesco:

precursore, di volta in volta, dell'uomo moderno

precursore degli scopritori del nuovo mondo

paladino del pensiero laico, impaziente di restrizioni e di dogmi

modello proverbiale di intraprendenza, eroe riconosciuto di ogni umanesimo progressista


Ulisse è esempio e simbolo di ciò che possono virtute e canoscenza.


Dante, nell'Ulisse dantesco, cita se stesso


Il dramma di Ulisse offre alla vigile mente dell'autore un caso favorevole di insegnamento, un rimprovero profondo.


Altre connessioni linguistiche, entro il canto, rivelano affinità evidenti tra autore e personaggio:

Dante "affrena" l'ingegno là dove Ulisse, notoriamente uomo di multiforme ingegno, aveva accelerato il suo corso

l'"orazion picciola" esortava la schiera "picciola" a seguir "virtute", oltre che "canoscenza": raccomandazione che per Dante suona falsa, o quanto meno illusoria, se egli dichiara di frenare il suo ingegno proprio "perché non corra che virtù nol guidi"


È dunque un conflitto di "virtù", quello che unisce, e oppone, Dante a Ulisse


è virtù solo umana quella di Ulisse, è virtù assistita da ragione e grazia quella di Dante


Per i 2, le premesse non erano dissimili

l'uno e l'altro protagonisti di un viaggio d'eccezione

per l'uno e per l'altro vivo l'ardore "a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore"


Dante non inizia il suo viaggio da solo e nemmeno di sua iniziativa

E

e invece Ulisse è solo, nella sua audacia transmarina


Nel viaggio oceanico l'eroe greco volle fare ali dei remi, giungendo in tal modo, per sua sconfitta, in vista dell'alta montagna, "bruna / per la distanza"

E

ma alla montagna dell'Eden non si può arrivare mossi da un'energia solo umana


Sono le prime ali degne di venerazione, le prime vere, che Dante veda nel suo viaggio

E

nell'Inferno, Dante aveva sperimentato almeno 3 tipi di volo perverso:

dapprima sulle "spallacce" di Gerione, il cui moto si pone in curiosa antitesi con il volo di Ulisse (i segni aerei della navigazione di questo (remi-ali) invertono i segni nautici del volo di quello)

poi i 2 poeti conosceranno la malvagità dei diavoli volanti nella 5a bolgia, librati in un vero e proprio antivolo sotterraneo

infine, nell'ultimo canto dell'Inferno, si palesano alla vista le ali "aperte", le "due grand'ali" di Lucifero: ancora un'immagine marina, per un volo senza moto, impotente e sotterraneo

Il lume che si avvicina celerrimo ai 2 poeti è il bianco aliscafo dell'angelo nocchiero, spinto da una forza soprannaturale.


Nell'immagine ulissea "de' remi facemmo ali al folle volo" non vibra affatto una presunzione temeraria, come per lo più si crede; non è il vanto di un marinaio ostinato, bensì la registrazione dell'oscura volontà divina, che Ulisse non contesta mai


Tra rive sì lontane (poniamo, tra le colonne d'Ercole e la montagna alta e bruna del Purgatorio) ali, e non remi, occorrono.


L'aver promosso "argomenti umani" a motori di un viaggio oltre l'"alto passo", è una follia, che Ulisse ha pagato con la vita.


Si tratterà di saggiare qualche tratto meno comune del personaggio di Ulisse.


Ulisse e Diomede sono dannati e relegati nell'8a bolgia, puniti tra i consiglieri fraudolenti per i fatti di Troia i 2 sono collegati in più azioni e colpi di mano, specialmente notturni


Dante, nell'Inferno, rimette le cose a posto: perché, a norma delle colpe commesse, è certamente Ulisse il più reo ("maggior corno").


Le quali colpe, se si lasciano da parte certe braverie gestite in comune e poco onorevoli, che Dante non menziona, sono precisamente 3:

l'agguato del cavallo

l'arte infida della persuasione, in virtù della quale Achille fu convinto a lasciare il rifugio di Schiro, da dove appunto "li Greci il dipartiro"

il ratto del Palladio



una carriera di cattivo consigliere, rievocata in 3 episodi cruciali


La rievocazione dei fatti non segue l'ordine cronologico, che sarebbe operante solo nella successione 2. 3. 1 la lista è confezionata con altro criterio, e forse si attiene alle convenienze di una climax discendente, ordinata secondo la gravità dei delitti e delle punizioni conseguenti (che pare vadano attenuandosi)


Le fonti classiche note a Dante attribuiscono la responsabilità di tutti e 3 i misfatti a Ulisse, e solo nei 2 ultimi casi coinvolgono anche Diomede (quest'ultimo non partecipa all'agguato del cavallo).


La porta, aperta nelle mura di Troia per fare entrare il cavallo, fu una breccia "onde uscì de' Romani il gentil seme": e dunque fu un delitto che propiziò un evento provvidenziale, la maturazione della "sementa santa / di que' Roman"

E

il ratto del Palladio, invece, configura un sacrilegio senza riscatto, esempio insigne di sacrilegio


di qui la possibilità di leggervi una climax diversa, di tipo ascendente, dal minore al maggior misfatto: ipotesi che prediligo


Il "corno" di Ulisse è maggiore dell'altro

non solo per la qualità del suo agire, che è sempre da protagonista

bensì anche per il numero dei delitti, 3 contro i 2 di Diomede


La morte per acqua va sì distinta dalla pena del fuoco; ma, al pari della fiamma, anche il naufragio per Ulisse è una punizione.


Secondo il mio parere, Ulisse, passate le colonne d'Ercole, prevedeva di andare incontro ad una morte per mare.


È un "perduto", dotato di una lucida consapevolezza, che si guarda bene dal comunicare ai compagni: perfido e astuto consigliere, ancora una volta.


E falso, come già, a Schiro, con Achille, a cui aveva taciuto il destino di morte che lo aspettava a Troia.


Ed è un "perduto" prima ancora di fare naufragio.


Quando giunge all'alto passo, Ulisse ha visto tutto, ormai; ha visitato ogni luogo e sperimentata ogni geografia possibile: a quel punto, poteva ben contentarsi.


Il programma ambizioso di "divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore" era compiuto, il suo "ardore" appagato.


Invece di ritirarsi in porto, medita di passare "quella foce stretta / dov'Ercule segnò li suoi riguardi / acciò che l'uom più oltre non si metta", con compagni "vecchi e tardi" quanto lui fa spreco così del poco tempo che gli resta, e per giunta in un'impresa disperata


Impresa che, peraltro, non può compiere da solo:

sia per la natura del viaggio escogiatato

sia perché operare da solo non rientra affatto nelle consuetudini di Ulisse


Duole togliere un po' di smalto all'immagine vulgata di un Ulisse navigatore tutto puro e magnanimo, isolato in un suo titanismo (atteggiamento di insofferenza e di ribellione verso tutto ciò che limita le possibilità e gli slanci vitali dell'uomo) eroico, al quale cedono pochi compagni fidati e fanatici.


Compagni anonimi, questa volta, puramente strumentali, da convincere con astuzia e con bella eloquenza (eloquenza ulissea che non cessa d'esser insidiosa).


Sarebbe più "poetico" e più gradito farne specialmente un orgoglioso, un temerario che si trova quasi per malasorte nell'8a bolgia, piuttosto che riconoscere il subdolo tessitore di frodi

E

che Ulisse sia coraggioso, temerario, l'esempio stesso del voler sapere e sperimentare oltre ogni convenzione o prudenza, è verissimo: ma è un dato che appartiene al tutto tondo psicologico del personaggio, non alla ragione prima del suo essere nell'Inferno dantesco


Ulisse è anche tutto questo: ma tutto questo non cancella la frode ultima


Ad Ulisse e ai suoi non può esser concessa speranza di ritorno:

sia perché è troppo tardi

sia perché l'"esperienza del mondo sanza gente", in quanto va oltre i limiti umani, è da vivere fino a fondo, a vettore unico, e da consumare fino alla perdizione


L'Ulisse buon parlatore cede il posto qui al puro uomo d'azione: un ruolo che non è mai stato il suo.


È la logica cieca del "perduto" man mano si assite allo snaturamento dell'"ardore" di Ulisse Dante contrappone 2 fasi di "ardore", l'una ricalcata specularmente sull'altra:

il "divenir del mondo esperto", di segno eventualmente positivo, nonostante i prezzi umani da pagare: padre, sposa e figlio abbandonati. Per buona causa, si può anche fare

nient'altro che l'"esperienza del mondo sanza gente"


esperienza vana, sterile, temeraria: "folle volo" in un mondo vuoto


Sono sparite anche le consuete stelle polari, cielo fidato e guida dei naviganti.


Ulisse, in cuor suo, si aspettava forse una fine tumultuosa ed eroica, degna dell'avventuriero che vuol essere: una sfida contro gli elementi e la forza del vento, giocata nell'"alto mare aperto"

E

e invece la conclusione è un'altra


un epilogo rapidissimo, senza lotta o resistenza: quasi lo scatto di un micidiale meccanismo di difesa, gelosissimo del suo mistero (con Dio non si compete)


Non si tratta di un increscioso incidente, ma di

una sanzione inevitabile

una fine altamente simbolica


nel triplice gorgo concentrico che rapina il "legno" di Ulisse, "tre volte il fè girar con tutte l'acque", non posso fare a meno di riconoscere un segno trinitario


Il resoconto dell'improvviso naufragio è singolarmente minuzioso; il naufragio dà alla nave un assetto verticale, di celere discesa negli abissi o, letteralmente, di caduta diretta nell'Inferno


è un contrappasso al capovolgimento operato da Ulisse, che aveva abbandonato la retta via, prendendo il lato infausto, quello "mancino"


Si può credere che nel maggior corno della fiamma antica, oltre alle colpe d'invenzione omerica, si sconti anche l'ultimo discorso pronunciato dal maligno seduttore.


È necessario interrogarsi sulle "ali" dell'Alighieri realtà suggestiva di un nome, Alighieri, che in latino suona "Alagherius", scindibile in "alas gerere", portare le ali


Non è sbagliato discorrere di un Alighieri che

aspira a portare le ali, per vari gradi simbolici

in buona parte del poema di fatto vola, con la guida di Beatrice

è comparato ad animali alati


Ma altri temi, con funzione varia e senza ordine prestabilito, possono citarsi, nei quali è attivo il tema di un moto alato.


Il nostro è un verso artificiosissimo, di costruzione sapiente nel corpo dell'endecasillabo, "ali" si isola al centro di un'allitterazione

in -EM (rEMi, facEMmo) a sinistra

e di -OL (fOLle, vOLo) a destra


funzione di passaggio che, nel gioco delle lettere, è analoga a quella che, nello spazio geografico, assolvono i "riguardi" segnati da Ercole


Anche al centro del verso si stacca un'allitterazione, la terza della serie: "de' remi facemmo ALi AL folle volo" la ripetizione di AL è interpretabile come un segnale di duplicità delle ali-remi, su l'uno e l'altro fianco della nave


fonte latina del verso


il negativo (in senso fotografico) del nostro sintagma parrebbe essere il virgiliano "remigium alarum" (remi delle ali), perché in quel passo dell'Eneide si allude alle ali costruite da Dedalo, remi di una mai tentata navigazione celeste

E

concorrenti di questo verso, e del resto derivati da esso, 2 esametri ovidiani, estratti dalle 2 rievocazioni che della storia di Dedalo e Icaro si leggono nell'opera ovidiana:

nelle Metamorfosi

nell'Ars amatoria


Parallelismo tra la navigazione aerea di Icaro e il volo marittino di Ulisse.


In particolare, per quel che riguarda i calchi linguistici dal testo latino, si privilegia la testimonianza dell'Ars.


Icaro, dunque, e Ulisse, entrambi morti in mare, sono 2 versioni di un naufragio che si ripete.

A rendere più prezioso l'accostamento, si noti che la ragione addotta della fuga di Icaro è la più volte espressa insofferenza dell'esilio cretese.


Nell'Ars amatoria di Ovidio

la storia di Icaro e Dedalo

e quella di Ulisse e Calipso

sono raccontate di seguito, una dopo l'altra


Il racconto di questa favola è motivato dalla volontà di produrre un esempio paradossale di quanto sia difficile tenere presso di sé Amore, che è dio alato, e dunque volubile


neppure Minosse potè trattenere a Creta Icaro, che pur non aveva ali: figurarsi se io, Ovidio, posso trattenere Amore alato


Ovidio poi mette in guardia chi crede di conservare Amore con arti magiche e negromantiche


se ciò fosse possibile, "Circe avrebbe trattenuto Ulisse": è la prima citazione del nostro eroe, subito dopo Icaro


si giunge così al secondo esempio, Ulisse e Calipso


nella spiritosa favola ovidiana, Ulisse è un gran parlatore, coccolato oltre ogni dire dalla giovane e splendida ninfa. Ma l'eroe è inquieto, se ne vorrebbe andare. Vuol proprio partire, tornarsene a Itaca. Calipso, amante possessiva e irriducibile, le tenta tutte per fargli passare il magone. Bisogna distrarlo, quietarlo, farlo parlare. Mentre l'eroe è intento alle sue figure, ecco che all'improvviso arriva un'ondata che spazza via tutto, Troia, l'accampamento, le tende di Reso, loro e il loro duce. E allora la furba Calipso, pronta a trar partito dall'incidente, gli fa: "vedi quanti nomi gloriosi il mare ha inghiottito? e tu ti ostini a crederlo fido e senza pericoli, per te che te ne vuoi andare!"



è un distico di importanza decisiva per l'invenzione di Dante:

l'Ulisse dell'Ars è uno che vede disfatta dal mare la sua opera: il dantesco "dove, per lui perduto, a morir gissi" rende vero l'ovidiano

Calipso profetizza a Ulisse un naufragio, che Dante puntualmente racconterà


La storia di Icaro, di Ulisse e quella stessa di Dante personaggio si possono iscrivere tutte in un sistema quadripartito di corrispondenze:

PERSONAGGIO GUIDA MEZZO FINE


Icaro  Dedalo aria morte in mare

Ulisse [-] acqua morte in mare

Dante Virgilio i quattro salvezza

e Beatrice elementi


Certo Beatrice, la grazia, non sopporta paragone; ma Virgilio è un buon Dedalo per Dante.


Dedalo, in effetti, è una buona guida, sebbene inascoltata


la stima di Dante per Dedalo è altissima nella Commedia, attestata da 3 lusinghiere citazioni (nel terzo passo, Dedalo è presentato come uno dei 4 modelli storici dell'umanità)


Icaro, dal canto suo, è uno dei possibili negativi di Dante


un incauto che si alza troppo alto a volo, ovvero (si interpreti) un temerario che per altezza d'ingegno, degenera, tiene "mala via", e alla fine si perde


Dante ha sperimentato un rischio analogo, se nel mezzo del cammino di sua vita la diritta via, per lui, era smarrita: così che Virgilio lo rincuora quasi con gli stessi accenti di Dedalo, "a te convien tenere altro viaggio"


Ulisse non riconosce guida, con sé o sopra di sé, e fa dei remi ali a un folle volo: altra proiezione negativa, o tentazione insidiosa, per Dante


Ulisse può esser visto come un doppio di Dante che (assistito da "stella bona" e fornito di ogni "miglior cosa") non affina però l'ingegno


Anche Dante è candidato alle ali, ma con cautele e "argomenti" altri che quelli umani.


Il volo a cui gli uomini son chiamati può essere traviato, dirigersi verso le cose materiali, troppo in basso: che è l'errore opposto a quello di Icaro.


Ma perché Ulisse vuol uscire per sempre dagli spazi umani?? la sua è una strategia progressiva:

dapprima ogni isola, sia quella di Circe, sia quella di Calipso, sia la nativa Itaca, è sentita come troppo stretta

Ulisse dunque si mette "per l'alto mare aperto", fedele ad un suo programma di conoscenza integrale degli uomini e delle cose

lui e i compagni sono vecchi e tardi, quando, alla fine, anche il Mediterraneo è sentito come mare troppo piccolo: uno spazio chiuso tutt'intorno da terre, come dice il suo nome, e noto in ogni parte



Ulisse è insofferente di tutto ciò che è "picciolo", parola che nel suo racconto ricorre per 3 volte: "compagna / picciola", "picciola vigilia", "orazion picciola"

E

è invece stregato da "l'alto mare aperto", da "l'alto passo", da quella montagna ignota "alta tanto / quanto veduta non avea alcuna"


L'altro grande conflitto vissuto da Ulisse, strettamente connesso al precedente, è quello che si polarizza intorno all'opposzione di chiuso e aperto, uscire ed entrare, dentro e fuori


l'esser 2 dentro ad un foco, caso unico nell'8a bolgia, è per lui, così nostalgico d'immensità, una pena supplementare


Un uscire, con la parola almeno, e per una volta, dalla sua prigione eterna di fuoco.



Ma la pena escogitata da Dante è anche più sottile: l'Itacense si era rinchiuso a tradimento nel cavallo?? Resterà chiuso, per sempre, nella fiamma.


La sua ultima parola è "rinchiuso".


Eterna nostalgia di Ulisse e suo dolore.



IX.   La "nuova legge" del Purgatorio.


Il secondo canto del Purgatorio segna una svolta nel racconto del poema.


Lasciato alle spalle l'Inferno, e ormai estinta la legislazione che regge il "doloroso regno", Dante, in questo canto, enfatizza la distinzione che separa

mondo terreno

e aldilà purgatoriale

ridefinendo i confini tra

umano

e spirituale

Aurea sentenza che può essere assunta a chiave dell'intero canto: tutto ciò che è umano, si vorrebbe dire troppo umano, è inesorabilmente respinto al di qua di uno spazio ordinato su valori più alti.


Una lettura del secondo canto del Purgatorio consente di misurare la differenza tra

classificazione terrena

e nuovo ordine purgatoriale


Dante, nell'abbracciare un'ombra, che scoprirà poi esser Casella ("tre volte dietro a lei le mani avvinsi, / e tante mi tornai con esse al petto", e poi ancora, "e io, seguendo lei, oltre mi pinsi")


quell'atto ripetuto di Dante è proprio il sintomo di una condizione affliggente, e cioè dell'alienazione sensoriale che il protagonista patisce nel nuovo mondo; e dunque richiama, con la sua stessa efficacia rappresentativa, alla necessità di ridefinire le categorie dello spazio e del tempo nel Purgatorio


Staticità


Si tratta qui di fissare, dopo il buio dell'inferno, le coordinate spaziali del nuovo mondo.


Si celebra l'entrata in vigore e l'efficacia di una "nuova legge" con la quale fare i conti.


Cose e creature ritrovano un diverso equilibrio.


Nel primo canto Catone chiedeva severamente "son le leggi d'abisso così rotte? / o è mutato in ciel novo consiglio, / che, dannati, venite a le mie grotte?".


Il verbo TOGLIERE, spia linguistica della privazione.


Il secondo sarà appunto il canto della rinuncia

all'umano, sebbene caro un tempo

all'amicizia che ancora conservi traccia terrena, abbraccio o canto


Catone, replicando a Virgilio, lodatore indiscreto degli "occhi casti" di Marzia e supplice in nome di lei ("per lo suo amore adunque a noi ti piega"), aveva già dato nel primo canto una lezione della nuova morale


"più muover non mi può" è la conferma di uno stato restio alle passioni, e solo mosso dall'amore divino


Un abbraccio vano, una canzone bruscamente interrotta alle prime note; e soprattutto, in tutto il canto, una volontà di moto continuamente delusa.


Il sole, l'angelo sanno dove andare; tutti gli altri ne sono ignari.


Angoscia del moto congiuta ad un'incertezza nell'orientamento.


Se il movimento dei personaggi viene frustrato ogni volta che si manifesta, lo stato di quiete, per parte sua, non dà garanzia di salute; così che il secondo canto del Purgatorio viene a configurarsi come studio critico del moto umano, come rappresentazione della vanità di ogni atto o percorso che si attenga esclusivamente a ragioni terrene.


2 volte la sosta è interrotta all'improvviso l'aspro rimprovero che ne consegue censura proprio questa sosta inopportuna


Proseguiamo in questa analisi della privazione, toccandone il punto più acuto e più carico di conseguenze nella vicenda del poeta personaggio


la canzone Amor che ne la mente mi ragiona è letteralmente tolta dal testo della Commedia per iniziativa, e in seguito all'intervento di Catone

E

in opposizione alla rima volgare affine, il testo sacro invece ha pieno diritto di cittadinanza, al punto da essere inscritto per intero nel canto ("in exitu Israel de Aegypto")


Nel momento in cui la lirica amorosa di Dante è ridotta allo stato di frammento, relegata sotto altri paragrafi di altri libri, non già di questo, "al quale ha posto mano e cielo e terra", l'autore chiama a raccolta i luoghi capitali e più memorabili dell'amore cortese, altre volte celebrato si affacciano alla sua memoria

non soltanto le poesie della Vita Nuova e della giovinezza

ma anche le parole di Francesca, interprete ed eroe esemplare, entro il poema, delle ragioni del cuore


La divisione patita dai 2 protagonisti, la separazione dei moti del cuore da quelli del corpo, è una situazione decisiva della lirica romanza (rievoca anche la Vita Nuova)


cuore e corpo sono notoriamente separati negli amanti


nelle parole di Casella si coglie come un tratto di galateo stilnovista: quasi che la vista dell'angelo, di un essere, come si dirà, "che parea beato per iscripto" avesse virtù di evocare le sue colleghe terrene, che nella poesia profana assumono, per metafora, il nome di "angiola giovanissima", o di "angioletta", nonché di "Beatrice beata"


D ma la memoria dantesca privilegia un testo su ogni altro, e cioè il sonetto Guido, i' vorrei (Rime)


nel "vasello", a paragone dell'aliscafo ultraterreno, nel quale "più di cento spirti sediero", l'eletta aristocrazia degli amanti, 3 poeti a spasso con le loro donne, cede, per antitesi, alla generosa bontà, alla democratica abbondanza del perdono divino


Il "vasello snelletto e leggero" approda insomma nell'aldilà: sospeso, per nuovo "incantamento", tra cielo e mare, "tanto che l'acqua nulla ne ´nghiottiva"


sul rapido aliscafo si erge un "galeotto", che non è ovviamente quello della favola, bensì "il celestial nocchiero" della Provvidenza


Tema prezioso di TOGLIERE.


Il secondo del Purgatorio si pone anche come testo d'esordio: prolungamento, a questo riguardo, della funzione proemiale del primo

E

la continuità drammatica del dittico, collegato del resto, nella sua struttura, più minuta, da numerose connessioni di lingua e di stile, è realizzata dal personaggio di Catone, attivo in entrambi i canti


L'affermazione dell'Uticense deprime inevitabilmente il tono e il ruolo dell'altro attore in chiave di basso: Virgilio, nel nuovo mondo, si rivela guida non proprio infallibile, avvilito e consapevole della propria incompetenza.


Nel secondo canto, Virgilio chiede scusa alla "nova gente": "voi credete / forse che siamo esperti d'esto loco; / ma noi siamo peregrin come voi siete"


a tal punto che l'insegnamento virgiliano, fino ad allora fermo, sembra vacillare


si renderà dunque necessaria, all'inizio del terzo canto, una rinnovata richiesta di fiducia da parte di Dante, quasi per riparazione dell'autore verso il suo personaggio


D la compresenza del mantovano Sordello e del collega, e quasi discepolo, Stazio esalterà, anziché offuscare, il personaggio di Virgilio: l'apparizione di Catone, invece, riveste una funzione riduttiva, e alla fine frustrante


Perfino la voce dell'Uticense impressiona Virgilio, che ne resta, anche linguisticamente, condizionato.


Altri elementi assumono specifico rilievo, in questa dialettica tra i 2 canti contigui:

la "maraviglia" è una costante lamentosa (il canto precedente si chiudeva su "oh maraviglia!", certo mutata di segno, ma ancora vibrante dell'intensità emotiva suscitata dal volto di Belzebù)

anche il tema dell'ascesa


Ipotesi di leggere il secondo canto come testo proemiale.


Si sottolinea inoltre l'estesa affinità delle situazioni tra il primo dell'Inferno e il secondo del Purgatorio:

in entrambi i canti la vicenda si svolge in un'ora mattutina, minuziosamente dichiarata

il protagonista è di fronte ad una montagna da scalare

ed esce, nell'uno e nell'altro canto, "fuor del pelago a la riva" (si rammenti che Dante, all'inizio del Purgatorio, aveva salutato "la navicella del mio ingegno, / che lascia dietro a sé mar sì crudele")


"amoroso canto" di Casella il torto di Casella, agli occhi di Catone, consisterà nel fatto di non aver tempestivamente moderato la passione dei sentimenti terreni, sottomettendo umanità e amicizia alla nuova etica del Purgatorio


È questa logica anomala del come se, del voler riprendere, come se niente fosse accaduto, l'antico ordine delle cose, e cioè le pratiche della vita terrena, una volta rinnovato il pegno dell'amicizia, che spinge Dante a chiedere la consolazione del canto.


c'è chi nega che il Casella personaggio abbia veramente cantato Amor che ne la mente, perché dubita che il Casella storico potesse verosimilmente cantare quel testo dantesco ma si tratta di negare quel che il testo afferma a chiare lettere

e c'è chi, tra finzione e storia, non ammette interruzione di continuità, non esitando a parlare di vero sapore autobiografico


c'è un fatto che non può esser messo in dubbio: e cioè che Casella, nel Purgatorio, abbia cantato; e cantato (poche note, forse il solo incipit) una canzone morale di Dante, Amor che ne la mente mi ragiona: quella, e non altra poesia con lo stesso cominciamento


Si tratta di un libretto dei meno cantabili, almeno a norma dei canoni e dei gusti musicali trecenteschi.


Perché Casella, nel Purgatorio, potesse cantare una canzone di Dante, quella canzone, non è affatto necessario supporre che l'avesse già musicata in vita.


Dante non invita affatto l'amico ad eseguire un suo proprio testo; la responsabilità della scelta ricade interamente su Casella, che si studia d'accontentare Dante, lusingandolo proprio con la citazione di una famosa lirica dantesca.


Non con musica da repertorio: deve trattarsi, a quel punto, di musica nuova, insomma inedita in terra

E

altrimenti non si capisce perché Dante dica "cominciò elli allor sì dolcemente, / che la dolcezza ancor dentro mi suona", come se si trattasse di qualcosa di inaudito e di irripetibile


la dolcezza che "ancor dentro mi suona" non è, riduttivamente, un omaggio alla singolare bravura dell'esecutore, al virtuosismo dell'interprete; è, piuttosto, il riconoscimento della qualità straordinaria, più che umana, della melodia inventata da Casella


Alla dimostrazione per assurdo suggerita più sopra (Casella ha cantato Amor che ne la mente D ma Amor che ne la mente non è un testo cantabile ergo deve trattarsi di un canto d'eccezione), si associa il senso nostalgico di una irripetibilità perduta.


L'episodio di Casella si contrappone puntualmente a quello di Bonagiunta, dove è menzionata la canzone Donne ch'avete intelletto d'amore


, nel Purgatorio 24, si privilegia

il momento dinamico del cominciamento

la pubblicazione del manifesto lirico

la destinazione corale alle donne



insomma il trar fuori ("ma di' s'i' veggio qui colui che fore / trasse le nove rime") contrapposto al suonar dentro

E

qui invece, nel Purgatorio 2, si insiste

sul momento statico ("noi eravam tutti fissi e attenti / a le sue note")

sullo straniamento collettivo indotto dal canto ("parevan sì contenut, / come a nessun toccasse altro la mente")

sulla dolcezza, indubbiamente di natura narcisistica, che prova il soggetto dentro


arresto, straniamento, narcisismo prontamente repressi da quella incarnazione proverbiale dell'autorità e dell'immagine paterna che è Catone


L'episodio di Casella segna la cessazione del ciclo della "donna gentile", alla quale, per espressa dichiarazione d'autore, la canzone era rivolta

E

prima di giungere a Beatrice, Dante ha inteso ripudiare e mettere a tacere l'esperienza poetica della "donna gentile"


l'emistichio finale "sì dolcemente" ("cominciò elli sì dolcemente, / che la dolcezza ancor dentro mi suona") ha valore allusivo, in quanto recupero stilistico della "maniera" della "donna gentile"


Lettura più minuta dei singoli luoghi eminenti del secondo canto:

l'incipit del canto, "già era ´l sole a l'orizzonte giunto / lo cui meridian cerchio soverchia / Ierusalèm col suo più alto punto" si conforma ad una tipologia molto comune nella Commedia, qui impreziosita da riprese timbriche (sOle / orizzOnte), e dall'unione di suoni ravvicinata orizzONTE / giUNTO, assimilabile ad un altro incipit del Paradiso, "intra due cibi, distanti e moventi"


questa ricercatezza squisita della lettera si manifesta anche nel secondo verso, "lo cui meridian cerchio coverchia", dove COvERCHIa include CERCHIO letteralmente, e trascrive nel gioco della scrittura l'effettiva concretezza astrologica


tutta la prima terzina serba memoria dei 2 vertici dell'Inferno: punto e giunto sono parole rima nel primo canto e nel 34°


si fanno i conti poi con una nuova etica del nome proprio: là, nell'Inferno, il nome santo di Ierusalèm era designato per perifrasi; qui invece a chiare lettere


Omai, nel verso "omai vedrai di sì fatti officiali", è una delle parole grammaticali più intense di tutta la Commedia, con speciale spicco sulle labbra di Virgilio, dove quasi sempre afferma il senso dell'irrimediabile ed è segnale linguistico del rimpianto


una poetica dell'inevitabile, questa che si scopre nella voce di Virgilio relegato nel Limbo


Giochi timbrici, allitterazioni e omoteleuti si succedeono in questo canto, in cui l'arte musica ha tanta parte.


Una trama di fonti classiche:

Lucrezio

Virgilio (soprattutto l'Eneide)

E

e echi danteschi


coppia ala / ali  VS cala / cali


unico sistema di rime riproposto nel canto, e significativamente contiene in germe la bipartizione stessa del destino delle anime:

quello di salire, implicito nella semantica (relativa al significato) di ala e comune agli spiriti purganti

e quello di calare, discendere all'Inferno, riservato ai candidati all'Acheronte


Le ragioni della lettera conducono forse a buon fine anche le incertezze del filologo


la lezione accolta al verso 108, "che mi sole quetar tutte mie doglie", è un'innovazione rispetto alla vulgata, che legge "tutte mie voglie"

E

la ragione addotta è che doglia, nel lessico della lirica dantesca, si oppone proprio ad Amore: dunque, come qui, ad "amoroso canto"


D malgrado ciò, non mi rassegno a sottoscrivere la lezione doglie per voglie:

anzitutto quetare, nel vocabolario dantesco, ha il senso prevalente di "appagare", "soddisfare un'esigenza", "dar pace"

d'altra parte voglie, nella Commedia, si associa di frequente all'idea di appagamento

la nuova lezione, di fatto, comporta un impoverimento di senso



l'estasi indotta dal canto di Casella non può garantire soltanto la cessazione delle doglie (dolori), la sospensione della fatica e dell'affanno; , più largamente, l'elevazione del desiderio, la piena soddisfazione di "tutte mie voglie"


l'episodio purgatoriale è un caso particolare dei mirabili effetti della musica, di quella musica, sull'animo umano


Il risultato indotto su Dante e su tutti i presenti è una sorta di rapimento immobile.


L'explicit  "né la nostra partita fu men tosta" appartiene al genere di chiusa in fine più veloce, come accade nell'Inferno 15, e ricorda il finale del Paradiso 17


questa rapida "partita" comporta anche il distacco, una volta per tutte, dalle "umane voglie"


Su esortazione di Virgilio, Dante si era già corretto, non senza provarne vergogna, da una sua "bassa voglia" (è il tema dell'explicit dell'Inferno 30).


Nell'Antipurgatorio, questa necessaria distinzione tra:

lecito e illecito

utilità e svantaggio

non basta più: come pure le basse, anche le oneste "voglie" accese da affetti terreni sono scoraggiate con rigore infallibile, come ostacolo opposto alla salvezza


Il passaggio di Letè laverà infine la mente da ogni residua traccia o tentazione, per propiziare la nuova condizione del Paradiso: "anzi è formale ad esto beato esse / tenersi dentro a la divina voglia, / per ch'una fansi nostre voglie stesse".


Tutte le "voglie" terrene si annulleranno in quella "benigna volontade", finalmente placate in una cosmica perfezione


perché, per Dante poeta, "le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l'universo a Dio fa simigliante"










SENHAL: nell'antica poesia provenzale, nome convenzionale usato per alludere alla donna amata o anche ad altro personaggio di cui non veniva fatto il vero nome


PROSIMETRO: tipo di componimento misto di prosa e versi (Vita Nuova di Dante)


EMISTICHIO: nella metrica classica: metà di un verso; per estensione: verso incompleto


HAPAX (LEGOMENON): parola o forma di cui è attestato un solo esempio all'interno del sistema di un'opera letteraria


PARONOMASIA: figura retorica che consiste nell'avvicinare parole di suono uguale o simile, ma semanticamente differenti, per suggerire un'affinità di senso (es: ricci capricci, traduttore traditore, fratelli coltelli)


ANADIPLOSI: figura retorica che consiste nella ripetizione di una o più parole per dare più enfasi all'espressione


DISTICO: strofa di due versi


EXPLICIT: formula o frase conclusiva di un testo


OMOTELEUTO: figura caratterizzata dall'uguaglianza o simiglianza fonica e metrica di parole che si susseguono nella stessa frase o che sono poste al termine dei membri di un periodo simmetricamente contrapposti


STANZA: strofa di una canzone o di una ballata


ALLITTERAZIONE: ripetizione di lettere o sillabe uguali in parole vicine, specialmente all'inizio delle parole (es: caddi come corpo morto cade)


ESAMETRO: nella poesia classica: verso di sei piedi; nella poesia italiana: verso composito che imita il ritmo dell'esametro classico


TRICOLON (al plurale: TRICOLA): serie ternaria come una triade di vocaboli o una sequenza di tre membri in una frase


ANAFORA: figura retorica che consiste nella ripetizione di una parola o di un gruppo di parole all'inizio di proposizioni o versi successivi


CONTRAPPASSO: nella Commedia dantesca, corrispondenza, per somiglianza od opposizione, tra la pena inflitta alle anime dei peccatori e le colpe da loro commesse sulla terra


ENDECASILLABO: formato da undici sillabe


DITTICO: opera che risulta composta di due parti anche autonome, ma poste quasi a riscontro fra loro o comunque complementari


ELEGIA: nella poesia classica: componimento in distici; in epoca medievale e moderna: componimento di carattere lirico-meditativo, spesso con toni melanconici e sentimentali


FILOLOGIA: disciplina che, mediante l'analisi linguistica e la critica testuale, mira alla ricostruzione e alla corretta interpretazione di testi o documenti scritti



DOLCE STIL NOVO:


importante movimento poetico italiano che si è sviluppato nel 1200. Diviene guida di una profonda ricerca verso un'espressione raffinata e nobile dei propri pensieri, staccando la lingua dal volgare, portando la tradizione letteraria italiana verso l'ideale di un gusto ricercato e aulico. A confronto con le tendenze precedenti, come la scuola guittoniana o più in generale la lirica toscana, la poetica stilnovista acquista un carattere qualitativo e intellettuale più elevato: il regolare uso di metafore e simbolismi, così come i duplici significati delle parole. L'origine dell'espressione è da rintracciare nella Divina Commedia di Dante (Purgatorio): in essa infatti il rimatore Guittiniano Bonagiunta da Lucca definisce la canzone dantesca Donne ch'avete intelletto d'amore con l'espressione dolce stil novo, distinguendola dalla produzione precedente, come quella del Notaro (ovvero Giacomo da Lentini), per il modo di poetare luminoso e semplice, libero dal nodo dell'eccessivo formalismo stilistico. Nasce a Bologna e completa il suo sviluppo a Firenze, città d'origine di quasi tutti i componenti del movimento stilnovistico, escludendo Cino da Pistoia e lo stesso Guinizzelli. La figura femminile evolve verso la figura donna-angelo, intermediaria tra uomo e Dio, capace di innalzare il desiderio maschile purchè l'uomo possegga un cuore gentile, cioè nobile d'animo; amore e cuore gentile finiscono così con l'identificarsi totalmente. La corrente del "Dolce Stil Novo" segue e contrasta, grazie ad un approccio e ad una visione dell'amore del tutto innovativi, la precedente corrente letteraria dell'"amor cortese". Questa corrente infatti introduce nei testi riferimenti filosofici o morali o religiosi, tanto che autori contemporanei si lamentarono dell'oscurità delle poesie. Novità dell'esperienza poetica dello "Stil Novo" risiede

nella contestazione della poesia precedente

nell'affermazione di una nuova concezione dell'amore

ma soprattutto in una nuova concezione stilistica

In particolare, gli stilnovisti si distinguono per un atteggiamento decisamente polemico nei confronti della poesia di Guittone d'Arezzo. Rispetto ai canoni guittoniani di un raffinatissimo e difficile trobar clus, caratterizzato da oscurità e da ardue sperimentazioni stilistiche, lo Stilnovo rinnova il concetto di trobar leu, fondando uno stile poetico caratterizzato da rime dolci e piane, segnate da una profonda cantabilità del verso.

Precursori: Guido Guinizzelli

Stilnovisti: Guido Cavalcanti - Dante Alighieri


PRIMAVERA: donna di nome Giovanna, soprannominata Primavera (nome interpretato come "prima verrà"). Il soprannome della donna, ma più ancora il suo nome di battesimo, manifestano dunque una qualità essenziale di essa. Giovanna, come il testo chiarisce, significa precorritrice: come Giovanni Battista è stato precorritore di Cristo, così la donna un tempo amata da Cavalcanti è stata precorritrice di Beatrice. L'analogia Cristo-Beatrice ha dunque la necessità matematica di un'equazione. Come Beatrice si identifica simbolicamente con Cristo, lo stesso deve dirsi di Amore.


ROMAN DE LA ROSE: poema allegorico scritto in due parti distinte, da due diversi autori e a distanza di 40 anni. L'opera fu iniziata da Guillaume de Lorris nel . In seguito, fu ripresa e completata da Jean de Meung tra il e il . Il successo fu immenso, tanto che il testo fu uno dei più copiati per tutto il Medioevo.



GIOACHIMISMO: nel secolo 100, dottrina teologica spiritualista e profetica, ispirata all'esegesi avveniristica che, in base a un'interpretazione allegorica della Bibbia, vedeva nella storia dell'umanità lo svolgersi della trinità attraverso il succedersi di tre età; ordine religioso fondato da Gioacchino da Fiore.


VELTRO: sorta di cane da caccia molto veloce, di cui Dante parla nell'Inferno. È anche la personificazione allegorica di un eroe destinato a liberare l'umanità, e in particolare l'Italia, dall'avarizia e dalla cupidigia (simboleggiate nella lupa), del quale Virgilio profetizza l'avvento nell'Inferno. Tradizionalmente identificato con il sibillino "cinquecento diece e cinque / messo di Dio", è oggetto della profezia pronunciata da Beatrice nel Purgatorio. L'identità del Veltro, lasciata volutamente oscura da Dante (che probabilmente non pensava a nessuna figura storica in particolare), ha sollecitato la fantasia e l'acribia esegetica dei commentatori di ogni tempo.


CACCIAGUIDA: militare fiorentino, trisavolo di Dante. Il suo illustre discendente descrive del loro incontro nel Paradiso. Cacciaguida racconta a Dante come era la Firenze dei suoi tempi: la piccola Firenze di quei tempi viene descritta come una cittadina sobria e pacifica, così diversa da quella dell'età del Sommo Poeta. Cacciaguida predice a Dante gli eventi della sua vita futura, ossia l'esilio da Firenze e la sua vita raminga e solitaria, ed inoltre rivela la missione di Dante una volta tornato nel mondo: per bocca di Cacciaguida infatti Dio investe Dante del compito di rivelare la sua volontà all'umanità per salvarla, egli infatti riceve il ruolo di poeta-profeta.


EMPIREO: il più alto dei cieli, luogo della presenza fisica di Dio, dove risiedono gli angeli e le anime accolte in Paradiso. Non è limitato in dimensione né costituito da materia. È un luogo spirituale, fuori dal tempo e dallo spazio, eternamente immobile. Dante descrive ciò che egli trova nell'Empireo: le tribune su cui siedono i beati, ognuno nel posto a lui destinato, a forma di anfiteatro che il poeta paragona ad una "candida rosa"; le gerarchie degli angeli, che egli raffigura disposti su nove cerchi concentrici, ad immagine dei nove cieli; e al centro di questi nove cerchi, un punto luminosissimo, che è Dio, la cui visione (in cui Dante arriva a scorgere i misteri della Trinità e dell'Incarnazione) costituisce l'oggetto del canto conclusivo del poema.


CATONE L'UTICENSE: personaggio di primo piano, nella Divina Commedia; egli, simbolo di dirittura morale e di martire per la libertà viene, infatti, posto, da Dante, a custodia del Purgatorio, dove giacciono le anime alle quali è assicurata la beatitudine.


CECCO D'ASCOLI: poeta, medico, insegnante e astrologo/astronomo italiano. Numerose sono le battaglie dottrinali tra Cecco d'Ascoli e l'amico Dante Alighieri, soprattutto nell'Acerba, compendio enciclopedico, manuale scientifico.


LIMBO: luogo dell'Inferno dove si trovano i virtuosi non battezzati


ACHERONTE: fiume che rappresenta il confine dell'Inferno per chi arriva dall'Anti-Inferno


ANTIPURGATORIO: spiaggia su cui approdano le anime espianti e falde della montagna, sulle quali le anime dei negligenti attendono di iniziare il loro cammino di purificazione nelle sette cornici del Purgatorio


LETÈ: fiume del Purgatorio in cui si lavano le anime purificate prima di salire in Paradiso, dimenticandosi le loro vecchie colpe


DEDALO: avendo aiutato Teseo ed Arianna ad uscire dal labirinto (costruito da lui), Dedalo vi fu rinchiuso con il figlio Icaro. Per scappare Dedalo costruì delle ali con delle penne e le attaccò ai loro corpi con la cera. Durante il volo Icaro si avvicinò troppo al sole ed il calore fuse la cera, facendolo cadere in mare.


ULISSE E DIOMEDE: Dante è attratto da una fiamma doppia e ne chiede la spiegazione a Virgilio. Virgilio gli rivela che lì sono puniti Ulisse e Diomede ed elenca i tre peccati che i due han bene da gemere nella fiamma, vale a dire:

il Cavallo di Troia, che portò l'agguato alle porte della città dalla quale nacque il seme dei romani (Enea, principe ed esule troiano sbarcherà sulle coste del Lazio, dove diventerà capostipite della genealogia che avrebbe poi fondato Roma)

la scoperta di Achille (a Sciro) nascosto tra le donne tramite l'astuzia di mostrargli spade in mezzo a sete e drappi, scoprendolo tra le altre donne e costringendolo a partire per la Guerra di Troia, dove morì

il furto del Palladio che proteggeva Troia (statua capace di difendere un'intera città)

Allora Dante è sovraeccitato per il desiderio di parlare con i due. Virgilio si rivolge al fuoco duplice con solennità e altisonanza, ponendo la questione principale, che ha letto nel pensiero a Dante, quella di sapere la fine di Ulisse.


ANGELO NOCCHIERO: Dante e Virgilio si trovano ancora sulla riva del mare quando vedono approdare sul lido una piccola imbarcazione a bordo della quale si trovano l'Angelo nocchiero e le anime degli espiandi che in coro intonano il salmo In exitu Israel. Dopo aver ricevuto la benedizione dell'Angelo, gli spiriti scendono sulla spiaggia, e ignari della strada da prendere per raggiungere la montagna del Purgatorio, chiedono informazioni ai due poeti.





Dante Alighieri (Firenze, 13 giugno 1265 - Ravenna, 13 settembre 1321)



tra 200 e 300 Medioevo



OPERE:

(Fiore)

La Vita Nova

Le rime (rime petrose)

La Divina Commedia

Il Convivio

De vulgari eloquentia

De Monarchia



DATE IMPORTANTI:


: anni dal terremoto e dalla morte di Cristo, quando Dante inizia il suo viaggio    anno di nascita di Beatrice inizio della redenzione di Dante


: morte di Beatrice


: inizio della Commedia


: beato per Daniele chi arriva al 1335 Dante a 35 anni (1300) è a metà della vita, quando inizia la Commedia 70 anni è il culmine della vita umana Dante: 70 anni nel 1335 quindi beato



ULISSE DANTESCO:


"de' remi facemmo ali al folle volo" 8a bolgia consiglieri fraudolenti


ulisse = icaro    nell'Ars Amatoria di Ovidio


Iliade e Odissea Omero

Eneide  Virgilio



2° CANTO DEL PURGATORIO:


Casella


no umano no amicizia terrena no passioni terrene solo amore divino


volontà di moto continuamente delusa e incertezza nell'orientamento


canzone Amor che ne la mente mi ragiona VS canzone di Bonagiunta




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